ricette mediche digitali

Ricette mediche digitali: dopo le rosse anche le bianche Ricette mediche digitali: comprenderanno anche le ricette bianche con cui i medici prescrivono farmici a carico del paziente

Ricette mediche digitali: novità manovra 2025

Ricette mediche digitali, anche quelle bianche avranno questo formato. A stabilirlo è la bozza della legge di bilancio 2025. Dopo le ricette rosse in formato digitale anche quelle bianche, che contengono prescrizioni di farmaci a carico del cittadino, saranno emesse in questo formato.

Ricette mediche digitali anche per farmaci a pagamento

La ricetta elettronica, soprattutto dopo il periodo della crisi pandemica, è diventata familiare ai cittadini italiani, per questo il Governo ha voluto inserire questa previsione all’interno della Legge di bilancio. Dalla lettura dell’articolo 54 della bozza della manovra 2025 risulta che: “Al fine di potenziare il monitoraggio dellappropriatezza prescrittiva nonché garantire la completa alimentazione del Fascicolo sanitario elettronico, tutte le prescrizioni a carico del Servizio sanitario nazionale (SSN) e dei Servizi territoriali per l’assistenza sanitaria al personale navigante, marittimo e dell’Aviazione civile (SASN) e a carico del cittadino sono effettuate nel formato elettronico (…) ricette mediche per la prescrizione di farmaci non a carico del Servizio sanitario nazionale e modalità di rilascio del promemoria della ricetta elettronica attraverso ulteriori canali, sia a regime che nel corso della fase emergenziale da Covid-19”.

Criticità per le ricette “bianche”

La novità legislativa, per il vicesegretario della Fimmg (Federazione Italiana Medici di Medicina Generale) presenta però due elementi di criticità di particolare rilievo.

  • Il primo è rappresentato dalla presenza di farmaci che non possono essere dematerializzati come i sonniferi, ad esempio.
  • Il secondo invece e il più importante è legato agli anziani e alle loro difficoltà a utilizzare i device e le nuove tecnologie. Per sopperire a questo problema sarebbe necessario realizzare sportelli o servizi di assistenza dedicati, per evitare l’esclusione sociale dei più anziani dall’innovazione tecnologica che da anni riguarda la Sanità nel suo complesso.

 

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giurista risponde

Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e discrezionalità dell’Ente locale È legittimo il provvedimento del comune che assegni un numero di ore di assistenza scolastica per l’alunno minore con disabilità in misura inferiore a quanto indicato nel piano educativo individualizzato (P.E.I.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo, non essendo il Piano educativo individualizzato (P.E.I.) vincolante per l’ente locale, in capo al quale residua un margine di apprezzamento discrezionale in relazione al complesso delle risorse disponibili (Cons. Stato, sez. III, 12 agosto 2024, n. 7089).

Il Collegio osserva che è legittimo il provvedimento del comune che assegni un numero di ore di assistenza scolastica per la promozione dell’autonomia e della comunicazione dell’alunno minore con disabilità in misura inferiore a quanto indicato nel Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e richiesto dal dirigente scolastico, non essendo il P.E.I. vincolante per l’ente locale, in capo al quale residua un margine di apprezzamento discrezionale, da esercitarsi con prudente equilibrio a mente del rango fondamentale dei diritti sottesi alle misure di inclusione scolastica, in relazione al complesso delle risorse disponibili.

È necessario ricordare che vi è una distinzione tra ore di sostegno didattico, quali funzioni scolastiche stricto sensu, di competenza dell’ufficio scolastico regionale (USR), e le misure di sostegno ulteriori rispetto a quelle didattiche, tra le quali le misure di assistenza scolastica di competenza dei comuni, oggetto della decisione, per le quali i comuni attribuiscono le risorse complessive secondo le modalità attuative e gli standard qualitativi previsti nell’apposito accordo concluso in sede di conferenza unificata.

Emerge, in ogni caso, il carattere prevalente del diritto alla salute ed all’integrazione del disabile rispetto a vincoli di bilancio genericamente allegati; da qui l’obbligo per l’ente locale di misurarsi con le condizioni del caso concreto e tendere sempre al raggiungimento di un punto di equilibrio che assicuri la massima tutela possibile al disabile.

(*Contributo in tema di “Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e discrezionalità dell’Ente locale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

addio pensione di reversibilità

Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico La Cassazione rammenta che la reversibilità della pensione sussiste solo se c'è l'elemento della "vivenza a carico"

Pensione di reversibilità e vivenza a carico

Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico. Ai fini del diritto, infatti, deve sussistere cioè l’elemento della vivenza a carico. Lo ricorda la Cassazione con l’ordinanza n. 19485/2024.

Pensione di reversibilità negata

Nella vicenda, la Corte d’Appello di Torino accoglieva il gravame proposto da un uomo, avverso la sentenza del Tribunale di Asti che aveva respinto la domanda proposta da quest’ultimo nei confronti dell’Inps, volta a chiedere il pagamento in suo favore della pensione di reversibilità, quale figlio maggiorenne inabile e convivente a carico della madre a far tempo dalla data del decesso, oltre agli arretrati di legge, interessi e rivalutazione monetaria.

Il Tribunale aveva respinto la domanda ritenendo non sufficientemente provato il requisito della vivenza a carico, alla luce del trattamento pensionistico di assistenza che già percepiva (pensione di invalidità e reddito di cittadinanza) che aveva indotto il primo giudice ad escludere che l’uomo dipendesse economicamente dalla madre.

La Corte d’Appello, per quanto d’interesse, ha ritenuto sussistente sia il requisito della “vivenza a carico” della madre da parte del ricorrente, anche per l’assenza di reddito imponibile, che il requisito sanitario.

Il ricorso dell’Inps

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’Inps ricorre per cassazione, lamentando violazione di legge per avere il giudice del gravame riconosciuto il diritto alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito sanitario, nonostante l’espressa eccezione sollevata sul punto dall’Istituto, non sussistendo alcuna presunzione di inabilità lavorativa in capo a chi è stato accertato invalido civile al 100%. Inoltre, l’Inps deduceva l’errore in cui era incorsa la corte territoriale nell’aver riconosciuto il diritto del richiedente alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito della vivenza a carico della madre, benché fosse decaduto dall’onere della prova, senza che il giudice potesse procedere d’ufficio alla acquisizione dei documenti offerti dalla difesa.

La vivenza a carico

Per la Cassazione, il primo motivo è infondato; infatti, la Corte d’Appello motiva sulla sussistenza dell’inabilità lavorativa, quand’anche prendendo spunto dal certificato attestante l’invalidità civile al 100% e l’Istituto previdenziale non censura efficacemente tale accertamento di fatto.

Il secondo e il terzo motivo, invece, che possono essere oggetto di un esame congiunto, sono fondati.

Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, il requisito della “vivenza a carico”, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, “va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile e tale accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito (cfr. Cass. n. 9237/2018)”.

La decisione

Nel caso di specie, il dato valorizzato dalla Corte territoriale del reddito imponibile del ricorrente pari a zero è inconferente a fronte della percezione, da parte dello stesso, dell’importo di euro 800,00 mensili a titolo di pensione di invalidità e di reddito di cittadinanza; in buona sostanza, la Corte d’Appello doveva chiarire perché non erano da considerare sufficienti tali redditi a fronte delle reali esigenze di vita del ricorrente e perché l’intervento di sostegno economico della madre del ricorrente doveva considerarsi effettuato in misura prevalente, a fronte dei sussidi economici che lo stesso già percepiva.

Per cui, in accoglimento del secondo e terzo motivo, la sentenza va cassata e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Torino, affinché, alla luce di quanto sopra esposto, riesamini il merito della controversia.

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patente a crediti

Patente a crediti: le novità dal 1° novembre 2024 Per la patente a crediti, dal 1° novembre 2024 informazioni disponibili sul portale, per operare in cantiere serve la ricevuta della richiesta

Cosa cambia per la patente a crediti dal 1° novembre 2024

Dal 1° novembre 2024, il mondo del lavoro nei cantieri subisce una significativa trasformazione con l’entrata in vigore della nuova normativa sulla patente a crediti. Questa innovativa misura, introdotta dal Decreto Ministeriale n. 132 del 18 settembre 2024, mira a garantire un maggiore livello di sicurezza nei cantieri temporanei o mobili.

Le ultime novità

Vediamo le novità in vigore dal 1° novembre 2024.

  • Tutte le informazioni relative alla patente a crediti sono consultabili online attraverso un portale dedicato. Questo significa che sarà possibile verificare in qualsiasi momento lo stato della propria patente, il punteggio aggiornato e l’eventuale presenza di provvedimenti disciplinari.
  • Per poter accedere ai cantieri, non sarà più sufficiente l’autocertificazione. Sarà obbligatoria la ricevuta di richiesta della patente a crediti, scaricabile direttamente dal portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
  • Chiunque abbia richiesto la patente è tenuto a informare entro cinque giorni il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) o il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriale (RLST).

Le informazioni disponibili online dal 1° novembre 2024

Il portale dedicato mette a disposizione una serie di dati dettagliati per ciascuna patente, tra cui:

  • dati identificativi del titolare;
  • dati anagrafici del richiedente;
  • data di rilascio e numero della patente;
  • punteggio iniziale e aggiornato;
  • eventuali provvedimenti disciplinari;
  • esito di eventuali ricorsi.

Chi può accedere ai dati

Oltre al titolare della patente e ai suoi delegati, possono accedere ai dati anche:

  • le pubbliche amministrazioni;
  • i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
  • gli organismi paritetici;
  • i responsabili dei lavori e i coordinatori per la sicurezza;
  • i soggetti che intendono affidare lavori a imprese operanti nei cantieri mobili o temporanei.

L’importanza della patente a crediti

E’ uno strumento fondamentale per garantire la sicurezza nei cantieri. Grazie a questo sistema, è possibile monitorare costantemente la professionalità dei lavoratori e intervenire tempestivamente in caso di problemi. I crediti della patente rappresentano infatti un indicatore del livello di professionalità e sicurezza.

 

Leggi anche: Patente a crediti: non basta l’autocertificazione

limite uso contante

Limite uso contante: dal 2027 a 10.000 euro Limite uso contante: il regolamento UE n. 1624/2024 fissa il limite a 10.000 euro a partire dal 10 luglio 2027

Limite uso contante UE

Limite uso contante fino a 10.000 euro a partire dal 10 luglio 2027. Lo stabilisce il regolamento UE n. 1624/2024. Il regolamento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale europea e in vigore dal 9 luglio stabilisce nuove regole per l’uso del contante in Europa.

Dal 10 luglio anche l’Italia dovrà rispettare il nuovo tetto dei 10.000 euro per quanto riguarda l’uso dei contanti. Le finalità di queste misure, come sempre, sono principalmente due: ostacolare il reato di riciclaggio e il finanziamento del terrorismo.

Attualmente in Italia il tetto massimo stabilito per l’utilizzo dei contanti è di 5.000 euro, la metà rispetto a quello che l’Unione Europea vuole introdurre nel 2027.

Art. 80 Regolamento UE: uso contanti fino a 10.000 euro

A fissare il limite dei 10.000 euro è l’articolo 80 del regolamento UE 1624/2024 dedicato proprio ai “Limiti ai pagamenti in contanti di importo elevato in cambio di beni o servizi.”

Il comma 1 stabilisce infatti che: Le persone che commerciano beni o forniscono servizi possono accettare o effettuare un pagamento in contanti fino a un importo di 10 000 EURO o importo equivalente in valuta nazionale o estera, indipendentemente dal fatto che la transazione sia effettuata con un’operazione unica o con diverse operazioni che appaiono collegate.” 

Il comma 2 non vieta agli Stati dell’UE di adottare limiti inferiori a quello di 10.000 euro previsto dal comma 1. Gli stessi devono però consultare preventivamente la Banca Centrale Europea.

Per quanto riguarda invece gli Stati che già applicano limiti inferiori,  potranno continuare ad adottarli con l’obbligo di notificare questi limiti alla Commissione UE entro, l’oramai trascorso, 10 ottobre 2024.

Eccezioni al limite dei 10.000 euro

Il comma 4 dell’articolo 80 stabilisce che il limite dei 10.000 euro non si applica:

a) ai pagamenti tra persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di una professione;

  1. b) ai pagamenti o ai depositi effettuati presso i locali degli enti creditizi, degli emittenti di moneta elettronica quali definiti all’articolo 2, punto 3), della direttiva 2009/110/CE e dei prestatori di servizi di pagamento quali definiti all’articolo 4, punto 11), della direttiva (UE) 2015/2366.”

Sanzioni nel caso in cui vi sia il sospetto che persone fisiche o giuridiche che agiscano nell’esercizio della loro professione violino i limiti imposti all’utilizzo del contante.

 

Leggi anche: Nuovi limiti contante anche per le prepagate

non punibile chi copia

Non punibile chi copia senza citare la fonte Non punibile chi copia senza menzionare la fonte da cui ha attinto e chi offende  su Facebook se i fatti sono particolarmente tenui

Particolare tenuità del fatto per chi copia

Non punibile chi copia senza citare la fonte da cui ha attinto e chi rivolge frasi ingiuriose alla persona offesa su Facebook se i fatti si caratterizzano per la particolare tenuità prevista dall’art. 131 bis c.p. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 39647/2024.

Imputati assolti per particolare tenuità dei fatti commessi

La Corte d’appello riformando la sentenza di primo grado assolve uno degli imputati dal reato previsto dall’articolo 171 della legge n. 633/1941. Il soggetto agente è stato ritenuto responsabile di avere trascritto e diffuso senza autorizzazione e senza citare la fonte la parte di un libro, opera dell’ingegno tutelata dalla normativa sul diritto d’autore. L’imputata invece è stata assolta “per la particolare tenuità del fatto” dal reato di cui all’art. 595 commi 1 e 3. La stessa è stata accusata di aver offeso la persona offesa su Facebook rivolgendole frasi ingiuriose. La sentenza revoca inoltre le statuizioni civili del giudice di primo grado con cui aveva condannato le parti a risarcire la parte civile con l’importo complessivo di 5.500,00 euro.

Errato ritenere non punibile chi copia e chi offende

La parte civile ricorre la decisione in Cassazione lamentando principalmente l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis c.p e contestando la revoca delle statuizioni civili.

Assoluzione per particolare tenuità

La Cassazione però ritiene inammissibile l’impugnazione della parte civile relativa alla concessione agli imputati del beneficio della non punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Per la S.C. il ricorso della parte civile è inammissibile per carenza di interesse considerato che il pubblico ministero non ha impugnato la sentenza che ha dichiarato la non punibilità per particolare tenuità del fatto. La statuizione della non punibilità non produce infatti alcun effetto pregiudizievole per il danneggiato nel giudizio civile in base a quanto sancito dall’articolo 652 bis c.p.p Il comma 1 di questa norma dispone infatti che: “La sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.”

 

Leggi anche: Particolare tenuità del fatto per la prima volta in Cassazione

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posti auto condominio

Posti auto condominio Posti auto condominio: chi ne ha diritto, come si assegnano i parcheggi, cosa fare in caso di occupazione abusiva

Parcheggio in condominio, quali sono le regole

La disciplina dell’utilizzo dei posti auto in condominio rappresenta un tema molto dibattuto, poiché nel codice civile non si rinvengono norme che regolino esplicitamente la materia.

Per tale motivo, per comprendere la disciplina dei parcheggi in condominio è necessario riferirsi alle norme di carattere generale che regolano la gestione del condominio (e in particolare quelle che riguardano l’utilizzo dei beni comuni). E ad alcuni particolari provvedimenti legislativi che hanno individuato dei parametri tecnici a cui fare riferimento.

Chi ha diritto al parcheggio condominiale?

Per prima cosa, va evidenziato che l’art. 1117 c.c. ricomprende espressamente tra le parti comuni dell’edificio le aree destinate a parcheggio.

Pertanto, i posti auto condominio ricadono nella disciplina generale prevista dall’art. 1102 c.c. Tale norma, dettata in tema di comunione (e, quindi, applicabile anche in materia condominiale) prescrive che ogni comproprietario  ha diritto di servirsi della cosa comune, a condizione di non alterarne la destinazione e di non impedire agli altri comproprietari di farne uso a loro volta.

Ecco, pertanto, emergere il primo, importante aspetto relativo alla disciplina dei parcheggi condominiali. A prescindere dalla quantità di posti auto presenti nell’edificio (che potrebbe ben essere inferiore al numero di abitazioni), ogni condomino ha diritto di servirsene, purché rispetti la destinazione propria dell’area di sosta (e non la usi, quindi, per scopi diversi: ad esempio, come zona di deposito) e non ne ostacoli l’utilizzo da parte degli altri condomini.

È evidente che, in tutti quei casi in cui il numero di posti auto non risulti sufficiente per soddisfare le necessità di tutti i residenti, si pone il problema di regolare l’utilizzo degli stessi.

Ebbene, cominciamo col dire che il compito di individuare le modalità di utilizzo dei posti auto spetta all’amministratore, in ossequio a quanto previsto dall’art. 1130 c.c. comma primo n. 2, secondo il quale l’amministratore deve “disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune”.

Come vengono assegnati i posti auto in un condominio

Detto questo, la pratica insegna che il criterio più di frequente adottato per regolare l’utilizzo dei posti auto condominiali, quando questi siano insufficienti rispetto alle abitazioni, sia la turnazione.

Sta all’assemblea stabilire le modalità di dettaglio della turnazione, a cominciare dalla periodicità della stessa (ad es. settimanale, mensile od annuale.

A tale riguardo, è sufficiente una delibera adottata con la maggioranza prevista dall’art. 1136 comma secondo (maggioranza dei presenti che rappresenti una quota pari ad almeno metà del valore dell’edificio), dal momento che si tratta di una decisione che non viola i diritti esclusivi di alcun condomino e che non introduce alcuna innovazione, limitandosi a disciplinare l’uso di una cosa comune.

Cosa fare se un condomino parcheggia negli spazi comuni

Un breve accenno merita il caso pratico, abbastanza ricorrente nella vita quotidiana, relativo all’occupazione del posto auto condominiale da parte di chi non ne ha diritto, ad esempio da parte di un condomino che non rispetti la suddetta turnazione.

In tal caso, non è alla forza pubblica che bisogna rivolgersi, quanto all’amministratore di condominio, il quale potrà far leva non solo su eventuali sanzioni previste dal regolamento condominiale, ma anche sulla configurabilità del reato di violenza privata ex art. 610 c.p. (cfr. la recente sentenza n. 27559 del 26 giugno 2023 della Corte di Cassazione penale).

In aggiunta, il condomino può far valere le proprie ragioni chiedendo al Giudice competente il rilascio di un provvedimento di urgenza o di intervenire in via cautelare.

Posti auto condominio: legge ponte e legge Tognoli

Infine, va ricordato che la materia dei posti auto in condominio è stata oggetto anche di legislazione tecnica.

Legge ponte

A cominciare dalla c.d. “legge ponte” (legge n. legge 765 del 1967, modificativa della l. 1150/1942), in base alla quale in ogni edificio deve essere presente almeno un metro quadro di parcheggio ogni dieci metri cubi di fabbricato.

A tal riguardo, la giurisprudenza – con qualche oscillazione – ha evidenziato la natura pertinenziale di tali posti auto rispetto all’unità immobiliare, nel senso che, sebbene il proprietario possa vendere l’abitazione indipendentemente dal posto auto, all’acquirente va riconosciuto il diritto reale d’uso dell’area stessa. Rimane esclusa da questo regime, e quindi può essere venduta liberamente, l’area di parcheggio realizzata in periodo antecedente alla “legge ponte” ed ogni area realizzata in misura eccedente rispetto alla necessità dell’edificio (quindi nei fabbricati che prevedono un numero di posti auto maggiore rispetto a quello delle abitazioni).

Legge Tognoli

Un altro importante provvedimento in materia è la c.d. legge Tognoli (legge n. 122 del 1989), che incentivò la creazione di posti auto in edifici ove l’area di parcheggio non era originariamente prevista o era prevista in misura insufficiente per le necessità delle rispettive abitazioni. Anche tali aree, per orientamento prevalente della giurisprudenza, sono da considerarsi quali pertinenze delle unità immobiliari ivi esistenti.

responsabilità disciplinare avvocato

Responsabilità disciplinare avvocato per culpa in vigilando La responsabilità disciplinare dell’avvocato per culpa in vigilando si configura anche in assenza di dolo specifico o generico

Responsabilità disciplinare avvocato

Non servono il dolo specifico o generico per l’addebito della responsabilità disciplinare avvocato. A rilevare è la volontarietà dell’azione o dell’omissione, anche quando l’omissione si riferisce all’obbligo di controllare l’operato dei propri dipendenti o collaboratori. E’ quindi responsabile l’avvocato che, alla riscossione del compenso, non fa seguire la immediata o tempestiva fatturazione. Il legale pertanto, a sua discolpa, non può affermare che l’omessa fatturazione è imputabile a malintesi di segreteria. Lo ha affermato il CNF nella sentenza n. 219/2024.

Omessa fatturazione dopo la riscossione dei compensi

Due avvocati vengono sottoposti a procedimento disciplinare e tra le varie incolpazioni, vengono ritenuti responsabili di aver incassato compensi per l’importo di 68. 500,00 euro senza il rilascio delle regolari fatture. Il Consiglio distrettuale di disciplina applica a uno dei due professionisti la sanzione della censura, all’altro la sospensione dall’attività per 8 mesi.

I due legali ricorrono innanzi al CNF e si difendono dall’accusa della mancata emissione delle fatture sostenendo tra l’altro che “i documenti fiscali non sono stati emessi per “malintesi di segreteria” e che dunque difetta l’elemento soggettivo del reato in capo all’avvocato che, per ragioni contabili e fiscali, avrebbe dovuto provvedere alla contabilizzazione e alla fatturazione. Lo stesso evidenzia inoltre, come la condotta non sia a lui imputabile anche in ragione del tempo trascorso, che rende impossibile reperire tutti i documenti fiscali emessi, conservati presso il proprio commercialista.

Non serve il dolo basta la volontarietà dell’omissione

Il CNF ritiene infondati i motivi di doglianza che l’avvocato espone in ordine alla contestazione della mancata emissione delle fatture relative ai compensi incassati. Per il CNF non rileva l’eventuale attribuzione dell’illecito della omissione della fatturazione alla segreteria dello Studio legale. Per costante giurisprudenza “l’attribuzione a dimenticanza della segretaria della omessa fatturazione della somma indicata nella ricevuta rilasciata al cliente non muta la valutazione disciplinarmente rilevante del comportamento dell’avvocato come lesivo del dovere di vigilanza e di diligenza, cui è tenuto l’esercente la professione legale su collaboratori e dipendenti del proprio studio.”

Il CNF precisa che per ritenere un libero professionista responsabile della violazione, ai fini dell’addebito disciplinare non è necessario che lo stesso lo abbia commesso con dolo specifico o con dolo generico. Ciò che rileva è la volontarietà con cui l’atto è stato commesso od omesso, anche quando l’azione o l’omissione si configuri nel mancato adempimento dell’obbligo di controllare il comportamento dei dipendenti o dei collaboratori. “Il mancato controllo costituisce, infatti, piena e consapevole manifestazione della volontà di porre in essere una sequenza causale che in astratto potrebbe dar vita ad effetti diversi da quelli voluti, che però ricadono sotto forma di volontarietà sul soggetto che avrebbe dovuto vigilare e non lo ha fatto”.

Fatturazione immediata o tempestiva

Non rileva neppure l’affermato, ma non dimostrato, tentativo di adempiere a tale obbligo tardivamente o di voler rimediare all’omissione della fatturazione con il ravvedimento operoso all’Agenzia delle Entrate. Diverse norme del Codice deontologico, come l’art. 16 e 29 e l’art. 15 del cod. previdenziale prevedono che l’avvocato abbia l’obbligo di emettere la fattura tempestivamente e contestualmente alla riscossione dei compensi. L’eventuale ritardo con cui l’avvocato provvede a tale adempimento non viene preso in considerazione dal Codice deontologico. Il tutto senza dimenticare che “la violazione di tale obbligo costituisce illecito permanente, sicché la decorrenza del termine prescrizionale ha inizio dalla data della cessazione della condotta omissiva.”

 

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codice rosso

Codice Rosso: ok a braccialetto elettronico e a distanza minima La Corte Costituzionale ha legittimato le nuove disposizioni sul divieto di avvicinamento nei reati di genere, ossia l'obbligo di braccialetto elettronico e la distanza minima di 500 metri dalla persona offesa

Codice Rosso e divieto di avvicinamento

Codice Rosso: la Consulta ha dichiarato infondati i dubbi sulla distanza minima di 500 metri e sull’obbligo di braccialetto elettronico, chiarendo però che l’impossibilità tecnica del controllo remoto non può risolversi in un automatismo cautelare a sfavore dell’indagato.

Le qlc sull’art. 282-ter, commi 1 e 2, c.p.p.

Con la sentenza n. 173, depositata oggi, 4 novembre 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Modena, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nei riguardi dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 168 del 2023 (“nuovo codice rosso”).

Il rimettente ha censurato tali modifiche normative, inerenti la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, poiché esse, prescrivendo la distanza minima di 500 metri e l’applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico, avrebbero reso la misura stessa troppo rigida, in contrasto con il principio di individualizzazione e con la riserva di giurisdizione in materia di restrizione della libertà personale, avendo inoltre la novella stabilito che, qualora l’organo di esecuzione accerti la «non fattibilità tecnica» del controllo remoto, il giudice debba imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi.

Braccialetto elettronico e distanza minima

La Corte ha sottolineato che il braccialetto elettronico è un importante dispositivo funzionale alla tutela delle persone vulnerabili rispetto ai reati di genere, e che la distanza minima di 500 metri corrisponde alla finalità pratica del tracciamento di prossimità, quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla persona minacciata per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso.

Il giudice delle leggi ha osservato altresì che, sebbene negli abitati più piccoli la distanza di 500 metri possa rivelarsi stringente, l’indagato ne riceve un aggravio sopportabile, quello di recarsi nel centro più vicino per trovare i servizi di cui necessita; mentre, ove rilevino «motivi di lavoro» o «esigenze abitative», il comma 4 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. consente al giudice di stabilire modalità particolari di esecuzione del divieto di avvicinamento, restituendo flessibilità alla misura. «A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato» – afferma dunque la Corte – «si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue».

Il controllo da remoto

In riferimento poi alla riscontrata impossibilità tecnica del controllo elettronico, evenienza oggettivamente non imputabile all’indagato, la Corte evidenzia come la norma censurata possa interpretarsi in senso costituzionalmente adeguato, sicché il giudice, in tal caso, non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di idoneità, necessità e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (quale il divieto o l’obbligo di dimora), ma anche una misura più lieve (quale l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria).

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forense card

Forense Card: cos’è e quali vantaggi La Forense Card è un servizio messo a disposizione degli iscritti da Cassa Forense che permette, tra le altre cose, di pagare i contributi previdenziali anche a rate

Cos’è la Forense Card

La Forense Card è un servizio messo a disposizione dalla Cassa Forense in collaborazione con la banca popolare di Sondrio, essenzialmente per il pagamento dei contributi previdenziali ma può essere usata anche come carta di credito ordinaria e per richiedere un prestito.

E’ riservata esclusivamente agli iscritti all’ente previdenziale degli avvocati e non serve essere clienti della banca, basta essere titolari di un qualsiasi conto corrente bancario o postale.

I vantaggi della Forense Card

Tra i vantaggi della Forense Card, ricorda Cassa Forense, c’è la possibilità di effettuare pagamenti pagamenti presso gli esercizi convenzionati con Visa e Mastercard e prelievi di contanti presso tutti gli sportelli automatici ATM convenzionati con Visa e Mastercard in Italia e all’estero.

Ma in particolare, la Card consente di versare via internet, in modo sicuro e senza spese, i contributi previdenziali, con addebito sul conto corrente e con possibilità di dilazionarli.

La Forense Card consente altresì di trasformare in contanti l’importo del plafond assegnato, con accredito della somma richiesta direttamente sul proprio conto.

Come richiederla

La carta, gratuita e senza canone annuale, può essere richiesta soltanto via internet, accedendo dall’Area Riservata sul sito di Cassa Forense e compilando il modulo di richiesta direttamente online.

Previa verifica del possesso dei requisiti per il rilascio, la carta viene inviata direttamente al domicilio del richiedente.

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