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Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio Come occorre impostare il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio ai fini della distinzione tra i reati di incendio e di danneggiamento seguito da incendio?

Quesito con risposta a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano

 

Il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio va formulato sulla base di una prognosi postuma, “ex ante”, rapportato al momento in cui l’autore ha posto in essere la propria azione, e non già tenendo conto di come il fatto si è concluso. Il giudizio prognostico, inoltre, deve essere a base parziale, ovvero fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (Cass., sez. I, 16 novembre 2023, n. 5527).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la qualifica giuridica del fatto in oggetto.

È stata applicata, a seguito di ordinanza, la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’indagato, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di cui all’art. 423 c.p., per avere egli cagionato l’incendio di un’autovettura posteggiata in un’area di parcheggio, cospargendo il veicolo di liquido accelerante ed innescando il fuoco che, avvolgendo il mezzo, lo ha distrutto, con l’aggravante di aver commesso il fatto in orario notturno e in circostanze di tempo tali da ostacolare la pubblica e privata difesa.

L’indagato, a seguito di riesame, è stato rimesso in libertà, previa riqualificazione del fatto di reato ai sensi dell’art. 424, comma 1, c.p.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione dal Procuratore della Repubblica, contestando la qualificazione giuridica del fatto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato quanto stabilito da Cass. 17 maggio 2019, n. 29294, relativamente alla distinzione tra reato di incendio di cui all’art. 423 c.p. e reato di danneggiamento a seguito di incendio ex art. 424 c.p.

La differenza inerisce l’elemento soggettivo. Il primo, infatti, richiede la sussistenza del dolo generico e dunque «la volontà di cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e la loro violenza, tendono a propagarsi in modo da creare un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, mentre il secondo è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare la cosa altrui, senza la previsione che ne deriverà un incendio».

La Cassazione ha, inoltre, richiamato la condivisa interpretazione dell’art. 423 c.p. fornita dalla Cass. 14 dicembre 2021, n. 46402, secondo cui ai fini dell’integrazione di tale delitto occorre distinguere il concetto di fuoco da quello di incendio, poiché si determina quest’ultimo solo quando il fuoco divampi irrefrenabilmente, «così da porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone».

È stato chiarito che il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio vada formulato sulla base di una prognosi postuma, ex ante, relativa al momento in cui è l’autore ha compiuto la propria azione. Tale giudizio deve essere a base parziale, cioè fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (così anche Cass. 22 aprile 2010, n. 35769)

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che in sede di riesame si era verificata una omissione della valutazione ex ante.

Alcune circostanze, invece, andavano valorizzate, quali l’utilizzo di liquido accelerante con conseguente flash fire generatosi dallo sversamento di liquido accelerante e la vicinanza dell’autovettura ad alberi ad alto fusto, alla pubblica via, al palo dell’illuminazione elettrica ed un tombino contente cavi elettrici di rame.

Nell’ordinanza impugnata, inoltre, non è stato tenuto conto che, all’arrivo dei Vigili del Fuoco, il fuoco era giunto ad intaccare un albero a grande fusto posto a distanza di 3 m e che , secondo il rapporto dei Carabinieri, qualora le fiamme avessero avvolto il fusto maggiormente, si sarebbe verificato un effetto domino tra gli alberi a causa del quale le fiamme si sarebbero propagate verso gli immobili adiacenti e i veicoli parcheggiati nelle vicinanze.

L’intervento che aveva impedito la diffusione delle fiamme – l’arrivo dei Vigili del Fuoco – costituisce, dunque, fattore esterno, indipendente dalla volontà dell’agente.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale del riesame, affinché proceda a nuovo giudizio, attenendosi al principio evidenziato in massima.

 

Contributo in tema di “Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio”, a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

assegno divorzile

Assegno divorzile: 25 mesi di matrimonio non bastano Assegno divorzile: la breve durata del matrimonio non esclude l’assegno a meno che manchi la comunione morale e materiale

Assegno divorzile: l’assenza di comunione di vita può escluderlo

Sull’assegno divorzile torna a pronunciarsi la Cassazione nella sentenza n. 21955-2024. Gli Ermellini precisano che la breve durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno divorzile, ma non sulla sussistenza del diritto allo stesso. Questa regola vale a meno che tra i coniugi non si sia realizzata una comunione di vita materiale e spirituale.

Assegno divorzile per l’ex moglie malata

Due coniugi restano uniti in matrimonio per pochi mesi. La moglie chiede la separazione, ma poco dopo la coppia si riconcilia. A distanza di poco più di due anni i due si separano per una seconda volta. La coppia non ha figli. Nel giudizio di divorzio il Tribunale riconosce alla moglie un assegno divorzio di Euro 450,00 con funzione assistenziale. Il Tribunale precisa però che la malattia da cui è  affetta la donna non è invalidante e non rappresenta un ostacolo allo svolgimento di un’attività lavorativa.

Ridotto l’assegno divorzile: comunione spirituale e materiale quasi assente

Il marito impugna la decisione per contestare il riconoscimento dell’assegno di divorzio. La Corte d’Appello accoglie il ricorso del marito e riduce l’importo dell’assegno a 350 euro mensili. Per la il giudice dell’impugnazione non sussistono i presupposti necessari per riconoscere un assegno divorzile con funzione perequativa e compensativa.

Matrimonio breve e convivenza assente

Tra i coniugi non si è mai instaurata una comunione di vita affettiva a causa della brevissima durata del matrimonio. La coppia non ha mai convissuto stabilmente insieme, perché la donna ha conservato una sua abitazione. Da questi fatti si può anche desumere che la donna non abbia mai partecipato e contribuito alla formazione di un patrimonio comune, in effetti del tutto inesistente, o del patrimonio personale del marito. Il coniuge infatti al momento del matrimonio ha ereditato i beni di famiglia e risulta nudo proprietario dell’abitazione gravata dall’usufrutto in favore della madre. Il marito inoltre, di professione avvocato da vari decenni, ha un suo patrimonio. La moglie  in tutto questo non ha dato alcun contributo, neppure morale, al marito.

Assegno divorzile con funzione assistenziale

L’assegno di 350,00 euro è riconosciuto solo in funzione assistenziale, dopo aver valutato le condizioni di salute della donna. La certificazione medica prodotta attesta infatti la presenza di sclerosi multipla nella forma relapsing remittente, caratterizzata dall’alternanza di periodi acuti con periodi di rimessione. Per la Corte però la donna potrebbe lavorare, anche grazie a una laurea in lingue e a pregresse esperienze lavorative. La donna potrebbe conseguire un reddito discreto, ma non risulta che si sia attivata nella ricerca di un lavoro o di prestazioni assistenziali dopo la fine del matrimonio. L’assegno non può essere eliminato, ma sicuramene va ridotto considerata la ridotta capacità lavorativa della moglie nei periodi di recidiva della malattia.

Assenza di comunione di vita e matrimonio breve: niente assegno

Il marito impugna la sentenza davanti alla Cassazione per contestare il riconoscimento dell’assegno divorzile.

La Cassazione accoglie i primi due motivi del ricorso perché fondati. Corretta la deduzione della non spettanza dell’assegno divorzile alla luce della mancata instaurazione di una comunione di vita conseguente alla scarsissima durata del matrimonio e all’assenza di una convivenza effettiva. La Corte di Appello ha infatti rilevato la breve durata del matrimonio, l’assenza di una costante convivenza e la conseguente assenza di una comunione di vita, che è l’essenza del matrimonio. Il giudice dell’impugnazione tuttavia ha riconosciuto l’assegno, seppur in misura ridotta rispetto al giudice di primo grado.

Sulla questione però la Cassazione afferma da tempo che “in tema di divorzio, la durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno … ma non anchesalvo nei casi eccezionali in cui non si sia realizzata alcuna comunione materiale spirituale tra i coniugi – sul riconoscimento dellassegno divorzile”.

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carta dedicata a te carburanti

Carta Dedicata a te: sconto carburanti Il Mimit ha rinnovato la convenzione per lo sconto sui carburanti per i possessori della carta "Dedicata a te". Misura importante per un milione e 300mila famiglie

E’ stata sottoscritta, alla presenza del sottosegretario Massimo Bitonci, la convenzione tra il Ministero delle Imprese e del Made in Italy e le principali associazioni del settore carburanti, che rinnova l’applicazione della scontistica per i possessori della carta ‘Dedicata a te’. Lo comunica il MIMIT con una nota del 1° agosto.

Come per la precedente iniziativa, la convenzione – siglata da Assocostieri, Federchimica- Assogasliquidi, Assogasmetano, Assopetroli – Assoenergia, Federmetano e Unem – disciplina le condizioni e le modalità operative attraverso cui le imprese autorizzate alla vendita aderiscono ai piani di contenimento dei costi del prezzo alla pompa.

Questo accordo consentirà, da settembre, a un milione e 300 mila famiglie di beneficiare di un plafond rinforzato a 500 euro, spendibile anche nei rifornimenti – ha sottolineato il sottosegretario Massimo Bitonci -. Il rinnovo della convenzione rappresenta una misura fondamentale per i meno abbienti, uno sgravio alla mobilità dei più bisognosi. Ringrazio i gestori per l’impegno profuso, che si somma allo sforzo del Governo con lo stanziamento di 670 milioni”.

Sconto carburanti: come funziona

Lo “Sconto carburanti” è un’iniziativa che consente agli aderenti di applicare uno sconto volontario ai possessori della carta “Dedicata a te” sull’acquisto di carburanti effettuato con la carta stessa che verrà ricaricata o attivata dai primi giorni di settembre 2024. (Decreto 4 giugno 2024 pubblicato in GU Serie Generale n. 146 del 24 giugno 2024).

Le imprese aderenti all’iniziativa offriranno:

  • uno sconto immediato sull’importo del rifornimento
  • oppure un buono da utilizzare per un successivo acquisto di carburante.

L’adesione delle imprese all’iniziativa avviene su base volontaria.

Gli aderenti rendono nota all’utente, secondo proprie modalità organizzative, compresa la facoltà di pubblicare sul proprio sito web e/o app gli elenchi dei punti vendita aderenti, la scontistica e le modalità di fruizione dello sconto che intendono applicare a favore dei possessori della carta “Dedicata a te”.

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giustizia riparativa

Giustizia riparativa La giustizia riparativa dopo la Riforma Cartabia: lo scopo, le procedure di mediazione, i possibili esiti e i benefici per l’imputato

Giustizia riparativa, cosa si intende

La giustizia riparativa è un modello di giustizia penale incentrato sulla gestione degli effetti pregiudizievoli causati da un reato, anziché sulla punizione dell’autore del reato, come è invece il sistema penale tradizionale.

Oggetto di elaborazioni dottrinali anche molto risalenti nel tempo, il modello di giustizia riparativa ha trovato recente consacrazione sia a livello europeo, con la Direttiva UE n. 29/2012, sia nell’ordinamento italiano, con l’introduzione delle norme contenute negli artt. 42-67 del d.lgs. 150/2022 (c.d. Riforma Cartabia).

Giustizia riparativa e obbligo dell’esercizio dell’azione penale

Il percorso di giustizia riparativa delineato dalla Riforma Cartabia si caratterizza, innanzitutto, per essere un percorso facoltativo, cioè lasciato alla libera scelta dei soggetti coinvolti, e soprattutto non alternativo all’azione penale “tradizionale”.

Il nostro sistema penale, infatti, non lascia scelta alle parti (e in particolare al pubblico ministero) in ordine alla possibilità di esercitare l’azione penale, che è obbligatoria (cfr. art. 112 Costituzione). ciò significa che il p.m., ogni qual volta abbia notizia di un reato, deve attivarsi, ferma restando la possibilità di richiedere l’archiviazione al giudice per le indagini preliminari, ove gli elementi raccolti durante l’indagine non siano ritenuti idonei a sostenere l’accusa.

I possibili benefici per l’imputato

Così intesa, dunque, la giustizia riparativa si pone come un momento di dialogo tra la vittima ed il reo (ed altri soggetti intermediari, come vedremo tra breve), che ha come finalità, da un lato, la ricerca di una riparazione, anche simbolica, degli effetti del reato, all’esito di un percorso in cui la vittima ha anche l’occasione di elaborare l’accaduto e di esprimere sensazioni ed esigenze che invece difficilmente trovano posto nell’azione penale (va precisato che per “vittima”, a questo riguardo, si intende anche il familiare della persona la cui morte è stata causata dal reato, cfr. art. 42 del decreto 150/22).

Dall’altro lato, l’esito positivo del percorso di giustizia riparativa consente al reo di ottenere dei benefici nell’ambito dell’azione penale esercitata dal p.m. (si ricordi che, ove intrapreso, il percorso di giustizia riparativa va di pari passo – senza in alcun modo sostituire – con l’azione penale “tradizionale”).

Riparazione del reato circostanza attenuante

Nello specifico, la riparazione del reato eventualmente conseguita nell’ambito della procedura di giustizia riparativa può essere considerata come circostanza attenuante e quindi comportare una diminuzione della pena; può valere quale rimessione tacita di querela; e può condurre alla sospensione condizionale della pena per un anno.

Giustizia riparativa accessibile senza preclusioni

Va evidenziato che, a norma dell’art. 44 del d.lgs. 150/22 Riforma Cartabia, i programmi di giustizia riparativa sono accessibili per qualsiasi reato, senza preclusioni in relazione alla sua gravità, e possono essere attivati in ogni stato e grado del procedimento penale (art. 129-bis c.p.p.), d’ufficio dal giudice o su richiesta dell’imputato o della vittima.

Come chiedere giustizia riparativa?

Dal punto di vista procedurale, le procedure di giustizia riparativa si svolgono con l’intervento di mediatori terzi abilitati che operano presso gli appositi Centri per la giustizia riparativa, nell’ambito di un sistema che opera sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia.

Partecipano ai programmi di giustizia riparativa la vittima del reato, la persona indicata come autore dell’offesa ed eventualmente altri soggetti appartenenti alla comunità, come i familiari, persone di supporto e rappresentanti di enti locali o di altri enti pubblici.

Tali programmi mirano a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione dell’imputato e la ricostituzione dei legami con la comunità (art. 43 comma 2 del decreto citato).

Gli esiti della mediazione nella giustizia riparativa

All’esito della procedura di mediazione nella giustizia riparativa, l’esperto redige una relazione in cui, tra l’altro, dà conto degli esiti della stessa e la trasmette al giudice del procedimento penale, il quale, in base alle risultanze, può riconoscere in favore dell’imputato i vantaggi di cui si è detto sopra.

Quanto all’esito del programma di giustizia riparativa, esso, quando positivo, può consistere in un esito simbolico, come ad esempio scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o accordi tra vittima e imputato relativi alla frequentazione di persone o luoghi (art. 56 del decreto citato); oppure in un esito materiale, come il risarcimento del danno, una restituzione o l’adoperarsi dell’imputato per attenuare le conseguenze del reato.

In chiusura, va evidenziato che il principale scopo della giustizia riparativa non è quello di alleviare la pena dell’imputato, ma quello di proporre un percorso alternativo che metta al centro il dialogo e soprattutto il racconto della vittima, per individuare, in concreto, l’azione riparatoria più idonea a ricostruire il legame sociale danneggiato.

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spese per i figli

Spese per i figli: quali vanno concordate La Cassazione chiarisce che le spese per i figli da concordare preventivamente con l'ex coniuge sono quelle che non rientrano nel regime di spesa ordinario

Spese per i figli: vanno concordate solo quelle eccezionali

I genitori non devono concordare tutte le spese per i figli. Il genitore collocatario non deve chiedere il consenso dell’ex prima di sostenerle, se hanno natura ordinaria. L’accordo preventivo è richiesto solo per quelle spese che “per rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità” non rientrano nel regime di spesa ordinario per i figli. In ogni caso, se il genitore collocatario non informa sempre e preventivamente l’ex, anche in relazione a queste spese, non significa che non possa richiedere il rimborso della quota a carico dell’altra parte, dopo averle sostenute. Questa la decisione della Cassazione nella sentenza n. 21785-2024.

Non dovute le spese per i figli straordinarie se non concordate

Un padre si oppone a un decreto ingiuntivo con cui l’ex coniuge gli ingiunge di pagare la somma di 1687,25 euro, oltre accessori. La donna chiede la somma a titolo di rimborso, nella misura del 50%, delle spese straordinarie sostenute per figlie minori.

Le spese si riferiscono alle rette della scuola privata, alla quota della palestra, ai corsi in un centro sportivo e alle gite scolastiche. Il Giudice di pace revoca il decreto e condanna l’opponente a pagare la minore somma di Euro 1.626,25.

Il padre appella la decisione e in questa sede l’autorità giudiziaria precisa che le rette per la scuola sono spese straordinarie da concordare. Le spese relative all’attività sportiva invece hanno natura di spese straordinarie routinarie, che il padre non ha mai contestato. Per quanto riguarda infine le spese per le gite scolastiche il tribunale rileva come il giudice di Pace abbia già decurtato dall’importo del decreto ingiuntivo modificato il 50% delle stesse.

Solo alcune spese straordinarie vanno concordate

Il padre però, ancora insoddisfatto dell’esito del giudizio, impugna la decisione in Cassazione.

Con il secondo motivo contesta al Tribunale di aver inserito nel protocollo delle spese straordinarie assunto in sede di divorzio anche le rette per la scuola privata e le spese sportive.

Con il terzo invece critica la decisione del Tribunale relativa alle spese sportive che hanno comportato l’acquisto della necessaria attrezzatura e di averle fatte rientrare tra quelle che non richiedono un accordo preventivo tra i coniugi.

La Cassazione rigetta il ricorso e si esprime poi sulla natura straordinaria delle spese e sulla necessità del preventivo accordo tra genitori.

Gli Ermellini rilevano come il tribunale abbia ritenuto che l’utilizzo del termine “tasse” per la scuola privata, come indicato nel protocollo, fosse improprio. Tale termine non può non comprendere le rette, da intendersi come spese straordinarie. Per quanto riguarda invece le spese per l’attività sportiva il tribunale ha ritenuto che il mancato riferimento nel protocollo di queste voci di spesa non attribuiva alle stesse la natura di spese ordinarie. Era necessaria una valutazione più in linea con gli orientamenti della giurisprudenza.

Spese da concordare: giurisprudenza recente

La Cassazione ricorda comunque che la decisione del tribunale sul preventivo accordo sulle spese straordinarie è conforme alla recente giurisprudenza.

Quest’ultima afferma infatti che: riguardando il preventivo accordo solo quelle spese straordinarie che per rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita della prole, fermo restando che, anche per queste ultime, la mancanza della preventiva informazione ed assenso non determina automaticamente il venir meno del diritto del genitore che le ha sostenute, alla ripetizione della quota di spettanza dell’altro, dovendo il giudice valutarne la rispondenza all’interesse preminente del minore e al tenore di vita familiare.”

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accettazione beneficio inventario

Accettazione con beneficio di inventario L'accettazione con beneficio di inventario è l'accettazione dell’eredità che tutela il chiamato e che va esercitata con precise modalità

Accettazione con beneficio d’inventario: cos’è

L’accettazione con beneficio di inventario è uno dei modi che la legge mette a disposizione del chiamato per accettare l’eredità. L’articolo 470 del codice civile prevede infatti che l’eredità possa essere accettata puramente e semplicemente o con beneficio di inventario. Il chiamato può accettare l’eredità in questo modo anche se il testatore lo ha vietato nel suo testamento.

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“Con beneficio di inventario”: significato

L’accettazione dell’eredità con “beneficio di inventario” è una forma di accettazione che tutela il chiamato all’eredità. Il soggetto che sceglie questo tipo di accettazione deve infatti procedere alla redazione dell’inventario dei beni, dei debiti e dei crediti del de cuius prima o dopo aver accettato l’eredità. Il chiamato evita così di subire le conseguenze negative che potrebbero derivare dall’accettazione di un’eredità in cui i debiti superino i crediti.

Gli effetti

L’accettazione con beneficio di inventario infatti produce determinati effetti.

  • L’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e gli obblighi che aveva nei confronti del defunto fatta accezione per quelli che si sono estinti con la morte.
  • L’erede non deve pagare i debiti e i legati oltre il valore di quanto pervenuto.
  • I creditori dell’eredità e i legatari sono preferiti rispetto ai creditori dell’erede sul patrimonio del de cuius. 

Come si accetta l’eredità con beneficio di inventario

L’art. 484 del codice civile, che disciplina l’accettazione con beneficio di inventario, prevede che il chiamato all’eredità debba rendere una dichiarazione. Questa dichiarazione può essere resa davanti a un notaio o al cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione. La dichiarazione è poi inserita nel registro delle successioni, che viene conservato presso il Tribunale.

Decorso un mese dall’inserzione della dichiarazione nel registro, il cancelliere del Tribunale deve trascriverla presso l’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui è stata aperta la successione. Se la dichiarazione segue la redazione dell’inventario nel registro è necessario indicare la data in cui lo stesso è stato compiuto. In caso contrario, l’ufficiale pubblico che lo ha redatto, entro un mese, deve far inserire nel registro la data di compimento dell’inventario.

Tempi di redazione dell’inventario

I tempi per accettare l’eredità con beneficio di inventario sono diversi a seconda che il chiamato all’eredità sia o non sia nel possesso di beni ereditari.

Possesso di beni ereditari

Il chiamato all’eredità in possesso dei beni ereditari deve procedere all’inventario dei beni entro 3 mesi dall’apertura della successione o dalla notizia della devoluta eredità. Il decorso di questo termine senza la redazione dell’inventario comporta che il chiamato sia considerato erede puro e semplice. L’erede può comunque chiedere una proroga dei termini che non può superare i 3 mesi, a meno che vi siano circostanze gravi che giustifichino un termine più lungo.

Se invece il chiamato ha provveduto alla redazione dell’inventario, ma non ha reso la dichiarazione, ha 40 giorni di tempo dal suo compimento per accettare. Decorso questo termine se il chiamato non dichiara di accettare con beneficio, è considerato erede puro e semplice.

Non possesso di beni ereditari

Il chiamato all’eredità che non è nel possesso dei beni ereditari può invece dichiarare di accettare con beneficio di inventario fino alla scadenza del termine decennale per esercitare il diritto di accettazione dell’eredità.

Il soggetto che procede alla dichiarazione deve redigere l’inventario entro 3 mesi. L’autorità giudiziaria però può disporre la  proroga dei termini. Il chiamato che non rende la dichiarazione in questi termini deve considerarsi erede puro e semplice.

Quando invece il soggetto procede all’inventario prima della dichiarazione di accettazione, questa deve essere fatta entro il termine di 40 giorni dal compimento dell’inventario. Il mancato rispetto degli stessi comporta la perdita del diritto di accettare l’eredità.

Regole particolari per minori, interdetti e inabilitati

L’articolo 489 c.c dispone un’eccezione in favore degli interdetti, degli inabilitati e dei minori. Questi soggetti hanno infatti un anno di tempo, da quando cessa la condizione di inabilitato o interdetto o da quando il minore compia 18 anni, per accettare l’eredità con benefico di inventario nel rispetto delle regole e dei termini visti sopra.

avvocate guadagnano la metà

Avvocate: guadagnano la metà dei colleghi Per l'OCF è "preoccupante il netto divario reddituale tra avvocate e avvocati. Occorre investire di più nell'inclusione"

Avvocate in fuga dalla professione

Avvocate guadagnano la metà e scappano dalla professione. Questi i dati sul lato femminile della professione forense che per la responsabile dipartimento pari opportunità dell’OCF, Laura Massaro, non sorprendono “data la realtà emersa dalle puntuali presentazioni del Rapporto Censis e dal costante monitoraggio dell’Organismo Congressuale Forense con i territori e i Comitati Pari Opportunità (CPO)”. Questi rapporti – per la Massaro – “confermano un quadro chiaro: la professione forense, pur vedendo un incremento di avvocate nelle nuove iscrizioni, mostra una netta disparità di reddito e una crescente percentuale di abbandono tra le professioniste”.

Forte presenza femminile ma divario reddituale preoccupante

Negli ultimi anni la professione forense si caratterizza per una forte presenza femminile, con una media di circa il 47%. Tuttavia, il divario reddituale tra avvocati e avvocate, si legge nella nota dell’OCF è preoccupante: “le donne avvocato guadagnano in media il 53% in meno rispetto ai colleghi uomini, con una differenza assoluta di quasi 30.000 euro. Questa disparità contribuisce alla precarietà della carriera per le professioniste, poiché a parità di età e localizzazione geografica, una donna avvocato percepisce un reddito significativamente inferiore”.

Il dialogo continuo con i territori e i CPO rivela le problematiche che affrontano le avvocate: il rinvio della maternità per timore di compromettere la carriera professionale è spesso causato dalla carenza di politiche di welfare adeguate. La rinuncia alla professione, anche con competenze e meriti, può derivare dalla precarietà e dalle difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia. Così facendo molte avvocate sono costrette a scegliere tra carriera e vita privata. Inoltre, l’accesso limitato a corsi di specializzazione e aggiornamento professionale rappresenta un ulteriore ostacolo.

Occorre rimuovere gli ostacoli

L’OCF, “come organismo politico dell’Avvocatura, è impegnato nella sensibilizzazione delle istituzioni per rimuovere gli ostacoli all’accesso e all’esercizio della professione e per promuovere lo sviluppo di nuove competenze” ha commentato la Massaro. “L’inclusione è fondamentale e deve essere valorizzata, non solo per ragioni di equità, ma anche per migliorare l’efficienza del sistema professionale e contribuire positivamente al paese. Investire nell’inclusione e nella valorizzazione delle differenze – ha concluso – è essenziale per garantire pari opportunità e per far sì che la professione forense possa beneficiare della ricchezza di competenze e talenti disponibili”.

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rottamazione quater

Rottamazione quater: c’è tempo fino al 23 settembre L'Agenzia Entrate-Riscossione chiarisce che aggiungendo i giorni di tolleranza e i festivi la nuova scadenza del 15 settembre guadagna ulteriori giorni

Rottamazione quater: quinta rata guadagna giorni

Rottamazione quater, la quinta rata guadagna più giorni. Il d.Lgs. n. 108/2024 pubblicato in GU il 5 agosto infatti differisce il termine di scadenza originariamente del 31 luglio al 15 settembre, ma grazie ai cinque giorni di tolleranza e ai festivi la scadenza si allunga fino al 23 settembre 2024. Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate-Riscossione con un comunicato sul proprio sito.

Tolleranza e festivi

Aggiornando il calendario delle scadenze, l’Ader informa infatti che al rinvio operato dal decreto al 15 settembre per pagare la quinta rata del piano di Definizione agevolata delle cartelle, vanno aggiunti i cinque giorni di tolleranza e i differimenti previsti nel caso di termini coincidenti con giorni festivi (ossia il 15, il 21 e il 22 settembre).

Perciò, il termine finale slitta al 23 settembre 2024. Tutti i pagamenti effettuati entro tale data, conferma l’Agenzia, saranno considerati validi, senza oneri aggiuntivi e senza perdere i benefici della “Rottamazione-quater”.

Come pagare

Per i pagamenti devono essere utilizzati i moduli allegati alla Comunicazione delle somme dovute, disponibili anche sul sito in area riservata, ricorda l’Ader. Inoltre, rammenta l’Agenzia che “nel caso in cui il pagamento non venga eseguito, sia effettuato oltre il termine ultimo o sia di ammontare inferiore rispetto all’importo previsto, verranno meno i benefici della Definizione agevolata e quanto già corrisposto sarà considerato a titolo di acconto sul debito residuo”.

Per conoscere tutte le modalità di pagamento basta consultare la pagina dedicata.

 

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autovelox laguna

Anche l’autovelox della Laguna va tarato La Cassazione conferma che anche gli apparecchi per misurare la velocità dei mezzi in Laguna veneta devono essere tarati

Autovelox Laguna

Anche l’autovelox della Laguna va tarato, come tutti gli apparecchi per misurare la velocità dei mezzi. Così la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 20492-2024.

La vicenda

Nella vicenda, il titolare di una ditta individuale aveva proposto opposizione innanzi al Giudice di Pace di Venezia avverso l’ordinanza-ingiunzione emessa dalla polizia municipale con cui gli era stato ingiunto il pagamento di oltre 300 euro per aver superato il limite massimo di velocità con il proprio motoscafo appartenente alla propria ditta.

Il Gdp rigettava l’opposizione confermando l’ordinanza ingiunzione, ritenendo non necessario sottoporre il sistema alle operazioni di omologazione e taratura previste dal codice della strada, non sussistendo i requisiti per applicare in via analogica li codice della strada all’ambito della navigazione.
La sentenza veniva impugnata da innanzi al Tribunale di Venezia, li quale accoglieva l’opposizione e annullava in toto l’ordinanza-ingiunzione sostenendo che l’amministrazione comunale avesse totalmente omesso di produrre in giudizio la documentazione attestante l’avvenuta omologazione, tantomeno le periodiche verifiche di funzionalità e taratura della strumentazione nel sistema (tutor) installato dal Comune di Venezia.

Il tribunale richiamava inoltre la sentenza n. 113/2015 della Corte Costituzionale che aveva dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 45, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992 nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura”.
Il comune impugnava la sentenza innanzi alla Cassazione.

La decisione

Per gli Ermellini, tuttavia, le doglianze del comune sono infondate.

Giova, innanzitutto, precisare che “la circolazione nelle acque del Comune di Venezia, ed in genere della laguna veneta, è disciplinata dal Regolamento per li Coordinamento della navigazione locale nella Laguna Veneta (adottato ai sensi dell’art. 11, comma 3, D. Lgs. n. 422 del 1997) che, all’art. 67 («Dispositivi di monitoraggio»: norma inserita all’interno del Titolo V dedicato al Sistema di rilevazione), con riferimento (anche) ai dispositivi di monitoraggio del traffico installati dalle autorità competenti (comma 2) prescrive l’obbligo che gli apparati di rilevamento impiegati siano «debitamente omologati» (comma 3)”.

Per cui, “tale esplicito riferimento normativo all’obbligatorietà dell’omologazione è in linea con il più generale principio di garanzia in materia di accertamenti rimessi a mezzi tecnici di rilevamento automatico: l’omologazione, infatti, consiste in una procedura che – pur essendo amministrativa – ha anche natura necessariamente tecnica; tale specifica connotazione risulta finalizzata a garantire la perfetta funzionalità e la precisione dello strumento elettronico da utilizzare per l’attività di accertamento da parte del pubblico ufficiale legittimato: requisito, questo, che costituisce l’indispensabile condizione
per la legittimità dell’accertamento stesso (Cass. Sez. 2, n. 10505 del 18.04.2024)”.

Spetta, infine, “all’amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione (e dell’eventuale periodica taratura dello strumento: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6579 del 2023; Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 32369 del 13/12/2018), non essendo necessario che di detto adempimento ne dia conto il verbale di contestazione”.
In definitiva, il ricorso è rigettato.

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medico di base

Medico di base: in caso di urgenza non è competente Il dovere di recarsi a casa del paziente non sussiste in caso di urgenza. In tal caso la competenza è del 118 e l'obbligo sussiste per la guardia medica

Doveri del medico di base

Il medico di base non è tenuto a recarsi a casa del paziente in caso di urgenza: in tale evenienza infatti la competenza passa al 118 o alla guardia medica. Lo ha affermato la sesta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 24722-2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Palermo assolveva un medico dal reato di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328, comma 1, del codice penale) per il quale era stato condannato ni primo grado perché, in qualità di medico di assistenza primaria, aveva omesso di effettuare, nonostante le continue richieste di intervento dei familiari, una visita domiciliare a scopo diagnostico e terapeutico ad un assistito che lamentava forti dolori a seguito caduta accidentale, anziano e affetto da patologie (Parkinson avanzato, cardiopatia ischemica cronica), condizioni che gli impedivano di recarsi presso l’ambulatorio.
Avverso la sentenza il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Palermo adiva il Palazzaccio, ritenendo che il medico di base avesse uno specifico obbligo per i medici di base di effettuare la visita domiciliare al paziente nel caso di non trasferibilità dell’ammalato.

Medico di base non preposto alle urgenze

Per la S.C., il ricorso è infondato.

All’esito assolutorio della sentenza in appello il Procuratore Generale ricorrente oppone “l’omessa considerazione di quanto disposto dall’art. 47, comma 1, del’Accordo Collettivo Nazionale vigente all’epoca dei fatti (del 23/03/2005), a mente del quale «l’attività medica viene prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell’ammalato»: disposizione invece menzionata nella sentenza di primo grado, dalla quale deriverebbe – deve inferirsi – la fonte dell’obbligo di agire, tale da giustificare l’integrazione del reato omissivo, oltre al dedotto vizio motivazionale”.
In realtà, sostengono i giudici, “la disposizione in oggetto non è affatto sfuggita alla Corte d’appello la quale, seppur senza citarla espressamente, in un punto della pronuncia, vi ha fatto un chiaro riferimento, precisando di non fare «questione di adempimento o meno del dovere giuridico del medico di base di procedere a visita a domicilio del paziente non trasportabile, quanto solo dell’esistenza o meno nel caso concreto di un dovere di procedere senza ritardo ad un tale incombente […], dovere di urgenza né ordinariamente pretensibile dal medico di medicina generale né specificamente dall’imputato in considerazione delle circostanze del caso concreto»”.
In un altro passaggio, in modo ancora più inequivoco, i Giudici di secondo grado hanno inoltre ritenuto che «il medico di base, contrariamente al medico di guardia, non è istituzionalmente preposto a soddisfare le urgenze, le quali rimangono affidate al servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica già denominato 118», aggiungendo che «da ciò deriva che per fondare uno specifico obbligo giuridico di prestazioni sanitarie urgente, anche nelle more del servizio di emergenza, da parte di un pubblico ufficiale sanitario a ciò non preposto, sarebbe stata necessaria una peculiare situazione di prossimità spaziale di necessità non indifferibile […], ben distante dall’ordinarietà degli accadimenti».

La decisione

Per cui, nessuna lacuna motivazionale è ravvisabile nella sentenza impugnata la quale distingue in modo netto il profilo della trasferibilità del paziente (toccato dal citato Accordo Nazionale) da quello dell’urgenza della prestazione richiesta: urgenza in presenza della quale – come nel caso di specie -, trasferibile o meno che fosse li paziente, i Giudici hanno ritenuto scattasse la competenza di altra articolazione sanitaria, e cioè, nella specie, dei medici del 118.
Si tratta di una “distinzione di ruoli – sottolineano da piazza Cavour che – trova la sua ratio nell’esigenza di assicurare li miglior assolvimento delle funzioni all’interno di un’organizzazione complessa qual è li sistema sanitario, consentendo a ciascun operatore del settore di concentrarsi sui propri compiti specifici. Distinzione che, inoltre, nei casi come quello di specie, risponde inoltre all’esigenza di evitare sovrapposizioni non soltanto inutili (il medico di base non essendo attrezzato per far fronte alle urgenze), ma anche potenzialmente dannose, ove – come ben possibile – foriere di ritardi e confusioni”.
Per le ragioni esposte, la S.C. ha rigettato il ricorso.

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