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Chiamata in causa del terzo costruttore Si può chiamare in causa il terzo costruttore per vizi del bene venduto?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Il venditore di un immobile può chiamare in causa il terzo costruttore solo per essere sollevato dalla responsabilità derivante da gravi difetti presenti nella costruzione e non anche per la mancata comunicazione all’acquirente dei vizi della cosa di cui era a conoscenza, poiché si tratta di responsabilità per violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, di cui all’art. 1175 c.c., che non coinvolge il terzo (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233).

La Corte di Cassazione, con la sentenza in disamina ha affrontato questioni relative alla responsabilità del costruttore e del venditore per vizi dell’immobile.

Il caso di specie riguarda l’acquisto di un immobile affetto da gravi problemi di umidità e allagamenti dovuti a difetti nel sistema fognario.

L’acquirente dell’immobile aveva citato in giudizio l’alienante per ottenere l’eliminazione dei vizi presenti nello stesso immobile, il rimborso parziale del prezzo ed inoltre il risarcimento dei danni. Il venditore si costituiva chiamando in causa la società costruttrice del fabbricato.

Il Tribunale condannava il solo venditore e non la società costruttrice poiché la domanda era formulata in modo generico e non con l’esperimento di un’azione ex art. 1669 c.c.

Invero, il venditore appellava la sentenza per ottenere la condanna del costruttore.

La Corte d’Appello accertava la responsabilità del costruttore ex art. 1669 c.c. e quella del venditore ex art. 1175 c.c., per non aver comunicato all’acquirente l’esistenza dei vizi dell’immobile di cui era a conoscenza. Condannava, quindi, la società costruttrice a tenere indenne l’appellante da tutte le conseguenze economiche derivanti dal fatto.

La società costruttrice ricorreva per Cassazione ed il ricorso veniva accolto.

La Corte ha, innanzitutto, ribadito che, a norma dell’art. 1669 c.c., la responsabilità del costruttore per gravi difetti dell’immobile sussiste se la scoperta del vizio avviene entro 10 anni dal completamento dell’opera. Il termine decorre dal collaudo e non dalla vendita dell’immobile. La responsabilità dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1669 c.c. è “speciale” rispetto a quella generica contemplata dall’art. 2043 c.c.: quest’ultima ricorre in via residuale, qualora non sussistano in concreto le condizioni giuridiche per l’applicabilità della prima (ad esempio, in caso di danno manifestatosi oltre il decennio dal compimento dell’opera).

La Cassazione chiarisce che il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza, può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (così anche Cass. 24 aprile 201, n. 10048; Cass. 23 gennaio 2008, n. 1463).

Nel caso di specie il venditore aveva avuto una conoscenza solo imperfetta dei vizi, pertanto, si era esperita una consulenza tecnica grazie alla quale era stata possibile l’imputazione delle cause; pertanto, dalla stessa consulenza occorreva far decorrere il termine di cui all’art. 1669 c.c.

Affinché possa essere fatta valere la responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. è necessaria la sussistenza di determinati elementi quali: un bene immobile destinato a lunga durata, la rovina dell’opera già avvenuta (sia nella forma totale che parziale), o anche l’attuale pericolo di rovina nell’immediato futuro; da ultimo l’esistenza di gravi difetti (nozione molto dibattuta in giurisprudenza e nella quale sembrerebbero rientrare tutti i vizi che incidono sugli elementi essenziali dell’immobile) della costruzione che pregiudicano la caratteristica della lunga durata.

Inoltre, la Cassazione ha chiarito che il momento della “scoperta” del vizio coincide con l’acquisizione della piena consapevolezza della sua gravità e delle sue cause, anche attraverso accertamenti tecnici.

Nel caso specifico, tale momento è stato individuato nel deposito della CTU.

La Suprema Corte non ritiene fondati i motivi per cui a fronte di una chiamata in causa del terzo formulata in modo generico in primo grado, la richiesta di risarcimento ex art. 1669 c.c., rivolta allo stesso terzo in secondo grado, deve essere considerata domanda nuova.

Secondo la Suprema Corte il titolo della responsabilità del terzo era già compreso nella ragione che aveva indotto il convenuto a chiamarlo in causa in primo grado, anche in assenza di esplicita domanda in tal senso, poiché la chiamata era rivolta a liberarsi dalla pretesa attorea (Cass. 29 dicembre 2009, n. 27525).

Un importante principio affermato dalla Corte riguarda l’estensione automatica al terzo chiamato (il costruttore) della domanda principale dell’attore contro il convenuto (il venditore), quando la chiamata in causa sia finalizzata a individuare il terzo come unico responsabile.

Ciò in virtù della comunanza del fatto costitutivo delle due fattispecie di responsabilità.

La sentenza ha anche ribadito che una domanda generica di risarcimento danni comprende tutte le possibili voci di danno, incluso quello non patrimoniale, purché siano stati allegati i fatti materiali lesivi. È ammissibile la produzione di documenti anche in fase successiva, se relativi a fatti collegati a quelli originariamente dedotti.

Un passaggio cruciale della decisione riguarda la responsabilità del venditore per violazione dei doveri di buona fede e correttezza.

La Corte ha censurato la sentenza d’Appello nella parte in cui aveva addossato al costruttore anche le conseguenze economiche derivanti dal comportamento scorretto del venditore, che era a conoscenza dei problemi ma non li aveva comunicati all’acquirente. Su questo punto la causa è stata rinviata per un nuovo esame.

Infine, la Cassazione ha confermato che il termine annuale per la denuncia dei vizi ex art. 1669 c.c. decorre solo dall’acquisizione di una “sicura conoscenza” dei difetti e delle loro cause, potendo essere postergato all’esito di accertamenti tecnici necessari.

In conclusione, la sentenza offre importanti chiarimenti su temi quali i termini dell’azione di responsabilità contro il costruttore, l’estensione della domanda al terzo chiamato, l’onere di allegazione dei danni e i doveri di correttezza del venditore.

(*Contributo in tema di “Chiamata in causa del terzo costruttore”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

autonomia differenziata

Autonomia differenziata: via libera al referendum Autonomia differenziata: il referendum abrogativo passa il vaglio della Cassazione, la parola finale però spetta alla Corte Costituzionale

Autonomia differenziata: ok al referendum abrogativo

La Corte di Cassazione ha dato il via libera al referendum per l’abrogazione totale della legge n. 86/2024 sull’autonomia differenziata. L’Ufficio centrale della Suprema Corte ha ritenuto conforme la richiesta di cancellazione dell’intero provvedimento. Il quesito potrà quindi arrivare al vaglio degli elettori, ma prima sarà necessario un passaggio decisivo davanti alla Corte Costituzionale.

La decisione è contenuta in un’ordinanza in cui i giudici hanno confermato la legittimità del quesito abrogativo totale. Tuttavia, hanno respinto la richiesta di abrogazione parziale.

Ultima parola alla Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale si era già espressa lo scorso dicembre. Accogliendo parzialmente i ricorsi di quattro Regioni, aveva evidenziato sette profili di illegittimità nella legge Calderoli. La Consulta aveva chiarito che il regionalismo rappresenta un bisogno fondamentale della società italiana. Tuttavia, solo il Parlamento può garantire l’equilibrio del pluralismo istituzionale. Alcune materie devono restare di competenza esclusiva statale per tutelare le esigenze unitarie (art. 117, secondo comma, Cost.).

La parola definitiva spetta comunque e nuovamente alla Corte Costituzionale. Entro metà gennaio, i giudici esamineranno l’ammissibilità del referendum in udienza camerale. La decisione è attesa entro il 20 gennaio, mentre le motivazioni saranno depositate entro il 10 febbraio. Il verdetto finale definirà se la legge sull’autonomia differenziata potrà essere sottoposta al voto popolare.

Reazioni e conclusioni

Il via libera della Cassazione ha suscitato immediate reazioni politiche. I comitati promotori del referendum hanno espresso soddisfazione. Ivana Veronese, vicepresidente del Comitato contro l’autonomia differenziata, ha accolto positivamente la decisione.

Il ministro Roberto Calderoli, padre della riforma, ha invece ribadito la validità della legge. Calderoli ha dichiarato nello specifico che l’autonomia differenziata non divide il Paese, ma lo unisce. Secondo lui, il referendum conferma che il provvedimento è “vivo e gode di buona salute”.

 

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Danno del bene custodito e responsabilità del custode Il custode per il danno del bene custodito può essere esonerato dalla responsabilità ove provi la mancanza di colpa?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Ai sensi dell’art. 2051 c.c. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota (Cass., sez. III, 19 settembre 2024, n. 25200).

La vicenda prende le mosse dalla morte di un ragazzo rimasto folgorato su un lampione cui si era appoggiato per andare a recuperare un pallone da calcio. In particolare, un gruppo di giovani giocava a calcetto, nel corso della partita un ragazzo scavalcava la recinzione per recuperare il pallone finito oltre e, nel rientro appoggiandosi ad un lampione privo di corpo illuminante, decedeva per folgorazione.

Tralasciando, in questa sede la responsabilità penale, procediamo nell’analisi della responsabilità civile ex art. 2051 c.c., in quanto essa trova applicazione anche in situazioni in cui vi è assoluzione in sede penale delle autorità preposte. Invero, la Suprema Corte ricorda che, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di affermare la sua responsabilità civile nel giudizio di risarcimento dei danni. Questo perché l’elemento della colpa e del nesso di causalità materiale nel processo civile è valutato dal giudice in modo differente rispetto alla valenza che assume nel processo penale.

Dunque, nel caso di specie sul fronte penale per omicidio colposo, vi sono tre procedimenti: uno nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell’impianto di illuminazione che serviva il piazzale, ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo si concludeva con una condanna per omicidio colposo.

Sul fronte civile, invece, il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda.

La Corte di Appello, accogliendo la domanda dei parenti della vittima, riformava la decisione e condannava il Comune al risarcimento dei danni.

La questione principale riguarda l’individuazione della responsabilità ex art. 2051c.c. del Comune, anche in relazione all’eventuale giudicato penale di assoluzione.

La colpa dei singoli dipendenti del Comune è irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti dei singoli.

Così, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all’affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale.

La sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempreché la parte nei cui confronti l’imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale, dovendosi far riferimento, per delineare l’ambito di operatività della sentenza penale e la sua idoneità a provocare gli effetti preclusivi di cui agli artt. 652, 653 e 654 c.p.p. non solo al dispositivo, ma anche alla motivazione.

Nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario, mentre nel processo civile l’ente è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale.

Inoltre, ai sensi dell’art. 2051 c.c. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.

Ai fini della configurabilità di responsabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Nel caso di specie risulta provato che il giovane fosse morto per folgorazione e i lampioni non erano in sicurezza o recintati.

La Cassazione è consolidata nell’affermazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione ai sensi dell’art. 2051 c.c. in quanto custode dell’immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente. È, inoltre, responsabile per i danni causati dalle condizioni in cui versa la res in custodia anche quando questa sia modificata, tranne il solo caso in cui la modifica sia avvenuta con modalità tali (immediatamente prima, ad esempio) da escludere una qualsiasi pronta reazione; occorre, perciò, stabilire se il danno è causato dai lavori alla res in custodia in costanza dei medesimi (ipotesi nella quale la simultaneità della condotta dell’esecutore dei lavori elide il nesso causale con la cosa, questa regredendo a mera occasione del sinistro). Permane, invece, la responsabilità, se il danno è causato dalla res come modificata dai lavori e questi siano cessati da un tempo idoneo a consentire un intervento o adeguamento da parte del custode.

Non giova, pertanto, a un Comune la circostanza che le condizioni dell’impianto potessero essere ascritte all’esecutore dei lavori ove già consolidate, per cui l’ente ne risponde nei confronti dei terzi che ne fossero danneggiati.

 

(*Contributo in tema di “Danno del bene custodito: esonero di responsabilità del custode”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

censura corrispondenza al 41-bis

Censura corrispondenza al 41-bis: quali limiti Non si può censurare tout court la corrispondenza al 41-bis senza l'applicazione graduale del solo visto di controllo

Carcere duro e corrispondenza

Censura corrispondenza al 41-bis: è inapplicabile senza l’applicazione graduale dello strumento ordinario del visto di controllo. Così la prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41191/2024 accogliendo il ricorso di un detenuto in regime detentivo speciale.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli ha confermato, in sede di impugnazione ai sensi dell’art. 18 ter ord. pen., il provvedimento in tema di limiti alla ricezione e visto di corrispondenza emesso dalla Corte di Assise di Appello di Napoli nei confronti di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis ord. pen.
Secondo il Tribunale le limitazioni alla ricezione di quotidiani dell’area geografica di provenienza del detenuto, così come il limite alla possibilità di inoltrare o ricevere (in via generale) missive da qualsiasi altro soggetto sottoposto al regime differenziato di cui all’art.41 bis ord. pen. sono del tutto legittime, in riferimento alle finalità perseguite dal regime differenziato.

Il ricorso

Avverso detta decisione l’uomo ha proposto ricorso per cassazione – nelle forme di legge – deducendo erronea applicazione di legge e assenza di motivazione.
La critica difensiva si dirige alla parte della decisione relativa al divieto «generalizzato» di scambi epistolari con soggetti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen. In proposito, si osserva che la legge non consente un simile divieto «preventivo e generalizzato», quanto la sottoposizione al «visto di controllo», dunque ad una attività di analisi dei contenuti delle missive, a chiunque dirette.

Limitazioni alla corrispondenza epistolare

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato. “La disposizione di legge di cui all’art. 18 ter ord.pen. consente sia «limitazioni» alla corrispondenza epistolare che la «sottoposizione» al visto di controllo, sì da inibire forme di possibile prosecuzione o realizzazione di attività illecita. lI testo dell’articolo 41 bis ord. pen, in rapporto alla finalità di prevenire contatti con l’ambiente criminale di provenienza, indica come contenuto «necessario» del provvedimento applicativo la «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza».” Del resto, il soggetto sottoposto al 41-bis ha contatti con gli altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità (parimenti sottoposti al regime differenziato).
Pertanto, osservano ancora i giudici, “non appare del tutto in linea con il contenuto delle disposizioni di legge, pur in un contesto di maggior tutela dei profili di sicurezza come è quello del regime differenziato, prevedere in assoluto e in via generale un «divieto» di corrispondenza epistolare tra soggetti – tutti – sottoposti al regime differenziato, posto che proprio il contenuto «strutturale» della disposizione di cui all’art. 41 bis ord. pen. induce a ritenere che lo strumento di controllo tipico è rappresentato dal «visto di censura», con verifica caso per caso del contenuto della comunicazione”.

La decisione

Le ‘limitazioni’ di cui all’art. 18 ter comma 1 lettera a), in riferimento al tema della corrispondenza, “è da ritenersi, dunque – concludono dal Palazzaccio annullando il provvedimento impugnato – che possano essere adottate solo in presenza di specifiche esigenze di sicurezza, da motivarsi in modo stringente, che rendano – in ipotesi – non sufficiente lo strumento ordinario del visto di censura”. Parola al giudice del rinvio.

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mobili sul pianerottolo

Mobili sul pianerottolo: vanno rimossi se ostacolano il passaggio   Mobili sul pianerottolo: vanno rimossi se il deposito prolungato impedisce agli altri condomini l’uso paritario dello spazio comune

Mobili sul pianerottolo: deposito illegittimo

Depositare mobili sul pianerottolo comune è illegittimo. La Cassazione lo ha precisato nell’ordinanza n. 30468/2024. La vicenda giudiziaria inizio quando diversi condomini decidono di depositare la loro mobilia nello spazio comune presente di fronte alle abitazioni e non provvedono più alla rimozione della stessa.

Violazione dell’uso paritario dello spazio comune

L’ azione legale viene intrapresa dal proprietario di due unità immobiliari comprese all’interno di due edificio condominiale contro altri condomini. Questi ultimi si sono resi responsabili di aver collocato mobili e arredi sui pianerottoli comuni, rendendoli di fatto utilizzabili. L’attore in causa chiede quindi la rimozione di questi oggetti e il ripristino dello stato dei luoghi. In primo grado, la domanda del ricorrente viene dichiarata inammissibile. La Corte d’Appello però ribalta la decisione, basandosi sui risultati di una consulenza tecnica d’ufficio (CTU). La Corte condanna i convenuti alla rimozione dei mobili. Il deposito degli stessi è infatti illegittimo perché impedisce agli altri condomini un uso paritario degli spazi comuni.

Parti comuni condominiali: diritto all’uso paritario

Il caso approda in Cassazione. In questa sede i ricorrenti contestato l’interpretazione dei dati emersi dalla CTU. La Corte di Cassazione però respinge il ricorso, sottolineando l’assenza di un errore revocatorio. Il ricorso si basa in effetti su presunti errori di valutazione, che non rientrano tra le cause di revocazione ai sensi dell’articolo 395 c.p.c. Le critiche mosse dai ricorrenti riguardano valutazioni di merito, già esaminate nei precedenti gradi di giudizio. Tali critiche non costituiscono quindi un errore revocatorio, ma rientrano nell’ambito dell’errore di giudizio, non suscettibile di revisione.

Per la Corte di Cassazione il ricorso è pertanto inammissibile e i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni per lite temeraria, ai sensi dell’articolo 96 c.p.c. Il ricorso del resto è palesemente infondato ed evidenzia una grave negligenza, considerata la professionalità richiesta agli avvocati cassazionisti.

Uso delle parti comuni in condominio

La decisione della Corte Suprema chiarisce in sostanza un principio giuridico fondamentale per la convivenza condominiale, ossia che tutti i condomini hanno diritto a un uso paritario delle parti comuni. Il deposito di oggetti sui pianerottoli è illegittima perché viola il diritto di tutti i condomini di utilizzare liberamente gli spazi comuni. I condomini devono quindi agire con responsabilità, evitando utilizzi esclusivi o arbitrari degli spazi comuni.

 

Leggi anche: Il condominio nel codice civile

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Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante della pubblicità Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante delle pubblicità, la chat conserva una sua riservatezza, non è un sito o un social media

Diffamazione su una chat di WhatsApp

Esclusa la diffamazione aggravata dal mezzo della pubblicità del messaggio offensivo su una chat di WhatsApp. Lo ha stabilito la sentenza n. 42783/2024 della Corte di Cassazione. La decisione ha stabilito infatti che l’invio di un messaggio offensivo su una chat di WhatsApp non comporta automaticamente l’applicazione dell’aggravante del “mezzo di pubblicità”. La sentenza chiarisce che l’uso di piattaforme come WhatsApp, anche se coinvolge numerosi partecipanti, non equivale a una comunicazione pubblica. La riservatezza intrinseca di queste chat limita la diffusività del messaggio e impedisce l’applicazione automatica di aggravanti legate alla pubblicità.

Militare assolto dal reato di diffamazione

Il caso di cui si sono occupati gli Ermellini riguarda un militare, accusato di aver diffamato una collega tramite un commento offensivo inviato a una chat WhatsApp denominata “181 ESEMPIO”, composta da 156 membri. Per l’accusa il numero di iscritti configura l’aggravante del “mezzo di pubblicità”, rendendo il reato procedibile d’ufficio. Tuttavia, il giudice di primo grado ha assolto l’imputato per “particolare tenuità del fatto” ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale.

La Corte Militare d’Appello ha confermato la condanna, sostenendo la natura pubblica della comunicazione nella chat. Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell’imputato ha sollevato tre punti: erronea identificazione della persona offesa, contraddittorietà nella qualificazione dell’offesa e impropria applicazione della legge riguardo alla presunta “pubblicità” del messaggio.

Aggravante della pubblicità inapplicabile

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso in merito all’errata applicazione dell’aggravante del mezzo di pubblicità. Secondo i giudici, una chat WhatsApp, seppur con numerosi iscritti, conserva una dimensione riservata e non può essere equiparata a strumenti come social network o siti web pubblici. La decisione si basa su un’analisi dettagliata delle caratteristiche tecniche della piattaforma. La sentenza distingue infatti i mezzi di comunicazione in grado di raggiungere un pubblico indeterminato dagli strumenti più circoscritti come le chat private.

Aggravante della pubblicità configurabile su social e siti web

Nelle piattaforme social, come Facebook, la diffusione di contenuti può teoricamente raggiungere un numero indefinito di utenti, configurando una “pubblicità” che giustifica l’applicazione dell’aggravante. Nel caso delle chat WhatsApp, invece, il messaggio è accessibile solo agli iscritti, i quali devono essere stati precedentemente accettati nel gruppo. Questa caratteristica preserva un elemento fondamentale di riservatezza, anche se il numero di membri può essere elevato. La Cassazione sottolinea che la diffusione di un messaggio all’interno di un gruppo chiuso non determina automaticamente la “perdita di riservatezza”. Con l’esclusione dell’aggravante, il reato contestato al militare è procedibile solo su querela di parte e non d’ufficio. La mancanza di una querela valida ha quindi portato all’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello, rendendo improcedibile il caso.

 

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Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato Il passeggero terzo, vittima di un sinistro stradale, ha diritto ad ottenere il risarcimento dell’assicurazione se il conducente dell’auto ha bevuto alcolici?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

L’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. La colpa non è sempre imputabile in capo a chi, dopo aver accettato di essere trasportato a bordo di un veicolo con una persona ubriaca alla guida, rimane coinvolto in un sinistro stradale di cui la responsabilità è rinvenibile a capo del conducente. È il giudice che deve valutare, caso per caso, l’esistenza e il grado della colpa del trasportato nel causare il sinistro (Cass., sez. III, 17 settembre 2024, n. 24920).

Il caso in oggetto prende le mosse dalle lesioni riportate da un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo. Di tale danno il terzo trasportato chiese il risarcimento al vettore ed al suo assicuratore.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello attribuirono alla vittima un concorso di colpa del 50%, in quanto il terzo trasportato aveva fornito un contributo causale all’avverarsi del da lui stesso sofferto, accettando di essere trasportato a bordo di un veicolo condotto da una persona in evidente stato di ebbrezza.

Il soggetto trasportato ricorre in Cassazione e questa dichiara improcedibile il ricorso.

Tuttavia, la Corte affronta la questione prendendo le mosse dal principio sancito dall’art. 1227 c.c. il quale prevede che, se il comportamento colpevole della vittima ha concorso a causare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. È quindi possibile escludere o ridurre il diritto al risarcimento del danno di persona trasportata su un veicolo condotto in stato di ebrezza.

In quest’ottica la Suprema Corte si occupa della questione concernente la compatibilità tra il diritto comunitario e l’art. 1227, comma 1, c.c. Sul punto, la Corte, nel richiamare la normativa comunitaria in materia, preliminarmente fa riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia 30 giugno 2005, che ha affermato due principi. Secondo il primo, il diritto comunitario, in tema di assicurazione, sarebbe “privato del suo effetto utile” in presenza d’una normativa nazionale che negasse al passeggero il diritto al risarcimento – ovvero lo limitasse in misura sproporzionata – “in base a criteri generali ed astratti”. Per il secondo, il diritto comunitario consente, invece, agli Stati membri di limitare il risarcimento dovuto al trasportato “in base ad una valutazione caso per caso” di circostanze eccezionali. Pertanto, mentre contrasterebbe con l’art. 13 Direttiva 2009/103 una norma di diritto interno che escludesse o limitasse ipso facto il diritto al risarcimento del passeggero, per il solo fatto di avere preso posto a bordo d’un veicolo condotto da persona ubriaca, non viola per contro il diritto comunitario una norma di diritto nazionale che, senza fissare decadenze o esclusioni in linea generale, consente al giudice di valutare caso per caso, secondo le regole della responsabilità civile, se la condotta della vittima possa o meno ritenersi colposamente concorrente alla produzione del danno.

Alla luce di quanto sopra premesso, la Corte enuncia dei principi fondamentali di diritto.

In primo luogo, afferma che l’art. 1227, comma 1, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale e astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente; una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, par. 3, della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, qualsiasi disposizione di legge […] che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol.

Spetterà, quindi, al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore. Da ultimo l’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

permessi legge 104

Permessi legge 104: non c’è una data di scadenza I permessi ex legge 104 non hanno una data di scadenza, vengono meno se non sussistono i requisiti richiesti dalla legge

Permessi legge 104: nessuna scadenza automatica

I permessi retribuiti previsti dall’articolo 33 della Legge 104/1992 non hanno una data di scadenza prefissata. Tuttavia, il diritto alla fruizione rimane subordinato alla verifica continua della sussistenza dei requisiti richiesti. Questo principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 30628/2024.

Richiesta permessi per assistere parente disabile

Il principio sancito dagli Ermellini chiude una vicenda che ha inizio quando un lavoratore chiede i permessi per assistere un congiunto con disabilità grave. L’INPS inizialmente concede l’autorizzazione, poi la limita a un periodo definito. La società datrice di lavoro chiede quindi il rimborso delle somme indebitamente erogate.  Per la società infatti il dipendente non aveva più diritto ai permessi. La Corte d’Appello accoglie le richieste dell’azienda, ma il lavoratore impugna la decisione, portando il caso davanti alla Cassazione.

I permessi della legge 104 non scadono automaticamente

La Suprema Corte chiarisce che il diritto ai permessi nasce con la presentazione della domanda amministrativa e il riconoscimento dell’ente previdenziale. Una volta accertato il diritto, questo non può essere arbitrariamente limitato nel tempo dall’INPS o dal datore di lavoro, a meno che non intervengano cambiamenti nei requisiti iniziali. I benefici previsti dalla Legge 104 non sono soggetti a “scadenza automatica”. Eventuali modifiche o revoche possono avvenire solo in caso di accertamenti successivi che dimostrino l’assenza dei presupposti di legge.

Onere del lavoratore: domanda corretta e completa

Il lavoratore ha l’onere di presentare una domanda amministrativa corretta e completa. Questa domanda è infatti un atto essenziale per accedere al beneficio. Essa permette all’INPS di verificare l’esistenza delle condizioni previste dalla normativa. Una volta approvata, la prestazione previdenziale diventa obbligatoria e permanente fino a prova contraria.

Nel caso specifico, la Cassazione, nell’accogliere  il ricorso del dipendente, evidenzia che l’INPS non aveva il diritto di circoscrivere temporalmente il beneficio, salvo verifiche capaci di dimostrare la perdita dei requisiti.

INPS o datore: devono provare il venir meno dei requisiti

Un elemento cruciale riguarda però l’onere della prova. Spetta all’INPS o al datore di lavoro dimostrare che i requisiti per i permessi siano venuti meno. Questo ribalta la prospettiva: una volta riconosciuto il diritto, il lavoratore non deve dimostrare continuamente di averne diritto. Sono le istituzioni competenti a dover provare eventuali irregolarità.

Implicazioni pratiche lavoratori e datori

La sentenza della Cassazione sancisce in conclusione che:

  • i permessi ex Legge 104 non decadono automaticamente;
  • la richiesta del lavoro relativa ai permessi deve essere chiara, completa e conforme ai requisiti di legge;
  • l’INPS può controllare la persistenza dei requisiti, ma non può imporre limiti temporali arbitrari;
  • il diritto ai permessi decade solo se emergono modifiche che rendono non applicabile la normativa.

Ne consegue che le aziende devono prestare maggiore attenzione nel gestire i permessi. Anticipare somme senza verifiche adeguate può comportare rischi finanziari. La richiesta di rimborso al lavoratore deve essere supportata da prove solide che dimostrino eventuali irregolarità nel godimento dei permessi 104.

E’ necessario inoltre che vi sia equilibrio tra il diritto del lavoratore e il controllo dei requisiti da parte dell’INPS. Il sistema previdenziale deve essere equo e il diritto al sostegno per i familiari con disabilità deve essere garantito senza ostacoli burocratici o interpretazioni restrittive.

 

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divieto di avvicinamento

Divieto di avvicinamento: requisiti della misura Divieto di avvicinamento: il giudice deve indicare i luoghi che la vittima frequenta di solito, la distanza minima e la misura di controllo

Requisiti del divieto di avvicinamento

Quando un giudice emette un divieto di avvicinamento, è tenuto a specificare nell’ordinanza i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, la distanza minima di sicurezza da mantenere, che non deve essere inferiore a 500 metri, e il sistema di controllo da adottare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42892/2024, ha annullato un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Genova, mettendo in luce gravi carenze nell’applicazione del divieto avvicinamento nei confronti della persona offesa.

Questo provvedimento sottolinea i requisiti imprescindibili che devono essere rispettati dai giudici quando dispongono misure cautelari per proteggere le vittime, specialmente nei casi di violenza domestica o di genere.

Così facendo, la Corte riafferma l’importanza di applicare rigorosamente le norme relative al divieto di avvicinamento. I giudici devono assicurarsi che le misure cautelari non siano solo simboliche, ma strumenti efficaci per prevenire ulteriori abusi. La precisione delle prescrizioni e l’utilizzo delle tecnologie di controllo non sono facoltativi, ma requisiti essenziali per garantire la sicurezza delle vittime e l’efficacia dell’intervento giudiziario.

Lacune nell’ordinanza cautelare

L’ordinanza contestata è stata emessa il 31 luglio 2024. Con questo provvedimento, il Tribunale del Riesame aveva sostituito gli arresti domiciliari dell’imputato con il divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi da questa frequentati, assieme a un obbligo di dimora con permanenza notturna. Tuttavia, il Pubblico Ministero ha impugnato la decisione evidenziando:

  • la mancata indicazione dei luoghi solitamente frequentati dalla vittima;
  • l’assenza della distanza minima di sicurezza di 500 metri;
  • la mancata imposizione dei dispositivi elettronici di controllo come previsto dall’articolo 282-ter c.p.p., aggiornato dalla Legge 168/2023.

Previsioni legislative

Le normative attualmente vigenti richiedono che nel disporre il divieto di avvicinamento alla persona offesa il giudice debba indicare:

  • i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima con descrizioni chiare e dettagliate;
  • una distanza minima non inferiore a 500 metri;
  • l’adozione obbligatoria dei dispositivi elettronici per il controllo (come ad esempio i braccialetti elettronici), salvo accertamenti tecnici che ne dimostrino l’impossibilità.

Tali requisiti sono stati introdotti attraverso modifiche legislative mirate a rafforzare le tutele per le vittime dei reati violenti e garantire un controllo efficace sui comportamenti degli imputati. La legge stabilisce che la mancanza anche solo di uno degli elementi richiesti rende il provvedimento viziato.

Divieto di avvicinamento: criticità dell’ordinanza

La Corte di Cassazione, concordando con il Pubblico Ministero, ha ritenuto l’ordinanza emessa dal Tribunale genovese non conforme ai principi sanciti dalla normativa vigente. Essa infatti non ha specificato i luoghi frequentati dalla persona offesa, elemento cruciale per fornire certezze sia all’imputato sia alla vittima. L’omissione compromette infatti l’efficacia delle misure cautelari e la sicurezza della vittima.

Inoltre, nell’ordinanza mancava anche la prescrizione della distanza minima richiesta dalla legge. Infine, non era previsto l’utilizzo degli strumenti elettronici per il controllo come richiesto dall’articolo 282-ter; questo impone infatti che il divieto d’avvicinamento venga accompagnato da modalità tecnologiche salvo impossibilità tecnica dichiarata espressamente. Tale misura non è accessoria, ma parte integrante della tutela.

La Cassazione ribadisce inoltre che il divieto d’avvicinamento rappresenta una misura cautelare unica modulabile secondo due approcci:

  • vietando l’accesso ai luoghi frequentati dalla vittima;
  • imponendo una distanza minima rispetto alla persona offesa.

La scelta tra queste opzioni o loro combinazione deve essere motivata nel rispetto dei principi proporzionalità ed adeguatezza; inoltre prescrivere controlli tramite dispositivi tecnologici obbligatoriamente garantisce continuo monitoraggio sul rispetto delle misure imposte.

Misure protettive più stringenti

Le modifiche legislative recenti culminate nella Legge n°168/2023 hanno reso più stringente quadro normativo relativo alle misure protettive seguendo approccio tolleranza zero verso violenze domestiche/genere; in particolare eliminata discrezionalità giudice circa adozione dispositivi elettronici rendendoli obbligatori salvo impossibilità tecnica accertata.

La sentenza ha quindi annullato l’ordinanza impugnata, disponendo rinvio Tribunale Genova affinché deliberi nuovamente rispettando principi stabiliti dalle norme vigenti.

 

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addebito separazione

Addebito separazione anche per una sola violenza Addebito separazione: la Cassazione ribadisce che è sufficiente un episodio violenza, perché viola gravemente i doveri coniugali

Addebito separazione: la violenza è grave e prevale

Quando un matrimonio entra in crisi, le cause alla base della separazione possono essere le più svariate. Tra queste, la violenza, anche limitata a un singolo episodio, può essere determinante per laddebito della separazione. La recente ordinanza n. 30721/2024 della Corte di Cassazione, in linea con precedenti pronunce, ha ribadito questo principio, sottolineando che i comportamenti violenti, per la loro gravità, possono prevalere su altre circostanze di conflittualità tra i coniugi.

Violenza: violazione grave dei doveri matrimoniali

La legge italiana prevede che il matrimonio imponga doveri reciproci, tra cui il rispetto e l’assistenza morale e materiale. La violenza fisica o psicologica rappresenta una violazione grave di questi obblighi, tale da poter giustificare l’addebito della separazione. Secondo la giurisprudenza, anche un singolo episodio di violenza è sufficiente, se la sua gravità è tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

Addebito separazione: onere della prova

Chi richiede l’addebito della separazione per violenza deve però fornire due prove:

  • esistenza della violenza: deve dimostrare cioè che l’episodio o gli episodi contestati al coniuge siano realmente avvenuti;
  • nesso causale: deve provare che proprio la violenza abbia reso impossibile la prosecuzione del matrimonio.

La Corte di Cassazione ha chiarito che l’accertamento di un episodio di violenza, per la sua gravità, può bastare per l’addebito. Non è necessario dimostrare che l’episodio sia stato l’unico motivo della crisi matrimoniale, purché vi abbia contribuito in modo determinante.

Il caso affrontato dalla Cassazione ha riaffermato questi principi. Una donna aveva chiesto l’addebito della separazione al marito, accusandolo di violenze fisiche e psicologiche, anche durante la gravidanza. Tuttavia, sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano respinto la richiesta. I giudici di merito hanno ritenuto insufficienti le prove e hanno osservato che i fatti denunciati risalivano a diversi anni prima della domanda di separazione.

Condotte violente: rilevano anche se datate

La Cassazione, investita del caso ha però accolto il ricorso della donna. Per gli Ermellini i giudici di merito hanno errato perché:

  • non hanno adeguatamente valutato l’autonoma sufficienza della violenza per l’addebito;
  • hanno escluso il nesso causale solo per il decorso del tempo tra gli episodi e la separazione, senza considerare l’impatto duraturo delle violenze.

Secondo la Cassazione, le condotte violente, anche se datate, non perdono la loro rilevanza se hanno contribuito alla crisi matrimoniale. Inoltre, l’onere probatorio per l’addebito, in caso di violenza, può essere mitigato. La gravità del comportamento violento giustifica un’attenzione particolare alla tutela della vittima. La necessità di dimostrare il nesso diretto tra la violenza e l’intollerabilità della convivenza è meno stringente.

Ammissione prove testimoniali e documentali

La Cassazione ha anche evidenziato l’importanza di ammettere prove testimoniali e documentali per accertare episodi di violenza. Nel caso analizzato, la donna aveva richiesto l’escussione di testimoni, tra cui il medico che aveva redatto un referto medico con prognosi di 20 giorni per lesioni subite. Tuttavia, tali richieste erano state rigettate dai giudici di merito, compromettendo l’accertamento dei fatti.

Con questa decisione la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: la violenza, anche se limitata a un unico episodio, costituisce una violazione gravissima dei doveri matrimoniali. Questo comportamento può essere sufficiente per ottenere l’addebito della separazione. Occorre però dimostrare la sua gravità e il suo impatto sulla relazione coniugale.

 

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