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Equa riparazione: non c’è bisogno dell’avvocato La Cassazione ha ricordato che la domanda di equa riparazione può essere proposta anche dalla parte personalmente e non è più necessario che sia proposta a mezzo di un difensore

L’equa riparazione e la procura speciale

La vicenda giudiziaria che ci occupa prende avvio dalla decisione adottata dalla Corte d’appello di Napoli con la quale veniva confermata l’inammissibilità, per difetto di procura, del ricorso proposto per il riconoscimento dell’indennizzo da eccessiva durata della procedura fallimentare.

Nella specie, la procura era stata considerata carente poiché non era stato specificamente indicato il numero di procedimento nell’abito del quale l’assistito la voleva far valere, ma era stato inserito un generico riferimento al suo utilizzo per la richiesta di equa riparazione.

La Corte d’appello aveva inoltre aggiunto che il difetto di procura non poteva essere sanato con altra depositata in un secondo momento.

Avverso la suddetta decisione il richiedente l’equa riparazione aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La richiesta personale dell’equa riparazione

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11385-2024, ha accolto, per quanto qui rileva, il ricorso proposto.

In particolare, la Suprema Corte, dopo aver ripercorso il quadro normativo relativo alla disciplina sull’equa riparazione ha affermato che “Nel caso di specie è pacifico che il ricorso originario sia stato sottoscritto dal ricorrente. Quindi, indipendentemente dal fatto che se la parte si avvale di un difensore, la procura sottoscritta con autenticazione di firma da parte del difensore (…) non possa non essere speciale, cioè, riferita ad un singolo processo, il ricorso doveva essere ritenuto ammissibile come proposto dalla parte personalmente”.

Inoltre, ha rilevato la Corte, la soluzione prescelta dal Giudice di merito, non tiene conto del principio generale di conservazione degli atti processuali che, in via generale e come costantemente ribadito dalla giurisprudenza, deve sempre trovare applicazione.

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pedopornografia

Pedopornografia: diminuente per i casi meno gravi Per la Corte Costituzionale, con riferimento al reato di pedopornografia, è illegittima la mancata previsione della diminuente per i casi di minore gravità

Pedopornografia e diminuente

Nella produzione di materiale pedopornografico è illegittima la mancata previsione della diminuente per i casi di minore gravità. Lo ha deciso la Corte costituzionale, con la sentenza n. 91-2024, dichiarando l’illegittimità dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., per violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede, per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto, che nei casi di minore gravità la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Nel rammentare la discrezionalità del legislatore nella individuazione delle condotte costitutive di reato e nella determinazione delle relative pene, quale massima espressione di politica criminale, il Collegio ha, al contempo, ribadito l’invalicabile limite della arbitrarietà e manifesta irragionevolezza.

Canone della proporzionalità

I Giudici hanno sottolineato che solo una pena rispettosa del canone della proporzionalità, calibrata sul disvalore del caso concreto, garantisce una effettiva individualizzazione della pena e la sua funzione rieducativa.

Alla luce di tali principi la Corte ha osservato che, “per il reato di produzione di materiale pedopornografico, la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di modulare la pena, onde adeguarla alla concreta gravità della singola condotta, può determinare l’irrogazione di una sanzione non proporzionata, in quanto la formulazione normativa dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., nella sua ampiezza, è idonea a includere, nel proprio ambito applicativo, condotte marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, alcune delle quali anche estranee alla ratio sottesa alla severa normativa in materia di pedopornografia; tanto più in presenza di una cornice edittale del reato caratterizzata – proprio nella giusta considerazione dell’elevato disvalore di tale tipologia di reati e per i pericoli agli stessi correlati – da un minimo di significativa asprezza, pari a sei anni di reclusione”.

Casi di minore gravità

La mancata previsione di una diminuente – analoga a quella prevista per i delitti di violenza sessuale e atti sessuali con minorenne – ha concluso la Corte, “preclude, infatti, al giudice di calibrare la sanzione al caso concreto che può essere riconducibile, pur nel suo innegabile disvalore, a un’ipotesi di minore gravità, individuabile grazie alla prudente valutazione globale del fatto in cui assumono rilievo le modalità esecutive e l’oggetto delle immagini pedopornografiche, il grado di coartazione esercitato sulla vittima (anche in riferimento alla mancanza di particolari tecniche di pressione e manipolazione psicologica o seduzione affettiva), nonché le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, pure in relazione all’età (e alla contenuta differenza con l’età del reo) e al danno, anche psichico, arrecatole”.

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Naspi: da restituire solo in parte se l’attività chiude La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della norma che non limita l'obbligo restitutorio dell'anticipazione della Naspi

Restituzione anticipazione Naspi

“Se la prosecuzione dell’attività imprenditoriale finanziata con l’anticipazione della Naspi diviene impossibile per cause non imputabili al percettore, la restituzione non è integrale ma è proporzionale alla durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo coperto dall’indennità”. Lo ha deciso la Consulta, con la sentenza n. 90-2024, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione della Nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI) nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguire, per causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione gli è stata erogata.

La qlc

Nel caso di specie l’INPS aveva erogato la NASpI in via anticipata quale incentivo all’autoimprenditorialità a un lavoratore che aveva perso il posto di lavoro perché intraprendesse un’attività di esercizio di ristoro (un bar). In seguito, l’Istituto gli aveva richiesto l’integrale restituzione di tale incentivo perché il lavoratore, prima che terminasse il periodo per il quale la NASpI gli era stata accordata, aveva cessato di esercitare l’attività imprenditoriale a causa delle restrizioni per il COVID ed aveva trovato un’occupazione come lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Integrale restituzione viola proporzionalità

La norma dichiarata incostituzionale stabiliva, infatti, che l’aver stipulato un contratto di lavoro subordinato nel periodo coperto dalla NASpI determinava in ogni caso l’obbligo di restituzione dell’intera somma anticipata. Ma – secondo la Corte costituzionale – “la previsione della integrale restituzione viola il principio di proporzionalità e ragionevolezza, nonché il diritto al lavoro, di cui agli articoli 3 e 4 della Costituzione, allorché l’attività imprenditoriale non sia proseguita per «impossibilità sopravvenuta o insuperabile oggettiva difficoltà», come nel caso delle restrizioni per il COVID”.

I giudici delle leggi hanno osservato in sentenza che “in tale evenienza – ossia nel caso in cui l’attività imprenditoriale sia stata effettivamente iniziata e proseguita per un apprezzabile periodo di tempo, grazie all’utilizzo dell’incentivo all’autoimprenditorialità – la finalità antielusiva, cui la disposizione mira, risulta soddisfatta. Rileva quindi che il percettore dell’anticipazione si sia trovato nella situazione di non poter proseguire l’attività imprenditoriale per causa a lui non imputabile e quindi senza colpa”.

In tale evenienza, ha concluso la Corte, “va riproporzionato l’obbligo restitutorio in misura corrispondente alla durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo coperto dall’indennità NASpI, in quanto solo con riferimento a tale periodo la NASpI risulta priva di causa e quindi indebita”.

Inoltre la Consulta, confermando una sua precedente decisione (n. 194 del 2021) sulla stessa norma, ha anche ribadito che, invece, “non rileva il rischio d’impresa che grava sul lavoratore il quale preferisca l’anticipazione dell’intera NASpI spettante all’erogazione periodica. L’eventuale mancato successo dell’iniziativa imprenditoriale non esonera dalla restituzione integrale dell’anticipazione nel caso di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato nel periodo al quale si riferisce la NASpI”.

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giurista risponde

Legittimità costituzionale art. 167 c.p.m.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 167 c.p.m.p. nonostante non preveda attenuazioni della pena per i fatti di sabotaggio di lieve entità?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

L’art. 167, comma 1, cod. pen. mil. pace deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità. – Corte cost. 2 dicembre 2022, n. 244

La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., q.l.c. dell’art. 167 c.p.m.p., censurandolo nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità, attenuazioni della pena per fatti di lieve entità. Si ritiene violato il principio di uguaglianza nella misura in cui il menzionato art. 167 punisce le medesime condotte previste dall’art. 253 c.p. con l’unica differenza relativa al soggetto attivo (nel primo caso, il militare; nel secondo, chiunque); tuttavia, al delitto previsto dall’art. 253 c.p. sarebbe applicabile l’attenuante di cui all’art. 311 c.p., mentre analoga circostanza non è contemplata dal codice penale militare di pace, lacuna non superabile in via interpretativa. In secondo luogo, si paventa la violazione del principio di proporzionalità in quanto il citato art. 167 prevede una sanzione fissa e inderogabile, improntata nel minimo edittale ad asprezza eccezionale, senza possibilità di mitigare, in funzione del concreto disvalore del fatto, il severo trattamento sanzionatorio contemplato. Di conseguenza, l’impossibilità di individualizzare quest’ultimo risulta in contrasto con l’art. 27, comma  3, Cost., secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 5 dicembre 2018, n. 222).

La Corte costituzionale muove dalla ricognizione delle numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., di previsioni dalle quali discendeva per il militare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello riservato al comune cittadino (es. la mancata previsione del rilievo scusante, anche nell’ordinamento militare, dell’ignoranza inevitabile della legge penale: Corte cost. 24 febbraio 1995, n. 61).

Da tale giurisprudenza può evincersi che, in linea di principio, una differenza di trattamento sanzionatorio tra reati militari e corrispondenti reati comuni è irragionevole a fronte della sostanziale identità della condotta punita, dell’elemento soggettivo e del bene giuridico tutelato.

Differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e i corrispondenti reati militari non si pongono, invece, in contrasto con il principio di uguaglianza laddove siano giustificabili in ragione della oggettiva diversità degli interessi tutelati dalle disposizioni che vengono a raffronto, o del particolare rapporto che lega il soggetto agente al bene tutelato, come nell’ipotesi delle norme incriminatrici che puniscono fatti commessi da militari nei confronti di altri militari, allo scopo di salvaguardare la coesione interna alle Forze armate e le delicate funzioni attribuite.

La Corte costituzionale, dunque, disattende le osservazioni del giudice rimettente in merito alla pedissequa sovrapponibilità degli artt. 253 c.p. e 167 c.p.m.p., in quanto ogni appartenente alle Forze armate, a differenza del comune cittadino, è responsabile dell’installazione militare e della sua custodia ai sensi dell’art. 723, D.P.R. 90/2010 ed è, dunque, gravato da precisi doveri di diritto pubblico.

Tuttavia, la mancata previsione di una causa di attenuazione del trattamento sanzionatorio per i fatti di lieve entità ricompresi nel perimetro applicativo dell’art. 167 c.p.m.p. viola il principio di proporzionalità della pena. Sono ipotizzabili, infatti, sabotaggi di lieve entità consistenti, a titolo esemplificativo, nel rendere meramente inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, le cose elencate nell’art. 167 c.p.m.p., come nel caso del rifornimento con carburante non idoneo.

L’assenza, in tale ultimo codice, di una circostanza attenuante equiparabile all’art. 311 c.p. comporta che il tribunale militare sia vincolato ad applicare la pena della reclusione non inferiore a otto anni anche rispetto a condotte del militare che non provochino alcun disservizio significativo.

La soluzione non può consistere nell’estensione, al delitto di cui all’art. 167 c.p.m.p., della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 c.p., poiché quest’ultimo non costituisce idoneo tertium comparationis. Appare, invece, più corretto richiamare l’art. 171, n. 2), c.p.m.p. laddove prevede che la pena sia diminuita (nella misura sino a un terzo ex art. 51, n. 4, c.p.m.p.) “se, per la particolare tenuità del danno, il fatto risulta di lieve entità”; la disposizione dev’essere estesa al solo frammento dell’art. 167 c.p.m.p. concernente le condotte di sabotaggio temporaneo, consistenti nel rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, le cose elencate dallo stesso art. 167.

Ne discende la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 167 c.p.m.p. “nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 8 luglio 2021, n. 143; Corte cost. 17 luglio 2017, n. 205;
Corte cost. 18 aprile 2014, nn. 105 e 106; Corte cost. 15 novembre 2012, n. 251;
Corte cost. 23 marzo 2012, n. 68
quattordicesima

Quattordicesima Quattordicesima mensilità in arrivo a luglio 2024 per lavoratori e pensionati: cos’è, che funzione svolge, chi ne ha diritto e come si calcola

Quattordicesima: cos’è

La quattordicesima mensilità rappresenta un elemento fondamentale nel panorama retributivo italiano, costituendo una forma di remunerazione aggiuntiva prevista per i lavoratori e i pensionati.

Questa mensilità extra, comunemente nota come “quattordicesima”, viene erogata in aggiunta alle dodici mensilità ordinarie e alla tredicesima, offrendo così un sostegno economico ulteriore.

Il diritto alla quattordicesima emerge da disposizioni contrattuali stabiliti nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) e varia a seconda delle categorie di appartenenza dei lavoratori o dei criteri definiti per i pensionati.

Comprendere la finalità di questa misura, chi ne ha diritto, come viene calcolata e le tempistiche di erogazione è essenziale per lavoratori e pensionati che desiderano gestire al meglio le proprie risorse finanziarie.

Funzione della quattordicesima

Come anticipato, la quattordicesima rappresenta un sostegno ulteriore per lavoratori e pensionati. La funzione di questa misura infatti è duplice: da un lato, incrementare il potere d’acquisto degli individui; dall’altro, contribuire a stimolare la domanda interna attraverso l’incremento della liquidità disponibile per le famiglie. Il suo scopo è quindi di supportare i lavoratori e i pensionati nel sostenere spese extra, legate soprattutto al periodo estivo e a quello natalizio.

Chi ne ha diritto

Hanno diritto alla quattordicesima mensilità i lavoratori a tempo indeterminato, a tempo determinato e i pensionati che soddisfano determinati requisiti, anche di natura reddituale.

I lavoratori hanno diritto alla quattordicesima solo se la misura è prevista dal contratto collettivo di appartenenza. I lavoratori che beneficiano di questa retribuzione aggiuntiva e differita sono i lavoratori del commercio, del settore terziario, del turismo, dei pubblici esercizi, dell’autotrasporto e della logistica. Da questo trattamento sono invece escluse alcune categorie, come i dipendenti pubblici e i metalmeccanici.

I pensionati che hanno diritto alla quattordicesima devono avere compiuto 64 anni di età e devono essere titolari di un determinato reddito, di uno o più trattamenti pensionistici a carico dell’AGO (Assicurazione generale Obbligatoria) e delle forme sostitutive, siano esse esclusive che esonerative e gestire da enti pubblici che gestiscono la previdenza obbligatoria.

I riferimenti normativi per comprendere chi ha diritto alla quattordicesima mensilità di pensione sono:

  • l’articolo 5 (commi 1, 2, 3, 4) del decreto legge n. 81/2007, convertito nella legge n. 127/2007;
  • la legge 232/2016 che ha esteso la quattordicesima ad altri soggetti e che ha precisato anche il requisito reddituale richiesto.

Come si calcola la quattordicesima

Il calcolo della quattordicesima mensilità segue criteri definiti e differenziati per lavoratori e pensionati.

Per i lavoratori dipendenti il calcolo della quattordicesima valgono le regole stabilite nel singolo contratto collettivo del settore di appartenenza. La base di calcolo solitamente comprende tutti gli elementi fissi e continuativi della retribuzione, escludendo quindi bonus una tantum o premi di risultato. L’importo non viene erogato mese per mese, ma matura mese per mese durante il periodo in cui ovviamente il lavoratore è in forza. La maturazione in genere decorre da luglio e termina nel mese di giungo dell’anno successivo.

Nel caso dei pensionati, invece, la quattordicesima viene erogata secondo criteri stabiliti dall’INPS e varia in base alla fascia di reddito complessiva del beneficiario. Nel conteggio infatti si tiene conto del reddito, ma anche degli anni di contribuzione. L’importo inoltre varia a seconda che il soggetto sia stato un lavoratore dipendente o un lavoratore autonomo.

I tempi di erogazione

Le tempistiche di erogazione della quattordicesima mensilità differiscono tra lavoratori e pensionati, riflettendo varie normative e accordi contrattuali.

Per i lavoratori la quattordicesima è tipicamente erogata in estate, solitamente nei mesi di giungo – luglio, in base a quanto stabilito dai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL). Questa prassi può variare leggermente in base agli specifici settori o aziende, ma la tendenza generale rimane quella di una erogazione estiva, in coincidenza con le esigenze vacanziere dei lavoratori.
Per i pensionati, invece, l’erogazione della quattordicesima avviene secondo le disposizioni dell’INPS e generalmente viene pagata nel mese di luglio o di dicembre.

È importante precisare comunque che non tutti hanno diritto alla quattordicesima: l’effettiva erogazione dipende dalle condizioni stabilite dal CCNL di riferimento o da specifiche disposizioni legislative per i pensionati.

E’ fondamentale inoltre chiarire che, in caso di spettanza della misura, vi possono essere delle eccezioni o condizioni particolari che influenzano l’erogazione della quattordicesima sia per i lavoratori che per i pensionati, inclusi eventuali aggiornamenti legislativi o modifiche contrattuali. Pertanto, si consiglia sempre di verificare le specifiche applicabili al proprio caso presso l’ente erogatore o il datore di lavoro.

 

condominio codice civile

Il condominio nel codice civile L’istituto condominiale secondo il codice civile: la personalità giuridica, le norme, la creazione e le caratteristiche di un condominio

L’istituto condominiale

Si ha condominio quando in un edificio coesistono proprietà esclusi-ve e parti comuni indivise, le une legate alle altre da un intimo nesso di reciproca complementarietà e funzionalità. Infatti, nel condominio, accanto ai piani o porzioni di piano di proprietà singola od esclusiva, coesiste anche uno status communionis su alcune parti dell’edificio che non sono altrimenti, per propria natura o per la funzione strumentale cui sono destinate, divisibili o attribuibili in proprietà esclusiva ai comunisti; si tratta di parti delle quali l’articolo 1117 c.c. fornisce un’ampia elencazione.

Tale indirizzo necessita di alcune precisazioni ed è tuttora valido an-che alla luce della recente riforma introdotta con L. 220/2012, che, come prima, si limita ad indicare i beni di proprietà comune (vedi testo articolo 1177 c.c., in Appendice normativa).

Esso trova conferma anche quando la Suprema Corte si è così espressa: «Il condominio negli edifici viene ad esistenza per la sola circostanza che la proprietà di piani o di porzioni di piano di un medesimo edificio appartenga a più titolari in proprietà esclusiva, a prescindere dalla circostanza che non vi siano locali comuni e che esistano distinti ingressi»  . Infatti, nel condominio vi saranno pur sempre i beni in comune, quali le fondamenta, i muri circostanti l’edificio ecc. definiti necessari perché sen-za di essi l’edificio non verrebbe nemmeno ad esistenza.

Le disposizioni riguardanti il condominio contenute nel codice civile (articoli 1117-1139) disciplinano l’istituto nella sola ipotesi in cui si è già in presenza di un edificio, nel senso che non si occupano affatto di tutte quelle altre ipotesi in cui, ad esempio:

a) due comproprietari di un terreno stipulano un contratto per la costruzione di un edi-ficio, ovvero;

b) quando uno solo di essi stipuli un contratto con i singoli acquirenti in cui si impegna a costruire e a vendere i singoli appartamenti realizzati.

La singolarità dell’istituto del condominio si evince dalla lettura dell’articolo 1117 c.c., da cui si ricava che il singolo condòmino, oltre ad essere proprietario esclusivo del suo appartamento, è anche comproprietario delle parti comuni. In altri termini, coesistono un regime di proprietà individuale dei piani o delle porzioni di piano (appartamenti) e un regime di proprietà collettiva sulle parti comuni (limitata, quest’ultima, dal concorso degli altri soggetti che ne sono titolari).

Tali peculiarità dell’istituto del condominio comportano che lo stesso, pur essendo re-golato dalle norme sulla comunione ordinaria, è disciplinato anche da norme apposite che integrano o derogano le prime.

Nel rapporto di accessorietà necessaria dei beni in comune rispetto a quelli in proprietà singola (gli appartamenti) vanno, poi, individuati i beni in comune, definiti:

a) necessari all’esistenza stessa del condominio, quali, ad esempio, le fondamenta, i muri circostanti l’edificio, il tetto ecc.;

b) eventuali, che come tali possono anche mancare, quali, ad esempio, i locali per la portineria, la casa del portiere, lo stenditoio, la sala riunioni ecc.;

c) accessori, quali l’ascensore, i pozzi, le cisterne, le fogne, le condutture ecc.

Parte della dottrina (Terzago), inoltre, identifica nel condominio una comunione sui generis, laddove l’elemento differenziatore sarebbe da ritrovare nel carattere di indivisibilità e di irrinunciabilità che hanno i beni in condominio. Tale indirizzo ha il merito di porre in risalto la disposizione di cui all’articolo 1139 c.c. nella quale testualmente: «Per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme sulla comunione in generale».

È vero, quindi, che il condominio è una particolare figura della comunione, ma la sua peculiarità è data dal rilievo che lo stesso codice ha voluto dare al legame tra beni in proprietà singola e beni comuni.

Così intendendo la specifica natura del condominio, è possibile capire anche l’evoluzione normativa che ha portato alla recente riforma (L. 220/2012), la quale ha esteso l’ambito di applicazione delle norme sul condominio.

Mentre, infatti, la disciplina codicistica, nella sua originaria formulazione, è essenzial-mente indirizzata al fenomeno del condominio inteso in senso verticale, relativo, cioè, ad un unico edificio diviso per piani, la nuova disciplina del condominio introdotta dalla L. 220/2012 si applica anche a tutti quei casi in cui più unità immobiliari o più edifici o addirittura più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti in comune ai sensi dell’articolo 1117 c.c.

La nuova disciplina, quindi si applica anche ai cd. condomini complessi o supercondomi-ni e ai cd. condomini orizzontali, strutture nate a seguito del continuo evolversi delle tecniche di progettazione e di esecuzione degli edifici e per l’esigenza di un più razio-nale sfruttamento dei suoli edificabili.

Si tratta di realtà che nel corso del tempo hanno dato vita ad una vasta produzione giu-risprudenziale, dato che i giudici si sono dovuti occupare dei problemi creati dalla na-scita di quei complessi edilizi sempre più articolati, distinti in diversi corpi di fabbrica, dotati di autonomia strutturale, ma caratterizzati dalla presenza di una serie di opere e servizi comuni a tutto il complesso edilizio.

Ora, invece, una risposta definitiva su quale sia la normativa applicabile (se quella della comunione o quella sul condominio) è data dal nuovo articolo 1117bis, a norma del quale le disposizioni di cui agli articoli 1117-1139 c.c. si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui «più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117».

Come si evince dal testo, è stata rivalutata l’importanza dell’esistenza dei beni in comune, che diventa l’elemento discretivo per stabilire quando si è in presenza di un «condominio» o meno, a prescindere dalla tecnica costruttiva usata. L’istituto condominiale, quindi, è da individuarsi per il nesso indissolubile tra i beni singoli e la necessaria presenza dei beni in comune.

La personalità giuridica del condominio

Il riconoscimento della personalità giuridica del condominio è rimasto un problema irrisolto.

Anche la recente riforma (L. 220/2012), infatti, nulla dispone in ordine al riconoscimento, in capo al condominio, della soggettività giuridica, nonostante una simile previsione — presente in diversi ordinamenti europei — fosse stata invocata da alcune delle più importanti associazioni che si occupano di gestioni immobiliari.

I fautori di questa tesi hanno evidenziato che nella nuova normativa sussistono diverse disposizioni che vanno in questa direzione come, ad esempio, il nuovo articolo 1117-ter laddove: «Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l’assemblea, con un nu-mero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio ed i quattro quinti del valore dell’edificio, può modificare la destinazione d’uso delle parti comuni».

Altri, ancora, fanno riferimento all’ipotesi in cui il condominio è un soggetto produttore di energia fotovoltaica, dove si rinviene l’esercizio di una vera e propria attività com-merciale con connessi adempimenti ai fini IVA ecc. Sul punto si è espressa l’Agenzia delle entrate con la risoluzione del 10 agosto 2012, n. 84/E che, ad un interpello pro-posto dal Gestore dei servizi energetici, ha risposto: «La sussistenza di un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi alla formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare allo scopo di conseguire risultati patrimoniali comuni, iden-tifica un contratto sociale. … Pertanto, sulla base di quanto sopra detto il suddetto ac-cordo individua una società di fatto tra i condòmini. … Restano esclusi dalla società di fatto i condòmini che non hanno approvato la decisione e che non intendono trarre vantaggio dall’investimento».

Tali normative non sono però sufficienti da sole a determinare l’insorgere della sogget-tività giuridica in capo al condominio: la prima perché trova il suo elemento giustifica-tore nella maggioranza qualificata prevista per le modificazioni sostanziali; la seconda perché si è fuori dal mero scopo di godimento proprio del condominio e si è di fronte allo sfruttamento dei beni in comune con uno scopo di lucro proprio delle società.

Per cui, anche se auspichiamo al più presto il riconoscimento, oggi, alla luce della nuova normativa, dobbiamo concludere con l’affermare che non si possa affatto parlare di soggettività giuridica del condominio.

Le norme in materia di condominio

Al condominio negli edifici si applicano gli articoli da 1117 a 1139 c.c., nonché una serie di disposizioni in materia di comunione per il rinvio espresso operato da quest’ultima norma.

In virtù di tale rinvio è innanzitutto applicabile la disposizione di cui al primo comma dell’articolo 1102 c.c., in forza della quale ciascun partecipante può servirsi del bene comune anche per un suo fine particolare (ad esempio, per l’apposizione di targhe sul portone d’ingresso)  , purché non sia alterata la destinazione dello stesso bene e non sia leso il pari diritto spettante agli altri condòmini (continuando nell’esempio riportato, una siffatta lesione potrebbe essere determinata dall’apposizione di targhe di vaste dimensioni, tali da inficiare il decoro del portone d’ingresso, ovvero impedire agli altri condòmini di apporre a loro volta altre targhe).

Si applicano, altresì, al condominio gli articoli 61-72 delle Disposizioni di attuazione del codice civile e le norme sul mandato (articoli 1703-1730 c.c.).

La creazione e le caratteristiche di un condominio

La creazione di un condominio può formare oggetto di un contratto su cosa futura. È frequente, infatti, la vendita di appartamenti ancora da costruire: viene così a realizzar-si un condominio «in fieri».

In concreto, i modi con cui si costituisce un condominio sono diversi:

a) il caso più ricorrente è quello in cui l’unico proprietario di un immobile trasferisce, con atto compravendita, il diritto di proprietà su una o più unità dello stesso edificio;

b) nel caso di edifici costruiti da cooperative, il condominio sorge solo dopo la stipula dei contratti di mutuo e l’assegnazione degli appartamenti.

La nascita di un condominio si ha anche quando viene a sciogliersi una comunione preesistente oppure è ricostruito uno stabile perito per almeno tre quarti del suo valo-re, oppure quando i partecipanti alla comunione della proprietà di un terreno delibera-no di costruire su di esso un edificio, le cui singole unità immobiliari siano servite da cose ed impianti indivisi, ma sempre quando viene ad esistenza l’edificio. Anche le sen-tenze che hanno qualificato il condominio come organo concordavano sul fatto che il condominio, quale ente di gestione capace di assumere validamente obblighi giuridici e la titolarità di diritti, sorge già con la redazione di scritture private di trasferimento che importino il frazionamento della proprietà esclusiva ed il trapasso dei singoli appartamenti.

Ancora, si è affermato che la costruzione di un edificio del quale siano proprietari più soggetti, ancorché non sia intervenuto il rilascio del certificato di abitabilità, è sufficiente per l’esistenza del condominio, con la conseguente applicabilità delle norme ad esso relative.

L’articolo 68 disp. att. c.c., anche a seguito della recente riforma (L. 220/2012), con-ferma che qualora non precisato dal titolo (l’atto costitutivo del condominio, regola-mento di condominio del costruttore ecc.) ai singoli partecipanti al condominio è attribuita una quota millesimale di proprietà sui beni in comune, data dal rapporto tra il va-lore della proprietà acquistata e quello dell’intero edificio.

La quota millesimale, oltre a vincolare gli uni con gli altri tutti i partecipanti alla proprietà, costituisce la misura del diritto di voto in assemblea e degli obblighi, intesi come partecipazione alle spese, che la cosa comune comporta.

Non si deve assolutamente confondere il diritto di comproprietà con il diritto di uso del bene comune che è, invece, riferito all’intero bene ed è assoggettato al principio dell’uso paritario, nel senso che ognuno può usare del bene comune purché permetta agli altri di fare altrettanto.

Il condominio minimo

Per condominio minimo (o piccolo condominio) si intende quella collettività condomi-niale composta da due soli partecipanti. In questo caso si discuteva, in dottrina e giuri-sprudenza, circa la normativa da applicare. Era controverso, in altri termini, se al con-dominio minimo si applicavano le norme del condominio o quelle della comunione.

La recente riforma del condominio (L. 220/2012) ha risolto la questione prevedendo, all’articolo 1117bis, introdotto ex novo, che le norme in materia di condominio si ap-plicano in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117. Non vi è dubbio, quindi, che anche alla fattispecie del condominio minimo sono applicabili le norme in materia di condominio.

Anche la questione relativa alla disciplina applicabile al condominio minimo è stata og-getto di diversi arresti giurisprudenziali, che è opportuno accennare.

La Cassazione, infatti, dopo aver affermato l’esistenza del condominio anche nel caso di condominio minimo, successivamente ebbe a mutare il suo indirizzo ritenendo che in presenza di due soli condòmini non fosse possibile costituire l’assemblea.

In tempi più recenti, invece, la Cassazione ha nuovamente mutato il suo indirizzo, rite-nendo che nel caso in cui i proprietari dell’edificio fossero soltanto due, si applicassero le norme del condominio eccezion fatta per le norme relative al funzionamento dell’assemblea, disciplinata, invece, dagli articoli 1104 s.s. c.c.  .

Da ultimo, infine, La Cassazione a Sezione Unite ha confermato l’applicazione al con-dominio minimo delle norme sul condominio, incluso l’articolo 1136 c.c. in tema di as-semblea, con la conseguenza che in caso di mancato raggiungimento dell’unanimità, sarebbe stato necessario ricorrere al giudice a norma degli articoli 1105 e 1139 c.c.

Il condominio parziale

La riforma non ha toccato l’istituto del «condominio parziale». Esso si ha quando i beni comuni sono destinati all’utilizzazione di solo una parte dei condomini. In questo caso è necessario stabilire se i beni siano comuni anche ai condómini che di fatto non li utiliz-zano oppure siano comuni soltanto ai condómini che li utilizza-no. Da qui la definizione di «condominio parziale»; la parzialità risiede, in altri termini, nel fatto che solo ad una parte dei con-domini spetterebbe la comproprietà di tali beni.

Il tema è stato molte volte analizzato più con riguardo a specifici casi che in relazione a principi generali come conferma il seguente ri-lievo giurisprudenziale   secondo cui «Il condominio parziale raffigura una categoria radicata nell’esperienza e riconosciuta dalla giurisprudenza la quale, piuttosto che della definizione del principio, si occupa della definizione dei casi di specie».

Tale fattispecie di condominio parziale viene ammessa sulla base della constatazione che: «Indipendentemente dal titolo, nell’ambito della più vasta contitolarità, si ammette la costituzione per legge dei cosiddetti condomini parziali sul fondamento del collegamento strumentale tra i beni: vale a dire, sulla base della necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero della destinazione all’uso o al servizio di determinate cose, servizi ed impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari», ed esplicitamente: «Per la verità, l’asserto che la proprietà comune appartenga necessariamente a tutti i partecipanti e non si frazioni, neppure in casi eccezionali, se non in virtù del titolo, non è più condiviso e, in effetti, non regge alla critica, fondata sulla ricognizione non aprioristica dei dati positivi».

Se questa è la tesi di ammissibilità del condominio parziale non mancano posizioni nettamente contrarie sostenute da notevoli argomenti.

In primo luogo, si deve constatare che la legge si riferisce esplicita-mente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto.

Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio. Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui tali beni sono comuni anche se solo alcuni condomini li utilizzano.

In realtà, è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressa-mente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del di-ritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servi-zi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal col-legamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano». La Cassazione   determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le co-se, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’articolo 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà, se si legge il comma in questione  , non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui questa norma non disciplina affatto la parzialità della titolarità: ben potrebbe intendersi, la norma in commento, nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta, comunque, in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di cui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde all’interrogativo sottolineando come il terzo comma dell’articolo 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddivido-no tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente»; tanto è vero che: «Posto che l’articolo 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’articolo 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’articolo 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: «In realtà, l’articolo 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della pre-visione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con al-cune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede, la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito di-vieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

A questo punto, però, non si può fare a meno di richiamare un’ulteriore argomento, su cui si basa la tesi negatrice della possibilità di un condominio parziale, individuato nell’articolo 61 disp. att. c.c., il cui primo comma recita: «Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato».

Questa norma è utilizzata per negare la possibilità di un condominio parziale in base ad un articolato ragionamento che si propone di seguito.

Il comma primo dell’articolo 61 disp.att. c.c., si sostiene, disciplina l’ipotesi di scioglimento di un condominio quando questo sia costituito da parti, ciascuna delle quali abbia le «caratteristiche di edificio autonomo»; allora, se il condominio separato fosse una fattispecie normalmente realizzabile (sulla base del criterio di utilizzabilità dei beni comuni ad alcuni soltanto dei condomini), tale norma non sarebbe necessaria perché se è lecito il condominio parziale deve essere, a maggior ragione, lecito dividere un condominio in due se le due parti sono, in sostanza, edifici autonomi. Il comma primo dell’articolo 61 disp. att. c.c. sarebbe, in altri termini, superfluo e inutile.

Tale norma è, invece, utile proprio perché il legislatore non aveva previsto il condominio parziale e perciò lo dichiara espressa-mente realizzabile nei casi in cui le diverse parti abbiano «caratteristiche di edificio autonomo».

Fin qui la tesi negatrice del condominio separato che utilizza la previsione del comma primo dell’articolo 61 disp. att. c.c. con l’intento di dare significato alla sua previsione, ma tale argo-mento risulta in realtà non ben congegnato e, probabilmente, non del tutto pertinente al tema in oggetto.

Il richiamo all’articolo 61 disp. att. c.c. in merito a fattispecie di condominio parziale è inopportuno per una serie di rilevi.

In primo luogo, se si legge anche il comma secondo dell’articolo 61 dis. att. c.c.  , si comprende il meccanismo di funzionamento di tale previsione: lo scioglimento del condominio (propedeutico alla formazione dei diversi condomini limitati ciascuno ad una parte dell’originario edificio) deve essere deliberato dalla maggioranza degli intervenuti all’assemblea (dell’originario unico edificio) che rappresenti al contempo almeno la metà del valore dell’edificio ex articolo 1136 comma secondo c.c. Se tale maggioranza non c’è, la norma prevede la decisione dell’autorità giudiziaria in base a domanda di un terzo dei comproprietari della parte di edificio che si vuole distaccare dal resto. Come si vede, tale fattispecie riposa sulla volontà dei condomini e, certamente, non si riferisce a tutti i condomini ma ad una parte (benché considerevole) degli stessi. La nascita dei diversi condomíni ex articolo 61 disp. att. c.c. presuppone, allora, la volontà (di una parte) dei condómini.

Il condominio parziale, invece, trova la sua giustificazione in uno stato di fatto oggettivo (criterio di utilizzazione e di utilizzabilità dei beni a favore soltanto di alcuni condomini) non influenzabile dalla volontà dei condomini: nessun condòmino, ad esempio, potrebbe adire l’autorità giudiziaria per affermare che un bene non collegato (per utilizzazione o utilizzabilità) al proprio appartamento ricada anche nella sua proprietà condominiale. Nel condominio parziale, infatti, i beni sono in condominio ai proprietari degli appartamenti che li utilizzano e tale stato di fatto non può essere modificato dalla volontà dei condomini; il collegamento è in re ipsa e, come detto, nasce automaticamente per cui non c’è neanche bisogno della manifestazione di volontà delle parti né, tanto meno, di una pronuncia giudiziaria.

Differenti risultano quindi le ipotesi del condominio parziale e quella ex articolo 61 disp.att. c.c. in base all’analisi genetica e strutturale delle due fattispecie ma vi sono altre considerazioni in proposito. È certo che l’ipotesi del condominio parziale riposa, da un lato, nella necessità oggettiva della sua esistenza (indipendenza dalla volontà dei condomini e sussistenza sulla base di un oggettivo e verificabile collegamento che sorge tra un bene e gli appartamenti al cui migliore godimento quel bene è destinato) e dall’altro sul fatto che il condominio resta unico ed al suo interno alcuni beni sono in comune soltanto ad alcuni condomini.

In base a questa seconda caratteristica si può affermare, insieme alla Cassazione, che: «Ammesso dunque che, nell’ambito di un edificio diviso in piani o porzioni di piano, possono sussistere proprietà comuni di cose, di impianti e di servizi limitate soltanto ad alcuni condomini, conviene ricordare che il condominio parziale postula che il condominio originario non si frantumi in nuovi, distinti condomìni».

Questa premessa porta alla conseguente riflessione: «La figura del condominio parziale, invero, si distingue rispetto alla ipotesi della separazione dei condomini disciplinata dagli articoli 61 e 62 disp.att. c.c. almeno per due ragioni:

  • per i presupposti di fatto, posto che il condominio parziale sussiste anche quando non è possibile procedere alla separazione, perché la parte dell’edificio — in cui sono situate le cose, gli impianti ed i servizi comuni collegati soltanto con alcune delle unità immobiliari — non presenta le caratteristiche di parte o di edificio autonomo (è il caso delle scale e dell’ascensore, che non servono i locali con accesso soltanto dalla strada);
  • per il fatto costitutivo: il condominio parziale insorge «ope legis» ogni qual volta sussistono i presupposti, configurati dalla relazione di accessorio a principale, in concreto tra le singole unità immobiliari e determinate cose, impianti e servizi di uso comune, e non v’è necessità del procedimento di separazione che si svolge in assemblea o davanti all’autorità giudiziaria»  .

Come si vede, i precedenti argomenti, sulla base della rilevata differenza tra il condominio parziale ed il condominio separato ex articolo 61 disp. att. c.c., ci fanno concludere che quest’ultima ipotesi non implica affatto il disconoscimento della prima poiché esse sono estremamente differenti tra loro.

Quanto detto conferma la possibilità di un condominio parziale che esiste solo per alcuni beni e soltanto tra i condomini che tali beni utilizzano; tale condominio parziale non elimina affatto il condominio complessivo il quale continua a sussistere, tranne che per la gestione di quei determinati beni la cui titolarità resta a favore solo di alcuni condomini i quali conseguentemente saranno gli unici a sopportare le relative spese. Proprio per questo motivo il condòmino che in sede di riparto delle spese fatte dall’amministratore ritenga che esse non lo riguardino, potrà chiedere al giudice, con una azione di accertamento ex articolo 1123 c.c., che venga dichiarata la mancanza dell’obbligo al pagamento.

È proprio la disposizione di cui all’art. 1123, ultimo comma, c.c. che, nel prevedere beni destinati a servire una parte dell’edificio, riguarda proprio la fattispecie del condominio parziale. La disposizione in esame statuisce che le spese relative alla loro manutenzione sono ripartite solo fra i condomini che ne traggono utilità, i quali non possono che identificarsi con i condomini facenti parte del condominio parziale: essendo gli unici comproprietari del bene devono sopportarne integralmente i relativi oneri.

Il supercondominio

Nell’esperienza contemporanea, e non solo nelle moderne città metropolitane, la realtà costruttiva presenta spesso edifici contigui, autonomi, aventi una serie di servizi in comune (riscaldamento centralizzato, parco giochi ecc.) ovvero di beni in comune (viali di accesso, cortili ecc.). Lo scopo di questi complessi edilizi è, ovviamente, lo sfruttamento più razionale possibile delle costruzioni.

Vi è subito da dire che l’articolo 1117bis c.c., introdotto ex novo dalla legge di riforma (L. 220/2012), nel definire l’ambito di applicabilità delle disposizioni sul condominio ha oramai chiarito che detta normativa si applica in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117 c.c. e quindi anche al supercondominio.

Fino alla riforma, l’inquadramento della figura tipica del supercondominio era un problema che si tendeva solitamente a risolvere in un’alternativa tra un’estensione della normativa sul condominio negli edifici ed un’applicazione diretta della normativa generale sulla comunione.

La Cassazione, però, in tempi recenti aveva già affermato espressamente l’applicabilità al supercondominio delle norme sul condominio negli edifici, e non già quelle sulla comunione in generale, con la conseguente applicabilità della presunzione legale di condominialità anche ove non si tratti di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purché si tratti di beni stabilmente ed oggettivamente destinati all’uso o al godimento di tutti gli edifici.

Va qui precisato che per supercondominio si intende la fattispecie legale che si riferisce ad una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condomìni, ma compresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall’esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni (quali il viale d’accesso, le zone verdi, l’impianto di illuminazione, la guardiola del portiere, il servizio di portierato, eccetera) in rapporto di accessorietà con i fabbricati. Ai fini della costituzione di un supercondominio non è necessaria nè la manifestazione di volontà dell’originario costruttore, nè quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, essendo sufficiente, come si è detto, che i singoli edifici abbiano materialmente in comune alcuni impianti o servizi ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 1117 cod. civ. Pertanto, al supercondominio si applicano, in toto, le norme sul condominio, anzichè quella sulla comunione. In particolare, al supercondominio si applicano le disposizioni dettate dall’art. 1136 c.c. in tema di convocazione, costituzione e formazione dell’assemblea e calcolo delle maggioranze (Cass., 7286/2006).

Le delibere dell’assemblea generale del supercondominio hanno efficacia diretta ed immediata nei confronti dei singoli condomini degli edifici che ne fanno parte, senza necessità di passare attraverso le delibere di ciascuna assemblea condominiale (Cass., 15476/2001). In particolare, laddove esiste un supercondominio, devono esistere due tabelle millesimali: la prima riguarda i millesimi supercondominiali, e stabilisce la spartizione della spesa non tra i singoli condomini, ma tra gli edifici che costituiscono il com-plesso; la seconda tabella è quella normale ed interna ad ogni edificio.

La gestione del supercondominio

Nel caso in cui un complesso residenziale sia costituito da distinti fabbricati, ciascuno degli edifici integra un condominio distinto, del quale fanno parte i soli proprietari delle unità abitative ivi ubicate, che è competente a deliberare in merito alla gestione ed amministrazione di quelle parti dello stabile che sono destinate all’uso ed al godimento comune.

Invece, per quel che concerne i beni ed i servizi comuni a tutti i fabbricati costituenti il complesso residenziale, sussiste un ulteriore supercondominio deputato a provvedere alla loro gestione attraverso un’assemblea alla quale hanno titolo per partecipare tutti i proprietari delle unità ubicate nel complesso edilizio  .

Le norme codicistiche dirette ex se a disciplinare l’istituto del condominio trovavano automatica applicazione anche nel caso del supercondominio. Infatti, si ritenevano applicabili ai beni o servizi del supercondominio le norme sul condominio degli edifici e, segnatamente, la presunzione di comunione dettata dall’articolo 1117 c.c. nonché le disposizioni dettate dall’articolo 1136 c.c. in tema di convocazione, costituzione e formazione dell’assemblea, nonché di calcolo delle maggioranze da determinare avendo riguardo agli elementi reali e personali del supercondominio configurati, rispettiva-mente, da tutte le unità abitative comprese nel complesso e da tutti i loro proprietari.

Invece, l’articolo 67 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile, nella nuova versione introdotta dalla legge di riforma (L. 220/2012), ha dettato delle disposizioni in materia di assemblea che sono parzialmente diverse rispetto alla normativa precedente e che occorre sicuramente tener presente nella gestione di un supercondominio.

A norma del terzo comma dell’articolo 67 disp. att. c.c., nei casi di cui all’articolo 1117bis c.c. (e quindi anche del supercondominio), quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, c.c., il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore. In mancanza, ciascun partecipante può chiedere che l’autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio.

Qualora alcuni dei condominii interessati non abbiano nominato il proprio rappresentante, l’autorità giudiziaria provvede alla nomina su ricorso anche di uno solo dei rap-presentanti già nominati, previa diffida a provvedervi entro un congruo termine. La diffida ed il ricorso all’autorità giudiziaria sono notificati al condominio cui si riferiscono in persona dell’amministratore o, in mancanza, a tutti i condomini.

La norma in esame continua sancendo che ogni limite o condizione al potere di rappresentanza si considera non apposto. Il rappresentante risponde con le regole del mandato e comunica tempestivamente all’amministratore di ciascun condominio l’ordine del giorno e le decisioni assunte dall’assemblea dei rappresentanti dei condomini.

All’amministratore non possono essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque assemblea.

Dalla lettura della norma si evince che uno degli obiettivi perseguiti dalla riforma sia stato quello di fare in modo che i supercondomini funzionassero effettivamente, anche se è stata introdotta la nuova figura del rappresentante.

Tali disposizioni, inoltre, rendono più funzionali le assemblee e, in particolare, facilitano la scelta dell’amministratore ed ogni altra decisione che riguardi i beni comuni a tutti i fabbricati.

La multiproprietà

La multiproprietà consiste nell’attribuzione, ad una pluralità di soggetti, del diritto di utilizzo esclusivo e periodico di un medesimo immobile, secondo un avvicendamento temporale prefissato al momento dell’acquisto, in modo che ciascun titolare abbia la disponibilità esclusiva del bene a turno e per un periodo di tempo limitato, il che spiega come da parte di qualcuno si sia parlato di «proprietà periodica» o di «proprietà turnaria».

L’essenza dell’istituto è normalmente costituita da un unico edificio con più unità immobiliari, ciascuna delle quali viene assegnata in godimento ad una persona o ad un nucleo familiare, ma è chiaro che la cd. proprietà periodica può riguardare anche case unifamiliari, come spesso accade nei luoghi di villeggiatura.

Il fenomeno si concreta nel trasferimento, da parte del costruttore (o solo del venditore), di un singolo appartamento a diversi soggetti, i quali si considerano tutti proprietari ed acquistano il diritto ad usare dell’appartamento e delle parti comuni dell’edificio, ciascuno per un ben preciso e determinato periodo dell’anno, trascorso il quale, tale diritto «affievolisce», per riconsolidarsi poi nel medesimo periodo di ogni anno successivo.

Ogni problema di inquadramento giuridico della multiproprietà è stato risolto con l’espressa previsione di cui al nuovo articolo 1117 c.c., così come modificato dalla L. 220/2012.

La norma, infatti, prevede espressamente che «sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo».

Con tale disposizione è stata eliminata ogni incertezza circa la categoria di norme applicabili alla multiproprietà, se quelle del con-dominio degli edifici o quelle della comunione.

Volendo ripercorrere gli indirizzi che fino ad ora si erano presentati, si deve per prima cosa far riferimento al fenomeno della multiproprietà come una tradizionale situazione di comunione, nella quale ciascun partecipante sarebbe titolare di una quota indivisa di comproprietà, con diritto di godimento «turnario» predeterminato dal titolo di acqui-sto (normalmente l’alienante predispone un regolamento della comunione con il quale disciplina il godimento turnario tra i multiproprietari).

Il diritto di multiproprietà sarebbe un diritto reale (non personale come l’uso e l’abitazione) e quindi trasferibile.

Tale impostazione è stata sottoposta a critiche rigorose, basate essenzialmente sulla non riconducibilità, al tipo di comunione accolto dal codice civile, di una situazione di comproprietà in cui:

  • sarebbe immodificabile la destinazione e inammissibile la divisione della cosa comune, mentre la normativa del codice civile prevede la possibilità di mutare, con apposite maggioranze, la predetta destinazione, nonché la facoltà, per ciascun partecipante alla comunione, di domandarne in qualsiasi momento lo scioglimento;
  • non opererebbe il meccanismo di espansione della quota nel caso di rinuncia o di astensione dal godimento da parte di uno dei multiproprietari;
  • l’uso turnario, da mera modalità, peraltro solo eventuale, di esercizio della facoltà di godimento della cosa comune, assurgerebbe ad aspetto essenziale e indefettibile dell’istituto, qualificando l’oggetto stesso dell’acquisto in multiproprietà.

Si è pensato, allora, di qualificare la multiproprietà come una speciale forma di proprietà, caratterizzata da una situazione di concorrenza di diritti (fra loro autonomi) piuttosto che di contitolarità di un unico diritto, parlandosi, al riguardo, di «proprietà temporanea» oppure di «proprietà su una frazione spazio-temporale del bene».

Ma simili costruzioni si fondano sull’ammissibilità — quantomeno opinabile (se non ad-dirittura inaccettabile) alla luce della nozione di proprietà assunta dal vigente ordina-mento — di un concorso di autonomi diritti di proprietà su uno stesso bene.

Ancora più azzardato, infine, è il passo di avvicinare la posizione del multiproprietario a quella dell’usufruttuario, ed altrettanto va detto per il tentativo di qualificare la multi-proprietà come diritto reale atipico di godimento.

Il contenuto del diritto di multiproprietà

Il diritto del multiproprietario è un diritto di godimento individuale e non collettivo nonché limitato ad un certo periodo dell’anno.

Il multiproprietario non può godere del bene a proprio piacimento ma deve usarne in modo conforme alla destinazione fissata nel contratto di acquisto, che solitamente è quella di abitazione per le vacanze. Il multiproprietario, quindi, non può di-struggere o alterare il bene, deve curarne la manutenzione (ordinaria ed eventualmente straordinaria) e provvedere, du-rante il periodo di godimento, alla sua custodia, impedendo molestie e danneggiamenti ad opera di terzi.

Il multiproprietario può, sia pure limitatamente al periodo di disponibilità, costituire sul bene diritti personali di godimento e in particolare può locarlo. Non sembra, invece, ammissibile la costituzione di diritti reali di godimento (con l’eccezione probabilmente dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione), i quali presuppongono una permanenza che è incompatibile con il sistema turnario. Il diritto di multiproprietà è trasmissibile per atto tra vivi e per causa di morte.

La normativa applicabile

Già prima della recente riforma, a prescindere dalla definizione della multiproprietà, ciò che più rilevava era che la giurisprudenza e la dottrina, che riconducevano la multiproprietà all’istituto della comunione, ritenevano già, comunque, applicabili a questa le norme sul condominio.

In giurisprudenza, in particolare, si è qualificata la multiproprietà come «un condominio non avente carattere assoluto, in quanto oggetto di autolimitazione reciproca preventiva da parte dei multiproprietari» , ritenendo applicabili le norme sulla obbligatorietà della nomina dell’amministratore da parte dell’assemblea e sulla durata massima della carica (articolo 1129, primo e secondo comma, c.c.), nonché la disciplina sulla revoca dell’amministratore da parte dell’autorità giudiziaria (articolo 1129, terzo comma, c.c.) sul rilievo che «la multiproprietà di singole unità immobiliari nell’ambito di un complesso edificale residenziale non importa alcuna deroga all’applicazione della disciplina sul condominio negli edifici per quanto afferisce alle parti e ai servizi comuni di utilità generale all’intero edificio»  .

Nella disciplina del condominio, del resto, è espressamente prevista l’ipotesi che un’unità immobiliare appartenga in proprietà indivisa a più persone (articolo 67, secondo comma, disp. att. c.c.), sicché può ritenersi già tipizzata la fattispecie mista di comunione e condominio, la prima riferita ai locali «principali» in godimento esclusivo, il secondo ai beni e servizi «strumentali» rispetto ai primi.

In linea con tale indirizzo il legislatore della riforma del 2012 ha sciolto ogni dubbio con l’espressa previsione di cui al nuovo articolo 1117 c.c., il quale espressamente fa rientrare nella proprietà comune condominiale anche l’ipotesi della multiproprietà.

La multiproprietà riscritta dal Codice del turismo

La disciplina della multiproprietà immobiliare è contenuta nel D.Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) ed è stata recentemente rimaneggiata dal D.Lgs. 79/2011 (Codice del Turismo).

Il contratto di multiproprietà è definito come un contratto di durata superiore a un anno tramite il quale un consumatore acquisisce, a titolo oneroso, il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione.

Si tratta di una definizione che, da un lato sottolinea uno dei due aspetti del diritto di proprietà (facoltà di godimento e di disposizione del bene) e, dall’altro, consente di estendere la multiproprietà ad ogni fattispecie nella quale sia individuabile un diritto di godimento concesso a titolo oneroso, anche in mancanza di un diritto di proprietà: si pensi, ad esempio, al contratto di comodato oneroso, alla locazione pluriennale ecc.

Le informazioni contrattuali che devono essere fornite, in maniera chiara e comprensibile, al consumatore prima che resti vincolato da un contratto o da un’offerta, devono essere accurate e sufficienti a realizzare la finalità informativa. Le informazioni sono fornite a titolo gratuito dall’operatore su carta o altro supporto durevole facilmente accessibile al consumatore, sono redatte nella lingua italiana e in una delle lingue dello Stato dell’Unione Europea in cui il consumatore risiede o di cui è cittadino. Il contratto deve essere redatto per iscritto, a pena di nullità.

Prima della conclusione del contratto, l’operatore informa il consumatore sulle clausole contrattuali relative al diritto di recesso, la durata del periodo di recesso e il divieto di versare acconti durante il periodo di recesso, le quali devono essere sottoscritte separatamente dal consumatore.

È riconosciuto al consumatore un periodo di 14 giorni (naturali e consecutivi) per recedere, senza specificare il motivo, dal contratto di multiproprietà.

ingresso illegale immigrati

Immigrazione: l’ingresso illegale resta reato La Consulta ha ritenuto legittima l'omessa depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato previsto dal Testo Unico Immigrazione

Ingresso illegale

L’articolo 1, comma 4, del decreto legislativo n. 8/2016, che esclude dalla depenalizzazione il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato previsto dal testo unico immigrazione, non si pone in contrasto con il principio direttivo della legge delega attinente alla cosiddetta depenalizzazione “cieca”, rivolto a depenalizzare i reati puniti con la sola pena pecuniaria. Lo ha deciso la Consulta con la sentenza n. 88-2024.

La questione di legittimità costituzionale

In particolare, la Corte ha rigettato la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, secondo cui la disposizione censurata violerebbe l’articolo 76 Cost. perché la legge n. 67 del 2014, “delegando in tal senso il Governo a depenalizzare i suddetti reati, avrebbe incluso tra essi anche quello di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, in quanto anch’esso punito con la sola pena pecuniaria dell’ammenda”.

La Corte ha precisato che la legge delega, al fine di selezionare i reati che avrebbero dovuto essere depenalizzati, ha utilizzato due criteri: – quello della depenalizzazione “cieca”, che prevede la trasformazione in illeciti amministrativi dei reati puniti con la pena pecuniaria, a eccezione di quelli riconducibili ad alcune materie, e quello della depenalizzazione nominativa, che prevede la medesima trasformazione per taluni reati specificamente individuati.

Il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato è compreso tra questi ultimi, con la conseguenza – ha concluso la Consulta – che, “il censurato articolo 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016, laddove stabilisce che la «disposizione del comma 1 non si applica ai reati di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», non si pone in contrasto con il principio direttivo attinente alla depenalizzazione “cieca”, evocato dal rimettente come norma interposta”.

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Addio assegno di divorzio anche senza convivenza La Cassazione chiarisce che, nella richiesta di revoca dell'assegno in favore dell'ex, il giudice deve valutare l'esistenza o meno di un progetto di vita comune e non la coabitazione in sé

La revisione dell’assegno divorzile

La Corte d’appello di Genova, interpellata in merito ad una richiesta di revisione dell’assegno di divorzio, aveva ritenuto non provata la nuova convivenza dell’ex coniuge beneficiario e aveva dunque ripristinato l’assegno divorzile revocato dal Giudice di prime cure.

Avverso tale decisione l’ex marito, tenuto al versamento dell’assegno, aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La nuova convivenza quale elemento solo indiziario

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13175-2024, ha accolto il ricorso proposto dall’ex marito e ha cassato il provvedimento impugnato, rinviando la causa alla Corte d’appello competente.

Il Giudice di legittimità, dopo aver ricordato i presupposti normati necessari per procedere alla revisione dell’assegno divorzile, è passato all’esame della questione specifica sottoposta al suo vaglio, vale a dire il valore che in tale sede occorre attribuire all’assenza di coabitazione tra l’ex coniuge beneficiario dell’assegno e il suo nuovo partener.

A tal proposito, la Corte ha ricordato l’insegnamento offerto dalla medesima giurisprudenza di legittimità, la quale, in un caso analogo a quello in esame, aveva affermato che, qualora dell’ex coniuge economicamente più debole abbia instaurato una stabile convivenza di fatto con un terzo, il primo, se ancora privo dei mezzi necessari per far fronte alle proprie necessità, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno divorzile.

Posta tale interpretazione, che impone al giudice di compiere una valutazione caso per caso, la Corte ha pertanto affermato di non condividere la motivazione offerta dal Giudice di merito laddove ha escluso la nuova convivenza in ragione dell’assenza di una stabile coabitazione.

Invero, ha proseguito la Corte ha ricordato che “In tema di divorzio, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell’eventuale coabitazione con l’altra persona, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti (…) e gli eventuali ulteriori argomenti di prova” rilevanti per stabilire la sussistenza o meno della convivenza.

Non conta la coabitazione

In questo senso, ha spiegato la Corte, non è sufficiente rilevare che i partner abbiano due distinte abitazioni per escludere il progetto di vita comune e la relazione stabilmente more uxorio “potendo questo oggi declinarsi in forme assai distanti rispetto al modello di una società statica”.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha pertanto accolto il ricorso proposto, come sopra anticipato.

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procedimento amministrativo

Il procedimento amministrativo Il procedimento amministrativo e le sue fasi. I principi introdotti dalla legge n. 241 del 1990 che regolano l’attività amministrativa

La legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo

Il procedimento amministrativo è il mezzo attraverso il quale la pubblica amministrazione addiviene alle proprie decisioni, contenute nel provvedimento amministrativo che conclude il procedimento.

La materia è regolata principalmente dalla legge n. 241 del 1990, una vera e propria pietra miliare normativa, che ha introdotto alcune importanti novità nella disciplina dell’azione amministrativa ed ha, soprattutto, avuto il merito di favorire la trasparenza dell’agire pubblico e il dialogo con il cittadino.

I principi del procedimento amministrativo

Il procedimento amministrativo deve, innanzitutto, riportarsi ai principi sacralizzati dall’art. 1 della citata legge, secondo cui l’attività amministrativa risponde a criteri di economicità ed efficacia: ciò impone agli enti pubblici di ottimizzare i tempi e le risorse utilizzate.

Altri importanti principi individuati da tale norma sono quello dell’imparzialità, che mira a garantire l’obiettività della p.a. nella valutazione e nel confronto dei vari interessi coinvolti in un procedimento.

Infine, l’attività amministrativa deve essere caratterizzata anche da pubblicità e trasparenza, in modo da poter essere costantemente conoscibile dai cittadini.

Come vedremo, i suddetti principi si riflettono nei vari istituti previsti dalla legge 241/90, che andiamo subito ad analizzare.

La motivazione del provvedimento

Il procedimento amministrativo può cominciare su istanza di parte o d’ufficio e deve, di regola, concludersi con un provvedimento espresso (art. 2) ed entro un determinato termine, che, in mancanza di diversa previsione, è pari a 30 giorni dal ricevimento dell’istanza.

Il provvedimento, inoltre, deve essere adeguatamente motivato (art. 3) e nella motivazione devono essere riportati i presupposti di fatto e di diritto che hanno indotto l’amministrazione ad adottare la propria decisione.

L’art. 20 della legge in oggetto prevede anche il particolare meccanismo del silenzio-assenso, in base al quale, nei procedimenti avviati su istanza di parte, il silenzio della p.a. equivale all’accoglimento dell’istanza.

Le fasi del procedimento amministrativo e il dialogo con i cittadini

La fase dell’iniziativa prende avvio con il ricevimento dell’istanza e comprende alcune importanti attività da parte dell’amministrazione, come l’individuazione del responsabile del procedimento (art. 5) e la comunicazione dell’avvio del procedimento a tutti quei soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti e a quelli che devono intervenirvi (art. 7).

Come si vede, si tratta di norme che attuano il principio di trasparenza dell’azione amministrativa e garantiscono il dialogo e la partecipazione dei cittadini.

La fase istruttoria del procedimento amministrativo è quella, invece, evidentemente più complessa, nella quale si verifica l’acquisizione delle informazioni necessarie all’esame dell’istanza e in cui vengono effettuate le valutazioni e le comparazioni degli interessi coinvolti.

Istituti peculiari di tale fase sono l’intervento nel procedimento (art. 9, secondo cui qualunque soggetto a cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento può intervenirvi), e le conferenze di servizi (art. 14).

Queste ultime possono essere indette dall’amministrazione procedente quando sia opportuno effettuare un esame contestuale degli interessi pubblici coinvolti (conferenza di servizi istruttoria, art. 14 comma 1) e devono essere indette quando per la conclusione positiva del procedimento sia necessario acquisire pareri e nulla osta da altre amministrazioni (conferenza di servizi decisoria, art. 14 comma 2).

Il procedimento amministrativo si chiude, poi, con la fase decisoria, che corrisponde all’adozione del provvedimento conclusivo, e con l’eventuale fase integrativa dell’efficacia (ad esempio, quando sia necessaria la pubblicazione di tale provvedimento).

codice tributo avvocati mediazione

Credito d’imposta avvocati mediazione: pronto il codice tributo L'Agenzia delle Entrate ha istituito il codice tributo per l'uso del credito d'imposta spettante all'avvocato del soggetto ammesso al gratuito patrocinio nelle procedure conciliative

Codice tributo avvocati mediazione

L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 24-2024 ha istituito il codice tributo per l’utilizzo, tramite modello F24, del credito d’imposta spettante all’avvocato della parte ammessa al gratuito patrocinio nelle procedure di mediazione e negoziazione assistita, in conformità a quanto previsto dalla normativa in materia (art. 15-octies Dlgs n. 28/2010, art. 11-octies Dl 132/2014, art. 9 decreto giustizia e finanze 1.8.2023).

In particolare, per consentire l’utilizzo in compensazione da parte dei beneficiari del credito di imposta in parola, “tramite modello F24 da presentare esclusivamente attraverso i servizi telematici messi a disposizione dall’Agenzia delle entrate, pena il rifiuto dell’operazione di versamento”, il fisco ha istituito il codice tributo “7070” – denominato “Credito d’imposta – patrocinio a spese dello Stato nella mediazione civile e commerciale e negoziazione assistita nei casi previsti dagli articoli 5, comma 1, e 5-quater, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 e dall’articolo 3 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132”.

Codice tributo nel modello F24

Nel modello F24, il codice tributo si trova nella sezione “Erario”, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a credito compensati”, ovvero, nei casi in cui il contribuente debba procedere al riversamento dell’agevolazione, nella colonna “importi a debito versati”.  Nel campo “anno di riferimento” è valorizzato invece l’anno di riconoscimento del credito, nel formato “AAAA”, indicato nel cassetto fiscale. L’Agenzia procederà alla verifica successiva della presenza dei contributo nell’elenco dei beneficiari trasmesso dal ministero e dell’ammontare del credito usato in compensazione.