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MAE: la protezione internazionale non è un ostacolo assoluto Il riconoscimento della protezione internazionale da parte di uno Stato membro dell’Unione europea non impedisce la consegna del cittadino straniero a un altro Stato membro che abbia emesso un regolare mandato d’arresto europeo

Mae e protezione internazionale

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 5793/2025, ha stabilito un principio di rilievo in materia di mandato d’arresto europeo (MAE) e protezione internazionale. Secondo i giudici di legittimità, il riconoscimento della protezione internazionale da parte di uno Stato membro dell’Unione europea non impedisce la consegna del cittadino straniero a un altro Stato membro che abbia emesso un regolare mandato d’arresto europeo.

Il caso esaminato dalla Cassazione

La vicenda trae origine dalla richiesta di consegna da parte della procura di Salonicco (Grecia) di un cittadino straniero residente in Italia, sulla base di un mandato d’arresto europeo emesso per il reato di tentato furto. L’uomo, tuttavia, aveva ottenuto in Italia lo status di rifugiato richiedente asilo politico e lavorava in Italia come aiuto cuoco. Da qui il ricorso al Palazzaccio, dove la difesa lamentava che la Corte di appello aveva negato lo status di rifugiato benchè dal permesso di soggiorno risultasse la richiesta di asilo politico. Inoltre, rappresentava che poichè l’uomo risiedeva e lavorava in Italia sussistevano “le ragioni per opporre il motivo di rifiuto facoltativo della consegna” per il suo interesse a che la pena fosse eseguita in Italia.

Protezione internazionale e MAE

La Cassazione, con la sentenza in esame, ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato.

A prescindere dalla carenza o meno della prova dello stato di rifugiato richiedente asilo politico deve rammentarsi, osservano i giudici, “che essendo il mandato d’arresto europeo un meccanismo di consegna che esplica i suoi effetti unicamente all’interno dell’area territoriale propria dell’Unione, il riconoscimento del diritto di protezione sussidiaria da parte dello Stato italiano non costituisce causa ostativa alla consegna ad altro paese dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 2 della legge 22 aprile 2005, n. 69”.

Non refoulement

Invero, “il rilievo che il consegnando non potrebbe fruire delle stesse garanzie costituzionali in tema di asilo è palesemente infondato, atteso che, da un lato, l’art. 33 della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati sancisce che il principio del ‘non refoulement’ riguarda soltanto i territori in cui la vita o la libertà del soggetto sarebbero minacciate a motivo della razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale, opinioni politiche, e, dall’altro, lo status di asilo o di protezione internazionale attribuito nell’ambito dell’Unione europea ha natura uniforme ed è valido in tutti gli Stati Membri (Sez. 6, n. 9821 del 10/03/2021)”.

MAE: presupposti del rifiuto

Quanto al motivo di rifiuto correlato alla residenza la S.C. rileva l’assoluta genericità della doglianza atteso che alcun documento è stato sottoposto alla Corte di appello a dimostrazione del radicamento nel quinquennio nel territorio nazionale.
Al riguardo, osservano da piazza Cavour “che anche dopo la modifica dell’art. 18-bis per effetto del d.l. 13 giugno 2023 n. 69, convertito con modificazioni nella legge 10 agosto 2023 n. 103, in vigore dal 1 agosto 2023, il presupposto del motivo di rifiuto in esame, quanto alla durata minima della presenza stabile nel territorio nazionale, è rimasto immutato. La modifica ha riguardato, invero, solo l’ambito dei soggetti interessati, non più limitato al cittadino italiano o al cittadino di altro Stato membro, ma esteso a qualunque persona (senza attributo alcuno di cittadinanza) che legittimamente ed effettivamente risieda o dimori in via continuativa da almeno cinque anni sul territorio italiano, sempre che al Corte stessa disponga l’esecuzione in Italia della pena o della misura di sicurezza per cui la consegna viene richiesta conformemente al diritto interno”.
In altri termini, “solo se la presenza sul territorio nazionale presenti i caratteri della stabilità e della durata non inferiore a cinque anni richiesti dal comma 2, sorge la necessità di giustificare il mancato esercizio della facoltà di avvalersi del motivo di rifiuto sulla base degli ulteriori indici specificati nel comma 2-bis cit.”.

Da qui l’inammissibilità del ricorso.

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Nessun mantenimento alla ex se non cerca lavoro Mantenimento alla ex: non è dovuto l’assegno alla moglie che, per età e capacità, può mantenersi da sola ma non si attiva per cercare lavoro

Assegno di mantenimento alla ex

La Cassazione, con l’ordinanza n. 3354/2025, ha deciso che l’assegno di mantenimento alla ex è dovuto se dimostra di aver cercato attivamente lavoro senza successo. La capacità lavorativa è un criterio essenziale per determinare il diritto all’assegno. È responsabilità del richiedente fornire prove di un’infruttuosa ricerca occupazionale. L’assegno, previsto dall’articolo 156 del codice civile, difende la solidarietà coniugale ma non copre ciò che il coniuge potrebbe ottenere autonomamente. Nel caso specifico, la richiesta della ex moglie è stata respinta poiché non ha dimostrato di aver cercato lavoro e ha rifiutato ingiustificatamente un’offerta.

Mantenimento post-separazione: art. 156 c.c.

Il Tribunale si esprime in prima istanza sulla separazione personale di due coniugi. Il marito contesta la decisione, chiedendo che la colpa della separazione venga attribuita alla moglie e che la richiesta di mantenimento venga respinta. La moglie non ha infatti soddisfatto le condizioni dell’articolo 156 c.c., che richiedono l’assenza di redditi adeguati. In giudizio, la moglie chiede il rigetto delle richieste del marito e che un terzo creditore del coniuge le paghi le somme dovute come mantenimento.

Mantenimento negato senza ricerca attiva

La Corte rigetta invece le richieste della moglie, accogliendo parzialmente quelle del marito. L’indagine istruttoria non permette alla Corte di stabilire se la fine del matrimonio sia attribuibile a uno o entrambi i coniugi. Tuttavia, riguardo al mantenimento richiesto dalla moglie, esso viene negato poiché ha rifiutato un’offerta lavorativa senza giustificazioni e non ha cercato attivamente lavoro. La donna si è limitata a inviare un curriculum a una banca, lamentando difficoltà nel trovare occupazione per mancanza di un mezzo proprio. Secondo la Corte l’assegno non è dovuto data la giovane età della richiedente, la breve durata del matrimonio e l’assenza di figli. L’assegno mensile di 250 euro decretato dal Tribunale non è giustificabile poiché non è stato neanche dimostrato il tenore di vita durante il matrimonio durato solo quattro anni.

Differenze economiche e difficoltà lavorative

La parte soccombente ricorre in Cassazione sottolineando che il marito possiede un notevole patrimonio immobiliare e un reddito adeguato mentre lei  durante il matrimonio si occupava della casa e della famiglia. Tra i due esisteva una significativa disparità economica e patrimoniale; inoltre va considerata la sua difficoltà nel trovare lavoro in Calabria, regione nota per problemi occupazionali.

Mantenimento alla ex escluso se capace di lavorare

La Cassazione però rigetta il ricorso sottolineando il mancato sforzo nella ricerca lavorativa da parte della moglie. Gli Ermellini ribadiscono che in tema di separazione dei coniugi, spetta al richiedente dimostrare lattivazione sul mercato del lavoro compatibile con le proprie capacità professionali in assenza di adeguati redditi propri. L’assegno previsto dall’articolo 156 c.c., pur esprimendo un dovere solidaristico, non può comprendere ciò che ordinariamente ci si può procurare autonomamente.

Per la Cassazione quindi le differenze reddituali non sono rilevanti se manca la prova della ricerca attiva di impiego; nel caso specifico è stato provato semmai il rifiuto ingiustificato dell’offerta lavorativa proposta.

 

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Licenziamento disciplinare: valide le giustificazioni inviate entro 5 giorni La Cassazione chiarisce che in caso di licenziamento disciplinare il termine dei 5 giorni si riferisce all’invio delle giustificazioni

Licenziamento disciplinare e giustificazioni lavoratore

In tema di licenziamento disciplinare, sono da considerarsi valide le giustificazioni trasmesse dal lavoratore entro 5 giorni. Il termine di decadenza, infatti, è relativo al momento dell’invio e non a quello della ricezione delle giustificazioni stesse da parte del datore di lavoro. Non solo. Il datore di lavoro non può adottare provvedimenti disciplinari senza previa audizione del lavoratore. Questi i principi che si ricavano dall’ordinanza n. 2066/2025 della sezione lavoro della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello confermava la misura del licenziamento per giusta causa comminata a un lavoratore a seguito di contestazione disciplinare.

L’uomo adiva il Palazzaccio lamentando, tra l’altro, che la Corte territoriale, condividendo quanto già considerato in primo grado, aveva ritenuto tardive le giustificazioni da lui rese all’azienda a mezzo pec.

La decisione

La Cassazione ritiene la doglianza fondata, citando sia la prescrizione normativa di cui all’art. 7 comma 2 dello Statuto dei Lavoratori che l’art. 8 del CCNL Metalmeccanica aziende industriali.

Inoltre, osservano i giudici di piazza Cavour, è stato giò affermato che “il dato letterale del secondo comma, ove si fa riferimento alla presentazione delle giustificazioni e non anche alla ricezione delle stesse da parte datoriale, è sufficientemente chiaro, orientando l’attività ermeneutica nel senso di attribuire alle parti sociali l’intento di riferire il termine di decadenza per l’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, al momento dell’invio delle giustificazioni e non della ricezione delle medesime da parte del datore di lavoro, non potendo prospettarsi ragionevoli dubbi sull’effettiva portata del significato della clausola” (cfr. Cass. n. 32607/2018; n. 12360/2014).

Vertendosi in tema di decadenza, secondo i principi enunciati in sede di legittimità (cfr. in termini Cass. Sez. Un. 14/4/2010 n. 8830; Cass. 24/3/2011 n. 6757), inoltre, “l’effetto impeditivo di esse va collegato al compimento da parte del soggetto, unicamente dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio – idoneo a garantire un adeguato affidamento – sottratto alla sua ingerenza, in ragione di un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti (vedi Cass. 16/7/2018 n. 18823)”. Per cui, “il termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, prima della cui scadenza è preclusa, ai sensi dell’art. 7, quinto comma, della legge n. 300 del 1970, la possibilità di irrogazione della sanzione disciplinare, è chiaramente funzionale ad esigenze di tutela dell’incolpato (Cass. S.U. 7/5/2003 n. 6900)”.

Più di recente, infine affermano gli Ermellini, cassando la sentenza con rinvio, è stato ribadito li principio di diritto “secondo cui il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato che, nel termine di cui all’art. 7, comma 5, st. lav., ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano di per sé ampie ed esaustive” (cfr. Cass. n. 12272/2023).

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malversazione a danno

Malversazione a danno dello Stato Il reato di malversazione a danno dello Stato: normativa, caratteristiche, aspetti procedurali e giurisprudenza

Malversazione a danno dello Stato: in cosa consiste

Il reato di malversazione a danno dello Stato è previsto e punito dall’art. 316-bis del codice penale italiano. Questo reato si configura quando un soggetto, avendo ricevuto contributi, sovvenzioni o finanziamenti pubblici, utilizza tali risorse per scopi diversi da quelli per cui erano stati concessi. Si tratta di un illecito che mira a tutelare l’integrità e la corretta destinazione delle risorse pubbliche.

Quando viene integrato il reato di malversazione?

Il reato si integra quando:

  1. Erogazione di fondi pubblici: il soggetto riceve contributi, sovvenzioni o finanziamenti da parte dello Stato o di altri enti pubblici;
  2. Destinazione illecita: le risorse ricevute vengono utilizzate per finalità diverse da quelle previste dai bandi o dai contratti di concessione;
  3. Assenza di restituzione: il mancato utilizzo conforme delle somme non è accompagnato dalla restituzione dei fondi.

Non è necessario che il comportamento abbia causato un danno economico all’amministrazione pubblica; è sufficiente l’uso difforme rispetto alle finalità stabilite.

Come viene punita la malversazione

L’art. 316-bis c.p. prevede la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque commetta il reato. La pena può variare in base alla gravità del fatto e alla quantità di risorse indebitamente utilizzate. In alcuni casi, possono essere applicate pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici.

Aspetti procedurali del reato di malversazione

  • Competenza: la competenza per il giudizio è generalmente del tribunale ordinario.
  • Indagini preliminari: le indagini sono condotte dalla Procura della Repubblica, con il supporto della Guardia di Finanza per le verifiche contabili.
  • Prescrizione: il reato di malversazione si prescrive in sei anni, salvo interruzioni dovute a atti processuali.
  • Restituzione e attenuanti: la restituzione spontanea delle somme può costituire una circostanza attenuante, riducendo la pena.

Giurisprudenza malversazione

La giurisprudenza italiana ha fornito chiarimenti importanti sull’applicazione dell’art. 316-bis c.p.:

Cassazione n. 3770/2025: “con il decreto-legge 25 febbraio n. 2022, n. 13, (c.d. decreto frodi) convertito nella L. n.25/22 sono state introdotte alcune modifiche alla formulazione letterale dell’art. 316-bis cod. pen.:

  • le parole «a danno dello Stato» sono sostituite dalle seguenti: «di erogazioni pubbliche»;
  • al primo comma, le parole da «o finanziamenti» a «finalità» sono sostituite dalle seguenti: «, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, destinati alla realizzazione di una o più finalità, non li destina alle finalità previste».

La nuova previsione normativa ricomprende anche il tipo di finanziamento ottenuto dall’imputato che, pur provenendo da un istituto bancario privato, era stato erogato in forza non di una valutazione del merito del credito, ma della verifica dei presupposti della convenzione intercorsa con lo Stato, di cui il soggetto privato opera come longa manus.”

Cassazione n. 11732/2024: Il delitto di malversazione ex art. 316-bis c.p. si perfeziona al momento della scadenza del termine essenziale previsto dal contratto per la realizzazione dell’opera o del servizio per cui i fondi sono stati erogati. Tuttavia, può consumarsi anche prima, qualora risulti impossibile destinare le risorse alla finalità pubblica prevista, ad esempio a causa della violazione di vincoli o condizioni ulteriori, la cui inosservanza comprometta irrimediabilmente la tutela garantita dalla norma.

Cassazione n. 23927/2023: il reato di malversazione di erogazioni pubbliche consiste nell’omessa destinazione delle somme ricevute agli scopi previsti, distinguendosi così dalla truffa aggravata, che si configura quando l’ottenimento dei fondi avviene inducendo in errore l’ente erogatore mediante artifici o raggiri.

 

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giurista risponde

Peculato d’uso: configurabilità Può considerarsi integrata la fattispecie di peculato in caso di utilizzo, da parte del pubblico funzionario, di un bene del quale abbia la disponibilità per ragione del suo ruolo, qualora ciò avvenga per un interesse privato ma senza che venga distolta dalla sua destinazione istituzionale?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez

 

Il delitto di peculato non sussiste quando l’uso concomitante della cosa per finalità private ed istituzionali non determini un apprezzabile pregiudizio economico o funzionale per l’amministrazione (Cass., sez. VI, 28 ottobre 2024, n. 39546).

La Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla corretta configurabilità del delitto di cui all’art. 314, comma 2, c.p.

Il ricorrente, assolto in primo grado per insussistenza dei reati ascrittogli e condannato in secondo grado, denuncia l’assenza di motivazione rafforzata in punto di elemento oggettivo e soggettivo del reato, nonché il vizio di motivazione in punto di offensività delle condotte.

Secondo quanto prospettato dalla difesa, in primis le automobili utilizzate non erano mai state distolte dalla loro destinazione istituzionale e, quindi, sottratte alla sfera di dominio dell’ente pubblico a cui, peraltro, non è stato arrecato alcun pregiudizio, né un danno economico. In secondo luogo, quanto alla natura dolosa della condotta, non è riscontrabile alcuna volontà di appropriarsi di un bene dell’Amministrazione, sicché si tratterebbe di un mero errore sul fatto costituente reato e non di errore su legge extra penale che, in quanto tale, è inescusabile.

I giudici della Sesta Sezione, nell’accogliere il ricorso, hanno ribadito i principi dettati dalla Sezioni Unite in tema di peculato. L’art. 314, c.p. tutela tanto il patrimonio della P.A., quanto l’interesse alla legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, per cui il reato è configurabile tutte le volte in cui tale interesse sia leso pur in assenza di un danno patrimoniale (Cass. 25 giugno 2019, n. 38691 e Cass. 20 dicembre 2012, n. 19054). Il disvalore del peculato deve essere ravvisato nell’abuso del possesso della cosa. Precisamente, la fattispecie in esame si ritiene sussistente quando il pubblico funzionario sfrutti la disponibilità della cosa e la distolga dal suo scopo istituzionale e questo può accadere anche in assenza di un pregiudizio economico per l’ente pubblico.

Chiarita la ratio della norma incriminatrice, i giudici di legittimità hanno escluso che l’uso concomitante della cosa per finalità private ed istituzionali costituisca peculato, almeno nella misura in cui non determini un apprezzabile pregiudizio economico o funzionale per l’amministrazione.

Alla luce di questi principi, la Corte ha assolto l’imputato del reato contestatogli.

 

(*Contributo in tema di “Peculato d’uso”, a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pensione di invalidità

Pensione di invalidità, la Cassazione chiarisce quando spetta Pensione di invalidità: la Suprema Corte stabilisce che è legittimo il riconoscimento del beneficio anche quando il soggetto è impedito a compiere i gesti quotidiani della vita

Pensione di invalidità: i chiarimenti della Cassazione

La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2744/2025, ha fornito un’importante precisazione in tema di pensione di invalidità, stabilendo che è legittimo il riconoscimento del beneficio quando il soggetto è impedito a compiere i gesti quotidiani della vita.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Rovereto, all’esito di opposizione ad ATP accertava il diritto di una bambina all’indennità di accompagnamento per minorenni ex articolo 3 comma 1 legge provincia 7 del 1998, revocata all’esito di revisione amministrativa, e condannava la Provincia a pagare la prestazione nonché l’Azienda Pubblica Servizi Sanitari a riconoscere “ogni indennità erogazione o privilegio o servizio” consequenziali a detta invalidità.
Avverso tale sentenza ricorreva APSS deducendo, tra l’altro, violazione dell’articolo 2 legge 118 del 1971 e 3 legge provincia 7 del 1998, per avere la Corte territoriale trascurato che la c.t.u. richiamata non solo era relativa ad altro giudizio, ma riguardava solo la frequenza, e per avere ritenuto rilevante la mera difficoltà da parte della minore a compiere gli atti quotidiani, laddove occorreva invece l’impossibilità di compiere i detti atti quotidiani.

Il principio sancito dalla Cassazione

Per la S.C., la doglianza è infondata in quanto “il giudice – quale peritus peritorum che, in quanto tale, per la soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, non ha alcun obbligo di nominare un consulente d’ufficio, potendo ricorrere alle conoscenze specialistiche acquisite
direttamente attraverso studi o ricerche personali, e ben può invece, esaminando direttamente la documentazione su cui si basa la relazione del consulente tecnico, disattenderne le
argomentazioni, in quanto sorrette da motivazioni contraddittorie, o sostituirle con proprie diverse, tratte da personali cognizioni tecniche”.

Per altro verso, sentenziano gli Ermellini, le considerazioni tecniche dell’altra c.t.u. sono state calate in concreto dalla Corte nella situazione specifica della bambina, portatrice, nel caso di specie, “non di una mera difficoltà ma di una vera e propria impossibilità di compiere gli atti quotidiani senza assistenza. La Corte espressamente dice che le patologie “incidono su aspetti essenziali della vita sociale della persona e determinano ripercussioni talmente gravi
sulla stessa e sui suoi familiari da far ritenere integrate le condizioni per il riconoscimento della prestazione richiesta”.
Tale valutazione, “peraltro sindacabile in sede di legittimità solo entro ristretti limiti – per i giudici – è del tutto da condividere, per l’importanza della funzione che veniva in questione”. Per cui il ricorso è rigettato.

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Violenza di genere e violazione del divieto di avvicinamento Violenza di genere: la Cassazione ritiene violato il divieto di avvicinamento anche se è la vittima a recarsi a casa dell'imputato

Violazione del divieto di avvicinamento

La sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4936/2025, ha fornito un’importante interpretazione in materia di violenza di genere e rispetto delle misure cautelari. In particolare, la pronuncia chiarisce che l’indagato, sottoposto al divieto di avvicinamento alla vittima, viola tale disposizione anche se è la stessa vittima a recarsi presso la sua abitazione. Secondo la Suprema Corte, l’uomo avrebbe dovuto lasciare la propria casa o allertare le forze dell’ordine per evitare la violazione della misura cautelare.

La vicenda

Il caso riguarda un uomo sottoposto al divieto di avvicinamento alla sua ex compagna che vedeva annullata dal tribunale di Firenze l’ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 387-bis c.p. Nonostante la misura cautelare, infatti, la donna si era recata presso l’abitazione dell’indagato. Ma secondo i giudici non si poteva esigere dall’indagato la condotta di allontanamento dalla propria abitazione nè tantomeno era ravvisabile l’obbligo di allertare le forze dell’ordine.

il PM ricorreva innanzi al Palazzaccio sostenendo che sebbene l’uomo non avesse cercato l’incontro con la donna, aveva comunque violato la prescrizione impostagli nel permetterle di intrattenersi nella sua abitazione, omettendo di adottare comportamenti, scarsamente onerosi e quindi esigibili, come quello di richiedere l’intervento delle Forze del’Ordine.

La posizione della Cassazione

La Cassazione, dopo aver compiuto un lungo excursus sul quadro normativo in materia, ha dato ragione al pubblico ministero.

Nel caso specifico, se non era esigibile la condotta di lasciare la propria abitazione, era, nondimeno, esigibile lo ius excludendi, affermano i giudici: l’uomo ha consentito alla ex di entrare nella sua abitazione ospitandola per l’intera giornata o addirittura verosimilmente per alcuni giorni. Per cui, il ricorrente, “ha – scientemente e volutamente – stabilito un contatto diretto e ravvicinato con al giovane donna, cooperando nella violazione ab initio effettivamente riferibile alla persona offesa e approfittando della situazione venutasi a creare”.
In un contesto caratterizzato da una relazione personale nettamente
“squilibrata”, anche per lo stato di conclamata vulnerabilità della donna, scrivono da piazza Cavour, “la preoccupazione principale deve essere quella di garantire la incolumità anche contro la volontà della stessa persona offesa: la volontà della vittima non può, dunque, avere efficacia scriminante e/o esimente nè portata liberatoria dagli obblighi, «…occorrendo sempre effettuare una corretta valutazione e gestione dei rischi di letalità, di gravità della situazione, di reiterazione dei comportamenti violenti in un’ottica di prioritaria sicurezza della vittima » (cfr. Sez. 6, n.46797 del 18/10/2023)”. Per cui, essendo grave il quadro indiziario sotto il profilo della dolosa violazione del contenuto precettivo della misura cautelare, la S.C. annulla l’ordinanza passando la parola al giudice del rinvio.

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autovelox mobile

Autovelox mobile segnalato da cartello “fisso”: multa valida Autovelox mobile: legittima la multa anche se l'apparecchio di rilevazione della velocità è segnalato la un cartello fisso

Autovelox mobile segnalato da cartello fisso

È legittima la multa elevata tramite una postazione autovelox mobile segnalata unicamente con un cartello “fisso”. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2857/2025.

La legge non richiede l’uso di cartelli mobili per segnalare le postazioni mobili di controllo della velocità. È sufficiente che la postazione sia segnalata in modo chiaro e visibile. Non importa che il cartello sia fisso o mobile.

Superamento limiti velocità: multa contestata

Un conducente riceve un verbale di contestazione per il superamento dei limiti di velocità. Per questa violazione gli viene   irrogata una multa di 1.658,00 euro, decurtati 10 punti dalla patente con sospensione della stessa per sei mesi.

Tra le ragioni del ricorso per la contestazione del verbale figura la segnalazione non adeguata dell’apparecchio con cartelli mobili, nel rispetto del Dm 13 giugno 2017. Dal verbale inoltre non risultano la tipologia del dispositivo utilizzato (fisso o mobile), i dati dell’omologazione ministeriale, i riferimenti alla taratura e alle prescritte verifiche periodiche per accertare la funzionalità dell’apparecchio. La Prefettura nel resistere al ricorso afferma il corretto allestimento della postazione di controllo e la regolarità dei risultati degli apparecchi di rilevazione della velocità.

Legittima la segnalazione permanente

Il Giudice di pace rigetta il ricorso del conducente precisando che “la presegnalazione del dispositivo di rilevazione della velocità poteva legittimamente essere effettuata alternativamente con segnaletica temporanea o permanente.”

Il conducente impugna la decisione davanti al Tribunale competente. Questa autorità giudiziaria, nella sua qualità di giudice dell’appello conferma la sentenza impugnata e la conseguente legittimità della rilevazione e della multa irrogata. Il conducente però non si arrende e ricorre in Cassazione.

Autovelox mobile: con cartello fisso la multa è legittima

La Suprema Corte però boccia tutti i motivi del ricorse. Per quanto riguarda poi nello specifico la  contestazione sulla validità della postazione mobile di controllo della velocità con cartello fisso gli Ermellini precisano che la legge italiana non impone che la postazione mobile per il rilevamento della velocità debba essere obbligatoriamente segnalata tramite cartelli mobili. L’importante è che gli automobilisti siano avvisati della possibilità di controlli della velocità in un determinato tratto di strada.

Questa funzione di avviso può essere svolta da qualsiasi tipo di cartello, sia fisso che mobile, senza alcuna distinzione. Questo significa che per legge, non è obbligatorio l’utilizzo di un cartello mobile per segnalare la presenza di una postazione di controllo della velocità.La funzione di avviso può essere assolta da qualsiasi cartello, sia fisso che mobile. L’importante è che il cartello sia ben visibile e che avvisi gli automobilisti della possibilità di controlli della velocità indipendentemente dal tipo di postazione (fissa o mobile), è fondamentale che sia adeguatamente segnalata e ben visibile.

 

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comodato familiare

Il comodato familiare Contratto di comodato familiare: a cosa serve e qual è la disciplina. Quando è possibile chiedere la restituzione del bene secondo la Cassazione

Comodato familiare: cos’è e come funziona

Per comodato familiare si intende il contratto con cui il proprietario (comodante) concede gratuitamente la disponibilità di un immobile ad un soggetto (comodatario, in questo caso solitamente il figlio/a del comodante) con lo specifico scopo di soddisfare le esigenze della famiglia di quest’ultimo.

Dal punto di vista pratico, dunque, il quadro è chiaro: il comodato familiare è la soluzione con cui, in genere, i genitori provvedono a procurare un’abitazione al proprio figlio/a per consentirgli di risiedervi con la propria famiglia.

Sotto l’aspetto giuridico, come vedremo, l’istituto del comodato familiare pone degli interrogativi in ordine alla possibilità di richiedere la restituzione del bene da parte del comodante e alla destinazione del bene in caso di separazione dei coniugi beneficiari del comodato (o di conclusione della loro convivenza).

Il contratto di comodato: disciplina generale

In linea generale, il comodato è il contratto con cui si concede l’uso gratuito di un bene mobile o immobile, con l’obbligo per il comodatario di conservarlo con la diligenza del buon padre di famiglia e di restituirlo al termine dell’utilizzo o allo scadere della durata concordata nel contratto.

Il contratto di comodato, che può essere concluso per iscritto o verbalmente, si perfeziona con la consegna del bene (in questo, oltre che per la gratuità, si differenzia dalla locazione, che invece si perfeziona con la stipula del contratto). La consegna del bene, peraltro, genera la mera detenzione da parte del comodatario e non il possesso, e di conseguenza non si configurano i presupposti di una possibile successiva usucapione.

In particolare: il comodato precario

Un aspetto rilevante ai fini dell’analisi del comodato familiare è la distinzione tra comodato a tempo determinato e il c.d. comodato precario.

Va ricordato, infatti, che in un contratto di comodato non è obbligatorio stabilire la durata: ciò ha importanti conseguenze in tema di restituzione del bene.

In particolare, se il comodato è previsto per una durata predeterminata o per un utilizzo specifico, il comodatario sarà tenuto a restituire il bene alla scadenza o al termine dell’utilizzo, e il comodante potrà richiederne la restituzione anticipata solamente in caso di insorgenza di un bisogno urgente e imprevedibile.

Diversamente, se il contratto non prevede alcuna scadenza, né questa sia desumibile dall’uso cui la cosa è destinata, il comodante può richiedere la restituzione del bene ad nutum, cioè in qualsiasi momento, ed il comodatario è tenuto ad adempiere. In questo caso, come detto, si parla di comodato precario, un istituto che trova la sua disciplina nell’art. 1810 del codice civile.

Il termine di durata nel comodato familiare

Tale distinzione ha importanti riflessi sulla disciplina del comodato familiare.

Sono molto frequenti, infatti, nell’esperienza dei nostri tribunali, le controversie relative all’interpretazione del contratto di comodato familiare e in particolare all’individuazione dell’esistenza o meno di un termine di durata.

Ebbene, il costante orientamento della giurisprudenza, anche di legittimità, è quello di inquadrare il comodato familiare nella disciplina generale del comodato (artt. 1803-1809 c.c.) e non in quella particolare del comodato precario di cui all’art. 1810.

Infatti, il contratto stipulato allo scopo di soddisfare le esigenze della famiglia del comodatario contiene di per sé un termine implicito, che afferisce all’esistenza di tali necessità. Solo nel momento in cui non sussistono più i bisogni familiari insorge il diritto alla restituzione da parte del comodante.

Ciò significa che nel comodato familiare il comodante non ha diritto di richiedere in qualsiasi momento la restituzione del bene (come invece accade nel comodato precario), ma può farlo solo quando vengano meno le necessità della famiglia o quando insorga una necessità del comodante imprevista ed urgente, come da disciplina generale.

Comodato familiare e separazione, la giurisprudenza

Va ulteriormente precisato che il termine implicito di durata così individuato fa riferimento non già all’esistenza della famiglia del comodatario, ma alla sussistenza delle necessità della stessa: ciò significa che il diritto alla detenzione del bene continua a sussistere anche in caso di separazione dei coniugi (o di conclusione della convivenza di fatto), e anche se l’immobile oggetto di comodato sia assegnato al coniuge collocatario che non sia il figlio/a del comodante.

Così, ad esempio, se i genitori del marito concedono in comodato familiare un immobile di loro proprietà al proprio figlio e questi, successivamente, si separi dalla moglie e il giudice assegni a quest’ultima l’immobile in quanto collocataria della prole, il comodato familiare continuerà a sussistere (esistendo ancora le esigenze della famiglia), nonostante il figlio/comodatario non vi abiti più.

Tutto questo è confermato da costante giurisprudenza di Cassazione, tra le cui pronunce segnaliamo la recente ordinanza Cassazione n. 573 del 9 gennaio 2025 e la sentenza delle Sezioni Unite n. 20448 del 2014. Riguardo alla necessità urgente e imprevista che dà diritto al comodante di chiedere la restituzione prima del termine, si veda Cass. n. 18619/2010, secondo cui tale bisogno deve essere “serio e non voluttuario”. Per l’applicabilità di quanto sopra esposto anche ad una situazione di convivenza di fatto, si rimanda a Cass. n. 13592/2011.

 

Per ulteriori approfondimenti, vedi anche la nostra guida generale al contratto di comodato

danno da nascita indesiderata

Danno da nascita indesiderata: i chiarimenti della Cassazione Danno da nascita indesiderata: il diritto della donna ad autodeterminarsi e abortire può essere provato con presunzioni semplici

Danno da nascita indesiderata e risarcimento

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1903/2025 chiarisce che il danno da nascita indesiderata non implica automaticamente il risarcimento alla madre. La violazione del diritto all’autodeterminazione, comprensivo della possibilità di abortire, deve essere dimostrata con elementi concreti. La questione si complica se la gravidanza dura da più di 90 giorni. In questi casi infatti la legge consente l’aborto solo se sussiste un grave pericolo per la salute della donna.

Nascita indesiderata: richiesta risarcitoria

Due coniugi agiscono nei confronti di una ASL perché la ritengono responsabile della colposa mancata rilevazione e informazione, successiva alla morfologica effettuata dopo 90 giorni di gravidanza, della grave patologia del nascituro. Questo errore medico ha impedito alla donna di optare per l’interruzione di gravidanza. L’Azienda contesta la versione dei fatti fornita dagli attori e la domanda risarcitoria avanzata e chiede la chiamata in causa della casa di cura in cui il bambino è venuto alla luce.

Il Tribunale di primo grado rigetta le domande degli attori. I coniugi hanno omesso di allegare la sussistenza di un grave pericolo per la salute fisica o psichica (sintomi depressivi) della neo mamma. Tale presupposto per il Tribunale è del tutto generico e non dimostrato.

Il Giudice dell’appello invece, ribaltando la decisione di primo grado, riconosce un danno alla donna per la violazione del diritto all’autodeterminazione. La Corte ritiene provato per presunzioni il pericolo per la salute della donna e l’inadempimento colposo dei medici. Il referto dell’ecografia rivelava la visualizzazione della vescica, a questo esame però non è seguito alcun approfondimento. La decisione viene quindi impugnata dalla ASL.

Danno da nascita indesiderata: servono prove

La Cassazione accoglie il ricorso dell’azienda sanitaria, annullando la condanna al risarcimento emessa in secondo grado, dopo aver richiamato alcuni importanti principi delle SU in materia di risarcimento del danno da nascita indesiderata.

Il ricorso viene accolto e deciso sulla base di rilevanti principi giuridici.

  • Per la Cassazione la mancata diagnosi di una malformazione fetale non comporta automaticamente la responsabilità medica. L’interruzione volontaria della gravidanza è consentita solo in casi eccezionali, previsti dall’ 6 della legge 194/1978. Per ottenere il risarcimento, la madre deve dimostrare che, se adeguatamente informata, avrebbe scelto di abortire. La prova di questi elementi può basarsi su presunzioni, purché supportate da elementi concreti.
  • Il ragionamento presuntivo del giudice deve rispettare i criteri di gravità, precisione e concordanza stabiliti dall’ 2729 c.c. Se il giudice applica erroneamente questi principi a fatti che non li soddisfano, il suo ragionamento è censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c.
  • L’errata applicazione delle presunzioni semplici costituisce un vizio di diritto. Se il giudice basa una presunzione su fatti privi di gravità, precisione o concordanza, si configura una falsa applicazione dell’ 2729 c.c. La Cassazione può intervenire per correggere questa distorsione interpretativa e garantire una corretta applicazione delle norme sulla responsabilità medica e sul risarcimento del danno.

 

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