certificato di malattia

Il certificato di malattia è gratis: se il medico chiede soldi commette reato Il certificato di malattia per l’astensione dal lavoro è gratuito, commette istigazione reato il medico che chiede denaro per rilasciarlo

Denaro per certificato di malattia è istigazione alla corruzione

Il certificato di malattia non è a pagamento. Il medico che chiede denaro per il suo rilascio commette quindi reato. Ai fini della configurazione dell’illecito l’importo modesto delle richieste e il tono scherzoso con cui vengono formulate non rilevano. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 19409/2025.

Certificato di malattia a pagamento? E’ istigazione alla corruzione

Il giudice dell’appello conferma la condanna di un medico di base convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale, per il reato di istigazione alla corruzione, riqualificato ai sensi dell’art. 322, comma 3, c.p. La condotta oggetto di contestazione riguarda la richiesta di somme di denaro per il rilascio dei certificati medici di astensione dal lavoro. Le richieste sono avvenute in due occasioni per un importo di 30 euro e, in altre, senza richiesta di una cifra precisa.

Richieste di denaro “per scherzo”: punibilità ingiustificata

Il medico ricorre in Cassazione sollevando due motivi di doglianza. Con il primo motivo lamenta la logica della motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 322, comma 3, c.p. Le sue sollecitazioni ai pazienti non erano idonee o serie, ma fatte con tono scherzoso o amichevole. La difesa evidenzia vari elementi a sostegno della non serietà delle richieste:

  • alcuni testimoni le hanno qualificate infatti come battute;
  • altri non hanno ricordato l’episodio o non ne hanno percepito la gravità;
  • nessuno dei pazienti ha cambiato medico;
  • l’importo richiesto era modesto;
  • le richieste non sono state ripetute dopo il rifiuto.

Con il secondo motivo invece contesta il diniego dell’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. Il medico sostiene che la Corte d’Appello abbia illegittimamente applicato retroattivamente la modifica legislativa introdotta nel 2022, dopo i fatti oggetto del processo. Inoltre, ritiene illogiche le motivazioni addotte per negare la tenuità del fatto, tra cui la gravità del contesto medico, la non esiguità del danno e la presunta reiterazione della condotta, che non corrisponde ad abitualità. La difesa sottolinea anche che le richieste erano rivolte solo a pochi pazienti rispetto al numero complessivo degli assistiti, il che dimostrerebbe l’assenza di sistematicità del comportamento.

Certificato medico di malattia sempre gratuito

La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso del medico imputato dichiara il primo motivo inammissibile. Secondo i giudici, la censura proposta si limita a offrire un’interpretazione alternativa dei fatti senza confrontarsi in modo critico con la motivazione della sentenza impugnata. La richiesta di denaro in cambio del certificato medico di malattia, anche se formulata con tono scherzoso, è stata considerata idonea e univoca alla corruzione, basandosi sia su messaggi acquisiti che sulle testimonianze dei pazienti. Un solo teste ha parlato di tono scherzoso. In base alla giurisprudenza consolidata, l’idoneità dell’offerta corruttiva va valutata ex ante. Non rileva pertanto la modesta entità della somma richiesta, se non è del tutto irrisoria.

Infondato invece il secondo motivo. La sentenza del giudice di secondo grado non ha applicato retroattivamente la norma modificata dell’art. 131-bis c.p., si è limitata a citarla per mettere in evidenza la sua entrata in vigore posteriore ai fatti. Il rigetto della richiesta di non punibilità si fonda soprattutto sulla ritenuta abitualità della condotta, che è stata desunta dalla reiterazione delle condotte e dalla frequenza delle richieste, indicativa di una tendenza a violare i doveri del proprio ruolo. In merito alla nozione di “abitualità”, la Corte richiama la giurisprudenza delle Sezioni Unite, secondo cui essa può emergere anche dalla commissione di più reati della stessa indole, non necessariamente accertati con sentenza definitiva. È sufficiente che più illeciti siano oggetto dello stesso procedimento, permettendo al giudice di valutarli in modo unitario.

La tenuità del fatto non può essere riconosciuta in presenza di una pluralità di condotte aventi caratteri comuni, indicative di un’inclinazione criminale. La nozione di “reati della stessa indole” si fonda su un doppio criterio: oggettivo (la natura dei fatti) e soggettivo (i motivi che li hanno determinati). Essa ha un raggio d’azione più ampio rispetto al concetto di “reato continuato”, che richiede un medesimo disegno criminoso. Pertanto, anche se astrattamente compatibile con il reato continuato, l’art. 131-bis non può essere applicato quando, come in questo caso, le condotte indicano una costante violazione delle regole.

 

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Allegati

equa riparazione

Equa riparazione anche per le persone giuridiche La Cassazione conferma che anche le società hanno diritto all’indennizzo per la durata irragionevole del processo

L’equa riparazione spetta anche a società ed enti collettivi

Con l’ordinanza n. 14749/2025, la Cassazione ribadisce che il diritto all’equa riparazione per la durata eccessiva di un processo riguarda anche le persone giuridiche, come società ed enti collettivi.
La violazione del termine ragionevole di durata del giudizio, stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e recepito in Italia dalla legge Pinto (L. n. 89/2001), genera un danno non patrimoniale che si presume esistente, salvo prova contraria.

Il caso concreto

La vicenda trae origine dal fallimento di una società, durato oltre quattordici anni, a fronte di un termine di sei previsto per tali procedure. Due società creditrici, dopo aver presentato istanza di ammissione al passivo, avevano chiesto l’indennizzo per il ritardo.
La Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto al risarcimento, ma solo per il periodo coincidente con la permanenza in carica dei legali rappresentanti, ritenendo che il danno si identificasse nel disagio psicologico degli amministratori.
Questa impostazione è stata censurata dalla Cassazione, che ha chiarito che il danno appartiene alla società in quanto soggetto titolare del diritto, non ai suoi organi.

La natura del danno non patrimoniale per le persone giuridiche

Secondo la Suprema Corte, il danno non patrimoniale derivante da un processo eccessivamente lungo ha una componente oggettiva, diversa dallo stress o dall’ansia che possono colpire le persone fisiche.
Il pregiudizio consiste nella “deminutio” dell’immagine e della sfera giuridica dell’ente, che subisce una compromissione della sua posizione a causa del protrarsi dello stato di incertezza.
Proprio per questa ragione, la Cassazione ha ribadito che la durata della carica dell’amministratore è irrilevante ai fini della quantificazione del danno, che si radica nel patrimonio e nella dimensione giuridica della persona collettiva.

La presunzione del danno e l’onere della prova contraria

La decisione ripercorre un orientamento consolidato secondo cui il danno extrapatrimoniale, pur non essendo un danno “automatico”, si presume normalmente in base all’id quod plerumque accidit, ossia all’evento che di regola si verifica.
Questa presunzione è superabile soltanto se l’amministrazione resistente dimostra circostanze particolari che escludano la sussistenza del pregiudizio (ad esempio, l’infondatezza manifesta della pretesa azionata o altri elementi che dimostrino l’assenza di danno concreto).
Tuttavia, la Cassazione precisa che il mutamento degli organi societari durante la procedura non incide sulla spettanza dell’indennizzo alla persona giuridica.

I limiti soggettivi dell’indennizzo per la durata irragionevole

L’ordinanza si sofferma anche su un altro aspetto rilevante: il diritto all’equa riparazione spetta esclusivamente al soggetto che ha partecipato al giudizio che si è protratto oltre il termine ragionevole.
Di conseguenza, gli amministratori o i soci, se non hanno assunto la veste di parte processuale, non possono richiedere in proprio l’indennizzo per la durata del procedimento.
Questo principio, già affermato in altre decisioni, garantisce una corretta delimitazione dei soggetti legittimati a pretendere il risarcimento.

carta d'imbarco

Risarcimento volo cancellato: basta la carta d’imbarco La Cassazione conferma che per ottenere il risarcimento in caso di volo cancellato è sufficiente esibire la carta d’imbarco. Non serve anche il biglietto aereo

La carta d’imbarco come prova del contratto di trasporto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17644/2025, ha chiarito un principio importante per i passeggeri che richiedono il risarcimento in caso di mancata partenza del volo.
Secondo i giudici, la semplice presentazione della carta d’imbarco costituisce un elemento sufficiente a dimostrare l’esistenza del contratto di trasporto aereo, non essendo necessario allegare anche il biglietto.
Questo orientamento rafforza la tutela dei consumatori, semplificando l’onere probatorio nei procedimenti di risarcimento.

Il caso concreto

La vicenda ha riguardato un passeggero che, dopo la cancellazione del proprio volo Roma-Londra, aveva prodotto le carte d’imbarco a supporto della propria richiesta risarcitoria.
La Corte d’appello, pur prendendo atto della documentazione, aveva ritenuto che essa non bastasse a dimostrare l’acquisto del biglietto, dichiarando quindi carente la prova del contratto.
La Cassazione ha censurato tale decisione, evidenziando che la carta d’imbarco è strettamente collegata al biglietto, al punto da poter essere considerata prova equipollente.

Gli obblighi probatori delle parti

Nella pronuncia, la Suprema Corte ha ricordato la corretta ripartizione degli oneri probatori in materia di trasporto aereo, in linea con la Convenzione di Montreal del 1999 e con il Regolamento CE n. 261/2004.
Il passeggero è tenuto a:

  • fornire la prova del contratto di trasporto (titolo di viaggio o documento equivalente);

  • allegare l’inadempimento del vettore (ad esempio, la cancellazione o il ritardo del volo).

Spetta invece alla compagnia aerea dimostrare l’esatto adempimento, oppure che l’inadempimento sia derivato da cause di forza maggiore o da eventi eccezionali che la esonerino da responsabilità.

Carta d’imbarco: il principio affermato dalla Cassazione

Il Supremo Collegio ha ribadito che, nell’ambito del trasporto aereo internazionale, l’esistenza del contratto può essere provata non solo attraverso il biglietto ma anche con la produzione di qualsiasi documento idoneo a dimostrare la prenotazione e l’ammissione all’imbarco.
La carta d’imbarco, in quanto documento rilasciato direttamente dal vettore, costituisce pertanto una prova sufficiente per fondare la pretesa risarcitoria.

giurista risponde

Delitto di rapina e configurabilità dell’attenuante (art. 62, co. 1, n. 4, c.p.) In relazione al delitto di rapina, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p. qual è il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante in esame, il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi (Cass., Sez. Un., 15 novembre 2024, n. 42124 – Delitto di rapina e configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p.).

Nel caso di specie, la Corte di Appello di L’Aquila confermava la condanna alla pena irrogata dal Tribunale di Pescara con sentenza del 6 luglio 2022 per i reati di rapina aggravata e lesioni, unificati

dal vincolo della continuazione e previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla recidiva contestata.

Il ricorso è stato assegnato alla Seconda sezione, che, con ordinanza del 5 aprile 2024, n. 16364, ne disponeva la rimessione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618, comma 1, c.p.p., rilevando l’esistenza di contrasti interpretativi sia in ordine alla determinazione del termine a comparire nel giudizio di appello a far data dal 30 dicembre 2022 (che un orientamento individua in giorni venti ed un altro in giorni quaranta), sia all’individuazione – in presenza di un fenomeno di successione di leggi (l’art. 601 c.p.p., che disciplina gli atti preliminari al giudizio di appello, è stato in parte qua novellato dall’art. 34 D.Lgs. 150/2022) – dell’atto da valorizzare in concreto ai fini dell’applicazione del principio tempus regit actum.

Per quanto di interesse, la Corte di Appello avrebbe disatteso la richiesta di riconoscere all’imputato la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., osservando genericamente che il profitto del reato consistette sia in un telefono cellulare che in una catenina di argento, oggetti il cui valore sommato supera i limiti entro i quali può essere riconosciuta tale attenuante.

La motivazione fornita sul punto dalla sentenza impugnata è inficiata da un errore di diritto, pur non determinante annullamento, che va, ai sensi dell’art. 619 c.p.p., corretto.

Invero, va ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai fini della configurabilità, in relazione al delitto di rapina della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, occorrendo valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia. Il delitto di rapina, ancorché incluso nel Titolo XIII del Libro II del codice penale, relativo ai delitti contro il patrimonio, ha in genere natura pluri-offensiva, in quanto il danno che ne deriva non incide soltanto sulla sfera patrimoniale, ma comprende anche gli aspetti lesivi della libertà fisica o psichica della persona offesa aggredita per la realizzazione del profitto.

Ne discende che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante in esame, non può aversi riguardo unicamente al fatto che il bene materiale sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi al bene personale dell’integrità fisica e/o psichica della parte offesa contro la quale l’agente ha indirizzato l’attività violenta o minacciosa al fine di impossessarsi della cosa. La predetta circostanza potrà essere ritenuta sussistente, sulla base di un apprezzamento riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logico-giuridici, soltanto nel caso in cui la valutazione complessiva dei pregiudizi arrecati ai beni tutelati risulti di speciale tenuità.

Deve, per completezza, evidenziarsi che il riferimento all’intervenuta restituzione del telefono cellulare è, comunque, privo di rilievo.

La giurisprudenza ha, infatti, già chiarito che, ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi.

 

 

(*Contributo in tema di “Delitto di rapina e configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p. ”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

procura alle liti

Procura alle liti in lingua straniera: valida senza traduzione Le Sezioni Unite civili hanno stabilito che la procura speciale alle liti redatta in lingua straniera è valida anche senza traduzione, poiché l’obbligo dell’italiano riguarda solo gli atti processuali

La procura alle liti in lingua straniera non è nulla

Le Sezioni Unite civili della Cassazione, con la sentenza n. 17876 del 2025, hanno chiarito un principio di grande rilievo per la tutela del diritto di difesa: la procura speciale alle liti redatta in lingua straniera e rilasciata all’estero è pienamente valida, anche se priva di traduzione in italiano e di certificazione traduttiva.

Secondo la Corte, l’obbligo di utilizzare la lingua italiana si applica esclusivamente agli atti processuali in senso stretto e non a quelli prodromici, come la procura con cui si conferiscono i poteri al difensore.

L’ambito di applicazione dell’art. 122 c.p.c.

La Cassazione ha ricordato che l’art. 122, comma 1, c.p.c., impone l’uso della lingua italiana “in tutto il processo”. Tale prescrizione riguarda però solo gli atti che si formano nel processo e per il processo: atti processuali veri e propri, come le comparse, le memorie, i ricorsi e le sentenze.

La procura alle liti, pur strettamente collegata al processo, ha natura meramente strumentale e preparatoria. Per questo motivo, non è soggetta alla regola della redazione obbligatoria in italiano.

La traduzione non è requisito di validità

Imporre la traduzione della procura come condizione di validità integrerebbe un vincolo non previsto dalla legge. La Corte ha evidenziato che un simile obbligo costituirebbe un ostacolo sproporzionato al diritto di azione in giudizio, privo di adeguata giustificazione in termini di interesse pubblico.

In linea con il principio di tassatività delle nullità, sancito dall’art. 156 c.p.c., non è possibile estendere per analogia il requisito della lingua italiana a documenti che non siano atti processuali.

Il ruolo del giudice e l’art. 123 c.p.c.

La Suprema Corte ha chiarito che, se il documento prodotto in giudizio è in lingua straniera, il giudice può applicare l’art. 123 c.p.c.: è dunque sua facoltà, e non un obbligo, disporre la nomina di un traduttore.

Il giudice può decidere di non avvalersi del traduttore se comprende il contenuto dell’atto o se non esistono contestazioni sulla traduzione eventualmente allegata.

Il caso concreto e i principi di diritto affermati

La decisione nasce da un procedimento ereditario in cui una delle parti aveva eccepito la nullità della procura speciale rilasciata negli Stati Uniti e autenticata da un notaio della Florida, proprio per l’assenza della traduzione in italiano.

La Corte di Cassazione ha respinto l’eccezione, stabilendo due principi di diritto fondamentali:

  1. La procura speciale alle liti redatta in lingua straniera e rilasciata all’estero è valida anche senza traduzione né certificazione, perché la disciplina della lingua italiana si riferisce ai soli atti processuali.

  2. Il giudice può eventualmente nominare un traduttore se necessario per comprendere il contenuto dell’atto, ma non è tenuto a farlo in assenza di contestazioni o difficoltà interpretative.

giurista risponde

Turbativa ed estorsione Colui che allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private ricorrendo alla violenza o alla minaccia integra solo il reato di turbata libertà agli incanti ex art. 353 c.p. o una pluralità di fattispecie di reato?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

La condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, oltre ad integrare il reato di cui all’art. 353 c.p., può integrare altresì quello di cui all’art. 629 c.p. ove abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla predetta gara. Nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto di estorsione rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale (Cass., Sez. Un., 22 luglio 2024, n. 30016 – Turbativa ed estorsione).

Il reato di turbata libertà degli incanti, previsto dall’art. 353 c.p., punisce colui che con una condotta vincolata, ovvero con violenza o minaccia, impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private oppure ne allontana gli offerenti.

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione riguarda la possibilità che il medesimo fatto possa configurare un concorso formale con il reato di estorsione nel caso in cui oltre all’allontanamento dalla gara, o ad altra turbativa, venga prodotto un altro evento dannoso che non è previsto dall’art. 353 c.p.: l’ingiusto profitto o l’altrui danno.

Il reato di turbata libertà degli incanti è infatti un reato comune di condotta a dolo generico poiché prescinde dal realizzarsi dell’ingiusto profitto o dall’altrui danno.

Anche il bene giuridico protetto dalla fattispecie cambia in questo caso: nel reato previsto dall’art. 353 c.p. si tutela la libertà di scelta del contraente; nel reato di estorsione il bene tutelato è il patrimonio del soggetto passivo.

Le due fattispecie di reato si pongono in rapporto di specialità reciproca perché sono caratterizzate da elementi costitutivi differenziati, ed è per questo che si è posta dinnanzi alle Sezioni Unite la questione relativa alla possibilità di riconoscere il concorso formale con il reato di estorsione quando viene anche cagionato un danno o conseguito un ingiusto profitto.

In particolare, la questione riguarda la possibilità di ravvisare il concorso formale con il reato di estorsione quando il danno corrisponda a una perdita di chance. Le Sezioni Unite risolvono positivamente la questione, affermando che rientra nella nozione di danno di cui all’art. 629 c.p. anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile di cui sia provata la sussistenza sulla base di una nozione di causalità propria del diritto penale.

La causalità nel diritto penale è determinata sulla base del criterio di “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre la perdita di chance è una nozione civilistica, in cui la causalità è determinata in base alla regola del “più probabile che non”, quindi potrebbe risultare arduo applicare il criterio penalistico per accertare tale elemento costitutivo.

Un primo e più risalente orientamento riteneva sussistente solo un concorso apparente di norme tra i due reati poiché la fattispecie di turbata libertà agli incanti assorbirebbe in sé l’intero disvalore del fatto criminoso in base al presupposto per cui il danno dell’estorsione coinciderebbe con la lesione della libertà di partecipare o meno ad una gara e influenzarne l’esito, danno già punito alla luce dell’art. 353 c.p.

Un secondo orientamento riteneva invece configurabile il concorso formale tra le due fattispecie criminose evidenziando i differenti elementi costitutivi di entrambe: nell’estorsione l’elemento fondamentale è la coartazione della volontà altrui al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno; il reato di turbata libertà degli incanti invece è integrato nel caso di cosciente e volontario impedimento o turbativa di una gara o dall’allontanamento degli offerenti, senza che sia necessario il verificarsi di un ulteriore danno o il conseguimento di un profitto ingiusto.

A questo secondo orientamento aderiscono le Sezioni Unite affermando che nel reato di estorsione l’elemento centrale è costituito dal danno, che deve essere verificato secondo i canoni previsti dal diritto penale, ovvero la regola che impone un accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio”, e che il danno può essere costituito da qualsiasi parte del patrimonio della vittima, compresi i beni immobili e le aspettative di diritto perché il patrimonio non è costituito solo da beni materiali, ma da rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico unificati dalla legge in considerazione dell’appartenenza al medesimo soggetto, così da ricomprendere nel concetto di danno di cui all’art. 629 c.p. qualunque situazione idonea ad incidere negativamente sull’assetto economico dell’individuo, compresa la delusione delle aspettative e le chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi.

Alla luce di queste premesse, le Sezioni Unite concludono affermando che la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico, ovvero la chance, può essere ricondotta nell’ambito di operatività del danno patrimoniale quale elemento costitutivo del reato di estorsione ex art. 629 c.p.

Infine, si precisa che il rapporto di causalità tra la condotta e l’evento dannoso corrispondente alla perdita della possibilità di conseguire il risultato favorevole deve essere provato mediante l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice penale dispone per effettuare le valutazioni probatorie e si considera sussistente quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa affermare in termini di certezza processuale, ovvero di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta a determinare l’evento dannoso.

 

(*Contributo in tema di “Turbativa ed estorsione”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

rito lavoro

Rito lavoro: udienza sostituibile con note col consenso di tutti Le Sezioni Unite chiariscono che nel processo del lavoro l’udienza può essere sostituita da note scritte solo con l’accordo unanime delle parti

Rito lavoro e modalità cartolare

Con la sentenza n. 17603/2025, le Sezioni Unite civili della Cassazione hanno sciolto i dubbi interpretativi in merito alla possibilità di sostituire le udienze orali con il deposito di note scritte anche nel rito del lavoro.

La decisione stabilisce che l’articolo 127-ter del Codice di procedura civile, introdotto dalla riforma Cartabia, trova applicazione pure nei giudizi di lavoro, dove tradizionalmente prevale il principio dell’oralità. Tuttavia, tale modalità di trattazione cartolare è ammessa solo in presenza del consenso di tutte le parti processuali, a garanzia del contraddittorio e della parità di posizione.

Il deposito di note scritte e il termine di presentazione

Le Sezioni Unite hanno precisato che, quando il giudice indica una data entro cui depositare le note scritte, l’eventuale indicazione di un orario non costituisce un termine perentorio tale da far ritenere tardivo il deposito effettuato nel medesimo giorno.

In particolare, l’orario va inteso come coincidente con l’intero periodo di apertura dell’ufficio giudiziario competente. Inoltre, l’adozione del deposito telematico ormai pienamente operativo in ambito civile rende ancor più chiaro che il termine fissato non possa assumere carattere rigido, purché l’adempimento sia completato entro la giornata stabilita.

Il deposito telematico del dispositivo e la lettura in udienza

Un altro aspetto importante affrontato dalla sentenza riguarda la pubblicazione del dispositivo. La Suprema Corte ha chiarito che il deposito telematico del dispositivo produce effetti equivalenti alla lettura in udienza, anche qualora quest’ultima non avvenga alla presenza delle parti.

Questa evoluzione rispecchia la tendenza normativa, già emersa durante la fase emergenziale, a favorire forme di trattazione camerale che consentano di velocizzare le fasi decisionali senza comprimere le garanzie difensive.

L’oralità può essere sostituita, ma con il consenso unanime

La Corte ha affermato che la regola dell’oralità non è inderogabile. La possibilità di sostituire l’udienza con difese scritte è legittima “ogni volta che la struttura e la funzione del procedimento o dell’attività processuale lo permettano”, purché le parti si trovino in condizioni di parità.

Il consenso unanime è quindi la condizione imprescindibile per attivare la modalità cartolare nel processo del lavoro, a tutela del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione e dall’art. 6 CEDU.

Il principio di pubblicità dell’udienza e le deroghe ammesse

La sentenza si colloca nel solco delle pronunce costituzionalmente orientate che riconoscono alla pubblicità dell’udienza un valore importante ma non assoluto. È infatti compatibile con il sistema processuale la previsione di deroghe motivate da esigenze oggettive, come la rapidità di definizione delle controversie di lavoro e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia.

L’introduzione di strumenti che riducano l’onere della presenza fisica delle parti risponde a questa esigenza, a condizione che si rispetti la piena effettività del contraddittorio.

segreto professionale

Avvocati: il segreto professionale blocca la Finanza La Cassazione sancisce l’inutilizzabilità dei dati acquisiti dalla Guardia di Finanza senza autorizzazione specifica dopo l’eccezione del segreto professionale

Con l’ordinanza n. 17228/2025, la Cassazione ha riaffermato il valore inderogabile del segreto professionale dell’avvocato. La Guardia di Finanza, in caso di opposizione al sequestro di documenti coperti da riservatezza, può procedere al loro esame solo se munita di un’autorizzazione specifica rilasciata dal Procuratore della Repubblica o dall’autorità giudiziaria competente. In difetto, i dati raccolti sono inutilizzabili.

Accesso nello studio legale e block notes “secretato”

La vicenda trae origine da un’ispezione fiscale svolta dalle Fiamme Gialle presso lo studio di un avvocato.
Nel corso dell’accesso, i militari avevano individuato un block notes contenente informazioni di rilievo fiscale e contabile. L’avvocato aveva immediatamente eccepito il segreto professionale, opponendosi all’esame e all’acquisizione del documento.

Nonostante l’opposizione, i finanzieri avevano proceduto comunque alla consultazione e al sequestro del block notes, basandosi su un’autorizzazione preventiva e generica rilasciata dal Procuratore della Repubblica.

Perché serve un’autorizzazione specifica

La Cassazione ha chiarito che l’autorizzazione generica non è sufficiente quando viene formalmente eccepito il segreto professionale.
In queste situazioni:

  • La Guardia di Finanza deve sospendere l’attività di acquisizione;
  • Può riprenderla solo dopo aver ottenuto un’autorizzazione “ad hoc” rilasciata successivamente all’opposizione e riferita ai documenti specifici contestati;
  • L’eventuale omissione rende inutilizzabili i dati acquisiti.

Questo principio tutela la riservatezza del rapporto fiduciario tra avvocato e cliente, che rappresenta un presidio essenziale del diritto di difesa.

La decisione della Cassazione

I giudici di legittimità hanno condiviso la conclusione della Commissione tributaria regionale, che aveva dichiarato l’inutilizzabilità delle informazioni tratte dal block notes “secretato”.
In particolare, è stato evidenziato che: “Non è sufficiente l’esistenza di un’autorizzazione preventiva e generica a procedere all’accesso, essendo necessaria un’autorizzazione successiva e specifica rilasciata dall’autorità giudiziaria competente una volta opposto il segreto professionale.”

Di conseguenza, tutti i dati utilizzati dall’amministrazione finanziaria e derivanti da quell’atto di acquisizione sono stati dichiarati privi di efficacia probatoria.

Il principio di diritto affermato

La Corte ha ribadito che la tutela del segreto professionale prevale sulle esigenze istruttorie dell’amministrazione, salvo che non sia rispettata la procedura di autorizzazione prevista dalla legge.

In sintesi:

  • Quando l’avvocato eccepisce il segreto professionale, ogni attività di esame o sequestro deve essere sospesa;
  • La prosecuzione è consentita esclusivamente previa autorizzazione specifica e motivata del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina;
  • In caso contrario, il materiale acquisito è inutilizzabile in sede processuale.

Allegati

giurista risponde

L’azione revocatoria e la dolosa preordinazione In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dallo art. 2901, comma 1, c.c. è sufficiente il dolo generico?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dall’art. 2901, comma 1, c.c. non è sufficiente la mera consapevolezza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (c.d. dolo generico), ma è necessario che l’atto sia stato posto in essere dal debitore in funzione del sorgere dell’obbligazione, al fine d’impedire o rendere più difficile l’azione esecutiva o comunque di pregiudicare il soddisfacimento del credito, attraverso una modificazione della consistenza o della composizione del proprio patrimonio (c.d. dolo specifico), e che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro (Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2025, n. 1898).

Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite dalla questione dalla Terza Sezione Civile, sono intervenute per dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante la natura generica o specifica del dolo del debitore richiesto dall’art. 2901, comma 1, c.c. ai fini della revocatoria degli atti di disposizione patrimoniale anteriori al sorgere del credito.

Sul punto, infatti, coesistevano nella giurisprudenza di legittimità di due diversi orientamenti, che individuavano il consilium fraudis rispettivamente nella dolosa preordinazione dell’atto alla compromissione del soddisfacimento del credito e nella mera previsione del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori.

Secondo le Sezioni Unite, ai fini della risoluzione della questione posta dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dalla lettura del testo dell’art. 2901, comma 1, c.c., il quale subordina la dichiarazione di inefficacia degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dal debitore in pregiudizio alle ragioni del creditore alle seguenti condizioni: 1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.

La tesi del dolo generico attribuisce portata non decisiva alla differente formulazione delle due parti di cui si compone il n. 1 della norma in esame, osservando che la stessa non richiede, ai fini della configurabilità della dolosa preordinazione, che il debitore abbia agito con la specifica intenzione di danneggiare i creditori, ma solo che abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza di pregiudicarne le ragioni, ed escludendo quindi, in entrambe le ipotesi da essa contemplate, la necessità sia dell’animus nocendi, ovverosia di “una callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore”, sia, nel caso di atto a titolo oneroso, della conoscenza da parte del terzo dello specifico credito di cui l’atto dispositivo è volto a pregiudicare la soddisfazione.

In realtà, la mera considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, comma 1, c.c. risulta di per sé sufficiente ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda: mentre il verbo “conoscere” significa avere notizia o cognizione di una cosa o del suo modo di essere, per averne fatto direttamente o indirettamente esperienza o per averla appresa da altri, il sostantivo “preordinazione” fa riferimento alla predisposizione di un mezzo in funzione del raggiungimento di un risultato.

La seconda espressione implica, pertanto, una finalizzazione teleologica della condotta del debitore, il cui disvalore trova una particolare sottolineatura nell’aggiunta dell’aggettivo “dolosa”, che allude al carattere fraudolento o quanto meno intenzionale dell’azione, indirizzata ad impedire od ostacolare l’azione esecutiva del creditore o comunque il soddisfacimento del credito; tale finalizzazione è del tutto assente nella prima espressione, che fa invece riferimento alla mera coscienza del pregiudizio che l’atto oggettivamente arreca o può arrecare alle ragioni dei creditori, per la riduzione della garanzia patrimoniale che ne consegue, indipendentemente dalle finalità concretamente perseguite dal debitore attraverso il compimento dello stesso.

L’utilizzazione di due espressioni aventi un significato completamente differente nell’ambito della medesima disposizione appare tutt’altro che casuale, se solo si tiene conto del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi, proprio con riguardo all’azione revocatoria, precedentemente all’entrata in vigore del Codice civile del 1942.

Nel Codice civile del 1865, la medesima azione era infatti disciplinata dall’art. 1235, il quale, oltre a prevedere (almeno secondo l’opinione prevalente) soltanto la revocabilità degli atti dispositivi posti in essere dal debitore in epoca successiva al sorgere del credito, la subordinava alla condizione che gli stessi fossero stati “fatti in frode” delle ragioni dei creditori.

Il significato di tale espressione era controverso, ritenendosi da parte di alcuni autori che con la stessa il legislatore avesse inteso fare riferimento all’intenzione di recare danno ai creditori (c.d. animus nocendi), e da parte di altri che avesse voluto invece richiedere, ai fini dell’accoglimento della domanda, la mera coscienza del pregiudizio arrecato ai creditori, attraverso la creazione o l’aggravamento di una situazione d’insolvibilità (c.d. scientia damni). Alla fine prevalse la seconda tesi, in virtù della considerazione che l’individuazione del presupposto soggettivo della revocatoria nell’animus nocendi avrebbe comportato un eccessivo restringimento dei limiti di operatività dell’azione, impedendo alla stessa di svolgere efficacemente la propria funzione di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale.

Tale indirizzo trovò accoglimento anche in sede di redazione del Codice vigente, il quale, tuttavia, ha ampliato l’ambito applicativo dell’azione, ammettendone l’esercizio anche nei confronti degli atti dispositivi posti in essere anteriormente al sorgere del credito, ma differenziandone il presupposto soggettivo da quello richiesto ai fini della revocatoria degli atti posti in essere successivamente, nel senso che, mentre per la dichiarazione d’inefficacia di questi ultimi è necessaria soltanto la prova della “conoscenza del pregiudizio” arrecato alle ragioni dei creditori, per quella dei primi occorre la prova della “dolosa preordinazione” al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito. In quanto adottata nella piena consapevolezza dei contrasti insorti in ordine all’interpretazione della disciplina previgente, la formulazione letterale dell’art. 2901, comma 1, c.c. non può dar luogo ad equivoci, testimoniando chiaramente la volontà del legislatore di regolare in maniera diversa il profilo soggettivo delle due fattispecie da esso contemplate, attraverso l’introduzione di una disciplina più restrittiva per la revocatoria degli atti compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito: diversamente, infatti, la norma si sarebbe limitata a chiarire che l’azione era proponibile anche contro gli atti dispositivi compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito, richiedendo per entrambe le ipotesi la prova della consapevolezza da parte del debitore della dell’incidenza dell’atto sulla consistenza quantitativa o qualitativa del proprio patrimonio, e quindi sulla garanzia generica dei creditori, senza fare alcun riferimento alla necessità di un disegno fraudolento, volto a sottrarre il bene alienato o vincolato all’azione esecutiva del creditore o a rendere più difficile il soddisfacimento del suo credito.

La differenza esistente tra la pura e semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori e la volontà di danneggiarli mediante il compimento dell’atto dispositivo era stata d’altronde già colta dalla dottrina in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice civile del 1942, anche se ne era stata sminuita la portata concreta: premesso infatti che il consilium fraudis presuppone ad un tempo la rappresentazione dell’effetto dannoso dell’atto e la volontà di porlo ugualmente in essere, si era osservato che nella gestione del proprio patrimonio il debitore non tiene normalmente conto dell’interesse del creditore, ma agisce come se lo stesso non esistesse, e si era pertanto concluso che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della revocatoria, non era necessaria una specifica intenzione di danneggiare il creditore o determinati creditori, ma era sufficiente la coscienza, da parte del debitore, di determinare o accrescere la propria insolvenza, attraverso il compimento dell’atto dispositivo, mettendo quindi il proprio patrimonio in condizione di non poter offrire ai creditori la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni contratte .

La necessità di un quid pluris, sotto il profilo soggettivo, era invece emersa in giurisprudenza, proprio nell’ambito di un orientamento volto a ricondurre nell’ambito applicativo dell’azione revocatoria anche gli atti dispositivi anteriori al sorgere del credito: nel dichiarare ammissibile la domanda proposta dal primo acquirente di un immobile a tutela del credito risarcitorio vantato nei confronti del venditore, il quale aveva successivamente alienato il medesimo bene ad un terzo, che aveva reso inattaccabile il proprio acquisto mediante la tempestiva trascrizione, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti ritenuto che l’azione potesse essere esercitata anche nel caso in cui l’atto anteriore alla frode fosse stato compiuto “con l’obliquo intento di rendere vano il credito che stava per sorgere”, non essendovi ragione di negare tutela al soggetto rimasto danneggiato da questo più raffinato consilium fraudis. (cfr. Cass., Sez. Un., 22 dicembre 1930, n. 3669).

Al di là dei profili collegati all’interpretazione letterale e storico-sistematica della norma in esame, la scelta tra l’una e l’altra tesi impone peraltro d’interrogarsi anche in ordine alle conseguenze che l’accoglimento di una concezione più o meno restrittiva del consilium fraudis può produrre nei rapporti tra le parti dell’obbligazione ed in quelli con i terzi che siano entrati in contatto con le stesse, nonché, più in generale, sul piano della certezza e della rapidità dei traffici giuridici.

L’identificazione dell’elemento soggettivo della revocatoria nella mera consapevolezza da parte del debitore del pregiudizio arrecato i creditori comporta, infatti, un’indubbia dilatazione dei margini di operatività dell’istituto, già alquanto estesi per effetto dell’opinione comune, che ritiene configurabile il presupposto dell’eventus damni non solo in presenza di una compromissione totale della consistenza del patrimonio del debitore, ma anche a fronte di una variazione quantitativa o qualitativa dello stesso tale da rendere più incerta o difficile la soddisfazione del credito.

Tale dilatazione, che si traduce naturalmente in un rafforzamento della tutela dei diritti dei creditori, si pone, tuttavia, in contrasto con la natura eccezionale che l’azione revocatoria viene ad assumere nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto atti dispositivi posti in essere in epoca anteriore al sorgere del credito: in quanto avente la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi su beni che hanno cessato di far parte del patrimonio del debitore prima dell’insorgenza dell’obbligazione, essa costituisce una deroga al principio generale, sancito dall’art. 2740, comma 1, c.c., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento “con tutti suoi beni presenti e futuri”, cioè con quelli esistenti nel suo patrimonio alla data in cui è sorta l’obbligazione e con quelli che abbia acquistato in epoca successiva, e non anche con quelli di cui alla predetta data avesse già cessato di essere titolare.

Questa esclusione trova giustificazione nella considerazione che, nel momento in cui entra in contatto con il debitore, il creditore è perfettamente in grado di rendersi conto dell’attuale consistenza e composizione del suo patrimonio, nonché di apprezzarne l’idoneità a garantire il soddisfacimento del credito in caso d’inadempimento: può quindi ritenersi ragionevole che l’esercizio dell’azione revocatoria resti limitato all’ipotesi, avente carattere ordinario, in cui il debitore abbia disposto dei propri beni in epoca successiva, nella consapevolezza del pregiudizio in tal modo arrecato al creditore, nonché a quella, eccezionale, in cui l’atto dispositivo, pur essendo stato posto in essere in epoca anteriore, costituisca attuazione di un disegno volto a disfarsi dei propri beni, proprio in vista dell’assunzione di quello specifico debito.

 

(*Contributo in tema di “L’azione revocatoria e la dolosa preordinazione”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

decreto sicurezza

Il Decreto Sicurezza secondo la Cassazione Decreto Sicurezza: la relazione dell'Ufficio del Massimario della Cassazione solleva dubbi di legittimità costituzionale sul testo e problemi di merito e metodo

Decreto Sicurezza: dubbi di legittimità costituzionale

L’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione ha pubblicato una relazione di studio sul Decreto Sicurezza n. 48/2025, convertito nella legge n. 80/2025 e in vigore dal 10 giugno 2025.  L’Ufficio ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale e problemi di merito e metodo. La relazione è una “base di analisi” orientativa e non vincola decisioni future. Il documento tuttavia si rivela molto importante perché fornisce ai magistrati uno strumento per comprendere la nuova normativa.

Utilizzo anomalo della decretazione d’urgenza

Il documento di 129 pagine segnala la presenza di diverse problematiche. Sul fronte del metodo, i giudici della Cassazione condividono il parere dei giuristi: la trasformazione del disegno di legge in decreto-legge manca del requisito di “necessità e urgenza”, come previsto dalla Costituzione. Criticato anche il ricorso anomalo alla decretazione d’urgenza in materia penale, che svilisce il ruolo del Parlamento.

Analizzando il testo articolo per articolo, vengono individuati profili di incostituzionalità in molti reati a causa dell’abbassamento della soglia di punibilità e dell’innalzamento delle pene. Le critiche degne di segnalazione riguardano principalmente il reato di detenzione di materiale con finalità di terrorismo, la resistenza passiva in carcere, la vendita della cannabis light. Il contenuto del testo di legge infine è ritenuto troppo “eterogeneo” perché si occupa di materie troppo diverse.

Decreto Sicurezza: critiche alla relazione

La relazione ha subito sollevato critiche e perplessità. L’azione della Cassazione è stata giudicata come una “invasione di campo”; una “provocazione”.

Dura la reazione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che si è detto “incredulo” delle notizie diffuse dalla stampa sulla relazione e ha dato mandato di acquisire la relazione per verificarne il regime di divulgazione, per appurare che la pubblicazione non risulti dannosa per il Governo.

Anche il ministro Piantedosi in un’intervista si è espresso negativamente sulla relazione della Suprema Corte, ritenendola “ideologica”.

 

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