genitore sulla cie

La Cassazione ripristina la parola “genitore” sulla CIE La parola “genitore” sulla CIE è maggiormente rappresentativa della realtà sociale attuale delle famiglie con due padri o con due madri

Cassazione: “genitore” sulla CIE

C’è la possibilità di indicare il termine “genitore” sulla CIE al posto delle tradizionali diciture “padre” e “madre”? Su questo tema si è espressa la Corte di Cassazione (sentenza n. 9216/2025) sul ricorso del Ministero dell’Interno avverso le sentenze di primo e secondo grado, entrambe favorevoli a una coppia omogenitoriale.

“Genitore”: rappresentazione più aderente alla realtà

La vicenda portata all’attenzione degli Ermellini prende origine dal Tribunale di Roma, che ordina al Ministero dell’Interno di modificare la modalità di compilazione della CIE per un minore con due madri – una biologica, l’altra adottiva.

Il giudice stabilisce che, disapplicando il decreto ministeriale del 31 gennaio 2019, occorre riportare sulla carta la dicitura “genitore” o, in alternativa, formule inclusive come “padre/genitore” e “madre/genitore”.

La decisione viene confermata anche dalla Corte d’Appello di Roma. Il modello ministeriale impone in effetti una rappresentazione familiare non più aderente alla realtà giuridica, come dimostrato dalla presenza, sempre più frequente, di famiglie con due genitori dello stesso sesso. In particolare, l’adozione in casi particolari – disciplinata dalla legge 184/1983 – è idonea a creare un legame di piena parentela, e quindi a legittimare la richiesta di un’identificazione coerente del genitore adottivo anche nei documenti d’identità del minore.

“Padre e madre” sulla CIE: discriminatorio

Il Ministero dell’Interno di fronte alla Cassazione solleva però tre motivi di doglianza nei confronti della sentenza della Corte d’Appello.

Il primo denuncia un vizio di motivazione della sentenza della Corte d’Appello, perché carente e generica. La Cassazione però ritiene infondata la critica. La Corte territoriale ha infatti esaminato tutte le doglianze, rigettandole in modo esplicito e motivato, sottolineando come la scelta del Ministero generi discriminazione e irragionevolezza, precludendo al minore la possibilità di ottenere una CIE valida per l’espatrio.

Il secondo motivo contesta la disapplicazione del decreto ministeriale, perché lesiva del principio di bigenitorialità e contraria al quadro normativo vigente. Anche in questo caso però la Cassazione dimostra di pensarla diversamente. Gli Ermellini ricordano che il decreto in questione ha carattere meramente tecnico e non normativo. Lo stesso inoltre si pone in contrasto con l’art. 3, comma 5, del T.U.L.P.S., che consente l’indicazione del termine “genitori” nella CIE. Il termine neutro è più adeguato per rappresentare la realtà giuridica di famiglie con due madri o due padri. In questo modo si tutela il diritto del minore all’identità e alla verità affettiva e giuridica della propria famiglia.

Il terzo motivo infine sostiene che l’indicazione dei termini “padre” e “madre” è obbligatoria in virtù della disciplina dello stato civile, la quale prevede solo tali qualificazioni. La Cassazione però esclude la fondatezza anche di questo motivo. Il caso di specie infatti non riguarda una modifica degli atti di stato civile, ma unicamente le modalità di compilazione della CIE. L’adozione in casi particolari in ogni caso produce effetti pieni, inclusa la nascita di relazioni parentali con i familiari dell’adottante, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 79/2022.

Corretto indicare “genitore” sulla CIE

La decisione finale della Cassazione conferma quindi le sentenze dei giudici di merito, ritenendo corretta la disapplicazione del decreto ministeriale e legittima la scelta di indicare sulla CIE la parola “genitore“. In questo modo sì riafferma il principio per il quale la pubblica amministrazione è tenuta a rappresentare fedelmente, anche nei documenti ufficiali, le diverse forme familiari oggi riconosciute dalla legge.

In conclusione la dicitura “padre/madre” non più essere considerata universalmente rappresentativa. La società cambia, e con essa anche il diritto: a ogni famiglia deve essere garantita dignità e visibilità giuridica, senza discriminazioni.

 

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prescrizione responsabilità medica

Prescrizione della responsabilità medica Prescrizione della responsabilità medica: termini, normativa e giurisprudenza

Cos’è la prescrizione nella responsabilità medica

La responsabilità medica è un tema di grande rilevanza giuridica, in particolare per quanto riguarda la prescrizione del diritto al risarcimento in caso di errore medico. Stabilire i termini entro cui un paziente può agire contro un medico o una struttura sanitaria è fondamentale per tutelare sia i diritti del danneggiato sia la certezza giuridica degli operatori sanitari.

La prescrizione è un istituto giuridico che stabilisce un limite temporale entro cui il danneggiato può esercitare il proprio diritto al risarcimento. Trascorso tale termine, il diritto si estingue e non può più essere fatto valere in giudizio.

Nella responsabilità medica, la prescrizione varia a seconda che il rapporto tra paziente e medico (o struttura sanitaria) sia di natura contrattuale o extracontrattuale.

Termini di prescrizione responsabilità medica

La legge italiana prevede due diversi regimi di prescrizione:

  • prescrizione di 10 anni per la responsabilità contrattuale (art. 2946 c.c.);
  • prescrizione di 5 anni per la responsabilità extracontrattuale (art. 2947 c.c.)

1. Responsabilità contrattuale (prescrizione 10 anni)

Quando il paziente subisce un danno a causa di un errore medico nell’ambito di un rapporto contrattuale con la struttura sanitaria o con il medico, la prescrizione è di 10 anni.

Esempio: un paziente si sottopone a un intervento chirurgico e scopre, dopo alcuni anni, di aver subito un danno per negligenza del chirurgo. Avrà 10 anni di tempo dalla scoperta del danno per agire legalmente.

2. Responsabilità extracontrattuale (prescrizione 5 anni)

Se il danno deriva da un rapporto non contrattuale, ad esempio per un errore commesso da un medico non legato da un contratto con il paziente, la prescrizione è di 5 anni.

Esempio: un paziente viene soccorso in emergenza e subisce un danno per negligenza del medico di turno. In questo caso, il termine di prescrizione è di 5 anni dalla data in cui il paziente scopre il danno.

Quando inizia a decorrere la prescrizione

Uno degli aspetti più dibattuti riguarda il dies a quo, ovvero il momento in cui inizia a decorrere il termine di prescrizione. La giurisprudenza ha chiarito che il termine non parte dal giorno in cui si è verificato l’errore medico, ma dal momento in cui il paziente ha avuto piena consapevolezza del danno e della sua causa.

Il principio della “manifestazione del danno”

La Cassazione ha stabilito che il termine decorre dal momento in cui il paziente è in grado di collegare il danno subito all’errore medico. Questo significa che se il danno emerge a una certa distanza dall’intervento, la prescrizione inizierà a decorrere solo dal momento della scoperta.

Esempio: Un paziente subisce un errore chirurgico nel 2015, ma scopre il danno solo nel 2020 a seguito di accertamenti medici. In questo caso, il termine di 10 anni (o 5 anni, a seconda della responsabilità) partirà dal 2020, e non dal 2015.

Riforma Gelli-Bianco e impatto sulla prescrizione

Con la Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), la responsabilità medica ha subito alcune modifiche:
Per la struttura sanitaria, la responsabilità resta contrattuale (prescrizione 10 anni).
Per il medico, invece, la responsabilità diventa extracontrattuale (prescrizione 5 anni).

Effetto pratico: il paziente potrà  quindiagire contro la struttura entro 10 anni, contro il medico solo entro 5 anni.

Prescrizione responsabilità medica: Cassazione 

Di seguito alcune rilevanti massime della Cassazione in materia di prescrizione della responsabilità medica:

Cassazione n. 29760/2022: il termine iniziale per la prescrizione dell’azione di risarcimento danni da malpractice medica non coincide con l’aggravamento della malattia, ma con il momento in cui la vittima ne percepisce l’esistenza. I giudici confermano che, in base agli articoli 2935 e 2947 del codice civile, il diritto al risarcimento per responsabilità medico-chirurgica inizia a decorrere da quando la malattia è percepita o avrebbe potuto esserlo usando la normale diligenza e considerando lo stato attuale delle conoscenze scientifiche, come conseguenza ingiusta della condotta altrui

Cassazione n. 3267/2024: l’azione legale intentata dai familiari per ottenere il risarcimento dei danni dovuti alla perdita del rapporto parentale a causa del decesso del loro congiunto, ritenuto responsabilità della struttura sanitaria, è considerata un’azione di responsabilità extracontrattuale, poiché non sussiste un contratto diretto tra i familiari e la struttura. Di conseguenza, una volta stabilita la natura illecita dell’evento, il termine di prescrizione applicabile per la richiesta di risarcimento non è quello ordinario di cinque anni, bensì il termine di prescrizione più esteso previsto per il reato di omicidio colposo.

 

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maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia controllare economicamente la moglie Maltrattamenti in famiglia: integra il reato di cui all'art. 572 c.p. ostacolare l'autonomia economica della moglie

Maltrattamenti in famiglia

Impedire alla moglie di essere economicamente indipendente integra il reato di maltrattamenti in famiglia. A questa conclusione è giunta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1268/2025. Gli Ermellini hanno infatti rigettato il ricorso di un uomo, condannato per aver maltrattato la moglie per quasi vent’anni, anche in presenza dei figli minori. Conclusione a cui è giunta più di recente sempre la Suprema Corte con la sentenza n. 12444 del 31 marzo 2025.

Violenza fisica e psicologica

Il caso di cui si sono occupati gli Ermellini riguarda un uomo, che negli anni ha perpetrato una serie di condotte illecite continuative ai danni della moglie. L’imputato ha esercitato violenza fisica, ha proferito minacce di morte, ha umiliato sessualmente e infine denigrato pubblicamente la moglie. L’uomo inoltre ha manipolato i figli per controllarla, anche dopo la separazione, ma soprattutto ha attuato un controllo psicologico ed economico opprimente.

Sfruttamento competenze lavorative

Nel corso del processo è emerso come l’imputato negli anni abbi sfruttato le competenze lavorative della moglie. L’ha costretta infatti a lavorare come contabile nella sua azienda per anni senza darle alcuna retribuzione. Le ha impedito quindi attivamente di raggiungere lindipendenza economica. Si è rifiutato inoltre di darle denaro per le sue necessità personali e le ha negato la possibilità di frequentare corsi di aggiornamento e di formazione. L’uomo ha persino molestato e perseguitato la moglie sul suo nuovo posto di lavoro. Lo stesso si è sottratto a ogni responsabilità familiare, delegando interamente le incombenze alla donna. Le azioni commesse dall’uomo e di cui è responsabile insomma sono molteplici e pervasive. Lo stesso ha addirittura installato una telecamera di sorveglianza intorno alla casa per monitorare ogni movimento della moglie e le ha imposto una serie di divieti. Il tutto accompagnato da minacce e umiliazioni.

Maltrattamenti in famiglia impedire l’autonomia

La Corte di Cassazione, dopo un’attenta analisi delle prove, concorda con le decisioni dei giudici precedenti, avallando un’interpretazione moderna (e in linea con le normative internazionali ed europee) dell’articolo 572 del codice penale. Questa interpretazione mira a proteggere efficacemente le persone che non possono sottrarsi agli abusi a causa del loro legame con l’aggressore.

La Corte di Cassazione, valutando attentamente tutti gli aspetti della violenza, ha infatti respinto il ricorso dell’uomo. Ha riconosciuto che le sue azioni miravano a limitare l’autonomia economica della moglie. Le condotte includono l’ostacolare la ricerca di un lavoro, controllare i suoi spostamenti con una telecamera, impedirle di coltivare relazioni esterne, imporle un ruolo casalingo discriminatorio, sottrarsi alle responsabilità domestiche e familiari, e non retribuire il lavoro svolto nell’azienda familiare. La componente economico-patrimoniale assume un rilievo particolare. Le decisioni economiche sono state prese unilateralmente dall’imputato, spesso attraverso manipolazioni e pressioni psicologiche. Questi comportamenti hanno inciso sull’autonomia, la dignità umana e l’integrità fisica e morale della vittima, beni giuridici tutelati dall’articolo 572 del codice penale e dalla Costituzione. Il controllo economico esercitato dal marito rientra quindi nelle forme di violenza domestica riconosciute a livello internazionale.La condanna dell’uomo per il reato di maltrattamenti è la logica conseguenza del suo totale disprezzo per i diritti e le libertà della moglie. La violenza economica del reato da tempo è riconosciuta come una forma specifica di violenza, equiparabile a quella fisica e psicologica. Non si può trascurare che questa forma di abuso, sebbene non lasci segni visibili, sia capace di prostrare le vittime e annientarne la capacità di agire.

 

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valida la notifica

Valida la notifica effettuata alla moglie anzichè al difensore Per la Cassazione è valida la notifica effettuata alla moglie convivente anzichè al domicilio eletto perchè garantisce la conoscenza dell'atto

Notifica valida alla moglie convivente

È ritenuta valida la notifica effettuata alla moglie convivente della persona offesa, anche se non eseguita presso il domicilio eletto del difensore, giacché idonea a garantire la conoscenza dell’atto. Lo ha affermato la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 12445/2025.

Il caso

Nella vicenda, il Tribunale di Nola, all’udienza dibattimentale del processo a carico di un imputato per i reati di cui agli artt. 570 e 570-bis cod. pen., dichiarava la nullità, ex art. 178, lett. c) c.p.p., del decreto di citazione emesso dal giudice dell’udienza predibattimentale. In particolare, dal verbale dell’udienza risultava che la difesa della persona offesa aveva eccepito l’omessa notifica del decreto che disponeva il giudizio (la persona l’aveva ricevuta a mani proprie, ma in sede di querela aveva nominato il difensore di fiducia), chiedendo la remissione in termini per la costituzione di parte civile.
lI Tribunale, nel dichiarare la nullità del decreto, riteneva di qualificarsi quale giudice predibattimentale e disponeva la rinnovazione delle notificazioni rinviando l’udienza.

Il ricorso

Avverso la suddetta ordinanza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, denunciando l’abnormità del provvedimento e lamentando che erroneamente il tribunale aveva ritenuto la notifica alla persona offesa non
valida, nonostante la consegna a mani proprie e contrariamente alla giurisprudenza di legittimità sul punto. Pertanto, correttamente il giudice dell’udienza predibattimentale aveva ritenuto regolare la costituzione delle parti fissando la prosecuzione del giudizio alla fase dibattimentale. Mentre, il Tribunale dichiarando nullo il provvedimento di prosecuzione del giudizio e autodesignandosi giudice dell’udienza predibattimentale, aveva determinato una indebita regressione del procedimento.

Per la S.C., il ricorso è fondato.

Notifica alla moglie convivente

Va premesso, affermano i giudici, che non dava luogo ad alcuna nullità la notificazione “a mani” della persona offesa, anziché al domicilio legale. Si è infatti affermato “che è nullo, per violazione del diritto al contraddittorio, il decreto di archiviazione nel caso in cui l’avviso della richiesta avanzata dal pm sia stato notificato alla persona offesa, che ha chiesto di essere informata, presso la sua residenza per compiuta giacenza, nonostante abbia nominato un difensore di fiducia, perché, in tal caso, il domicilio si intende eletto presso il difensore stesso a meno che la notifica sia eseguita a mani di persona convivente (cfr. Cass. n. 15521/2019)”. Inoltre, “la notifica effettuata a mani della moglie convivente della persona offesa, anziché presso il difensore, è valida in quanto idonea a garantire la conoscenza dell’atto”. L’art. 33 disp. att. c.p.p. infatti “ha lo scopo di soddisfare esigenze di speditezza e di economia processuale e non di creare un assetto di garanzie a tutela della persona offesa di più ampio spessore rispetto a quello previsto per l’imputato, in conformità al principio generale per il quale alla certezza legale è equiparata la certezza storica (cfr. Cass. n. 10718/2016)”.

La decisione

Nella specie, osservano dalla S.C., il Tribunale poteva rilevare l’eventuale nullità della notificazione del decreto di citazione alla persona offesa, trattandosi di nullità a regime intermedio ex art. 180 c.p.p. e disporre la restituzione degli atti al giudice dell’udienza predibattimentale”.
L’art. 554-bis c.p.p. prevede infatti che spetti al Giudice dell’udienza predibattimentale disporre la rinnovazione delle notificazioni dichiarate nulle.
L’abnormità, ragionano da piazza Cavour, “piuttosto risiede nel fatto che il giudice del dibattimento si sia arbitrariamente investito della trattazione della fase predibattimentale (che in base all’art. 554-ter c.p.p. va trattata da un giudice diverso rispetto a quello dell’udienza dibattimentale)”.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio con la trasmissione degli atti al Tribunale di Nola per il giudizio in sede di udienza predibattimentale.

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giurista risponde

Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il danno morale costituisce una duplicazione del danno biologico?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto, modificativo in pejus, con la vita quotidiana (il danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (Cass., sez. III, 14 novembre 2024, n. 30461).

Il giudizio di merito trae origine da un’azione di risarcimento danni intentata iure proprio e altresì come rappresentante legale della persona offesa dalla coniuge di un uomo rimasto invalido al 90% a seguito di una caduta su scala mobile interna ad una clinica ospedaliera, in cui si era recato a seguito di un malore e da cui era stato dimesso dopo esservisi recato per due giorni consecutivi. Il giudice di prime cure ha riconosciuto la responsabilità concorrente dei medici che hanno dimesso il paziente e della clinica, decisione altresì confermata dalla Corte di Appello in sede di impugnazione, la quale ha tuttavia ridotto l’ammontare del danno in ragione della sopravvenuta morte del danneggiato.

Con ricorso per Cassazione, la coniuge ha impugnato la decisione di merito, deducendo anzitutto l’illogicità dei criteri utilizzati per la liquidazione del danno biologico in caso di premorienza, che hanno comportato una riduzione del danno risarcibile a causa della morte del danneggiato in pendenza di giudizio. Secondo le tabelle milanesi utilizzate dalla Corte di Appello, infatti, l’invalidità permanente inciderebbe in misura maggiore all’inizio e in maniera progressivamente decrescente con il trascorrere del tempo, sino alla morte del soggetto leso.

La Suprema corte ha accolto le censure della ricorrente, poiché secondo costante e recente giurisprudenza in caso di premorienza per cause avulse dall’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, non già a quella statisticamente probabile, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass., sez. III, 29 maggio 2024, n. 15112).

Ulteriore motivo di doglianza è stata altresì l’omessa liquidazione del danno da invalidità temporanea, che a parere della ricorrente è diverso ed ultroneo dal danno biologico da premorienza. Anche per la Cassazione si tratta, infatti, di due voci di danno diverse: il danno da premorienza è il danno biologico permanente che, data la morte, cessa e che – pertanto – richiede una liquidazione parametrata sull’effettivo vissuto, cioè per la durata dell’invalidità permanente, senza che però ciò inglobi ex se il danno cagionato dall’invalidità temporanea, che va liquidato a parte.

Infine, la ricorrente ha lamentato l’omessa liquidazione del danno morale soggettivo, sull’assunto del giudice di merito per cui esso sarebbe una duplicazione del danno biologico. La Corte di cassazione ha – di contro – ribadito il principio consolidato per cui il danno morale costituisce un’autonoma voce del danno non patrimoniale. Esso va allegato e provato, ma è disgiunto dal danno biologico, al punto che esso può prodursi anche senza che il danneggiato abbia subito una lesione del diritto alla salute, come nel caso del danno all’onore o alla reputazione.

La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. derivante dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti comprende, oltre al danno biologico, il danno morale, cioè la sofferenza interiore cagionata al danneggiato, nonché il danno esistenziale o dinamico-relazionale, ove la lesione abbia un impatto negativo sulla vita quotidiana. Trattasi, dunque, di tre voci di danno non patrimoniale che sono autonomamente risarcibili, salvo l’onere della prova in capo al richiedente.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, con rinvio al Giudice di merito per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Danno non patrimoniale: liquidazione del danno morale e del danno biologico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Sanzioni tributarie: non si trasmettono agli eredi La Cassazione si è pronunciata sull'intrasmissibilità delle sanzioni tributarie agli eredi in base alla normativa vigente

Intrasmissibilità sanzioni tributarie agli eredi

Le sanzioni tributarie non si trasmettono agli eredi del contribuente deceduto. Tale principio trova fondamento nell’articolo 8 del decreto legislativo n. 472/1997, rubricato appunto «Intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi», il quale stabilisce in modo esplicito che: «L’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi». E’ quanto ha rammentato la sezione tributaria della Cassazione, nell’ordinanza n. 8684/2025, esaminando il ricorso di una vedova del socio di una società di fatto, chiamata a rispondere del debito tributario del de cuius, in qualità di erede del predetto.

Sanzioni civili e amministrative: diverso regime

La S.C. si è quindi soffermata, sul diverso regime successorio delle sanzioni civili rispetto a quelle amministrative. “Mentre le sanzioni civili sono sanzioni aggiuntive, destinate a risarcire il danno ed a rafforzare l’obbligazione con funzione di deterrente per scoraggiare l’inadempimento, le sanzioni amministrative (di cui alla l. n. 689/1981) – hanno affermato quindi i giudici della S.C. – quelle tributarie (di cui alla l. n. 472/1997) hanno un carattere afflittivo ed una destinazione di carattere generale e non settoriale, sicché rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, nei limiti della ragionevolezza, quando la violazione debba essere colpita da un tipo di sanzione piuttosto che da un altro”.

A tale scelta, peraltro, “si ricollega il regime applicabile, anche con riferimento alla trasmissibilità agli eredi, prevista solo per le sanzioni civili, quale principio generale in materia di obbligazioni, e non per le altre, per le quali opera il diverso principio dell’intrasmissibilità, quale corollario del carattere personale della responsabilità (cfr. Cass. n. 15067 del 2008; Cass. n. 25315 del 2022)”.

Interessi sui tributi: quando sono trasmissibili

Diversa è la questione relativa agli interessi maturati sui tributi dovuti, i quali, a differenza delle sanzioni, sono considerati accessori dei tributi stessi e dunque trasmissibili agli eredi.

La decisione

Per cui, limitatamente alla doglianza sulle sanzioni, il ricorso della donna è accolto e la sentenza cassata.

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concetto di domicilio

La Cassazione chiarisce il concetto di domicilio Per la Suprema Corte, il domicilio non può coincidere con qualsiasi ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza

Concetto di domicilio

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8593/2025, ha stabilito che il concetto di domicilio non può essere esteso a qualsiasi luogo che garantisca intimità e riservatezza. In particolare, la S.C. ha chiarito che non ogni ambiente destinato a garantire la privacy può essere considerato domicilio ai fini delle tutele previste dall’art. 14 della Costituzione italiana, che protegge l’inviolabilità del domicilio.

La vicenda

Nella vicenda, i ricorrenti, dichiarati colpevoli di concorso in tentato furto aggravato in luogo di privata dimora, per essersi introdotti all’interno di una farmacia compiendo atti diretti a impossessarsi delle cose mobili presenti all’interno, impugnano la sentenza della Corte d’appello di Roma che ha confermato la decisione di primo grado.

Il ricorso per cassazione è affidato al comune difensore di fiducia, il quale svolge un unico motivo, dolendosi della qualificazione giuridica data al fatto. Si sostiene, infatti, alla luce della evocata giurisprudenza, che la fattispecie concreta in esame non consenta di ritenere che i luoghi al cui interno i correi si sono introdotti siano configurabili quali luoghi di privata dimora, secondo le coordinate delineate dalla giurisprudenza. Il tentativo di furto è stato, infatti, perpetrato in orario notturno, in assenza di persone, e li foro di accesso è stato praticato in prossimità della parte retrostante alla cassa, zona esposta all’accesso del pubblico. Trattasi, dunque, a suo dire, di pertinenza non rientrante nei luoghi in cui possano svolgersi, neppure astrattamente, atti di vita privata connessi all’attività lavorativa.

Il luogo di privata dimora

Per la S.C., i ricorsi non sono fondati.

Come premesso, il ricorso svolge un’unica doglianza riferita all’errore giuridico circa la qualificazione del delitto quale tentativo di furto in abitazione, sostenendosi, sulla base di richiami giurisprudenziali, che il fatto andrebbe riqualificato in furto tentato ai sensi degli artt. 56-624 cod. pen., a cui conseguirebbe l’effetto della non procedibilità per carenza di querela.
Tuttavia, per i giudici di legittimità, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto che governato la materia.

Il domicilio

Gli elementi delineati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti il “domicilio” e ritenuti indefettibili per garantire la copertura costituzionale dell’art. 14 Cost.,, affermano dalla S.C., “sono stati evidenziati già nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26795/2006, secondo cui per « luogo di privata dimora», deve intendersi quello adibito ad esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente, senza turbativa da parte di estranei, precisando che il concetto di domicilio individua un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza. Questo non implica, peraltro, che tutti i locali dai quali li possessore abbia diritto di escludere le persone a lui non gradite possano considerarsi luoghi di privata dimora, in quanto lo ius excludendi alios rilevante ex art. 614 cod. pen., non è fine a se stesso, ma serve a tutelare li diritto alla riservatezza, nello svolgimento di alcune manifestazioni della vita privata della persona, che l’art. 14 Cost. garantisce, proclamando l’inviolabilità del domicilio, cosicchè, « il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza»”.

Nozione di privata dimora nei luoghi di lavoro

In un successivo approdo, le Sezioni Unite hanno esaminato specificamente la questione della applicabilità della nozione di privata dimora di cui all’art. 624 bis cod. pen. ai luoghi di lavoro, ed hanno affermato che «Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale» (Sez. Un., n. 31345 del 23/03/2017).

Secondo tale ultima pronuncia, gli indici ai quali ancorare la classificazione di un luogo come di privata dimora sono tre: «a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte degli stessi, specificano dal Palazzaccio, “il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento – Sez. Un. “D’Amico”, cit.).

Furto ai danni di farmacie

Coerente con tali coordinate ermeneutiche, la giurisprudenza, pur se antecedente ai richiamati approdi del massimo consesso di legittimità, formatasi in casi analoghi a quello di specie, ovvero di furto ai danni di farmacie; si è, infatti, considerato che, in tanto la fattispecie di cui all’art. 624- bis cod. pen. può essere ritenuta in quanto la condotta di furto si indirizzi nei confronti di quelle parti dell’immobile che, avendo le caratteristiche evidenziate dalla giurisprudenza sopra richiamate, possono essere qualificate privata dimora, nel senso che è tale “la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduca all’interno di una farmacia, soltanto quando l’introduzione clandestina avvenga nelle parti dell’immobile destinati, per l’uso che in concreto ne è fatto, a privata dimora, vale a dire quale luogo non pubblico in cui le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti di vita privata ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale politica”. (Sez. 4, n. 51749 del 13/11/2014, Rv. 261577).
Tale interpretazione, infatti, “aderisce alla nozione di privata dimora riferibile ai luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata – compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale – e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza li consenso del titolare ( Sez. 5, n. 34475 del 21/06/2018)”.

La decisione

Calando tali principi nella vicenda concreta in esame, ritiene la S.C. che la sentenza della Corte territoriale sia nel giusto, osservando come i luoghi presi di mira fossero, da un lato, destinati allo svolgimento di attività strumentali all’esercizio della farmacia e dall’altro pertinenze di abitazione privata. Per cui, ne consegue l’infondatezza del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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giurista risponde

Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT della PA In tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica, si determina un vuoto di tutela?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica non si determina un vuoto di tutela, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo (Cass., Sez. Un., 25 novembre 2024, n. 30220).

Le Sezioni Unite hanno stabilito che: “In tema di impugnazione dell’elenco annuale ISTAT delle pubbliche amministrazioni predisposto ai sensi del SEC 2010, l’art. 23quater D.L. 137/2020, nel delimitare la giurisdizione della Corte dei Conti – Sezioni Riunite alla sola applicazione della disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non ha determinato un vuoto di tutela o il mancato rispetto dell’effetto utile della disciplina unionale, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo”.

Pertanto, la Cassazione conferma la centralità dell’art. 103 Cost., che attribuisce alla Corte dei Conti una giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, senza tuttavia precludere al legislatore di ridefinirne i confini per esigenze di sistema. Inoltre, ribadisce che il sistema italiano è compatibile con il principio di effettività, affidando al G.A. il controllo sugli aspetti procedurali e di legittimità e alla Corte dei Conti il compito di vigilare sugli effetti contabili della spesa pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA.”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

festività soppresse

Festività soppresse Festività soppresse: quali sono, quale legge le ha abolite e quali sono le conseguenze per i lavoratori in termini di riposo e retribuzione

Cosa sono le festività soppresse

Le festività soppresse sono giornate che in passato erano riconosciute come festività civili o religiose, ma che nel tempo sono state eliminate dal calendario festivo nazionale. Tuttavia, la loro abolizione non ha comportato la perdita del diritto al riposo o alla retribuzione per i lavoratori, poiché il legislatore ha previsto specifiche tutele in merito.  

Quali sono le festività soppresse?

Le festività soppresse erano originariamente riconosciute dalla Legge n. 260/1949, che disciplinava le festività nazionali. Successivamente, con la Legge n. 54/1977, alcune di queste sono state eliminate dal calendario, pur mantenendo delle compensazioni per i lavoratori. In Italia sono:

  • San Giuseppe (19 marzo)
  • Ascensione (quaranta giorni dopo la Pasqua, variabile): nel 2025 è il 29 maggio 2
  • Corpus Domini (giovedì successivo alla Pentecoste, variabile): nel 2025 è il 19 giugno
  • Unità Nazionale (4 novembre) – celebrazione senza chiusura lavorativa

Normativa di riferimento

La principale normativa sulle festività soppresse include:

  • Legge n. 260/1949: contiene le disposizioni in materia di ricorrenze festive
  • Legge n. 54/1977: contiene le disposizioni in materia di giorni festivi, ha soppresso alcune festività e ne ha regolato la compensazione;
  • P.R. n. 792/1985_ ha confermato la soppressione delle festività religiose;
  • Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL), che stabiliscono modalità di compensazione specifiche per ogni categoria di lavoratori.

Conseguenze per i lavoratori

Le festività soppresse sono state trasformate in permessi individuali retribuiti per i lavoratori. Questi permessi, noti come “ex festività”, ammontano a un totale di 32 ore annuali. Queste giornate, pur non essendo più considerate festive a livello civile, danno diritto ai lavoratori a godere di permessi retribuiti, permettendo loro di usufruire di un riposo equivalente. I permessi per le ex festività, derivanti dalle festività religiose soppresse, sono regolati dai contratti collettivi di lavoro. La retribuzione di questi permessi è calcolata con le stesse modalità utilizzate per i giorni di ferie.

Giurisprudenza

La giurisprudenza si è più volte espressa sulla questione delle festività soppresse e sulla loro gestione retributiva:

Cassazione n. 8926/2024: Anche in assenza di una specifica regolamentazione contrattuale per i dipendenti degli enti pubblici non economici, la mancata fruizione dei riposi per festività soppresse può essere monetizzata al termine del rapporto di lavoro, purché sussistano le stesse condizioni previste per la monetizzazione delle ferie. Ciò è possibile in virtù delle disposizioni dell’art. 2 della legge n. 937 del 1977, che equiparano sostanzialmente i riposi per festività soppresse alle ferie, consentendo così l’applicazione analogica delle norme relative a quest’ultime.

Cassazione n. 18425/2014: la maggiorazione retributiva per le festività soppresse non è automatica, ma dipende dalle previsioni del contratto collettivo applicato. In particolare, se il contratto prevede tale maggiorazione solo in caso di effettiva prestazione lavorativa durante la festività, come nel caso esaminato, in cui le lavoratrici avevano usufruito di permessi sindacali, la maggiorazione non spetta. La Corte ha inoltre ribadito che il principio di onnicomprensività della retribuzione, pur esistente, non è una regola assoluta e non impedisce all’autonomia privata di escludere determinati compensi dal calcolo della retribuzione per altri istituti contrattuali o legali, a meno che non vi sia una norma specifica che lo imponga.

Tribunale Napoli n. 23136/2011: La reintroduzione di una festività soppressa, come il 2 giugno, non autorizza il datore di lavoro a modificare unilateralmente un accordo che prevede ferie o permessi in sostituzione delle festività civili soppresse. Nemmeno la presupposizione, che richiederebbe la risoluzione del contratto o un nuovo accordo bilaterale, può giustificare tale modifica unilaterale.

notifica pec

Notifica pec fallita per causa ignota: va rinnovata La Cassazione ha chiarito che in caso di notifica pec fallita per causa ignota, la stessa va rinnovata dalla cancelleria

Notifica pec fallita

Notifica PEC non andata a buon fine per causa ignota. Va rinnovata dalla Cancelleria. Questo quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 8361/2025.

Il caso: notifica PEC non consegnata

La decisione è scaturita dal ricorso di un uomo condannato per stalking dalla Corte d’Appello di Brescia. Il ricorrente ha contestato la validità della notifica dell’avviso di udienza al difensore e quella effettuata presso il domicilio eletto. La causa del fallimento non era chiaramente individuabile. Dagli atti risultava, infatti, che l’avvocato di fiducia non aveva ricevuto nel domicilio elettronico indicato la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, risultante – del resto – dal fascicolo d’ufficio come non consegnato al destinatario. Di qui, a suo dire, “poiché non è stata individuata la causa della mancata consegna del messaggio di posta elettronica, non è possibile attribuirgli, in conformità ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione, alcuna responsabilità per l’omesso recapito del predetto messaggio”.

Per la Corte, le doglianze suscettibili di valutazione unitaria, sono fondate.

Obbligo di ripetizione della notifica

La questione che si pone all’attenzione della S.C. è “se la notifica possa ritenersi valida anche in un’ipotesi come quella considerata, ossia nella quale non sia possibile stabilire se l’omessa consegna sia dipesa dalla responsabilità del destinatario del messaggio (ad es., per problemi correlati alla ‘saturazione’ della relativa cartella) ovvero da quella della Cancelleria” ragiona la Corte. In definitiva, “si tratta di individuare le conseguenze, in punto di validità della notifica dell’atto processuale a mezzo pec, dell’omessa consegna del messaggio inviato dalla cancelleria per una causa rimasta ignota”.
Nella giurisprudenza di legittimità, “è stato sancito il dovere del difensore di controllare il corretto funzionamento della propria casella di posta elettronica, con la conseguenza che, ove la mancata consegna dipenda da un malfunzionamento del sistema, le conseguenze restano a carico del difensore, in virtù della prescrizione espressa dall’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179/2012, che impone il deposito dell’atto in cancelleria (ex multis, Cass. n. 41697/2019)”.

La decisione

Nel caso di specie, tuttavia, l’omessa consegna del messaggio trasmesso dalla cancelleria a mezzo posta elettronica certificata è rimasta ignota. E ciò in quanto la preminente importanza che, anche nella giurisprudenza costituzionale, è attribuita al diritto di difesa dell’imputato rispetto al principio della ragionevole durata del processo, comporta che, “nelle ipotesi di incertezza circa la responsabilità dell’omesso perfezionamento del procedimento notificatorio, questo non possa considerarsi validamente compiuto”.
“Il che impone alla cancelleria, in un caso siffatto, concludono dal Palazzaccio, “la rinnovazione della notifica, trattandosi, peraltro, di un adempimento semplificato proprio dalla possibilità di utilizzare l’agile strumento della posta elettronica certificata”.
Da qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio.

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