cartella clinica

Cartella clinica mancante: è prova a favore del paziente La Cassazione ricorda che l'incompletezza della cartella clinica può dimostrare l'esistenza di un nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente

Danno da responsabilità medica

Nel caso che ci occupa la Corte d’appello di Lecce aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta dai familiari danneggiati che avevano invocato la condanna della struttura ospedaliera al risarcimento del danno da loro subìto in conseguenza della morte della loro madre.

In particolare, la Corte di merito, sulla scorta delle risultanze della CTU espletata in primo grado, aveva ritenuto che i danneggiati non avessero provato il nesso causale tra il decesso della madre e l’ipotizzata negligenza od imperizia del personale sanitario e aveva altresì escluso in radice la condotta inadempiente di tale personale.

Invero, la Corte salentina aveva ritenuto che la “evidente carenza della cartella clinica” e la mancanza di un referto potessero essere surrogati dal “quadro probatorio ed indiziario univocamente favorevole all’assenza di responsabilità medica e di nesso causale”.

Avverso tale decisione i danneggiati avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Prova del nesso causale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11224-2024, ha accolto il ricorso proposto e ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello.

Per quanto qui rileva, i ricorrenti hanno contestato l’esclusione della prova del nesso causale tra il decesso della loro madre e la dedotta condotta negligente o imperita dei sanitari e, ciò nonostante, le carenze della cartella clinica e la lacunosità della documentazione sanitaria.

La Cassazione ha ritenuto che il Giudice di merito “non ha attribuito alcun peso alla circostanza, reiteratamente e vigorosamente evidenziata nella relazione di CTU, che la documentazione sanitaria, nonché carente, era quasi del tutto inesistente, riducendosi alla consulenza cardiologica acquisita in Pronto Soccorso e al certificato di morte, cosicché non solo non si era potuta adeguatamente ricostruire l’evoluzione clinica della patologia che aveva afflitto (la paziente deceduta) (né si era potuto fare piena luce sull’attività clinica, diagnostica e strumentale svolta dai sanitari), ma la stessa causa del decesso era rimasta incerta”.

Sul punto, la Corte ha infatti evidenziato come le informazioni, normalmente desumibili dalla cartella clinica, in ordine all’evoluzione della patologia, all’attività diagnostica, clinica e strumentale espletata dai sanitari e, soprattutto, sulla causa del decesso del paziente “sono fondamentali per la formulazione del giudizio sulla sussistenza del nesso causale tra il decesso medesimo e l’ipotizzata negligenza o imperizia dei medici”.

La Corte d’appello, dunque, secondo il Giudice di legittimità ha “violato il principio – fondato sul rilievo che la carenza della documentazione sanitaria acquisibile presso la struttura non può ridondare a detrimento del paziente – secondo cui, in tema di responsabilità medica, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido legame causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente allorché proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione”.

Sulla scorta di tali ragioni, la Corte ha dunque accolto le doglianze formulate dai ricorrenti sul punto.

Allegati

super interessi

Super interessi: spettano se il giudice lo specifica La Cassazione sui super interessi, ossia gli interessi maggiorati di cui all’art. 1284 co. 4 c.c., chiarisce che spettano se il giudice li indica specificamente nel titolo esecutivo

Interessi maggiorati art. 1284 comma 4 c.c.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 12449-2024 chiarisce sinteticamente che gli interessi maggiorati o i super interessi previsti dall’articolo 1284 comma 4 c.c. spettano se il giudice di cognizione che emette il titolo esecutivo specifica se e in che misura spettano dopo aver valutato i presupposti richiesti dalla norma, ossia la natura della fonte dell’obbligazione, l’accordo delle parti sulla misura degli stessi e la domanda giudiziale per stabilirne la decorrenza.

Super interessi: omissione del giudice di cognizione

Il Tribunale di Milano dispone il rinvio pregiudiziale degli atti chiedendo alla Cassazione di risolvere la seguente questione di diritto: “se in tema di esecuzione forzata, anche solo minacciata, fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso ad indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’articolo 1284 1° comma codice civile o, a partire dalla stessa data di proposizione della domanda, possono ritenersi liquidati quelli di cui al 4° comma del predetto articolo”.

Super interessi: il contrasto interpretativo

Sulla questione giuridica proposta dal Tribunale milanese era in effetti presente un contrasto interpretativo.

Secondo un indirizzo della Cassazione, in presenza di una esecuzione forzata, se il giudice della cognizione abbia omesso di specificare il tipo di interessi da applicare, occorre procedere alla liquidazione dei soli interessi legali art. 1284 comma 1 c.c, stante la portata generale di questa regola.

Un altro indirizzo sostenuto in particolare dalla sezione Lavoro della Cassazione, i commi 4 e 5 dell’art. 1284 c.c determinano la misura degli interessi legali  se il credito viene riconosciuto da una sentenza, anche dopo un giudizio arbitrale, anche se la sentenza nulla specifica in merito al saggio di interesse applicabile.

Il giudice deve indicare nel titolo i super interessi

La Cassazione rileva che la questione di diritto si pone perché il giudice dell’esecuzione non ha poteri di integrazione o di cognizione deve limitarsi ad attuare il contenuto del titolo esecutivo, è questa la questione su cui incentra il ragionamento la Corte di Cassazione.

Occorre però partire dall’analisi dell’articolo 1284 comma 4 c., che così dispone. “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Dalla formulazione della disposizione emerge che alcuni elementi della norma sono suscettibili di valutazione. La fattispecie costitutiva che regola la spettanza dei super interessi è autonoma rispetto alla prima parte della noma dedicata agli interessi legali.

Il giudice della cognizione, quando emette il titolo esecutivo deve quindi valutare i seguenti presupposti applicativi:

  • la natura della fonte dell’obbligazione perché in base alla natura del credito lo stesso può essere produttivo o non produttivo dei super interessi;
  • la determinazione contrattuale della misura degli interessi;
  • identificazione della domanda giudiziale per stabilire la decorrenza degli interessi.

Il giudice di cognizione che emetta un titolo esecutivo contente l’indicazione generica di “interessi legali” non è idonea a integrare il corretto accertamento dei presupposti appena elencati. Il titolo esecutivo giudiziale deve quindi contenere specificamente se e in che misura spettano gli interessi maggiorati.

Il principio di diritto delle Sezioni Unite

Questo infine il principio di diritto enunciato dalle SU:

“Ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. 

Allegati

Decreto ingiuntivo: fino a 10mila euro lo emette l’avvocato E' quanto prevede la proposta di legge all'esame della Commissione Giustizia della Camera che riconosce agli avvocati il potere di emettere decreti ingiuntivi semplificati per crediti fino a 10mila euro

Decreto ingiuntivo semplificato: finalità

Il procedimento di ingiunzione semplificato è oggetto della proposta di legge C.1374 presentata il 10 agosto 2023 dal deputato D’Orso Valentina, assegnata alla II Commissione Giustizia della Camera.

La proposta nasce dalla necessità di sopperire alla graduale chiusura di diversi uffici dei giudici di pace, che comporterà un inevitabile sovraccarico di lavoro per gli uffici limitrofi che resteranno aperti.

Ingiunzioni di pagamento: potere agli avvocati

Il decreto ingiuntivo semplificato si inserisce nel solco di quei provvedimenti per i quali non è necessario il vaglio preventivo dell’autorità giudiziaria, come avvenuto con la Direttiva sul credito ipotecario n. 2014/17/UE, che si è ispirata alla disciplina vigente negli Stati Uniti e nel Regno Unito e che è stata recepita con il decreto legislativo n. 72/2016.

La proposta vuole infatti conferire agli avvocati il potere di emettere ingiunzioni di pagamento per crediti di importo non superiore a 10.000 euro.

Decreto ingiuntivo semplificato nel codice di procedura civile

La novità legislativa proposta comporta l’introduzione degli articoli 656 bis, 656 ter, 656 quater, 656 quinques e 656 sexies  all’interno del nuovo capo I bis del codice di procedura civile dedicato al procedimento di ingiunzione semplificato.

Per quanto compatibili si applicheranno al procedimento anche gli articoli 645, 648, 649, 650, 652, 653 e 654 c.p.c

In base al nuovo articolo 656 bis, l’avvocato munito di mandato professionale, su richiesta del suo assistito, creditore di un importo non superiore a 10.000 euro, potrà emettere un atto di ingiunzione per intimarne il pagamento al debitore nel termine di 40 giorni.

Il provvedimento dovrà contenere anche l’avvertimento al debitore di poter fare opposizione al decreto stesso sempre nel termine di 40 giorni e che, in mancanza di opposizione, il decreto verrà dichiarato esecutivo dal giudice.

In questo modo il creditore potrà procedere all’esecuzione forzata nei confronti del debitore:

  • se il credito risulta da una prova scritta;
  • se il credito riguarda onorari dovuti per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborsi ad avvocati, ufficiali giudiziari, cancellieri o altri soggetti che abbiano fornito la propria opera in occasione di un processo;
  • se il credito fa riferimento a diritti, onorari e rimborsi spettanti a notai o professionisti che esercitino arti o professioni per i quali esistono tariffe legali approvate.

Quando l’avvocato predispone il decreto indica anche le spese e gli onorari a lui dovuti applicando i parametri professionali previsti e intimando al debitore di procedere al pagamento anche di questi importi.

La sussistenza dei requisiti indicati dall’articolo 656 bis è molto importante, l’articolo 656 sexies considera infatti illecito disciplinare l’omissione dolosa o con colpa grave della verifica dei requisiti di legge richiesti per l’emanazione del decreto ingiuntivo semplificato.

Opposizione a decreto ingiuntivo

Il debitore che intende fare opposizione al decreto ingiuntivo deve proporla al giudice competente con atto di citazione notificato presso l’avvocato che ha emesso il decreto.

Nel corso della prima udienza il giudice dovrà verificare che il decreto sia stato emesso in presenza dei requisiti richiesti dall’articolo 656 bis. La loro assenza comporterà la dichiarazione di nullità dell’atto e la condanna del creditore al pagamento delle spese legali maturate fino a quel momento in favore del debitore, oltre al pagamento di una somma alla Cassa delle Ammende di importo pari al doppio del contributo unificato dovuto per la domanda da proporre in via ordinaria.

Esecutorietà del decreto ingiuntivo semplificato

La mancata opposizione al decreto ingiuntivo nel termine di 40 giorni o la mancata costituzione del debitore opponente nel giudizio di opposizione comporta invece la dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo da parte del giudice, se il creditore ne fa istanza e se il decreto presenta tutti i requisiti richiesti dall’articolo 656 bis.

L’istanza del creditore, contenuta in un ricorso, deve indicare i documenti probatori che giustificano il diritto di credito vantato e deve essere depositata insieme al decreto di ingiunzione, ai documenti probatori e a una dichiarazione con cui conferma l’intero credito o uno di importo inferiore, se il debitore gli ha corrisposto delle somme dopo la notifica dell’ingiunzione.

Quando l’ingiunzione diventa esecutiva, l’opposizione non può essere né proposta né proseguita a meno che, ai sensi dell’art. 650 c.p.c, il debitore dimostri non averne avuto tempestiva conoscenza a causa di una notifica irregolare, di un caso fortuito o di una forza maggiore.

Se risulta o è probabile che il debitore non abbia ricevuto l’ingiunzione, il giudice dispone il rinnovo della notifica.

Atto di ingiunzione nullo

Come anticipato, l’atto di ingiunzione è dichiarato nullo con decreto del giudice quando viene emanato in assenza dei requisiti richiesti dall’articolo 656 bis. La nullità non impedisce tuttavia al creditore di proporre la domanda per il recupero del credito in via ordinaria.

Può accadere comunque che dopo l’ingiunzione il debitore corrisponda una parte delle somme indicate del decreto al creditore. In questo caso il giudice ordinerà al creditore di restituirle e lo condannerà al pagamento di una somma alla Cassa delle Ammende, pari al doppio della somma dovuta a titolo di contributo unificato per la proposizione della domanda ordinaria.

 

Allegati

giurista risponde

Legittimità costituzionale art. 649 c.p.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge. – Corte Cost. 16 giugno 2022, n. 149.

La L. 633/1941, in materia di diritto d’autore, disciplina un doppio binario sanzionatorio per le medesime condotte illecite: da un lato, l’art. 171ter contempla un illecito penale; dall’altro, l’art. 174bis prevede un illecito amministrativo. Questo duplice apparato sanzionatorio ha portato a sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. e all’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU. Il giudice remittente non pone in discussione la coesistenza delle due norme sanzionatorie, né la loro concreta applicabilità, ma si limita ad invocare un rimedio idoneo ad evitare lo svolgimento o la prosecuzione di un giudizio penale, allorché l’imputato sia già stato sanzionato in via definitiva per il medesimo fatto con la sanzione amministrativa prevista dall’art. 174bis della L. 633/1941. Tale rimedio viene individuato dal giudice remittente nella pronuncia di proscioglimento o non luogo a procedere, già prevista in via generale dall’art. 649 c.p.p., per il caso in cui l’imputato sia già stato giudicato penalmente, in via definitiva, per il medesimo fatto.

La Corte ha ritenuto la questione fondata. Il diritto al ne bis in idem mira a tutelare l’imputato non solo contro la prospettiva dell’inflizione di una seconda pena, ma ancor prima contro l’eventualità di subire un secondo processo per il medesimo fatto, a prescindere dall’esito di quest’ultimo che potrebbe anche essersi concluso con un’assoluzione. I presupposti per l’operatività del ne bis in idem sono: la sussistenza di un idem factum, identificato nei medesimi fatti materiali sui quali si fondano le due accuse penali, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica; la sussistenza di una previa decisione che riguardi il merito della responsabilità penale dell’imputato e sia divenuta irrevocabile; la sussistenza di un bis, ossia di un secondo procedimento o processo di carattere penale per i medesimi fatti. Inoltre, la costante giurisprudenza europea (Corte EDU, Zolotoukhine c. Russia, 10 febbraio 2009; Corte EDU, A e B c. Norvegia, 15 novembre 2016) afferma non sia decisiva la qualificazione della procedura e della sanzione come “penale” da parte dell’ordinamento nazionale, ma la sua natura sostanzialmente “punitiva” da apprezzarsi sulla base dei criteri Engel. La Corte EDU ha affermato, nella citata pronuncia A e B c. Norvegia, che non necessariamente dà luogo ad una violazione del ne bis in idem l’inizio o la prosecuzione di un secondo procedimento di carattere sostanzialmente punitivo, in relazione a un fatto per il quale una persona sia già stata giudicata, in via definitiva, nell’ambito di un diverso procedimento, anch’esso di carattere sostanzialmente punitivo. Una tale violazione è infatti esclusa qualora tra i due procedimenti vi sia una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”. Al fine di ravvisare la suddetta connessione è necessario verificare: se i diversi procedimenti perseguano scopi complementari; se la duplicità dei procedimenti in conseguenza della stessa condotta sia prevedibile; se i due procedimenti siano condotti in modo tale da evitare la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove; se siano previsti dei meccanismi che consentano nel secondo procedimento di tenere in considerazione la sanzione inflitta nel primo.

Nel caso in esame è indubbia la natura punitiva delle sanzioni amministrative, previste dall’art. 174bis della L. 633/1941, alla luce dei criteri Engel e della stessa giurisprudenza costituzionale. La Corte sostiene che non vi sia alcun dubbio sul fatto che il sistema normativo, previsto dalla L. 633/1941, consenta al destinatario dei suoi precetti di prevedere la possibilità di essere assoggettato a due procedimenti distinti e a due conseguenti classi di sanzioni. Tuttavia, deve escludersi che i due procedimenti perseguano scopi complementari o riguardino diversi aspetti del comportamento illecito. La sanzione amministrativa persegue l’intenzione di potenziare l’efficacia general-preventiva dei divieti già contenuti nella legge. Quanto alle condotte sanzionate, gli artt. 171ter e 174bis della L. 633/1941 puniscono i medesimi fatti, con l’eccezione delle condotte colpose aventi rilevanza solo amministrativa. Il sistema normativo non prevede alcun meccanismo volto ad evitare duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove e ad assicurare una coordinazione temporale fra i procedimenti. Non è previsto, inoltre, alcun meccanismo che consenta al giudice penale di tenere conto della sanzione amministrativa già irrogata per i medesimi fatti. Da tutto ciò discende che il sistema del doppio binario in esame non è congegnato in maniera tale da assicurare una risposta sanzionatoria unitaria agli illeciti in materia di violazioni del diritto d’autore. I due procedimenti seguono percorsi autonomi che non si intersecano né si coordinano, creando così le condizioni per il verificarsi di violazioni sistemiche del diritto al ne bis in idem.

Per questi motivi i giudici costituzionali – rilevata la violazione del ne bis in idem – hanno reputato di potervi porre parzialmente rimedio mediante la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p. Ciononostante, la Corte si è dichiarata consapevole della circostanza che il rimedio adottato non sia in grado di scongiurare le violazioni del ne bis in idem nell’ipotesi in cui sia dapprima divenuta definitiva la sanzione penale ed il cittadino venga sottoposto successivamente a procedimento amministrativo. Di conseguenza, la Consulta ha auspicato una rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio ad opera del legislatore, in modo tale da adeguarli ai principi enunciati dalla giurisprudenza sovranazionale e nazionale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 43/2018; Corte cost. 222/2019; Corte cost. 145/2020
supercondominio convocazione assemblea

Supercondominio e convocazione assemblea La convocazione dell’assemblea e la distinzione tra gestione ordinaria e straordinaria nel supercondominio

Il supercondominio

In genere le norme del condominio sono applicabili anche alle fattispecie di supercondominio previste nell’art. 1117 bis c.c. ma il nuovo art. 67 disp. att. c.c. disciplina in maniera particolare l’assemblea di quel supercondominio che ha più di 60 partecipanti,  che da adesso in poi definiremo “complesso”, con modalità diverse per la convocazione e la partecipazione all’assemblea distinguendole in assemblea ordinaria e straordinaria, e istituendo una nuova figura quella del rappresentante.

E’ opportuno riportare quanto dispone l’art. 67 comma II e III delle disposizioni di attuazione del codice civile “Nei casi di cui all’articolo 1117-bis del codice, quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, del codice, il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore…..”.

La convocazione dell’assemblea del condominio complesso

Quindi, relativamente alla convocazione dell’assemblea del condominio complesso si configurano due diversi tipi di assemblea distinte a seconda della materia da trattare:  ordinaria o straordinaria.

  • Se all’ordine del giorno ci sono solo questioni di gestione ordinaria o la nomina dell’amministratore vanno convocati tutti e soli i rappresentanti dei condomìni.  L’amministratore del supercondominio dovrà inviare la convocazione a ciascun rappresentante. Quest’ultimo comunica tempestivamente all’amministratore del proprio condominio la convocazione con l’ordine del giorno. L’amministratore riferisce in assemblea la quale a sua volta decide sui punti all’odg e conferisce il mandato al rappresentante in ordine alle decisioni da assumere. Una volta conclusa l’assemblea il rappresentante comunicherà quanto deciso trasmettendo copia della delibera assunta all’amministratore del condominio che a sua volta la comunicherà ai  condomini;
  • Se, invece, all’ordine del giorno ci sono solo questioni di natura straordinaria occorrerà convocare tutti i partecipanti al supercondominio, cioè tutti i condomini di tutti i fabbricati che lo compongono.

Posizione del problema

Ora se l’art. 67 in esame ha testualmente disposto che: “quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, del codice, il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore“ e la dizione letteralmente può definirsi chiara con riferimento alla nomina dell’amministratore, non lo è altrettanto quando ci riferiamo alla sua prima parte e cioè alla cd. “gestione ordinaria”.

Solitamente si intende per gestione ordinaria l’approvazione del bilancio preventivo e del rendiconto. Il problema si pone allorchè siano da porre all’ordine del giorno quelli che solitamente definiamo lavori straordinari.

Una piccola riflessione sulla distinzione tra lavori ordinari e quelli straordinari ci aiuterà nel dare (speriamo) la giusta soluzione al problema.

La differenza in questione è rilevante anche in altre sedi come quella del giusto riparto tra gli oneri spettanti all’usufruttuario e quelli spettanti al proprietario; tra quelli spettanti al proprietario e quelli spettanti al conduttore e adesso tra l’assemblea di tutti i condomini e quella dei rappresentanti nel supercondominio.

Il codice all’art. 1136 II comma c.c. prevede che i lavori straordinari di notevole entità debbano essere approvati con la maggioranza dei presenti e almeno 500 millesimi. Nulla dice a proposito di quelli di non notevole entità. Per tale motivo per questi ultimi si ritiene che sia sufficiente la maggioranza dei presenti che rappresenti almeno un terzo dei millesimi. Quindi non solo occorrerà distinguere tra lavori straordinari e non ma all’interno di quelli straordinari anche tra quelli di notevole entità e non.

Al riguardo, ci si rifà all’insegnamento affermato nella sentenza della Cassazione n. 27540 del 10 dicembre 2013, laddove testualmente:  “Nella decisione impugnata la distinzione tra le spese di manutenzione ordinaria e di manutenzione straordinaria risulta correttamente affidata ai profili della normalità e/o prevedibilità dell’intervento e dell’entità materiale della spesa, con il necessario adeguamento della nozione civilistica di riparazioni straordinarie di cui all’articolo 1005 cod. civ. allo statuto del rapporto di locazione, quale consacrato, nella specie, nell’accordo in deroga. Invero per spese straordinarie, facenti carico al locatore, devono intendersi le opere che non si rendono prevedibilmente o normalmente necessarie in dipendenza del godimento normale della cosa nell’ambito dell’ordinaria durata del rapporto locatizio e che presentano un costo sproporzionato rispetto al corrispettivo della locazione; rientrando nella categoria anche le opere di manutenzione di notevole entità, finalizzate non già alla mera conservazione del bene, ma ad evitarne il degrado edilizio e caratterizzate dalla natura particolarmente onerosa dell’intervento manutentivo”.

Manutenzione ordinaria e straordinaria

Per cui si può affermare che la manutenzione ordinaria sia quella “diretta ad eliminare guasti della cosa o che comunque abbia carattere di periodica ricorrenza e di prevedibilità, essendo connotata inoltre da una sostanziale modicità  della spesa” e inquadrando, invece, nell’ambito della manutenzione straordinaria “quelle riparazioni non prevedibili e di costo non modico, ovvero anche quelle “di una certa urgenza e di una certa entità necessarie al fine di conservare o di restituire alla cosa la sua integrità ed efficienza”. 

Delineata così la distinzione tra spese di manutenzione ordinaria e straordinaria essa sembra reggere anche alla luce delle difficoltà presenti nelle norme che regolano il condominio e che normalmente si accompagnano alla loro approvazione, spesso attuata specialmente per le spese di modesta entità direttamente con l’approvazione del rendiconto e/o a ratifica dell’operato dell’amministratore anche quando non rivestono carattere di urgenza e necessità.

 

 

 

 

Licenziamento per esubero personale

Licenziamento per esubero personale Nel licenziamento per esubero del personale, i dipendenti da licenziare devono essere scelti in base ai criteri di buona fede e correttezza. Cenni sul repechage

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il licenziamento per esubero di personale è una delle possibili ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, secondo cui il licenziamento per giustificato motivo può essere determinato anche da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Tale forma di recesso unilaterale dal rapporto di lavoro rientra tra le facoltà dell’imprenditore, che però può esercitarla entro determinati limiti.

I presupposti del licenziamento per esubero personale

Innanzitutto, va evidenziato che il giustificato motivo oggettivo ricorrente in questa ipotesi non è da ricondurre necessariamente a uno stato di crisi dell’impresa, che può anche non sussistere.

I motivi della scelta imprenditoriale, infatti, ben possono ricondursi a esigenze del datore di lavoro riferibili alla riorganizzazione aziendale, alla soppressione di sedi o rami d’azienda o al ridursi della produttività dell’attività.

Esubero personale: la scelta dei dipendenti da licenziare

Uno degli aspetti cruciali in tema di licenziamento per esubero del personale è rappresentato dalla scelta, da parte del datore, del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare.

In caso di omogeneità di mansioni ricoperte da parte di più dipendenti, la scelta dei lavoratori da licenziare deve essere compiuta dal datore di lavoro attenendosi ai criteri di buona fede e correttezza.

Sebbene i contorni di tali criteri risultino spesso sfumati, la giurisprudenza ha chiarito che è possibile fare riferimento ai criteri individuati dalla disciplina in tema di licenziamento collettivo. Quest’ultima prevede che, se l’accordo sindacale non individua altri criteri, la scelta dei dipendenti da licenziare deve essere effettuata tenendo conto dell’anzianità di servizio e dei carichi di famiglia.

In base a tali criteri, quindi, a parità di mansioni, verrà licenziato il dipendente con minore anzianità di servizio e con un minor numero di familiari a carico.

Come ricorda la Corte di Cassazione, del resto, “la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza e buona fede” (Cass. n. 31490/2018 e n. 19732/2018).

Licenziamento per esubero e repechage

Un altro aspetto cruciale della disciplina del licenziamento per esubero del personale è rappresentato dal c.d. repechage, o ripescaggio, e cioè quella particolare soluzione per cui il datore di lavoro è tenuto a mantenere il rapporto di lavoro in essere con il dipendente, se è possibile adibire quest’ultimo ad una diversa posizione lavorativa, pur con differenti mansioni e retribuzione da quelle precedenti.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha evidenziato di recente che il datore, nell’assolvimento dell’obbligo di repechage, deve prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora occupate al momento del licenziamento, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo al recesso. In altre parole, nella ricerca di posizioni nelle quali adibire il lavoratore in esubero, l’azienda deve prendere in considerazione anche quelle attualmente ricoperte da dipendenti che abbiano già dato il preavviso di dimissioni (Cass. sent. n. 12132/2023).

Esubero personale e offerta di part-time

Un’altra interessante pronuncia della Cassazione in tema di licenziamento per esubero del personale ricorda che, in un contesto di riorganizzazione aziendale per esubero del personale, può costituire giustificato motivo oggettivo per il licenziamento il rifiuto da parte del dipendente di accettare la trasformazione del proprio rapporto di lavoro da full-time a part-time.

In generale, infatti, il rifiuto del part-time non costituisce di per sé giustificato motivo per il licenziamento, ma la presenza di ragioni oggettive che giustifichino la richiesta datoriale rende giustificabile anche il licenziamento, in caso di rifiuto della stessa (Cass. ord. n. 12244/2023).

test Invalsi

Invalsi nel cv dello studente: interviene il Garante Il Garante Privacy ha inviato una richiesta di informazioni all'Istituto in merito alla possibile integrazione dei testi nel curriculum digitale degli studenti

Garante Privacy e test Invalsi nel cv dello studente

In base a numerose notizie stampa, i risultati delle prove Invalsi entreranno a far parte del curriculum dello studente allegato al diploma di scuola superiore e contenuto nell’E-Portfolio presente sulla piattaforma ministeriale Unica. Sulla scorta di questi rumors, il Garante Privacy ha deciso di intervenire inviando una richiesta di informazioni all’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi) in merito a tale possibile integrazione nei curricula dei ragazzi.

Vulnerabilità dei dati dei minori

Nella richiesta di informazioni, l’Authority evidenzia innanzitutto come la normativa sulla privacy, in considerazione della loro particolare “vulnerabilità”, assicuri “ai dati personali dei minori una specifica protezione, anche quando i trattamenti riguardano la valutazione del rendimento scolastico”.

Per cui entro 20 giorni, Invalsi dovrà fornire riscontro al Garante, ci sono i presupposti normativi per inserire i risultati dei test delle prove (che peraltro saranno effettuate nei prossimi giorni negli istituti scolastici di tutta Italia) nei curricula degli studenti e quali tipologie di prove, oltre alle finalità e alla logica del trattamento.

Quanto all’eventuale effettuazione di trattamenti automatizzati ai fini di “profilazione e classificazione” degli studenti, l’Autorità ha chiesto, infine, “di conoscere le misure adottate per assicurare la qualità dei dati e l’intervento umano nel processo decisionale”.

dichiarazione sostitutiva atto notorio

Dichiarazione sostitutiva di atto notorio Con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio si comunicano alla PA stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato

Cos’è la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Sono molte le occasioni in cui in cittadino si interfaccia con la Pubblica Amministrazione: ad esempio, per richiedere un’autorizzazione, partecipare a un concorso o presentare un’istanza per ottenere benefici economici.

Sovente, l’ente pubblico ha necessità di ottenere delle informazioni dal cittadino e queste, in un’ottica di semplificazione dell’attività della pubblica amministrazione, possono essere fornite tramite dichiarazione sostitutiva di atto notorio, con cui si comunicano fatti, stati o qualità personali, senza necessità di ricorrere all’attestazione da parte di pubblico ufficiale e ai costi che il suo intervento comporterebbe.

Il contenuto della dichiarazione sostitutiva di atto notorio

I mezzi più frequenti con cui comunicare delle informazioni alla p.a. sono le dichiarazioni in autocertificazione e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

Quest’ultima, in particolare, è prevista e disciplinata dall’art. 47 del D.P.R. 445 del 2000 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa).

Tale articolo, rubricato “dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà”, dispone che l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo.

La norma in esame, al secondo comma, specifica anche che la dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.

In altre parole, con la dichiarazione sostitutiva il cittadino può fornire autonomamente determinate informazioni, senza perciò ricorrere all’intervento di un pubblico ufficiale (ad esempio, un notaio) per ottenere il c.d. atto notorio.

Differenza tra autocertificazione e dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà possono, pertanto, attestarsi tutti quei fatti, stati e qualità personali che non possono attestarsi con l’analogo, ma differente, mezzo della dichiarazione in autocertificazione (cfr. art. 47, comma terzo).

Quest’ultima, infatti, a norma dell’art. 46 del medesimo DPR, è una dichiarazione sostitutiva di certificazione con la quale possono essere comprovati stati, qualità personali e fatti che solitamente vengono certificati dalla pubblica amministrazione, come data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato di famiglia, iscrizione in albi, titolo di studio, qualifica professionale, situazione reddituale etc.

Pertanto, a differenza della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, che prende il posto dell’atto notorio formato e rilasciato dal pubblico ufficiale, l’autocertificazione consente, invece, di evitare la richiesta di rilascio della certificazione da parte dell’ente pubblico.

La sottoscrizione della dichiarazione ex art. 47 DPR 445/2000

Si è detto che la dichiarazione sostituiva di atto notorio prevista dall’art. 47 del DPR 445/2000 dev’essere sottoscritta dal richiedente.

Al riguardo, va precisato che, a norma dell’art. 38, comma 3, “le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”.

Pertanto, se la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non avviene davanti al pubblico dipendente, deve esservi allegata a una fotocopia del documento d’identità in corso di validità. Di regola, quindi non è necessaria l’autenticazione della firma.

Inoltre, il primo comma dell’art. 38 dispone che “tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via telematica”, sempre in ossequio ai principi di semplificazione e rapidità dell’attività pubblica e dei rapporti tra cittadino e p.a.

Sanzioni in tema di autocertificazione e dichiarazioni sostitutive

Infine, va ricordato che con la dichiarazione ex art. 47 il cittadino deve rendere dichiarazioni che corrispondano al vero.

Qualora, invece, a seguito di controlli risulti la mendacità di quanto comunicato alla p.a., è possibile che il cittadino incorra in sanzioni penali, a norma dell’art. 76 del citato decreto, che al primo comma dispone che “chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia”, specificando al comma terzo che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 (…) sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.

riscatto laurea

Riscatto laurea Il riscatto della laurea consente di riscattare gli anni degli studi universitari a fini pensionistici, non tutti però ne beneficiano 

Riscatto laurea: cos’è e a cosa serve

Il riscatto della laurea rappresenta un’opportunità significativa per molti lavoratori che desiderano migliorare la propria situazione previdenziale e quindi la propria pensione.

Questa pratica consente di considerare il periodo degli studi universitari conclusi con il conseguimento dei relativi titoli (diploma universitario, diploma di laurea, diploma di specializzazione, dottorato di ricerca, laurea triennale, specialistica, magistrale, diploma Istituti AFAM)  come tempo contributivo, pagando i contributi volontari all’INPS o all’ente previdenziale competente. In questo modo è possibile raggiungere più rapidamente il requisito contributivo richiesto per andare in pensione con la possibilità, quindi, di accorciare i tempi per andare in pensione.

Il riscatto di laurea però non è una possibilità offerta ai neolaureati, ma si estende a tutti coloro che sono in possesso di un titolo di studio universitario, indipendentemente dall’età o dallo stato occupazionale, presentandosi come un’opzione vantaggiosa sia per i lavoratori dipendenti che per i liberi professionisti.

La normativa vigente prevede diverse modalità di riscatto, inclusa quella agevolata, destinata a specifiche categorie. 

Il processo di valutazione per procedere al riscatto richiede un’attenta analisi dei costi e dei potenziali benefici pensionistici, considerando le variabili quali l’età del richiedente, il reddito e gli anni di studi da riscattare.

Riscatto ordinario e riscatto agevolato

Le tipologie di riscatto a cui è possibile accadere sono due, il riscatto ordinario e quello agevolato.

Il riscatto ordinario del corso della laurea per gli iscritti all’INPS è disciplinato dal decreto legislativo n. 187/1997 e l’onere del riscatto varia a seconda che il periodo da riscattare sia anteriore o precedente al 1996, anno in cui al regime retributivo è succeduto quello contributivo per il calcolo della pensione.

Il riscatto agevolato, istituito con la legge n. 26/2019, riguarda i periodi collocati nel periodo contributivo e offre ai dipendenti pubblici e privati, così come agli autonomi e ai liberi professionisti, la possibilità di riscattare gli anni di studio a condizioni particolarmente vantaggiose.

A chi conviene il riscatto della laurea

Il riscatto della laurea è stato vantaggioso fino al 2021, a partire dal 2022 infatti, il valore di 5.240,00 euro per il riscatto agevolato di un anno di laurea, ha iniziato ad aumentare gradualmente. Al momento per riscattare 5 anni di studio occorre sborsare più di 30.000 euro.

Tutta colpa dell’inflazione degli ultimi anni. In una situazione del genere occorre quindi valutare se il riscatto rappresenta effettivamente un aiuto per andare in pensione in anticipo e fare quindi due conti per verificarne la convenienza economica.

Per chi è vantaggioso

I soggetti per i quali il riscatto agevolato rappresenta un vantaggio sono i lavoratori che hanno iniziato a studiare e a versare i contributi previdenziali a partire dal 1996, soprattutto se lavoratori dipendenti con stipendi piuttosto alti.

Possono beneficiare del riscatto pensionistico anche le donne. Grazie alla pensione anticipata il riscatto rappresenta senza dubbio un aiuto per andare prima in pensione perché aiuta a raggiungere prima i requisiti contributivi.

I lavoratori di età compresa tra i 55 e i 60 anni che sono entrati nel mondo del lavoro molto presto grazie al riscatto della laurea possono andare in pensione con un anticipo superiore ai 5 anni.

Per chi non è vantaggioso

Il riscatto agevolato non conviene invece a chi ha iniziato a versare i contributi prima del 1995. L’esercizio della opzione contributiva irrevocabile con il ricalcolo dell’assegno pensionistico determina una diminuzione importante della pensione. Molto meglio pensare al riscatto tradizionale, senza dubbio più oneroso e collegato all’aumento attesa dell’assegno pensionistico.

Il riscatto non è vantaggioso per chi ha iniziato a lavorare tardi, ossia poco prima o intorno ai 30 anni, perché si rischia di andare in pensione più tardi.

I lavoratori di età compresa tra i 30 e i 50 anni, che hanno iniziato a lavorare all’età di 24 anni e hanno un trattamento pensionistico contributivo, se decideranno di andare in pensione con due anni di anticipo si ritroveranno una pensione ridotta nella misura del 10%.

Maltrattamenti in famiglia: rileva anche il disprezzo La Cassazione ha precisato che nel reato di maltrattamenti in famiglia rientrano anche gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità della vittima, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali

Atti di vessazione del marito nei confronti della moglie

Nella vicenda in esame, la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto il marito responsabile dei reati di cui agli artt. 572 e 609-bis c.p. nei confronti della moglie convivente, condannando l’imputato alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione.

Avverso la suddetta decisione il marito aveva proposto ricorso dinanzi al giudice di legittimità.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18031-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Reato di maltrattamenti in famiglia

Per quanto specificatamente attiene al reato di maltrattamenti in famiglia, addebitato al ricorrente dai Giudici di merito, la Suprema Corte ha evidenziato che la fattispecie in questione “consiste nella condotta di sottoposizione della vittima ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita”.

A tal proposito, la Corte ha altresì precisato che “nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia (..) non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano un vere e proprie sofferenze morali”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha dunque ritenuto che i Giudici di merito avessero correttamente valutato che la convivenza coniugale tra l’imputato e la vittima era stata caratterizzata dalla ripetitività di condotte vessatorie perpetrate dal marito a carico della moglie e che le stesse fossero di natura abusante, umiliante e violenta, con la conseguenza che la condotta posta in essere dall’imputato aveva integrato il reato di maltrattamenti in famiglia.

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