giurista risponde

Affidabilità operatore economico e self cleaning Quali sono i requisiti di affidabilità di un operatore economico e i comportamenti che la stazione appaltante deve tenere anche in considerazione delle misure di self cleaning?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

La stazione appaltante ha il dovere di verificare la permanenza dei requisiti e dell’affidabilità dell’operatore economico. – Cons. Stato, sez. III, 22 febbraio 2023, nn. 1790 e 1791.

Il Consiglio di Stato ha statuito che:La stazione appaltante ha il dovere di verificare la permanenza dei requisiti, in presenza di fatti sopravvenuti, astrattamente idonei ad incidere sull’affidabilità dell’operatore economico che è risultato aggiudicatario. La verifica de qua, eseguita d’ufficio o su sollecitazione di un altro operatore economico interessato ad un ipotetico scorrimento, è espressione dell’esercizio di un potere amministrativo, che si innesta in connessione con la procedura di affidamento. Questo comporta la riconducibilità della controversia alla giurisdizione esclusiva, atteso che le controversie relative alla fase successiva all’aggiudicazione, ma precedenti alla stipulazione del contratto, esulano dalla giurisdizione del giudice ordinario, al quale sono devolute le controversie relative all’esecuzione del rapporto.

Nel caso di specie vi è stata un’attività di verifica, sfociata nell’adozione di un provvedimento di archiviazione, che si colloca, dal punto di vista temporale, tra l’aggiudicazione e la stipula della convenzione, con la conseguenza che l’esercizio del potere speso dalla stazione appaltante rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Ciò premesso, i Giudici evidenziano che, la stazione appaltante – nel valutare il grave errore professionale comportante l’esclusione dalla gara – deve compiere una verifica su due livelli: i) deve qualificare il comportamento pregresso dell’operatore economico, con riferimento alla sua idoneità e affidabilità nei rapporti con l’Amministrazione; ii) (successivamente) deve verificare se il giudizio negativo sia predicabile anche in merito alla procedura di gara in itinere.

Tale valutazione dell’affidabilità in senso storico dovrà poi essere declinata in concreto, con riferimento alle circostanze di fatto, tra le quali rientrano le misure di self cleaning assunte dall’operatore economico.

Ed invero, tali misure rientrano nel prudente apprezzamento della stazione appaltante che dovrà tener conto delle misure di self cleaning adottate in corso di procedura e la loro idoneità o meno a garantire l’affidabilità dell’operatore economico.

Risulta, pertanto, dall’interpretazione dell’art. 57, comma 6, della direttiva 24/2014/UE, particolarmente importante l’affidabilità dell’operatore economico.

Invece, rientra nell’ambito della discrezionalità della P.A. – ed è sindacabile ai soli fini di un eventuale riesame – la valutazione circa la ricorrenza delle cause facoltative di esclusione dalle gare pubbliche.

Nel caso di specie, i Giudici del Consiglio di Stato hanno ritenuto che: “L’applicazione delle misure di self cleaning ai procedimenti di gara ancora pendenti sarebbe rigorosamente osservante dei principi comunitari di proporzionalità, del favor partecipationis e di concorrenza”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 18 ottobre 2022, n. 8864;
Cons. Stato, sez. III, 10 febbraio 2021, n. 1248;
Cons. Stato, sez. V, 5 febbraio 2021, n. 505;
Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2020, n. 5967;
Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16
giurista risponde

Cauzione provvisoria appalti e automatismo La cauzione provvisoria negli appalti pubblici è connotata da automatismo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

La V Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia UE la questione. – Cons. Stato, sez. V, ord., 28 febbraio 2023, n. 2033.

Primariamente all’analisi della questione va rilevato che nel settore dei contratti pubblici sono presenti le seguenti garanzie: cauzione, polizza fideiussoria e contratto autonomo di garanzia.

Il Codice degli appalti, infatti, identifica una serie di garanzie che l’operatore economico deve prestare a favore della stazione appaltante al fine di partecipare ad una selezione e conseguentemente eseguire un contratto pubblico.

L’obiettivo è quello di assicurare il rispetto delle norme con riguardo alla realizzazione dell’opera e alle possibili inadempienze che possono pregiudicare l’incolumità.

Il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia UE la questione pregiudiziale inerente alla cauzione provvisoria e se questa possa essere colpita a prescindere rispetto all’applicazione anche di altre sanzioni, in particolare: “Se gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 4, protocollo 7, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’art. 6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli articoli 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a norme interne (artt. 38, comma 1, lett. f), 48 e 75 del D.Lgs. 163/2006) che prevedano l’applicazione della sanzione d’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico di servizi, benché il medesimo operatore economico sia stato già destinatario, in relazione alla medesima ed unitaria condotta, di altra sanzione definita a seguito di apposito procedimento attivato ad opera di altra competente Autorità del medesimo Stato membro”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, ord. 20 ottobre 2014, n. 5167; Id., ord. 9 ottobre 2014, n. 5030; Id., ord. 9 luglio 2014, nn. 3496, 3497, 3498 e 3499
giurista risponde

Interdittiva antimafia libero professionista Un libero professionista può essere colpito da interdittiva antimafia anche se sono intercorsi dei rapporti professionali con un Comune sciolto per mafia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, in quanto la disciplina si applica tassativamente alle categorie previste dalla normativa, senza possibilità di analogie. – Cons. Stato, sez. III, 2 marzo 2023, n. 2212.

I Giudici di Palazzo Spada confermano l’impossibilità per la persona fisica, libero professionista che non riveste la qualità di titolare di impresa o di società, di essere destinatario di una interdittiva antimafia.

I liberi professionisti risultano non assoggettabili alla disciplina dell’istituto, prevista dagli artt. 83 e 91 del D.Lgs. 159/2011, proprio in quanto non tassativamente individuati dalla disposizione.

Si conclude, pertanto che, i soggetti che non siano imprenditori sono tassativamente esclusi dall’ambito applicativo dell’interdittiva antimafia, quale che sia il valore o l’oggetto del contratto.

giurista risponde

Rapporti giustizia amministrativa e giustizia sportiva Quale il rapporto intercorrente tra giustizia amministrativa e giustizia sportiva e il relativo diritto di accesso documentale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nell’ordinamento sportivo non vi è una puntuale disciplina di tutela dell’accesso; pertanto, non sussiste pregiudizialità. – TAR Lazio, sez. Iter, 6 marzo 2023, n. 3693. 

I Giudici ricordano che la legittimazione all’accesso deve distinguersi dalla legittimazione processuale, in quanto il fine dell’accesso tutela non solo le esigenze difensive del richiedente ma il più generale obbligo di trasparenza dell’azione amministrativa.

Ed invero, anche quando l’accesso è finalizzato ad esigenze difensive, come nel caso di specie, l’autonomia della relativa situazione giuridica postula e comporta una completa distinzione tra la giurisdizione sul diritto di accesso e la giurisdizione sulla situazione giuridica sottostante da tutelare in un processo pendente o eventualmente da instaurare. In proposito, rileva verificare se l’azione autonoma sia o meno soggetta al vincolo di pregiudizialità sportiva.

Occorre, dunque, prendere le mosse dell’art. 3 della L. 280/2003, che stabilisce che è possibile adire il giudice amministrativo solo dopo aver esaurito i gradi della giustizia sportiva.

In particolare, l’articolo citato individua quali condizioni ai fini del riconoscimento di una pregiudizialità sportiva: la residualità dell’azione esperita e il definitivo esaurimento di tutti i gradi della giustizia sportiva.

Tali presupposti risultano assenti nel caso dell’azione di accesso difensivo.

Il Collegio di Garanzia ha evidenziato la mancanza di una puntuale disciplina di tutela dell’accesso nell’ordinamento sportivo.

È necessario ricordare che, ai sensi dell’art. 111 Cost., per ragioni di certezza e di giusto processo, la pregiudizialità va ancorata a dati normativi precisi, che nel caso di specie non sussistono.

Pertanto, in assenza di una disciplina puntuale dell’accesso difensivo, in materia di ordinamento sportivo non vi è pregiudizialità sportiva.

Rileva, inoltre, verificare la natura dell’atto di cui si chiede l’accesso, ossia se sia qualificabile come documento ai sensi della L. 241/1990. Il Collegio ricorda la nozione di documento amministrativo, ai sensi della lett. d), dell’art. 22, L. 241/1990, secondo la quale per documento si intende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una specifica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.

Conseguentemente, la nozione di documento amministrativo suscettibile di formare oggetto di istanza di accesso documentale è ampia e può riguardare ogni documento detenuto dalla Pubblica Amministrazione.

Da quanto sin qui esposto, il TAR Lazio ha dichiarato illegittima la declaratoria di competenza all’ostensione dell’atto richiesto.

 

giurista risponde

Potere sanzionatorio AGCM Quale il potere dell’autorità garante della concorrenza e del mercato nel procedimento sanzionatorio?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nel procedimento sanzionatorio condotto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato non trova applicazione l’art. 240 c.p.p. sui documenti anonimi, che risulteranno utilizzabili se valutati con maggior rigore. – TAR Lazio, sez. I, 6 marzo 2023, n. 3699.

I Giudici hanno affermato che: “La responsabilità solidale tra due società per un illecito antitrust, laddove sussista una situazione di controllo maggioritario – c.d. parental control liability –, è configurabile limitatamente ai fatti successivi all’acquisto della partecipazione”.

Con riguardo al caso di specie, è stata esclusa la responsabilità solidale della società controllante per fatti commessi dalla controllata antecedentemente l’acquisto del controllo.

L’importo supplementare previsto dalle Linee guida sulla modalità di applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, c.d. entry fee, è finalizzato a inspessire l’effetto deterrente della sanzione e necessita che l’Autorità motivi adeguatamente l’esigenza di tale rinforzo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 2022, n. 3572; Id., 27 dicembre 2021, n. 8613
giurista risponde

Mobbing verticale e maltrattamenti A quali condizioni il cosiddetto “mobbing verticale” rientra nella fattispecie tipica di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.? Quale rilevanza assume ai fini della configurazione del reato la condotta posta in essere dalla vittima?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private; mentre, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con la abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell’accertamento della consumazione del delitto. – Cass. VI, 19 settembre 2023, n. 38306.

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione inerente alla configurabilità del delitto di maltrattamenti ad opera del datore di lavoro nei confronti della propria dipendente nell’ambito di un rapporto lavorativo sfociato nel licenziamento per giusta causa di quest’ultima. Come si evince dall’analisi della vicenda fattuale, infatti, l’imputato condannato in primo grado ma assolto dalla Corte d’Appello, aveva posto in essere una serie di vessazioni in danno di una sua dipendente all’epoca in cui questa versava in una condizione di particolare vulnerabilità stanti sia il suo stato di gravidanza e sia le difficili condizioni economiche.

Nell’accogliere il ricorso di quest’ultima, costituitasi parte civile nel processo, la Corte di Cassazione, censura la sentenza di secondo grado per un duplice ordine di ragioni.

In primis, viene cassato, sotto il profilo processuale, l’iter motivazionale che aveva condotto la Corte d’Appello a ribaltare il verdetto di primo grado. In particolare, viene ritenuta non sufficientemente motivata la sentenza di secondo grado in merito al vaglio delle risultanze istruttorie poste alla base del verdetto assolutorio. A tal riguardo, la Suprema Corte richiama, invero, il granitico orientamento ermeneutico della giurisprudenza di legittimità a mente del quale, pur non occorrendo la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in caso di ribaltamento in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado, nondimeno è necessario che il giudicante del secondo grado fornisca adeguata giustificazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella svolta dal giudice di prime cure; dando altresì atto del percorso logico argomentativo che ha condotto a tale soluzione (anche Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, “Mannino”).

Sempre sotto il profilo procedurale, poi, la Suprema Corte censura la sentenza di secondo grado in merito al vaglio di attendibilità della persona offesa, nonché, in modo particolare, alla qualificazione della denuncia querela presentata da quest’ultima che la Corte d’Appello aveva svalutato, ritendendola strumentale. Sotto tale profilo, viene di fatti ribadito, sulla scorta di un risalente indirizzo interpretativo, che la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati (così Cass., sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553). Di talché, nessun rilievo ai fini della configurazione del delitto in esame poteva assumere la circostanza, negativamente valorizzata dal giudice di secondo grado, per cui la denuncia querela era stata proposta dalla dipendente solo a seguito del licenziamento spiccato nei suoi confronti dal datore di lavoro.

In secundis, sotto il profilo sostanziale, i giudici di Piazza Cavour affermano che mentre il licenziamento per giusta causa, collocandosi in un rapporto relazionale tra le parti private (datore-dipendente), presuppone condotte di grave inadempimento del lavoratore tali da minare il rapporto di fiducia, integra l’illecito penale di mera condotta dei maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, la condotta tenuta dal datore nei confronti del dipendente concretantesi in atti abituali di prevaricazione ed umiliazione.

La perseguibilità d’ufficio di tale reato, del resto, supera tranchant ogni rilievo che era stato svolto dalla Corte di Appello in punto di tardività e, dunque, di strumentalità della querela; rilievo che la Suprema Corte ritiene, difatti, di censurare.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 18 gennaio 2023, n. 8729
giurista risponde

Turbata libertà degli incanti e concorsi P.A. Nella nozione di “gara”, oggetto della fattispecie di turbata libertà degli incanti punita ai sensi dell’art. 353 c.p., rientrano anche i concorsi per il reclutamento del personale di cui si avvale la Pubblica Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

La lettera della legge, pur interpretata nel senso estensivo indicato dalla giurisprudenza, nondimeno restringe l’area di tutela e delimita il perimetro operativo della fattispecie di cui all’art. 353 c.p. alle sole procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio. Dunque, non vi è nessun riferimento ai concorsi per il reclutamento del personale. – Cass. VI, 24 maggio 2023, n. 38127.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di un Segretario comunale, nonché Presidente della commissione e Responsabile unico del procedimento, il quale avrebbe agevolato con collusioni e/o mezzi fraudolenti, in relazione al concorso per titoli ed esami per la copertura di un posto a tempo indeterminato e part time di istruttore direttivo, il superamento di detto concorso di una dipendente del comune, con la quale aveva, peraltro, una frequentazione anche di carattere sessuale.

In particolare, il Tribunale di prime cure, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero avverso l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la domanda di applicazione della custodia in carcere, applicava nei confronti dell’imputato la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio per la durata di sei mesi, in relazione al reato di cui all’art. 353 c.p. Invero, secondo il Tribunale, la nozione di “gara” richiesta dalla fattispecie incriminatrice della turbata libertà degli incanti, comprenderebbe qualsiasi procedura pubblica finalizzata alla scelta del contraente e, dunque, anche la procedura concorsuale per titoli ed esami per la copertura di un posto di istruttore direttivo in seno all’amministrazione comunale.

Avverso detta sentenza proponeva, quindi, ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato il quale, tra i motivi di ricorso, contestava la erronea qualificazione del fatto che, secondo il ricorrente, sarebbe al più sussumibile nel delitto di abuso d’ufficio previsto ai sensi dell’art. 323 c.p piuttosto che nella fattispecie contestata di turbata libertà degli incanti.

La Corte di Legittimità, chiamata a decidere al riguardo, evidenzia preliminarmente che l’intervenuto ampliamento della portata della fattispecie della turbata libertà degli incanti non discende affatto dalla genericità della descrizione del fatto da parte del legislatore, ma dalla interpretazione data nel corso del tempo dalla giurisprudenza. Infatti, la Corte di Cassazione ha ricordato che la precedente giurisprudenza di legittimità, privilegiando una operazione di tipo estensiva, ha in molteplici occasioni ritenuto che nella nozione di “gara” rientra qualsivoglia procedura di gara, anche informale o atipica, a condizione che l’avviso informale o il bando e comunque l’atto equipollente indichino previamente i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie (in questo senso, Cass. 6 dicembre 2018, n. 2795). Tuttavia, con la sentenza in commento, la Corte di legittimità, discostandosi dai precedenti giurisprudenziali, ricorda che l’attività ermeneutica trova un limite nel significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore a cui il giudice non può assegnare un significato diverso da quello proprio, da quello semantico, al fine di ricercare profili ulteriori in grado di colorare in senso estensivo il perimetro dell’illecito. Ciò sulla scorta dei principi che regolano l’ordinamento giuridico tra cui quello della certezza del diritto, della tipicità della fattispecie incriminatrice nonché il principio del divieto di analogia in malam partem, da ultimo ricordato dalla Corte costituzionale con la recente sent. 98/2021.

In virtù di tali principi, la Corte di Cassazione, ritenendo fondato il ricorso, conclude che i concorsi per il reclutamento del personale non possono essere ricondotti alla fattispecie di turbata libertà degli incanti, ma al più al reato di abuso di ufficio, ove ne siano sussistenti i presupposti e ciò anche alla luce delle modifiche apportate all’art. 323 c.p. dalla L. 16 luglio 2020, n. 176.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass. pen., 13 aprile 2017, n. 9385
giurista risponde

Profitto nel delitto di rapina In cosa si sostanzia il profitto richiesto dall’art. 628 c.p.? Che rapporto intercorre tra le fattispecie criminose della rapina e della violenza privata, prevista e punita dall’art. 610 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Non va poi trascurato che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, in base al principio di specialità, resta escluso, qualora sussista il fine di procurarsi un ingiusto profitto (dolo specifico) che rende configurabile un’ipotesi delittuosa più grave, quale quella della rapina. – Cass. II, 15 settembre 2023, n. 37861.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di alcuni detenuti che, al fine di dar luogo ad una rivolta in carcere, sottraevano agli agenti di custodia, con violenza e minaccia, le chiavi delle celle, poi successivamente restituite. In particolare, l’impossessamento delle chiavi veniva determinato dal fine specifico di aprire un cancello che avrebbe consentito ai soggetti agenti di accedere alla sezione antistante e porre in essere atti di rappresaglia per vendicare l’aggressione subita qualche giorno prima da un detenuto loro concittadino.

In secondo grado, la Corte di Appello di Salerno, riformando parzialmente la sentenza resa dal Giudicante di prime cure, confermava l’affermazione di responsabilità e, dunque, il trattamento sanzionatorio nei confronti dei detenuti in ordine al reato di concorso nel delitto di rapina. Invero, il Giudice di secondo grado, aveva escluso l’ipotesi criminosa della violenza privata in luogo della configurazione del delitto di rapina, sulla scorta sia del valore patrimoniale delle chiavi sottratte agli agenti, della oggettiva utilità raggiunta, ovverosia aprire le celle, nonché dell’ingiustizia del profitto realizzato con tale spossessamento.

Avverso detta sentenza proponevano, quindi, ricorso per Cassazione i difensori degli imputati i quali, tra i motivi di ricorso, contestavano la violazione degli artt. 628 e 610 c.p. nonché il vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta ascritta agli imputati in termini di concorso nel delitto di rapina, piuttosto che in quello della violenza privata. Secondo i ricorrenti, il giudice di merito aveva ingiustificatamente trascurato di considerare che la volontà degli imputati non era affatto finalizzata ad impossessarsi della chiave come bene in sé, dunque come bene avente valore patrimoniale, ma a costringere le persone offese, ossia gli agenti della Polizia Penitenziaria, ad aprire il cancello.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando l’infondatezza della censura relativa alla qualificazione giuridica del fatto, aderisce alla impostazione giurisprudenziale maggioritaria per la quale il requisito dell’ingiusto profitto, richiesto dalla norma di cui all’art. 628 c.p., non deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ma può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche non di natura economia. A tal riguardo, gli Ermellini precisano che già la giurisprudenza più risalente includeva nella definizione di profitto anche quelle cose che, se pur prive di reale valore di scambio, hanno comunque una importanza per il soggetto che le possiede, anche se non strettamente economica (così, tra le tante, Cass. 24 settembre 1976, n. 2004). Tale orientamento veniva poi ribadito anche dall’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità in virtù del quale nel delitto di rapina il profitto può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (così, tra le tante, Cass. 14 febbraio 1990, n. 7778). Nel medesimo senso anche la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, in merito alla fattispecie incriminatrice del furto, con l’informazione provvisoria 7/2023, hanno stabilito che il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, può consistere anche in un fine di natura non patrimoniale. Ne consegue, dunque, che anche la rapina, che rispetto al delitto di furto presenta il quid pluris della violenza e della minaccia, può essere integrata da una condotta appropriativa tesa a perseguire un vantaggio non economico.

Oltre a quanto sin qui detto, nella decisione in commento, i Giudici di Piazza Cavour, richiamando una giurisprudenza risalente, rappresentano che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, dunque, in base al principio di specialità espresso ai sensi dell’art. 15 c.p. esso soccombe rispetto al delitto di rapina, fattispecie delittuosa più grave, quando sussiste il dolo specifico di procurarsi un ingiusto profitto (così Cass. 24 ottobre 1985, n. 275).

Nel caso che occupa, infine, la Corte di cassazione specifica che a nulla rileva la circostanza, sollevata dai ricorrenti, per cui le chiavi sarebbero poi state riconsegnate agli agenti della Polizia Penitenziaria, in quanto il delitto di rapina si configura quando la persona offesa viene costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene, anche per l’uso meramente momentaneo, e ne perda il controllo durante l’utilizzo da parte dell’agente il quale, in tal modo, consegue l’autonoma disponibilità della cosa (così Cass. 26 febbraio 2019, n. 16819).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., 14 febbraio 1990, n. 7778
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Rapina impropria e omicidio aggravato dal nesso teleologico Nelle ipotesi di tentata rapina impropria e tentato omicidio aggravato dal nesso teleologico è configurabile l’assorbimento della circostanza aggravante nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Nelle ipotesi di rapina impropria, ove la violenza esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni determini la morte della persona offesa, la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. è assorbita nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. data la coincidenza tra le fattispecie criminose della modalità commissiva dell’uso della violenza e dell’elemento finalistico (cioè l’aver agito allo scopo di assicurarsi il profitto del reato o l’impunità). – Cass., sez. I, 11 settembre 2023, n. 37070.

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’assorbimento del nesso teleologico nelle ipotesi di tentata rapina impropria e tentato omicidio.

Nei precedenti gradi di giudizio l’odierno ricorrente è stato condannato per tentata rapina impropria commessa mediante attacco di esplosivo al sistema bancomat, tentato omicidio aggravato dal nesso teleologico, detenzione e porto di arma comune da sparo e danneggiamento aggravato. La Corte di appello, in conferma della decisione di primo grado, ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante del nesso teleologico in riferimento al rapporto tra tentato omicidio e tentata rapina impropria. Con un articolato atto di ricorso la difesa ha contestato la violazione del canone metodologico di cui all’art. 192 c.p.p., l’erronea applicazione della legge penale in punto di qualificazione giuridica del fatto come tentato omicidio, il vizio di motivazione in riferimento alla configurabilità del nesso teleologico e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della recidiva. I giudici di legittimità hanno accolto la censura relativa all’esclusione della circostanza aggravante in oggetto, aderendo, così, a quell’indirizzo interpretativo che non si sofferma sulla cd esorbitanza della violenza. Invero, in tema di assorbimento del nesso teleologico, gli orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti nel tempo hanno prospettato soluzioni diverse.

Come è noto, l’art. 628 c.p. incrimina, al comma 1, la condotta di chi, per procurare un ingiusto profitto, mediante violenza o minaccia si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene (rapina propria); al secondo comma, invece, punisce chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per assicurarsi il possesso o per procurarsi l’impunità (rapina impropria). La diversa sequenza temporale in cui si sostanziano gli elementi costitutivi si spiega in ragione del fatto che nella rapina propria la violenza o minaccia si pone in un rapporto di strumentalità rispetto alla condotta di sottrazione (“mediante violenza o minaccia”), mentre nella rapina impropria la violenza o minaccia – oltre a giustificarsi sulla base della condotta di sottrazione – è funzionale ad un ulteriore obiettivo, ossia quello del possesso o dell’impunità. Proprio su questi presupposti la giurisprudenza ha incentrato le questioni relative alla configurabilità del tentativo in caso di rapina impropria e all’assorbimento della circostanza del nesso teleologico. La prima questione è stata risolta dalle Sezioni Unite che, valorizzando la funzione estensiva della tipicità svolta dall’art. 56, c.p., hanno ammesso la configurabilità del reato nella forma tentata (Cass., Sez. Un., 12 settembre 2012, n. 3492). Diversamente, il quesito relativo al possibile assorbimento del nesso teleologico si presta, ancora oggi, a soluzioni contrastanti. Come anticipato, con la pronuncia in oggetto la Cassazione ha aderito a quell’indirizzo che riconosce l’assorbimento della circostanza aggravante. L’orientamento contrapposto, invece, nega tale possibilità in virtù del fatto che non è riscontrabile incompatibilità giuridica tra il reato di rapina impropria e l’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. laddove la violenza esercitata dall’agente risulti esorbitante rispetto a quella idonea a configurare la rapina (in tal senso Cass. 17 maggio 2019, n. 21730; Cass. 16 maggio 2019, n. 21458). Questi principi si fondano non tanto sulle caratteristiche specifiche della rapina nella forma impropria, quanto nell’elemento dell’esorbitanza della violenza rispetto al soddisfacimento dell’interesse di lucro perseguito: l’aggravante del nesso teleologico sussiste nel caso in cui la violenza esercitata sia smisurata rispetto a quella strettamente funzionale all’esecuzione della rapina (così Cass. 12 dicembre 2022, n. 46869). In tali ipotesi, quindi, i reati di omicidio e rapina impropria concorrono con l’aggravante in questione (Cass. 13 maggio 2020, n. 14940; Cass. 28 marzo 2018, n. 14301). A sostegno di questa tesi è stato precisato che la violenza o la minaccia integrano elementi costitutivi della rapina impropria, insieme all’elemento oggettivo dell’impossessamento del bene e all’elemento soggettivo del dolo specifico. Il dolo specifico esaurisce la sua funzione nell’ambito della rapina, per cui l’aggravante del nesso teleologico permette di legare due autonome fattispecie di reato non sovrapponibili tra di loro. Più precisamente «commesso il delitto di rapina impropria, trasmodando l’azione violenta del soggetto attivo del reato nell’omicidio, si rende autonomamente rilevante accanto alla fattispecie di rapina quella dell’omicidio, con la conseguenza che l’aggravante teleologica di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. collega queste due figure di reato secondo il rapporto strumentale esistente tra mezzo e fine» (Cass. 21 marzo 2017, n. 18116).

L’indirizzo interpretativo espresso di recente dai giudici di legittimità – e condiviso dalla Prima Sezione nella sentenza in epigrafe – si articola in senso contrario a quanto fin qui detto. Nelle ipotesi in cui l’omicidio sia commesso immediatamente dopo l’impossessamento vi è coincidenza tra le due fattispecie, oltre che delle modalità commissive (la violenza), anche del finalismo dell’azione (violenza per assicurarsi l’impunità) che, avvalorando la tesi opposta, finirebbe per essere incriminato due volte: la prima in quanto elemento costitutivo della rapina impropria, la seconda come elemento che caratterizza l’aggravante del delitto di omicidio (così anche Cass. 8 settembre 2022, n. 33117). Nel caso di specie, dunque, la Cassazione ha valorizzato la natura soggettiva dell’aggravante teleologica che, ove applicata, andrebbe a duplicare un effetto sanzionatorio in modo non consentito. La volontà del soggetto, infatti, è assunta come elemento costitutivo del reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. e non può essere valutata nella previsione sanzionatoria per il delitto di violenza contestualmente commesso (in tal senso anche Cass. 21 giugno 2017, n. 51457; Cass. 16 novembre 2006, n. 42371). Quest’aspetto spiega l’assorbimento del disvalore della circostanza di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. nella fattispecie di rapina impropria.

Diversamente, l’aggravante del nesso finalistico tra omicidio e rapina può sussistere in caso di rapina propria commessa immediatamente dopo l’omicidio che, configurandosi come reato-mezzo, viene commesso per eseguire la rapina ad esso posteriore.

In conclusione, in tema di rapina impropria, ove la violenza esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni determini la morte della persona offesa, la circostanza aggravante del nesso teleologico è assorbita – per il principio di specialità – nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. data la coincidenza tra le fattispecie criminose della modalità commissiva dell’uso della violenza e dell’elemento finalistico (cioè l’aver agito allo scopo di assicurarsi il profitto del reato o l’impunità).

Alla luce delle esposte ragioni il Collegio ha annullato senza rinvio la sentenza limitatamente alla censura in esame.

Gli altri motivi prospettati dalla difesa, ad eccezione di quello relativo all’erronea applicazione di legge in riferimento alla ritenuta sussistenza della recidiva, sono stati dichiarati manifestamente infondati data l’assenza di vizi logici o processuali. In particolare, quanto alla qualificazione giuridica del tentato omicidio, la Corte di legittimità ha ribadito che ai fini della configurabilità del reato è sufficiente il dolo diretto anche nella forma di dolo alternativo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 8 settembre 2022, n. 33117; Cass., sez. I, 21 giugno 2017, n. 51457; Cass., sez. I, 16 novembre 2006, n. 42371
Difformi:      Cass., sez. I, 12 dicembre 2022, n. 46869; Cass., sez. II, 13 maggio 2020, n. 14940; Cass., sez. I, 17 maggio 2019, n. 21730; Cass., sez. II, 16 maggio 2019, n. 21458; Cass., sez. II, 28 marzo 2018, n. 14301; Cass., sez. I, 21 marzo 2017, n. 18116
giurista risponde

Requisito abitualità particolare tenuità del fatto Ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. quando può ritenersi integrato il requisito dell’abitualità?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

L’abitualità è un requisito ostativo all’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. e, come si evince dal tenore letterale, sussiste nel caso in cui i reati commessi siano della stessa indole e nel caso in cui i reati abbiano ad oggetto condotte abituali, reiterative o plurime. – Cass., sez. III, 11 settembre 2023, n. 37046.

La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte trae origine da una condanna per omessa denuncia di materiale infiammabile – ex art. 679 c.p. – e per il mantenimento di un impianto di distribuzione carburanti privo del certificato antincendi (artt. 16 e 20, D.Lgs. 139/2006).

Il ricorrente, oltre a presentare censure in punto di fatto volte ad una alternativa ricostruzione probatoria (che, in quanto tale, non è consentita in sede di legittimità) e censure meramente procedurali, ha contestato la manifesta illogicità della motivazione per la mancata applicazione dell’art. 131bis, c.p.

Prima di procedere alla disamina della questione è opportuno ricordare (per quanto di interesse in questa sede) l’ambito applicativo e la ratio della causa di non punibilità in oggetto. L’istituto della particolare tenuità del fatto è stato introdotto dal D.Lgs. 28/2015 con lo scopo di «espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo» (Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13682). Come chiarito dalle Sezioni Unite Coccimiglio il nuovo istituto integra una causa di non punibilità e persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio, con effetti anche in tema di deflazione del processo penale. In quest’ottica proporzione e deflazione si intrecciano coerentemente.
Il perimetro di applicabilità è stato determinato in relazione alla pena edittale che, in modifica a quanto originariamente previsto, non rileva più in riferimento al limite massimo (“pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni”), ma in relazione al minimo edittale (“pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”). L’ambito applicativo, tuttavia, non è delineato solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche da un profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento. In tal senso le Sezioni Unite Tushaj hanno chiarito che «la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti “seriali”» (Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13681). La nozione di abitualità è definita dallo stesso art. 131bis, c.p. e sussiste nel caso in cui i reati commessi siano della stessa indole o abbiano ad oggetto condotte abituali, reiterative o plurime. Il concetto di “reati della stessa indole” si desume, invece, dall’art. 101, c.p. che, oltre a considerare tali i reati che violano la medesima disposizione di legge, fa riferimento anche a quelli che presentano profili di omogeneità sia sul piano oggettivo, cioè in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive, sia sul piano soggettivo, cioè in relazione ai motivi a delinquere che hanno avuto efficacia causale nella decisione criminosa. L’identità dell’indole, inoltre, deve essere valutata in concreto dal giudice, quindi verificando la presenza di caratteri fondamentali comuni (in tal senso Cass. 16 luglio 2018, n. 32577).

Le Sezioni Unite Tushaj hanno altresì evidenziato l’importanza del dato numerico. Più precisamente, l’abitualità del comportamento si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole, quindi almeno due, diversi da quello per il quale si procede – ciò significa che in presenza del terzo illecito della stessa indole si può parlare di serialità della condotta che, in quanto tale, osta all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131bis, c.p. – (in senso conforme anche Cass. 30 dicembre 2022, n. 49678).

Nel caso in esame la questione controversa riguarda la presenza, o meno, di più reati della stessa indole in quanto i giudici di merito hanno negato il riconoscimento della particolare tenuità del fatto in ragione dell’abitualità della condotta, ossia alla luce dei precedenti penali annoverati dall’imputato (nello specifico i reati di cui agli artt. 612 e 614 c.p.). La difesa, per converso, ha contestato la mancata sussistenza del requisito dell’abitualità data la diversa identità dell’indole dei reati.

La doglianza suesposta è stata ritenuta fondata. Invero, i precedenti considerati ostativi al riconoscimento della causa di non punibilità non sono della stessa indole del reato oggetto del giudizio. Il Collegio, in conformità ai principi sanciti dalle Sezioni Unite, ha ribadito che il presupposto ostativo rappresentato dall’abitualità della condotta si concretizza quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti della stessa indole oltre quello preso in esame (così anche Cass. 14 novembre 2022, n. 43065). L’omogeneità dei reati, inoltre, deve essere valutata in concreto, analizzando il profilo formale e quello sostanziale.
Dopo aver disposto l’annullamento con rinvio limitatamente a questo motivo di ricorso, la Cassazione si è soffermata sul rapporto tra prescrizione ed esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. La prescrizione estingue il reato, mentre l’istituto di cui all’art. 131bis, c.p. lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica, ragion per cui la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Tale precisazione si è resa necessaria in quanto, nel giudizio di rinvio, il reato non può essere dichiarato prescritto quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale (come nel caso di specie).

Il Collegio, in conclusione, ha disposto l’annullamento con rinvio in relazione all’applicazione dell’art. 131bis, c.p. e ha dichiarato l’inammissibilità dei restanti motivi di ricorso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13681; Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13682; Cass., sez. II, 16 luglio 2018, n. 32577; Cass., sez. V, 14 novembre 2022;
Cass., sez. II, 30 dicembre 2022