mediazione in condominio

Mediazione in condominio: le maggioranze necessarie Quali sono le maggioranze necessarie per l'approvazione della conciliazione in materia condominiale

Maggioranze necessarie per la mediazione

E’ l’assemblea condominiale l’organo competente ad approvare la conciliazione. Riguardo alla maggioranza necessaria per approvare un accordo transattivo, prima della riforma, era applicabile l’art. 1136, co. 4° c.c. che rinviava alla maggioranza del secondo comma, ossia la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio. La norma fa riferimento alle liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore e, se l’assemblea può deliberare su una controversia, è legittimata anche a transigere detta controversia.

Tale interpretazione era confermata dall’art. 71 quater co. 5° delle disp. att. c.c., ante riforma, dettato in materia di mediazione, in base al quale la proposta di mediazione doveva essere approvata dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136 c. 2 c.c. (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio).

Secondo il nuovo art. 71 quater delle disp. att. al codice civile (modificato dalla riforma Cartabia), invece, per sottoscrivere l’accordo conciliativo occorrono le maggioranze qualificate di cui all’articolo 1136 del codice.

La novella legislativa ha eliminato il richiamo specifico al 2° comma dell’art. 1136 c.c. ovvero almeno la maggioranza dei presenti in assemblea e che rappresentino almeno la metà dei millesimi (500/1000) del condominio. La novella facendo riferimento alle diverse maggioranze previste dall’art. 1136 c.c. – intende perseguire, chiaramente, una ulteriore semplificazione in quanto molte fattispecie in condominio possono essere approvate con la maggioranza dei condomini  presenti che raggiungano almeno un terzo dei millesimi e mi riferisco a tutti quei casi che possono farsi rientrare nella gestione ordinaria esempio: la manutenzione dei beni in comune, le piccole riparazioni, la stessa approvazione del rendiconto.

Quando è necessaria l’unanimità dei consensi

Con la precisazione che esistono, tuttavia, dei casi in cui le deliberazioni da assumere prevedono l’unanimità dei consensi e, cioè, quando si tratta di diritti indisponibili.

Difatti, laddove la lite abbia ad oggetto i diritti reali comuni (ad esempio, la proprietà di una parte del condominio) la transazione può avvenire solo con il consenso di tutti i partecipanti, così come è necessaria l’unanimità anche per gli atti di cessione dei beni comuni o la costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni.

Nel caso della stipulazione di una “conciliazione” o “transazione” da parte del condominio consolidata giurisprudenza richiede necessariamente l’unanimità dei consensi qualora il relativo oggetto riguardi “diritti reali” (cfr. Cass. 13 aprile 2016 n. 7201; Cass. 25 gennaio 2016 n. 1234) e, per l’effetto, anche per un accordo di conciliazione del medesimo contenuto e/o natura:  “Il consenso unanime di tutti i condomini, per concludere una transazione tra il condominio ed un terzo, è necessario esclusivamente, ai sensi dell’art. 1108, comma 3, c.c., solo quando la transazione stessa abbia ad oggetto i diritti reali comuni” (Cass. 13 aprile 2016 n. 7201).

 

ricorso copia incolla

Inammissibile il ricorso “copia incolla” Il Consiglio di Stato "boccia" la tecnica del copia incolla nella redazione del ricorso straordinario e ne dichiara l'inammissibilità

Ricorso copia incolla inammissibile

“E’ inammissibile – per violazione degli artt. 40, commi 1, lett. d), e 2, e 44, comma 1, lettera b), c.p.a. – il ricorso che, per la sua tecnica di redazione, come quella del copia incolla, non sia fondato su motivi specifici”. Lo ha affermato il Consiglio di Stato nel parere n. 592-2024, dichiarando inammissibile un ricorso straordinario al presidente della Repubblica redatto con la tecnica del copia incolla di provvedimenti amministrativi, alternati a spazi bianchi e argomentazioni confuse riprodotte con caratteri a tratti illeggibili.

Eccezione di inammissibilità

La vicenda ha ad oggetto un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza sospensiva, proposto da un militare contro il ministero della difesa per l’annullamento della determinazione ministeriale di rigetto dell’istanza di transito all’impiego civile presso l’ente di appartenenza.

Il dicastero riferente chiedeva il parere del Cds sull’affare consultivo.

Nel corso del procedimento, il ministero trasmetteva il ricorso straordinario unitamente alla relazione con cui eccepiva l’assoluta genericità delle esposizioni in fatto e dei motivi, peraltro realizzata con la tecnica del “copia e incolla” di parte di provvedimenti amministrativi e con caratteri grafici a tratti illeggibili, tale da non consentire l’esatta individuazione della causa petendi e del petitum. 

Il ricorrente non replicava alla sollevata eccezione di inammissibilità e il CDS all’adunanza del 24 aprile 2024 decideva l’affare accogliendo la tesi ministeriale e ritenendo il ricorso inammissibile in quanto “le censure prospettate sono state articolate senza sviluppo critico, in termini di mera prospettazione, anche sotto il profilo puramente grafico, delle ragioni di illegittimità e delle norme asseritamente violate”.

I motivi specifici del ricorso

In particolare, richiamando un proprio recente parere (n. 221/2024), il giudice amministrativo ribadiva che “l’articolo 40 c.p.a., relativamente al ‘contenuto del ricorso’ introduttivo della lite dinanzi al giudice amministrativo (con disposizione che deve ritenersi senz’altro estesa anche al rimedio del ricorso straordinario, avuto riguardo alla sua attitudine di rimedio alternativo a quello giurisdizionale e con esso concorrente), impone che l’atto contenga, a pena di inammissibilità, i ‘motivi specifici’ su cui lo stesso si fonda (art. 40, comma 2, in relazione al comma 1, lettera d), per i quali è prescritta altresì – ad evitare, per ragioni di chiarezza, di univocità e di precisione, l’inclusione delle puntuali ragioni di doglianza in una parte dell’atto non dedicata alla individuazione delle ragioni giuridiche (c.d. motivi intrusi) – l’evidenziazione ‘distinta’ (art. 40, comma 1)”.  Invero, ricorda ancora il Cds, “i motivi di ricorso sono preordinati a rappresentare – in un sistema di diritto amministrativo fondato sul principio di legalità dell’azione amministrativa – le deviazioni o difformità del provvedimento impugnato rispetto al paradigma legale di riferimento, di tal che, insieme ai pertinenti elementi di fatto, strutturano la causa petendi del ricorso”. 

“Il canone di specificità e distinzione esclude – dunque – che il ricorso possa essere strutturato come generica critica del provvedimento impugnato, con conseguente traslazione sull’organo giurisdizionale dell’attività di ricerca e individuazione dei puntuali (o più puntuali) tratti e profili di illegittimità”.

D’altra parte, ricorda ancora il Consiglio, si tratta di una regola che “obbedisce anche ad una esigenza di effettività del contraddittorio processuale, posto che la vaghezza dell’apparato censorio potrebbe inibire una congrua ed appropriata difesa delle altre parti processuali. Inoltre, il requisito trae alimento dal principio della domanda, che regge complessivamente il sistema di diritto processuale amministrativo, e, con esso, del suo corollario del canone di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato, il quale impone che la domanda di annullamento sia formulata in termini idonei ed adeguati ad una puntuale rappresentazione degli elementi, di fatto e di diritto, sui quali si ritengono fondati i prospettati vizi di legittimità (cfr. Cons. Stato, n. 3809/2017; sn. 475/2012)”.

Il parere del Consiglio di Stato

In definitiva, il ricorso è dichiarato inammissibile e ad ogni modo, nel merito, alla luce della documentazione in atti, l’appello, per il CdS risulta manifestamente infondato, essendo assodata la tardività della richiesta di transito nei ruoli civili.

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abuso permessi 104

Licenziato chi abusa dei permessi 104 La Cassazione riafferma che il dipendente che utilizza i permessi 104 per attendere ad esigenze diverse dell’assistenza al disabile, abusa del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede

Abuso dei permessi 104

Nel caso in esame, un dipendente era stato licenziato dal proprio datore di lavoro poiché era stato provato che lo stesso, nei giorni in cui si trovava in permesso ex art. 33 della legge n. 104 del 1992, si era dedicato ad attività non attinenti con l’assistenza alla madre inabile.

Nella specie, il Giudice di merito ha ritenuto che le ore dedicate dal lavoratore ad incombenti diversi e non connessi all’assistenza della madre erano di misura tale da giustificare gli addebiti mossi da parte datoriale. Questo anche considerato il fatto che “il tempo dedicato all’assistenza non deve essere rapportato all’intera giornata ma piuttosto all’orario lavorativo”.

Avverso la decisione del Giudice di seconde cure, che tra l’altro confermava gli esiti cui era giunto il Tribunale di primo grado, il dipendente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Legittimo il licenziamento se il beneficio è usato in modo abusivo

La Suprema Corte, con ordinanza n. 11999-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

In particolare, la Corte ha rilevato che, premesso che in tema di permessi ex art 33 della legge n. 104/92 grava sul dipendente la prova di “aver eseguito la prestazione di assistenza in un luogo diverso da quello di residenza della persona protetta” va rilevato che il permesso in questione “è riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza da prestare al disabile. È rispetto ad essa che l’assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta”.

Sulla scorta di tali regole, la Corte ha dunque precisato che “il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso di diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari”.

In questi termini, qualora venga meno il nesso causale tra l’assenza del dipendente dal lavoro e l’assistenza al disabile, si è in presenza di “un uso improprio o di un abuso del diritto”.

La Corte ha concluso il proprio esame rilevando che il giudice di merito “ha valutato la gravità della condotta accertata e l’ha reputata idonea a ledere il vincolo fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro”, senza incorrere, nell’ambito delle proprie valutazioni, in alcuna violazione di legge, ne è pertanto conseguito, in sede di legittimità, il rigetto del ricorso proposto dal dipendente.

lieve entità rapina

Reato di rapina: sì alla lieve entità La Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 628 c.p. nella parte in cui non prevede l'attenuante per la particolare tenuità del danno o del pericolo

Illegittimità costituzionale art. 628 c.p.

Ok alla lieve entità del fatto anche per il reato di rapina. Così la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 86-2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata per la rapina c.d. impropria è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

Conseguentemente, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 628, relativo alla rapina c.d. propria, nella parte in cui non prevede la medesima attenuante.

La questione di legittimità costituzionale

Oggetto del giudizio a quo è l’imputazione di rapina impropria ascritta a due soggetti che avrebbero prelevato dagli scaffali di un supermercato alcuni generi alimentari di modesto valore e sarebbero riusciti a sottrarsi all’intervento del personale dell’esercizio commerciale mediante qualche generica frase di minaccia e una spinta, per essere infine rintracciati nei pressi dell’esercizio stesso mentre consumavano del pane.

La “valvola di sicurezza”

La Corte ha osservato che in simili fattispecie il minimo edittale di pena detentiva per la rapina, dal legislatore innalzato alla misura di cinque anni di reclusione, può costringere il giudice a irrogare una sanzione in concreto sproporzionata, sicché gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione esigono l’introduzione di una diminuente ad effetto comune, fino ad un terzo, quale “valvola di sicurezza” per i fatti di lieve entità.

Si tratta dell’estensione alla rapina di quanto deciso dalla sentenza n. 120/2023 per l’estorsione, reato caratterizzato anch’esso dall’elevato minimo edittale di cinque anni di reclusione e, nel contempo, dalla possibilità di consumazione tramite condotte di minimo impatto, personale e patrimoniale.

Tale estensione, sottolinea infine il giudice delle leggi, “consegue sia al principio di uguaglianza, nel trattamento sanzionatorio della rapina e dell’estorsione, sia ai principi di individualizzazione e finalità rieducativa della pena, i quali ostano all’irrogazione di sanzioni sproporzionate rispetto alla gravità concreta del fatto di reato”.

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accettazione tacita eredita

Accettazione tacita eredità: il punto della Cassazione La Corte, con due recenti ordinanze, ha precisato che si ha accettazione tacita dell’eredità quando sono posti in essere atti incompatibili con la volontà di rinunciare all'eredità

L’assunzione della qualità di erede

Con le ordinanze n. 10544-2024 e n. 7995-2024, la Suprema Corte ha avuto modo di definire alcuni tratti distintivi dell’accettazione tacita di eredità.

Nell’ambito delle sopracitate ordinanze la Corte di Cassazione si è occupata d’individuare gli elementi sulla base dei quali è possibile affermare che vi sia stata accettazione tacita da parte degli eredi.

A tal proposito, con l’ordinanza n. 10544/2024 la Corte ha ricordato che “è già stato posto il principio secondo il quale l’assunzione in giudizio della qualità di erede di un originario debitore costituisce accettazione tacita dell’eredità, qualora il chiamato si costituisca dichiarando tale qualità senza in alcun modo contestare il difetto di titolarità passiva della pretesa (…); è altresì stato posto il principio secondo il quale l’accettazione tacita di eredità può essere desunta anche dalla partecipazione in contumacia a giudizi di merito concernenti beni del de cuius (….)”.

Quando si ha accettazione tacita dell’eredità

Nella medesima direzione, con l’ordinanza n. 7995/2024, il Giudice di legittimità ha ripercorso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, con cui è stato affermato che l’accettazione tacita dell’eredità può venire in rilievo in svariate ipotesi in cui il chiamato eserciti l’azione in giudizio, quali, a titolo esemplificativo “l’agire in giudizio del figlio del defunto nei confronti del debitore del de cuius per il pagamento di quanto al medesimo dovuto (…), la riassunzione del processo da parte del figlio del de cuius (…), la proposizione di azioni di rivendica o di azioni dirette alla difesa della proprietà o alla richiesta di danni per la mancata disponibilità dei beni ereditari, in quanto azioni che travalicano il mero mantenimento dello stato di fatto esistente all’atto dell’apertura della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse ex art. 460 cod. civ.”.

Sulla base di tali principi, la Corte ha pertanto ritenuto che anche la proposizione di un ricorso per cassazione possa essere considerata quale tacita accettazione tacita dell’eredità.

Atti incompatibili con la volontà di rinuncia all’eredità

La Corte ha concluso l’esame dell’ordinanza n. 10544/2024, rigettando il ricorso proposto ed affermando che “integrano accettazione tacita di eredità gli atti incompatibili con la volontà di rinunciare all’eredità e non altrimenti giustificabili se non con la veste di erede, mentre sono privi di rilevanza gli atti che, ammettendo come possibili altre interpretazioni, non denotano in maniera univoca una effettiva assunzione della qualità di erede, spetta al giudice di merito il relativo accertamento”.

Per quanto invece attiene all’ordinanza n. 7995/2024, la Corte ha accolto il ricorso proposto e rilevato che “poiché l’accettazione tacita dell’eredità può desumersi dall’esplicazione di un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l’eredità, essa può legittimamente reputarsi implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che  (…) non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 cod. civ., ma travalichino il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, e che, quindi, il chiamato non avrebbe diritto di proporre se non presupponendo di voler far propri i diritti successori”.

 

 

 

 

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certificato pensione INPS obisM

Certificato di pensione Inps (ObisM) Cos'è il certificato di pensione Inps (ObisM), come si ottiene e le novità dell'ObisM 2024 messo online dall'istituto

Cos’è il Certificato di pensione INPS (ObisM)

Il certificato di pensione INPS (modello ObisM) è messo a disposizione, tra i servizi online al cittadino dell’istituto per i beneficiari di prestazioni previdenziali e assistenziali.

Il certificato di pensione è disponibile per i pensionati di tutte le gestioni, compresa la gestione ex INPGI 1, confluita all’INPS con effetto dal 1° luglio 2022, ai sensi dell’articolo 1, comma 103, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (legge di Bilancio 2022). Non viene predisposto, invece, per le prestazioni di accompagnamento a pensione (ad es. Ape Social, Isopensioni, ecc.), che, non avendo natura di trattamento pensionistico, non vengono annualmente rivalutate e continuano ad essere corrisposte nella stessa misura per tutta la loro durata.

Il modello ObisM viene pubblicato annualmente, tenendo conto delle attività generalizzate di rivalutazione delle pensioni e delle prestazioni assistenziali:

Dal 2021, il certificato è disponibile in modalità dinamica, per cui le informazioni risultano aggiornate all’atto della richiesta.

ObisM 2024

Il certificato di pensione per l’anno 2024, disponibile online dal 9 maggio 2024, è stato implementato, spiega l’istituto nel messaggio 9 maggio 2024, n. 1772., “con le informazioni relative alle seguenti novità:

  • incremento delle pensioni di importo pari o inferiore al trattamento minimo (art. 1, comma 310, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 – legge di Bilancio 2023) riconosciuto, per il 2024, nella misura del 2,7% senza distinzione di età del percipiente, ai titolari di un trattamento pensionistico lordo complessivo in pagamento di importo inferiore o pari al trattamento minimo per ciascuna delle mensilità fino a dicembre 2024, compresa la tredicesima mensilità;
  • pensione anticipata flessibile (art. 1, comma 283, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 – legge di Bilancio 2023), riconosciuta in via sperimentale per l’anno 2023, al raggiungimento di un’età anagrafica di 62 anni e un’anzianità contributiva di almeno 41 anni e perfezionamento dei requisiti entro il 31 dicembre 2023;
  • applicazione del nuovo sistema di calcolo per scaglioni e aliquote ai fini IRPEF, di cui al decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 (cfr. il messaggio n. 755 del 20 febbraio 2024)”.

Come ottenerlo

È possibile ottenere il modello ObisM, accedendo al “Fascicolo previdenziale del cittadino”, sul sito INPS, accreditandosi tramite i consueti canali:

  • SPID di secondo livello (Sistema Pubblico di Identità Digitale);
  • CIE 3.0 (Carta di Identità Elettronica);
  • CNS (Carta Nazionale dei Servizi);
  • PIN dispositivo rilasciato dall’Istituto solo per i residenti all’estero non in possesso di un documento di riconoscimento italiano e, pertanto, impossibilitati a richiedere le credenziali SPID;
  • eIDAS (electronic IDentification Authentication and Signature).
responsabilità comune custodia

Il Comune è responsabile delle strade in custodia La Cassazione ha ribadito che il Comune ha una responsabilità oggettiva da cose in custodia rispetto alla strada comunale ed è pertanto tenuto a risarcire i danni che da essa derivano

Ciclista inciampa nella feritoia: il caso

Nella vicenda in esame un ciclista, nel percorrere un tratto di strada comunale, era incappato con una ruota in una fessura posta al di sotto del manto stradale e, cadendo a terra, aveva riportato alcune lesioni personali.

A seguito del suddetto episodio, il danneggiato aveva convenuto il giudizio il Comune ritenuto responsabile del tratto stradale in questione ed aveva domandato il risarcimento dei danni subiti.

Il Giudice di merito aveva concluso il proprio esame condannando il Comune al risarcimento del danno patito dal ciclista.

Avverso tale decisione il Comune aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Nesso causale

La Suprema Corte, con ordinanza n. 12988-2024, ha rigettato il ricorso proposto dal Comune.

In particolare, la Cassazione, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha anzitutto affermato che le argomentazioni elaborate dalla Corte d’appello in punto di nesso causale tra la fessura nel manto stradale e l’evento dannoso, nonché la ritenuta assenza di un concorso del danneggiato alla causazione dell’evento lesivo, sono conformi al consolidato orientamento interpretativo formatosi in ordine alla responsabilità da cose in custodia di cui all’art. 2051 c.c.

Per quanto nello specifico attiene alla responsabilità ex art 2051 c.c., la Corte ha affermato che la giurisprudenza è costante nel ritenere che essa abbia natura oggettiva “e può essere esclusa o dalla prova del caso fortuito (…), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo”.

Nella medesima direzione argomentativa muove l’affermazione della Corte secondo cui “l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito (…) si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse in modo immanente alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, (…), ravvisandosi il presupposto di operatività della fattispecie, consistente nella relazione di fatto tra un soggetto e la cosa”.

In questo senso, la Corte ritiene che sia corretto riconoscere un onere di custodia in capo al Comune ricorrente, posto che, nel caso di specie, il sinistro era avvenuto in una strada comunale aperta al pubblico ed anzi molto frequentata.

Sulla scorta delle suddette argomentazioni e per quanto qui rileva, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso del Comune.

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Cassazione: multe nulle se l’autovelox non è omologato Le sanzioni erogate per la violazione del limite di velocità rilevate con l’autovelox sono nulle se l’apparecchio non è omologato ma solo approvato

Autovelox non omologati

La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza storica sulle apparecchiature autovelox utilizzate per rilevare le infrazioni di velocità.

Secondo l’ordinanza 10505-2024 del 18 aprile 2024, che ha destato parecchio clamore in tutto il territorio nazionale, le multe comminate con apparecchiature autovelox prive di omologazione sono da considerarsi nulle.

Questa decisione chiarisce inoltre la differenza tra omologazione e approvazione delle apparecchiature, sollevando importanti questioni sul sistema sanzionatorio stradale.

Violazione limite di velocità con autovelox non omologato

La vicenda ha inizio con il ricorso di un conducente al Giudice di Pace, che accoglie l’opposizione al verbale di accertamento della Polizia con cui gli era stata contesta la violazione dell’articolo 142 comma 8, per avere superato il limite di velocità di 90 Km/h. Rilievo che era stato effettuato per mezzo di un dispositivo autovelox fisso.

Il Comune appellava la decisione, ma il Tribunale la respingeva perché l’apparecchiatura con cui era stata rilevata la violazione del limite di velocità non risultata omologata. Il Tribunale precisava al riguardo che “l’accertamento dell’indicata infrazione era avvenuto con la citata apparecchiatura elettronica senza che fosse stata preventivamente omologata ai sensi di legge, non risultando rilevante allo scopo la mera approvazione preventiva di tale mezzo di rilevazione, siccome non equipollente all’omologazione ministeriale, posto che quest’ultima autorizza la riproduzione in serie del prototipo di un apparecchio testato in laboratorio, mentre la semplice approvazione è riconducibile ad un procedimento di tipo semplificato che non richiede la comparazione del prototipo con caratteristiche ritenute fondamentali o previste da particolari previsioni del regolamento.”

Il Comune soccombente, insoddisfatto dell’esito del giudizio, impugnava la decisione in Cassazione, che incentra la motivazione della sentenza proprio sulla differenza tra omologazione e approvazione.

Differenze tra omologazione e approvazione

La Cassazione, rigettando la tesi dell’Ente Territoriale ricorrente, precisa che l’articolo 142, comma 6 del Codice della Strada (c.d.s) è chiaro e decisivo nel ritenere idonee solo le apparecchiature “debitamente omologate” per l’accertamento strumentale della velocità. L’articolo 192 del regolamento di attuazione del c.d.s. (d.P.R. n. 495/1992) distingue invece le attività di omologazione e approvazione, specificando che l’omologazione è un procedimento tecnico-amministrativo che garantisce la funzionalità e la precisione degli autovelox. L’approvazione, invece, è un processo meno rigoroso, che non richiede test dettagliati.

Importanza della prova della corretta funzionalità

Secondo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, la Pubblica Amministrazione (P.A) deve fornire prova della corretta funzionalità degli autovelox attraverso certificazioni di omologazione e conformità. Questo obbligo deriva dalla necessità di garantire che gli strumenti utilizzati per le sanzioni stradali siano tecnicamente affidabili e precisi. La Corte Costituzionale aveva già sottolineato questa necessità nella sentenza 113/2015 e la Cassazione con la presente ordinanza  rafforza  ulteriormente questa posizione.

Implicazioni della decisione della Cassazione sulle multe

La decisione della Cassazione ha risvolti pratici significativi. In pratica, tutti gli autovelox privi di omologazione e certificazione metrologica sono considerati illegali. Questo implica che molte delle sanzioni attualmente emesse possono essere contestate e annullate, se le apparecchiature utilizzate non rispettano i requisiti stabiliti dalla normativa.

La pronuncia rappresenta un importante passo avanti nella regolamentazione delle sanzioni stradali e nella garanzia della correttezza dei procedimenti sanzionatori. Essa rafforza l’obbligo per la P.A di utilizzare solo apparecchiature omologate e conformi alle normative tecniche, ponendo un freno all’uso indiscriminato di autovelox non certificati. Questo intervento giuridico mira a tutelare i diritti degli automobilisti, assicurando che le sanzioni siano comminate solo sulla base di rilevamenti accurati e legalmente validi.

 

 

 

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arretrati giustizia pnrr

PNRR: calano arretrato e durata dei processi Il ministero della Giustizia informa che i dati 2023 confermano il trend di calo della durata dei processi e dello smaltimento dell'arretrato

PNRR riduzione durata processi e arretrato

Prosegue la riduzione della durata dei processi e dell’arretrato, in linea con gli obiettivi concordati con l’Europa.  Questo il quadro che emerge dalla Relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori PNRR, aggiornata al 2023, curata dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa (DgSTat) del Dipartimento per la transizione digitale della giustizia l’analisi statistica e le politiche di coesione del Ministero della Giustizia e pubblicata da via Arenula sul proprio sito.

Riduzione tempi civile e penale

I dati annuali del disposition time confermano la tendenza osservata nel I semestre, al netto di fisiologiche oscillazioni dovute all’effetto del periodo feriale.

A fine 2023 la riduzione rispetto al 2019 (anno base di riferimento del PNRR) era pari a:

-17,4% nel settore civile

-25,0% in quello penale

Una diminuzione più consistente nel settore penale (-16,6%), ma apprezzabile anche in quello civile (-6,4%) confrontando i dati del 2022.

Nel penale il risultato complessivo si conferma in linea con il target PNRR (-25% entro giugno 2026) anche in termini di aumento dei procedimenti definiti (+3,9% rispetto al 2019) che nell’ultimo ha avuto una accelerazione (+7 ,6% rispetto al 2022) grazie anche all’impatto della Cartabia.

Anche sul fronte Cassazione, il disposition time 2023 ha raggiunto i 110 giorni, un valore inferiore alla media dei paesi del Consiglio d’Europa.

Più contenuto il calo in civile ma comunque positivo l’aumento dei procedimenti definiti (pari all’1,6%). Non bene le definizioni in tribunale e in Corte d’appello, dato che, precisa il ministero, “andrà monitorato nella prospettiva del raggiungimento dell’obiettivo concordato di riduzione del disposition time complessivo del 40% entro giugno 2026”.

Smaltimento arretrato

Sul fronte arretrato, gli accordi rimodulati, tra via Arenula e Commissione Europea, prevedono “un obiettivo  intermedio  di  riduzione del  95%  dell’arretrato 2019  entro  il 31.12.2024 e un obiettivo finale di riduzione, entro il 30.06.2026, del 90% dei procedimenti civili pendenti al 31.12.2022, iscritti dal 01.01.2017 presso i Tribunali e dal 01.01.2018 presso le Corti di Appello”.

Lo smaltimento delle pendenze rilevanti ai fini del raggiungimento dell’obiettivo intermedio a fine 2023 (-85% in tribunale e – 97,1% in Corte d’appello) risulta più che completato per le Corti di Appello e quasi completato per i Tribunali. Il trend tuttavia, specifica via Arenula, “per garantire il raggiungimento degli obiettivi finali – deve essere mantenuto con – una dinamica di smaltimento robusta” anche nei prossimi anni.

La riduzione dell’arretrato “cosiddetto Pinto” rispetto al 2019 è pari al 24,7% in Tribunale ed al 37,7% in Corte di Appello.

Prossimo aggiornamento ottobre 2024

Complessivamente, dunque, i dati confermano, conclude il ministero, “lo sforzo importante che gli uffici giudiziari stanno compiendo nell’abbattimento delle pendenze e dell’arretrato, frutto anche dei cambiamenti organizzativi attuati con l’arrivo degli addetti all’Ufficio per il processo”.

La Relazione viene inviata alla Commissione europea due volte all’anno e i dati sono pubblicati sul sito del Ministero della giustizia. Il prossimo aggiornamento, relativo al I semestre 2024, sarà ora pubblicato ad ottobre.

codice rosso arresto

Codice rosso: arresto in flagranza differito Per la Cassazione, l’aumento dei casi di violenza domestica giustifica l’ampliamento della misura dell’arresto in flagranza differita ai reati di maltrattamenti in famiglia

Contestazione dell’arresto in flagranza differito

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta di annullamento, avanzata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo, dell’ordinanza del Gip con cui non veniva convalidato l’arresto in flagranza differita per il reato di cui all’art. 572 c.p. commesso dall’imputato in danno della compagna convivente.

Con il ricorso in esame il Procuratore aveva in particolare contestato la valutazione compiuta nell’ordinanza in ordine alla prova che, secondo il Gip, non presentava il carattere dell’evidenza con riferimento agli elementi costitutivi del reato, l’abitualità della condotta e la sistematica sottoposizione della compagna a sofferenze, privazioni, umiliazioni, così come riferite dalla persona offesa e da sua figlia.

Arresto in flagranza differito e prova video-fotografica

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16668-2024, ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata, dichiarando la legittimità dell’arresto compiuto.

Nella specie la Corte ha ritenuto che il ricorso sia fondato vista “l’erronea applicazione della legge penale con riferimento alla individuazione delle condizioni che legittimano l’arresto in flagranza differita in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia (…)”.

La Suprema Corte ha anzitutto ripercorso il quadro normativo di riferimento, interessato dal recente intervento operato dalla legge n. 168 del 2023 ove, all’articolo 10 è stata ridefinita, anche in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia, la nozione di ‘flagranza’, estendendola a chi appare colpevole sulla base di documentazione video-fotografica.

Ciò posto, la Corte ha dunque specificato che “La misura precautelare dell’arresto in flagranza differita, in funzione di tutela della vita e dell’integrità fisica delle persone vittime di violenza domestica o di condotte di stalking (…) appare ancorata alla emersione, attraverso un documento autoevidente, quale la documentazione risultante da ripresa video- fotografica e da dispositivi di comunicazione (..), di episodi di violenza, minaccia o aggressione alla persona” tali da integrare il reato di maltrattamenti in famiglia.

L’arresto, ha precisato il Giudice di legittimità, si risolve nell’eccezionale attribuzione alla polizia giudiziaria del potere di privare della libertà una persona e si giustifica come misure “immediata” che presuppone lo stato di flagranza, vale a dire la contestualità eziologica, di tempo e di spazio “tra il delitto e la privazione della libertà personale e trova concorrente giustificazione nella altissima probabilità (…) della colpevolezza dell’arrestato”.

L’aumento esponenziale dei casi di violenza domestica, ha proseguito la Corte, giustifica l’ampliamento della misura dell’arresto in flagranza differita ai reati di maltrattamenti in famiglia, pur essendo “indiscutibile che il ricorso a tale misura precautelare si pone in contrasto con la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi procede all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato se interpretate, stictu sensu, alla stregua della contestualità eziologica, temporale e spaziale tra il delitto e la privazione della libertà personale”.

Posto quanto sopra, nel caso di maltrattamenti in famiglia, il Giudice di legittimità ha pertanto evidenziato l’importanza di valorizzare elementi quali la documentazione video, testimoniante gli episodi di aggressione denunciati dalla persona offesa.

La decisione della Cassazione

Applicando i suddetti principi al caso in esame, la Corte ha dunque ritenuto che l’arresto in flagranza differita dell’imputato fosse valido, poiché compiuto dalla polizia giudiziaria sulla base di elementi documentali quali in particolare il suddetto filmato che riproduceva episodi di violenza dell’uomo dei confronti della convivente. Posto quanto sopra il Giudice di legittimità ha annullato l’ordinanza impugnata con la quale, come detto, non veniva convalidato l’arresto dell’imputato.

 

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