diffamazione

Diffamazione: l’uso del condizionale non basta per evitarla Cassazione: non basta il condizionale per evitare la diffamazione se la notizia è falsa e non verificata

Diffamazione online

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14196 del 2025, ha stabilito un principio rilevante in materia di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca: l’impiego di forme verbali al condizionale non è sufficiente a escludere la lesione della reputazione altrui, qualora le informazioni diffuse siano false, offensive e prive di verifica.

Secondo i giudici di legittimità, non si può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca – neppure nella sua forma putativa – quando l’articolo diffonde insinuazioni suggestive e ambigue, presentando fatti non veri come se fossero plausibili, soprattutto se associati ad accadimenti reali.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, un giornalista era stato condannato per aver pubblicato un articolo in cui un appartenente alla Guardia di Finanza veniva indicato come “in combutta coi narcos” in relazione a un’operazione antidroga. La notizia, veicolata attraverso un blog, utilizzava il condizionale per insinuare il coinvolgimento dell’agente, ma non era fondata su riscontri oggettivi né su fonti attendibili.

La difesa aveva sostenuto che l’uso del condizionale escludesse l’intento diffamatorio, ma la Cassazione ha chiarito che tale forma linguistica non esclude la responsabilità, quando le espressioni sono idonee a indurre il lettore a ritenere veritiera una notizia falsa.

Cronaca e verità: i limiti dell’art. 21 Cost.

Il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, incontra limiti precisi, fissati dalla giurisprudenza consolidata:

  1. Verità oggettiva della notizia, o quantomeno verità putativa, purché frutto di adeguate verifiche;

  2. Interesse pubblico alla diffusione del fatto;

  3. Continenza espositiva, ovvero modalità sobrie e rispettose nella narrazione.

L’assenza di uno di questi presupposti rende il contenuto potenzialmente diffamatorio e non giustificabile. L’utilizzo di un linguaggio allusivo o insinuante – anche se formalmente prudente – non è idoneo a scriminare la condotta lesiva.

La posizione della Cassazione

Nel testo della pronuncia, la Corte sottolinea che la carica offensiva di un’esposizione redazionale che mescoli fatti veri e non veri, con l’uso di espressioni ambigue e condizionali, è persino superiore rispetto a forme dubitative o interrogative. L’ambiguità narrativa può infatti generare nel lettore medio la convinzione di trovarsi di fronte a una verità oggettiva.

In assenza di verifica delle fonti e di riscontri concreti, il condizionale non solo non attenua, ma rafforza la responsabilità del cronista, specialmente quando si attribuiscono fatti penalmente rilevanti a soggetti determinati.

patrocinio infedele

Patrocinio infedele Patrocinio infedele: quando l’avvocato risponde penalmente – guida completa all’art. 380 c.p.

Cos’è il patrocinio infedele

Il reato di patrocinio infedele si configura quando l’avvocato, agendo con dolo, viola consapevolmente i doveri di fedeltà e lealtà nei confronti del proprio assistito, arrecandogli un danno giuridicamente rilevante. Si tratta di una fattispecie che tutela l’integrità del rapporto fiduciario tra difensore e cliente, ponendosi al crocevia tra diritto penale, deontologia forense e responsabilità professionale.

Normativa di riferimento: art. 380 codice penale

Il testo dell’art. 380 c.p. recita: “Il patrocinatore (…) che,  rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516.”

Il legislatore con questa norma intende colpire penalmente le condotte scorrette e sleali del difensore, che tradiscono gli interessi del proprio cliente con comportamenti fraudolenti.

Quando si configura il reato di patrocinio infedele

Il reato si perfeziona quando sussistono due elementi fondamentali:

  • un comportamento sleale o doloso dell’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva o di assistenza;
  • la lesione dei diritti della parte assistita, cagionata da tale comportamento.

Non si tratta di una semplice negligenza o imperizia, ma di una vera e propria infedeltà dolosa, come ad esempio:

  • la mancata presentazione intenzionale a un’udienza rilevante;
  • l’acquiescenza consapevole a provvedimenti sfavorevoli;
  • l’omissione di atti fondamentali per interesse proprio (es. favorire la controparte);
  • la comunicazione fraudolenta di informazioni al cliente, al solo fine di indurlo a rinunciare a un diritto.

Elemento oggettivo del reato

Sul piano oggettivo, il reato di patrocinio infedele richiede:

  • un atto o comportamento attivo od omissivo del difensore;
  • che tale condotta abbia precluso o danneggiato i diritti della parte;
  • che la condotta sia fraudolenta, ossia accompagnata da un elemento di inganno o dissimulazione.

Elemento soggettivo: il dolo specifico

Affinché si configuri il reato è sufficiente la presenza del dolo generico, ovvero  la rappresentazione e la volontà, anche eventuale, delle conseguenze dell’evento.

L’avvocato non risponde penalmente se:

  • agisce in buona fede;
  • commette un errore tecnico con colpa;
  • svolge l’attività con imperizia o superficialità, ma senza volontà fraudolenta.

Il momento consumativo del reato

Il reato si consuma nel momento in cui si materializza la lesione degli interessi del cliente. Non è sufficiente che si realizzi la mera lesione dell’interesse al regolare funzionamento della giustizia.

Procedibilità, competenza e pena

  • Procedibilità: il reato è procedibile d’ufficio.
  • Competenza: spetta al Tribunale in composizione monocratica.
  • Pena prevista: reclusione da uno a tre anni e multa don inferiore a 516,00 euro.

Violazione grave del rapporto fiduciario

Il patrocinio infedele costituisce una delle violazioni più gravi che un avvocato possa commettere nei confronti del proprio cliente. La norma mira a tutelare la fiducia nella funzione difensiva, cardine del giusto processo. La responsabilità penale si affianca a quella disciplinare e civile, e può comportare radiazione dall’albo, sanzioni economiche e pregiudizi irreparabili per la parte lesa.

Giurisprudenza rilevante sul patrocinio infedele

La Cassazione penale è intervenuta più e più volte per chiarire alcuni aspetti importanti del reato.

Cassazione n. 13084/2025: Nell’accertare il reato di infedele patrocinio, il giudice non può limitarsi a esaminare singoli atti isolati. È invece essenziale contestualizzare l’intera attività professionale svolta dall’avvocato, inserendola nella linea difensiva complessiva e nella strategia processuale adottata per raggiungere gli obiettivi del cliente. Questo approccio permette di valutare se il patrocinatore abbia intenzionalmente tradito il suo obbligo di curare gli interessi della parte, in conformità con il mandato ricevuto, le regole professionali e le incombenze processuali.

Cassazione n. 341/2025: il reato di patrocinio infedele ai sensi dell’articolo 380 del Codice Penale non si configura con la sola violazione dei doveri professionali. È infatti necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, il quale può manifestarsi come il mancato ottenimento di risultati favorevoli o la creazione di situazioni processuali pregiudizievoli, anche se queste si presentano in una fase intermedia del procedimento, ritardandone o impedendone il prosieguo. Questo nocumento, inteso come conseguenza della violazione dei doveri professionali, costituisce l’evento del reato. Tale evento non è necessariamente un danno patrimoniale in senso civilistico, ma può consistere anche nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, inclusi quelli di natura morale, che sarebbero derivati da un esercizio corretto e leale del patrocinio legale.

Cassazione n. 25766/2023: Il delitto di patrocinio infedele, delineato dall’articolo 380 del Codice Penale, si perfeziona nel momento in cui il professionista compie un’azione o un’omissione che, oltre a rappresentare un’infedeltà ai suoi doveri professionali, risulta capace di arrecare un nocumento agli interessi della parte che sta rappresentando, assistendo o difendendo.

Leggi anche: La responsabilità professionale dell’avvocato

dolo o colpa grave

Avvocati responsabili solo per dolo o colpa grave Approvata in Commissione Giustizia al Senato, la proposta di legge n. 745 che intende limitare la responsabilità civile degli avvocati: ora si attende la discussione in Aula

Responsabilità avvocati: la proposta di legge

Gli avvocati potrebbero presto rispondere civilmente solo in caso di dolo o colpa grave. È quanto prevede la proposta di legge n. 745, che ha ricevuto nei giorni scorsi il via libera dalla Commissione Giustizia del Senato e che ora attende la calendarizzazione in Aula, con possibile discussione prima della pausa estiva.

Il testo, presentato due anni fa dal senatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e sostenuto dall’associazione Italia Stato di diritto, mira a modificare la legge professionale forense (legge n. 247/2012), introducendo un principio di limitazione della responsabilità degli avvocati che li equiparerebbe, almeno sotto questo profilo, ai magistrati.

Responsabilità ridotta come per i magistrati

Il cuore della proposta consiste nell’escludere la responsabilità civile dell’avvocato per colpa lieve e nelle ipotesi di errore interpretativo di norme, prevedendo invece la possibilità di azione risarcitoria solo nei casi di dolo o colpa grave.

Un modello ispirato alla disciplina già vigente per i magistrati, contenuta nella legge n. 117/1988, che consente di agire per danni solo in presenza di dolo o colpa grave, escludendo espressamente la responsabilità per l’attività interpretativa o valutativa. L’obiettivo dichiarato è dunque quello di riconoscere agli avvocati una tutela simile a quella dei giudici, considerando la complessità e l’alto rischio interpretativo insito nell’attività forense.

La normativa attuale

Attualmente, la legge 247/2012 non contiene disposizioni esplicite sulla responsabilità civile degli avvocati, lasciando il tema alla giurisprudenza, che ha delineato negli anni un quadro fondato sull’obbligo di diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c. L’avvocato, in quanto professionista, è tenuto a un comportamento conforme allo standard medio della categoria, con possibilità di risarcimento del danno anche per colpa lieve.

La proposta in esame andrebbe dunque a introdurre un limite normativo esplicito, riducendo sensibilmente il rischio di azioni giudiziarie contro i legali per scelte professionali non viziate da dolo o grave negligenza.

Le ragioni della riforma

Nella relazione illustrativa allegata al disegno di legge si sottolinea l’esigenza di garantire agli avvocati un margine di autonomia e sicurezza operativa, anche in funzione del ruolo costituzionalmente riconosciuto della difesa.

Viene segnalato, infatti, un aumento delle azioni civili promosse da clienti contro i propri legali, anche in relazione a decisioni processuali negative, come l’inammissibilità di ricorsi in Cassazione. In assenza di una tutela normativa specifica, il rischio è che l’avvocato si trovi esposto a responsabilità anche per scelte interpretative o strategiche ragionevoli, con effetti paralizzanti sulla libertà e indipendenza del mandato difensivo.

bossing

Il bossing Bossing: cos’è, differenze con il mobbing, cosa dice la legge, le tutele per il lavoratore e e sentenze della Cassazione

Cos’è il bossing

Il bossing è una forma specifica di abuso sul luogo di lavoro, in cui le condotte vessatorie provengono direttamente da un superiore gerarchico. Si tratta di un fenomeno sempre più riconosciuto, spesso assimilato al mobbing, ma con caratteristiche e dinamiche proprie che lo rendono particolarmente insidioso e complesso da affrontare.

Il termine bossing deriva dall’inglese “boss” (capo) e si riferisce nello specifico a comportamenti ostili, sistematici e ripetuti nel tempo, messi in atto da parte di un datore di lavoro o superiore gerarchico nei confronti di un lavoratore subordinato.

Le finalità del bossing possono includere:

  • l’allontanamento del dipendente dall’ambiente lavorativo;
  • l’induzione alle dimissioni volontarie;
  • la svalutazione della persona o delle sue competenze;
  • l’esclusione sistematica dalle attività lavorative.

Differenze tra bossing e mobbing

Il mobbing è un comportamento persecutorio sul luogo di lavoro che può essere esercitato da colleghi, superiori o anche da subordinati. Il bossing, invece, è una sottospecie del mobbing, caratterizzata dall’origine verticale dell’azione, ossia dalla posizione di potere di chi la esercita.

Mobbing → può essere orizzontale, ascendente o discendente.
Bossing → è solo discendente e coinvolge sempre un superiore.

Esempi di bossing:

  • assegnazione di compiti dequalificanti o umilianti;
  • isolamento intenzionale del dipendente;
  • richieste impossibili o fuori orario;
  • continue critiche ingiustificate o umiliazioni pubbliche.

Cosa dice la legge sul bossing

L’ordinamento giuridico italiano non prevede un reato autonomo di “bossing”, così come non lo prevede per il mobbing. Tuttavia, le condotte riconducibili a tale fenomeno possono integrare illeciti civili e penali, tra cui:

  • violazione dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore;
  • molestie morali sul luogo di lavoro, che possono essere riconosciute in sede giudiziaria;
  • reati come l’abuso d’ufficio, lesioni personali (art. 582 c.p.), maltrattamenti (art. 572 c.p.) e stalking (art. 612-bis c.p.), a seconda della topologia dei comportamenti.

Le tutele per il lavoratore vittima di bossing

Il lavoratore che subisce bossing ha diritto a una serie di strumenti giuridici di tutela:

1. Tutela in sede civile

Può agire per:

  • il risarcimento dei danni patrimoniali (perdita di reddito, cure mediche) e non patrimoniali (danno morale, biologico);
  • Ottenere la declaratoria di responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’art. 2087 c.c.

2. Tutela in sede penale

Se i comportamenti costituiscono reato, è possibile presentare querela nei termini previsti. L’autorità giudiziaria , in questo modo, potrà avviare un procedimento penale contro il superiore.

3. Denuncia all’Ispettorato del lavoro

Il lavoratore può rivolgersi all’Ispettorato territoriale del lavoro, che ha competenza in materia di salute, sicurezza e benessere nei luoghi di lavoro.

4. Intervento sindacale

I sindacati possono fornire assistenza nella documentazione delle molestie e nell’attivazione di procedure conciliative.

Come difendersi dal bossing

Se si decide di denunciare la condotta del superiore o di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno è fondamentale raccogliere prove documentali e testimoniali delle condotte vessatorie:

  • email, messaggi, ordini di servizio anomali;
  • testimonianze di colleghi;
  • referti medici o relazioni psicologiche;
  • segnalazioni al medico competente o al RLS (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza).

Per impostare una difesa e tutelare la propria posizione può essere utile rivolgersi invece a :

  • un avvocato giuslavorista esperto nei diritti dei lavoratori;
  • uno psicologo del lavoro o un medico del Servizio Sanitario;
  • un’associazione per la tutela dei lavoratori.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 35061/2021: confermata la condanna per bossing del datore di lavoro e del capufficio di una dipendente, anche se quest’ultima era stata vittima di vessazioni unicamente da parte del suo superiore gerarchico. La Suprema Corte ha ritenuto responsabile il datore di lavoro per la sua colpevole inerzia di fronte alle condotte persecutorie, evidenziando come le testimonianze avessero accertato una lesione che coinvolgeva sia gli obblighi contrattuali che i diritti fondamentali della lavoratrice, quali la salute e la dignità sul posto di lavoro, tutelati dalla Costituzione. Di conseguenza, l’ammontare del risarcimento per il danno biologico è stato raddoppiato per compensare la sofferenza morale derivante dalla lesione della dignità della dipendente nell’ambiente lavorativo.

Cassazione n. 2012/2017: non si può parlare di “bossing” e, di conseguenza, non sussiste alcun diritto al risarcimento, quando il comportamento del responsabile, pur manifestandosi in modi burberi, bruschi e rozzi, non sia specificamente diretto a un singolo lavoratore “preso di mira”, ma si estenda indistintamente a tutto il personale. In tali circostanze, tali modalità espressive rivelano unicamente un tratto caratteriale del soggetto, per quanto criticabile, senza alcuna intenzione di accanirsi contro un individuo in particolare.

Leggi anche: Il mobbing

docenti e avvocati

Docenti e avvocati: quando è lecito agire contro il Ministero La Cassazione chiarisce i limiti per i docenti che esercitano la professione forense. Focus su autorizzazione, conflitto d’interessi e diritti del lavoratore pubblico

Docenti e avvocati: i limiti

Docenti e avvocati: con l’ordinanza n. 12204/2025, la sezione lavoro della Cassazione si è espressa su una questione di rilievo per i dipendenti pubblici che esercitano una libera professione: può un docente patrocinare cause contro il Ministero dell’Istruzione, da cui dipende professionalmente? L’intervento si inserisce in un ambito sempre più attuale, vista la crescente presenza di docenti abilitati all’esercizio dell’attività forense, e chiarisce i confini tra legittimo esercizio della professione e violazione dei doveri di fedeltà nei confronti dell’amministrazione pubblica.

Il quadro normativo

Il punto di partenza è l’art. 508, comma 15, del d.lgs. n. 297/1994, secondo cui i docenti possono esercitare libere professioni, purché compatibili con l’orario di servizio e previa autorizzazione del dirigente scolastico. La norma non prevede limitazioni espresse sulle controparti processuali, lasciando dunque spazio all’interpretazione in merito a eventuali cause contro la stessa amministrazione.

A ciò si affianca l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che vieta qualsiasi attività in conflitto con l’interesse del pubblico impiego, e i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 98 Cost.).

Il caso concreto

Il caso esaminato riguardava un docente che, regolarmente autorizzato a esercitare la professione forense, aveva patrocinato ricorsi contro il Ministero dell’Istruzione. In seguito, era stato sanzionato con dieci giorni di sospensione dal servizio, con l’accusa di aver violato il dovere di lealtà verso l’amministrazione.

La Corte d’Appello di Bologna aveva annullato la sanzione, osservando che l’autorizzazione era stata concessa senza vincoli o limitazioni specifiche. Tale pronuncia è stata confermata dalla Cassazione.

La decisione della Cassazione

Secondo la Suprema Corte, l’autorizzazione all’esercizio della libera professione non può essere disattesa o limitata in via implicita. Eventuali restrizioni devono essere espresse formalmente e con chiarezza. La semplice richiesta di chiarimenti da parte del dirigente scolastico non può valere come revoca o modifica dell’autorizzazione.

In assenza di provvedimenti espliciti, l’attività professionale resta legittima anche qualora coinvolga l’amministrazione stessa come controparte processuale. La sanzione inflitta è dunque illegittima per carenza di motivazione formale e assenza di divieti specifici.

Vietato ogni conflitto di interessi

La Corte ha però chiarito che il principio generale del pubblico impiego resta intatto: è sempre vietato esercitare attività che possano generare un conflitto di interessi.

In altri termini, anche se formalmente autorizzato, il docente non può patrocinare cause che lo pongano in una posizione incompatibile con i propri obblighi istituzionali. L’autorizzazione non ha efficacia “sanante” rispetto a comportamenti che contrastano con i principi di lealtà, imparzialità e correttezza.

Allegati

bollo auto

Bollo auto: guida completa Bollo auto: cos’è, chi deve pagarlo, normativa, esenzioni e agevolazioni per veicoli storici e di altro tipo, sanzioni

Cos’è il bollo auto

Il bollo auto è un tributo locale dovuto annualmente per il possesso di veicoli immatricolati in Italia. Spesso definito impropriamente “tassa di circolazione”, il bollo è in realtà una tassa di proprietà, da pagare anche se il veicolo non viene utilizzato.

Il bollo auto infatti è tecnicamente definito anche “tassa automobilistica”, ed è, nello specifico, un tributo regionale che deve essere pagato da chiunque possieda un veicolo iscritto al PRA (Pubblico Registro Automobilistico). La disciplina che lo riguarda è rappresentata principalmente da norme statali e regionali. Le competenze amministrative invece sono attribuite alle Regioni e alle Province autonome, che possono stabilire esenzioni, riduzioni o agevolazioni specifiche.

Normativa di riferimento

Le principali fonti normative sono:

  • D.lgs. 504/1992, che ha istituito la tassa automobilistica come tributo proprio delle Regioni;
  • Art. 7 della Legge n. 99/2009, che prevede le competenze sull’accertamento e la riscossione;
  • Norme regionali, che regolano aspetti come le scadenze, gli importi e le esenzioni;
  • Codice della strada, per i riflessi in tema di immatricolazione e radiazione.

Chi deve pagare il bollo auto

Il bollo è dovuto da chi risulta proprietario del veicolo al PRA l’ultimo giorno utile del mese in cui scade il precedente pagamento. In dettaglio:

  • il pagamento è obbligatorio ogni anno, anche se il veicolo non viene utilizzato su strada;
  • anche i veicoli fermi o non circolanti, purché immatricolati, sono soggetti all’imposta;
  • in caso di compravendita, è tenuto al pagamento chi è proprietario alla data della scadenza del bollo.

Scadenze e modalità di pagamento

Il bollo auto deve essere pagato entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello di scadenza.

Si può pagare:

    • all’ACI, tramite il sito istituzionale o in sede;
    • presso le tabaccherie abilitate con circuito Lottomatica o Banca 5;
    • con l’app IO (PagoPA);
    • tramite Home Banking, utilizzando il circuito PagoPA.

Per verificare l’importo e la scadenza del proprio bollo, è possibile consultare i servizi online dell’ACI o dell’Agenzia delle Entrate, inserendo targa e tipo veicolo.

Bollo auto storiche: regole e agevolazioni

Le auto storiche, cioè i veicoli con più di 20 anni di età e rilevanza storica, possono beneficiare di agevolazioni fiscali, ma solo in presenza di specifiche condizioni.

Le categorie sono:

  1. Veicoli ultraventennali (20-29 anni): possono usufruire di riduzione del 50% del bollo, ma solo se in possesso del certificato di rilevanza storica rilasciato da enti riconosciuti (ASI, FMI, ecc.) e riportato sulla carta di circolazione.
  2. Veicoli ultratrentennali (oltre 30 anni): sono esenti dal pagamento del bollo, ma devono essere non adibiti a uso professionale. In alcune Regioni può essere previsto un bollo forfettario annuo (es. 25 euro in Lombardia).

Esenzioni e riduzioni

Oltre ai veicoli storici, possono essere esenti dal bollo:

  • i veicoli intestati a persone con disabilità, in presenza di determinati requisiti previsti dalla Legge 104/1992;
  • veicoli elettrici: in molte Regioni sono esentati per 5 anni dall’immatricolazione, con possibile proroga parziale;
  • ibride e GPL/metano: in alcune Regioni è prevista una riduzione o esenzione temporanea.

Sanzioni per mancato pagamento del bollo auto

Il mancato pagamento del bollo può comportare:

  • sanzione amministrativa del 30% dell’importo dovuto, oltre agli interessi legali se il pagamento avviene dopo il ricevimento dell’accertamento/ ingiunzione;
  • fermo amministrativo del veicolo, in caso di reiterata inadempienza;
  • radiazione d’ufficio dal PRA, dopo tre anni consecutivi di mancato pagamento, con impossibilità di circolazione.

Per evitare tali conseguenze, è possibile regolarizzare la propria posizione tramite il ravvedimento operoso, che consente di pagare con sanzioni ridotte, entro certi termini.

Come verificare se il bollo è stato pagato

Si può controllare lo stato dei pagamenti:

  • sul sito dell’ACI, nella sezione dedicata al calcolo bollo e verifica pagamenti;
  • tramite l’app IO, per le Regioni aderenti al sistema PagoPA;
  • presso gli sportelli regionali o ACI della propria Regione.
colpa medica

Colpa medica e mancata informazione: danno biologico va provato La Cassazione ha escluso il danno biologico per i genitori di due figlie malate, pur riconoscendo la lesione del diritto all'informazione

Colpa medica e diritto all’informazione

Con l’ordinanza n. 15076/2025, la terza sezione civile della Cassazione ha ribadito un principio chiave in tema di colpa medica: la violazione del dovere di informazione da parte del medico non implica, di per sé, il riconoscimento del danno biologico a favore dei pazienti o dei loro familiari. La decisione nasce da un caso complesso che ha coinvolto due genitori rimasti all’oscuro della patologia genetica delle figlie gemelle, nate affette da talassemia major.

Il diritto a essere informati

Il giudice del rinvio, confermando la responsabilità del sanitario, ha riconosciuto ai genitori il danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto all’informazione, ma ha escluso il danno biologico in assenza di prova clinica di una compromissione dell’integrità fisica o psichica.

In particolare, la mancanza di informazione diagnostica prenatale non è stata ritenuta sufficiente per configurare un danno alla salute. Le sofferenze morali e le difficoltà pratiche affrontate dai genitori per curare le figlie (comprese le trasferte per il trapianto di midollo e la successiva inseminazione artificiale con selezione genetica) hanno giustificato un risarcimento per danno morale, ma non hanno soddisfatto i criteri per l’attribuzione del danno biologico.

Niente danno se manca la prova del nesso causale

La Corte ha chiarito che, per riconoscere un danno biologico, è indispensabile dimostrare un nesso di causalità tra la condotta del medico e la patologia insorta nei soggetti lesi. Nel caso concreto, le malattie successivamente sviluppate da entrambi i genitori non sono state ritenute direttamente collegate alla violazione del dovere informativo. In assenza di evidenze mediche che attestassero una compromissione dell’integrità fisica conseguente alla condotta sanitaria, il danno biologico è stato escluso.

Allo stesso modo, la maggior sofferenza morale riconosciuta alla madre per il peso psicofisico della gravidanza non spontanea, preceduta anche da aborti spontanei, è stata liquidata come danno morale differenziato rispetto al padre, ma non ha integrato un pregiudizio alla salute fisica certificabile.

No al diritto a nascere sani

Ulteriore aspetto rilevante dell’ordinanza riguarda il rigetto del ricorso proposto, una volta divenute maggiorenni, dalle stesse figlie gemelle contro medico e struttura sanitaria. La Cassazione ha ribadito che non esiste un diritto soggettivo a nascere sani, e che la presenza di una malattia genetica non è risarcibile se non è provocata da un comportamento medico colposo diretto alla persona del nato.

In questo senso, il danno lamentato dalle figlie non trova fondamento giuridico, mancando sia il presupposto del nesso eziologico che quello della titolarità di un diritto leso nella condotta sanitaria prenatalizia.

La liquidazione del danno morale non è duplicazione risarcitoria

Infine, la Suprema Corte ha rigettato anche il ricorso del medico e dell’Azienda sanitaria, che contestavano un presunto raddoppio risarcitorio per il danno morale. Secondo la Cassazione, il giudice del rinvio ha correttamente distinto le voci di pregiudizio non patrimoniale, riconoscendo un risarcimento pieno per:

  • la perdita del diritto all’autodeterminazione (non essere stati messi in condizione di decidere consapevolmente);

  • le conseguenze morali derivanti dalla gestione della malattia delle figlie.

Tutte le voci riconosciute rientrano nel danno morale, senza sconfinare in forme di risarcimento vietate o sovrapposte.

Allegati

aggredire il capotreno

Aggredire il capotreno è reato di resistenza a pubblico ufficiale Aggredire il capotreno configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 20125/2025

La qualifica di pubblico ufficiale

Aggredire il capotreno è reato. Con la sentenza n. 20125/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che il capotreno, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, riveste la qualifica di pubblico ufficiale. La decisione trae origine da un episodio in cui un passeggero, giunto il treno a fine corsa, ha rifiutato di scendere e ha aggredito il capotreno e il macchinista con calci e pugni.

La difesa aveva contestato la qualifica di pubblico ufficiale, sostenendo che l’attività svolta dal capotreno – limitata alla verifica del termine della corsa – fosse di natura interna e priva di rilievo pubblicistico. La Suprema Corte ha però escluso tale interpretazione.

Poteri autoritativi anche senza coercizione

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “potere autoritativo” non si esaurisce nelle sole attività coercitive, ma comprende ogni attività che implichi l’esercizio di una potestà pubblica in forma discrezionale. Il soggetto che si trova destinatario di tale potere assume una posizione non paritetica, ovvero non è sullo stesso piano dell’autorità che lo esercita.

In questo contesto, anche se esercitata da personale appartenente a una società per azioni – come Trenitalia S.p.A. – l’attività può essere qualificata come pubblicistica se regolata da norme di diritto pubblico e finalizzata alla tutela di interessi generali, come la sicurezza dei viaggiatori.

La funzione pubblica del capotreno

Nel caso di specie, il capotreno, giunto a fine corsa, ha invitato il passeggero a lasciare il convoglio. L’aggressione è avvenuta in risposta a tale invito. Secondo la Corte, il controllo effettuato in quel momento rientrava pienamente nei compiti di sicurezza e ordine pubblico previsti dal D.P.R. n. 753/1980, che impone ai viaggiatori il rispetto delle disposizioni impartite dal personale ferroviario per la regolarità e sicurezza del servizio.

La normativa affida al personale ferroviario poteri accertativi e certificativi, anche in assenza delle forze dell’ordine, in merito a condotte rilevanti ai fini sanzionatori. Ne consegue che il comportamento del capotreno – diretto a garantire la sicurezza dei passeggeri e la regolare chiusura del servizio – ha natura pubblicistica.

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 337 c.p., ritenendo legittima la qualifica di pubblico ufficiale attribuita al capotreno. È stata dunque respinta la tesi difensiva secondo cui la funzione esercitata sarebbe stata priva di rilievo pubblicistico.

Il ricorso è stato rigettato e l’imputato condannato anche al pagamento delle spese processuali.

Allegati

mantenimento dei figli maggiorenni

Mantenimento dei figli maggiorenni: il parziale adempimento è reato La Cassazione chiarisce che l'adempimento parziale dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni è reato

Omesso mantenimento figli maggiorenni reato

Con la sentenza n. 15264/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato un tema di rilievo in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570, comma 2, n. 2, c.p., chiarendo un punto controverso riguardante il mantenimento dei figli maggiorenni.

La Corte ha statuito che l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento non esclude la responsabilità penale, neppure quando i figli beneficiari siano divenuti maggiorenni, salvo che non sia comprovato uno stato di necessità, la cui valutazione, tuttavia, segue criteri diversi rispetto ai casi in cui il mantenuto sia minorenne.

Il fatto

Il procedimento trae origine dalla condanna inflitta a un padre per omesso versamento dell’assegno di mantenimento in favore della figlia, divenuta nel frattempo maggiorenne ma ancora non economicamente autosufficiente, in quanto impegnata in un regolare corso di studi universitari.

L’uomo si era difeso sostenendo di aver eseguito solo versamenti parziali a causa di gravi difficoltà economiche, legate alla perdita del lavoro e alla sopravvenienza di nuovi oneri familiari. Aveva quindi chiesto l’assoluzione per carenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando lo stato di necessità.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Corte ha confermato la condanna e ha affermato un principio di diritto destinato ad orientare futuri giudizi in casi analoghi:

“In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento in favore del figlio maggiorenne non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., anche se la condotta è determinata da difficoltà economiche, salvo che queste integrino un vero e proprio stato di necessità penalmente rilevante.”

In sostanza, non basta addurre genericamente problemi economici per escludere la punibilità, se i versamenti sono stati inferiori a quanto stabilito dal giudice. La Corte distingue chiaramente tra:

  • Figli minorenni, per i quali il giustificato stato di necessità può escludere l’elemento soggettivo del reato, purché provato.
  • Figli maggiorenni non autosufficienti, per i quali il debitore deve dimostrare compiutamente che l’inadempimento era assolutamente inevitabile, non potendo in alcun modo adempiere.

Le motivazioni

La Corte richiama precedenti conformi e ribadisce che il mantenimento è un obbligo legale, non una prestazione facoltativa, e che la maggiore età del figlio non lo fa venir meno, se il beneficiario non ha ancora raggiunto una indipendenza economica. Come precisato in motivazione:

“La responsabilità genitoriale non si esaurisce con il compimento del diciottesimo anno di età, ma persiste in relazione alle condizioni oggettive del figlio. Il debitore non può arbitrariamente ridurre quanto dovuto, né invocare mere difficoltà finanziarie senza dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiere.”

Il parziale adempimento, se volontario e non accompagnato da iniziative giudiziali per la modifica dell’importo (es. ricorso ex art. 710 c.p.c.), non ha effetto scriminante, ma anzi può integrare gli estremi del reato se produce una situazione di effettiva privazione per il figlio.

Figlio maggiorenne e autosufficienza

Un altro passaggio chiave della sentenza riguarda la condizione del figlio:

“L’obbligo di mantenimento permane finché il figlio non abbia raggiunto una effettiva e stabile indipendenza economica. L’onere della prova su tale condizione spetta al genitore obbligato.”

Nel caso concreto, la figlia risultava ancora iscritta all’università, priva di redditi, e residente con la madre. L’uomo, pur lavorando saltuariamente, non aveva dimostrato di trovarsi in stato di indigenza assoluta né aveva attivato strumenti legali per modificare il quantum dovuto.

Allegati

scale condominiali

Scale condominiali Scale condominiali: bene comune, normativa civilistica di riferimento e regole per la ripartizione delle spese

Cosa si intende per scale condominiali

Le scale condominiali rappresentano uno degli elementi architettonici essenziali negli edifici condominiali. Oltre alla loro funzione pratica, costituiscono un tipico bene comune e sono disciplinate in modo puntuale dalla normativa civilistica.

Bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Ai sensi dell’art. 1117 del codice civile, le scale rientrano tra le parti comuni dell’edificio, in quanto strumentali all’uso comune. In particolare, l’articolo elenca tra i beni comuni: “… le scale, i vestiboli, gli anditi, i portici e i cortili, nonché i locali per il servizio comune.” Di conseguenza, tutti i condomini – anche quelli che non le utilizzano direttamente – sono comproprietari delle scale, salvo diversa indicazione nel titolo (es. regolamento contrattuale).

Normativa di riferimento: art. 1124 del codice civile

L’art. 1124 c.c. disciplina nello specifico la ripartizione delle spese per la manutenzione e il rifacimento delle scale e degli ascensori, introducendo un criterio misto:

  • 50% delle spese va ripartito in base al valore millesimale dell’unità immobiliare (ex art. 68 disp. att. c.c.);
  • 50% va ripartito in proporzione all’altezza del piano, cioè all’utilizzo potenziale delle scale da parte dei vari condomini.

Questo criterio mira a bilanciare l’interesse patrimoniale (valore dell’unità) con l’utilizzo effettivo del bene comune.

Ripartizione spese scale condominiali

Facciamo un esempio pratico:

  • un condominio ha 5 piani fuori terra;
  • le spese di rifacimento scale ammontano a 10.000 euro.
  • il 50% (5.000 euro) viene ripartito secondo i millesimi di proprietà;
  • il restante 50% (5.000 euro) viene suddiviso in proporzione all’altezza del piano: il piano terra pagherà meno rispetto all’ultimo piano.

Questa formula tiene conto del maggior uso delle scale da parte dei condomini dei piani superiori, che ne fruiscono quotidianamente per accedere alla propria abitazione.

Eccezioni e chiarimenti giurisprudenziali

La Corte di Cassazione ha chiarito più volte che:

  • il diritto di comproprietà delle scale sussiste anche per i proprietari di unità con accesso indipendente (Cassazione n. 4664/2016) salvo diversa previsione nel titolo o nell’atto di acquisto;
  • le modifiche strutturali alle scale richiedono delibera assembleare con maggioranza qualificata (art. 1136 c.c.);
  • l’inserimento di scale interne private da parte di singoli condomini (es. collegamento tra due appartamenti) necessita della Scia (Cassazione n. 41598/2019).

Manutenzione ordinaria e straordinaria delle scale condominiali

Queste le regole da rispettare quando si procede alla manutenzione delle scale condominiali:

  • la manutenzione ordinaria, che consiste nella pulizia, nelle riparazioni minori, e nella illuminazione rientra tra le spese correnti annuali, approvabili con maggioranza semplice;
  • la manutenzione straordinaria, rappresentata invece dal rifacimento dei gradini, dalla sostituzione ringhiere e dalla messa a norma richiede una delibera assembleare con maggioranze ex art. 1136 c.c.

In entrambi i casi si applicano comunque i criteri di  ripartizione previste dall’art. 1124 c.c., salvo accordi differenti.

Regolamento condominiale e deroghe alla legge

Il regolamento di condominio, se di tipo contrattuale (cioè approvato all’unanimità o allegato all’atto di compravendita), può prevedere criteri di ripartizione diversi da quelli previsti dal codice civile. In caso contrario, ossia in presenza dio regole stabilite dal regolamento assembleare, prevale la disciplina legale.

Scale e condominio parziale

In alcune ipotesi, l’edificio può prevedere più vani scala, ciascuno utilizzato da una porzione limitata di condomini. In tal caso:

  • si applica la teoria del condominio parziale (art. 1123, comma 3 c.c.);
  • le spese sono a carico solo dei condomini che traggono utilità dalla scala.

La giurisprudenza conferma che in tali casi è legittima la ripartizione parziale delle spese, senza necessità di costituire un condominio separato.

Leggi anche gli altri articoli in materia di diritto condominiale