licenziamenti illegittimi

Licenziamenti illegittimi: incostituzionale il tetto di sei mensilità per le piccole imprese La Corte costituzionale dichiara illegittimo il limite massimo di sei mensilità per l’indennizzo in caso di licenziamenti illegittimi nelle imprese sotto soglia

La Consulta boccia il limite massimo all’indennità risarcitoria

Con la sentenza n. 118/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui impone un tetto fisso e invalicabile pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, quale limite massimo dell’indennità risarcitoria per i lavoratori licenziati illegittimamente da datori di lavoro che non superano i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei lavoratori.

Perché la norma è incostituzionale

Secondo la Corte, l’imposizione di un limite rigido e indistinto all’indennizzo, indipendentemente dalla gravità del vizio del licenziamento, compromette i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento.

A ciò si aggiunge il fatto che, nei casi riguardanti le piccole imprese, le soglie risarcitorie sono già dimezzate rispetto a quelle previste per i datori di lavoro di dimensioni maggiori (come stabilito dagli artt. 3, 4 e 6 del d.lgs. 23/2015). Ne consegue un sistema in cui la forbice dell’indennizzo è così ristretta da rendere impossibile per il giudice modulare la sanzione in base alle specificità del caso concreto.

La funzione dissuasiva dell’indennità è compromessa

Un ulteriore profilo di criticità evidenziato dalla Corte riguarda la funzione deterrente della sanzione nei confronti del datore di lavoro. Il limite di sei mensilità, essendo automatico e inalterabile, non solo mina l’equità del risarcimento, ma non scoraggia comportamenti illeciti, svuotando di significato la finalità repressiva e preventiva del rimedio previsto.

Invito al legislatore: rivedere i criteri per le imprese sotto soglia

Nel dispositivo, la Corte invita il legislatore a intervenire per una riformulazione del quadro normativo, evidenziando come il numero dei dipendenti non sia di per sé un indicatore esaustivo della solidità economica dell’impresa. Anche in altre branche del diritto (ad esempio la disciplina della crisi d’impresa), il parametro occupazionale non è l’unico a determinare la capacità di sostenere costi o responsabilità.

La Consulta sottolinea dunque la necessità di un riequilibrio, che tenga conto di fattori ulteriori rispetto al solo criterio numerico, al fine di tutelare efficacemente i diritti dei lavoratori e garantire un sistema sanzionatorio rispettoso dei principi costituzionali.

diffamazione militare

Diffamazione militare: inammissibile la qlc sulla pena detentiva La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione sull’art. 227 del codice penale militare di pace. Il giudice non era chiamato ad applicare la pena e mancava la motivazione sulla rilevanza

La Consulta si pronuncia sulla pena per la diffamazione militare

Con la sentenza n. 127/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Napoli in merito all’articolo 227 del codice penale militare di pace, che prevede la pena detentiva per il reato di diffamazione militare, senza contemplare un’alternativa pecuniaria.

Il nodo giuridico: pena detentiva e libertà di espressione

Secondo il giudice rimettente, la previsione esclusiva della reclusione per il reato di diffamazione militare sarebbe in contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
La Corte EDU, infatti, ha più volte affermato che la pena detentiva per la diffamazione è sproporzionata, a meno che non si tratti di discorsi d’odio o incitamento alla violenza.

La decisione: la questione è prematura e irrilevante

La Corte costituzionale ha respinto la questione per inammissibilità, senza entrare nel merito.
La motivazione principale è che la censura era prematura e priva di rilevanza concreta: il giudice che ha sollevato la questione non era chiamato a decidere sulla responsabilità dell’imputato, trattandosi solo di udienza preliminare, e non vi era un’applicazione immediata della norma censurata.

Mancanza di motivazione sull’esercizio del diritto sindacale

La Corte ha inoltre rilevato d’ufficio un ulteriore vizio di inammissibilità: l’ordinanza di rimessione non ha motivato adeguatamente la rilevanza della norma impugnata alla luce del contesto sindacale in cui si era verificata la condotta contestata.
Non è stato spiegato se e come l’attività sindacale potesse configurare l’esercizio di un diritto, e quindi costituire causa di giustificazione, con possibile esclusione della punibilità.

giurista risponde

Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata È legittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante ex art. 625 bis c.p. sulla recidiva reiterata (art. 99, comma 4 c.p.)?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza dell’attenuante della collaborazione del reo, prevista dall’art. 625bis dello stesso codice, sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 56 (Divieto di prevalenza dell’attenuante).

La questione veniva sollevata con ordinanza dal Tribunale di Perugia, il quale era stato chiamato a decidere su un furto in abitazione. Nel caso trattato dal giudice a quo l’imputato veniva fermato dal proprietario dell’immobile in cui stava effettuando il furto dopo aver tentato la fuga, trovando refurtiva di poco valore. Nel corso dell’interrogatorio reso in occasione dell’udienza di convalida dell’arresto, l’imputato ammetteva l’addebito e consentiva l’identificazione del correo.

Il riconoscimento del fatto così come contestato è indubbio: sussistenti erano tutti gli elementi del furto in abitazione, così come la circostanza attenuante ad effetto speciale prevista all’art. 625bis c.p. e la contestata recidiva. Infatti, l’imputato aveva collaborato con le autorità per l’individuazione dei correi e, al contempo, era gravato da due precedenti specifici. Il Giudice remittente aggiungeva considerazioni sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione: la prima sulla base della ben inferiore sanzione irrogabile, la seconda per manifesta irragionevolezza rispetto alla ratio della circostanza attenuante, parametrandolo all’art. 3 Cost.. La circostanza attenuante di cui all’art. 625bis c.p. sarebbe «espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale, volta a incentivare, mediante una sensibile diminuzione di pena, il ravvedimento post-delittuoso dell’imputato, rispondendo, sia all’esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati contro il patrimonio». A ciò si aggiunga che per il riconoscimento dell’attenuante non è richiesta la spontaneità della collaborazione, ma solo il ruolo effettivamente avuto nell’individuazione dei correi. La norma posta al vaglio di legittimità della Consulta fornisce una rilevanza quasi insuperabile della condotta criminosa, anche rispetto alla collaborazione successiva del reo. Sistematicamente, questo aspetto si rivela scorretto su più fronti: da una parte, la collaborazione rappresenterebbe un disconoscimento del fatto illecito e un allontanamento dalla condizione di illegalità; dall’altra, la condotta contemporanea o susseguente al reato è indice di valutazione della capacità a delinquere del reo ai sensi dell’art. 133 c.p. e il Giudice di merito deve tenerne conto anche nella comparazione di circostanze eterogenee concorrenti.

La norma censurata, inoltre, ad avviso del giudice a quo, sarebbe costituzionalmente illegittima in un’ottica comparativa. In primo luogo, risulta incompatibile con il trattamento della circostanza attenuante a effetto speciale per i delitti di stampo mafioso, la quale non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee ed è obbligatoria. In secondo luogo, rispetto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. come sostituito dalla dall’art. 3 della L. 251/2005 nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante a effetto speciale di cui all’art. 73, comma 7 D.P.R. 309/1990 sulla recidiva reiterata (Corte cost. 74/2016).

La Corte dichiara la fondatezza della questione prospettata, riferendosi a ben dodici pronunce antecedenti che hanno colpito il divieto di prevalenza di date circostanze attenuanti rispetto alla suddetta recidiva reiterata. Infatti, scopo del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee è quello di permettere al giudice di “valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono” (Corte cost. 38/1985). D’altra parte, deroghe al regime del bilanciamento sono ammissibili e rientranti nella discrezionalità del legislatore, purché non travalichino i confini della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrio anche con riferimento ai principi costituzionali. Sulla base di queste considerazioni, la Consulta ha rinvenuto alterazioni degli equilibri in relazione a circostanze espressive di un minor disvalore del fatto. I filoni argomentativi si suddividono in tre tipologie.

Secondo il primo, la ratio della illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza è stata individuata nella centralità del fatto oggettivo rispetto alla qualità soggettiva del colpevole, in base alla quale deve escludersi che aspetti relativi alla maggiore colpevolezza o pericolosità dell’agente possano assumere nel processo di individualizzazione della pena una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (Corte cost. 141/2023).

Proseguendo con il secondo, tali pronunce hanno fatto venire meno il divieto di prevalenza anche rispetto a circostanze inerenti alla persona del colpevole per la circostanza attenuante del vizio parziale di mente (Corte cost. 73/2020) e per quella di cui all’art. 116 c.p. (Corte cost. 55/2021). Una terza ratio, infine, attiene all’incentivo alla collaborazione del reo post delictum (Corte cost. 74/2016 e, da ultimo, Corte cost. 201/2023); scopo di quest’ultima è quella di incentivare, mediante una sensibile riduzione di pena, il ravvedimento dell’imputato rispetto alla condotta criminosa attuata rispondendo alle esigenze di tutela del bene giuridico e di prevenzione o repressione di condotte delittuose.

A conclusione, viene rimarcato dalla Consulta che il divieto assoluto di operare la diminuzione di pena consentita dall’attenuante, in presenza di recidiva reiterata, impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio. Tale circostanza può in tal modo essere percepita come ingiusta dal cittadino, impedendo l’assolvimento della finalità rieducativa a cui deve aspirare la sanzione penale. Inoltre, in relazione al furto in abitazione, la scelta di incentivare la collaborazione non è venuta meno neppure nei successivi interventi legislativi. Pertanto, la suddetta norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima.

(*Contributo in tema di “Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

sorpassometro

Sorpassometro: funzionamento, sanzioni e ricorso Sorpassometro: definizione, normativa di riferimento, funzionamento, regole di installazione, sanzioni e contestazione

Sorpassometro: cos’è?

Il sorpassometro è un sistema di rilevazione elettronico, che viene impiegato soprattutto su strade considerate a rischio e che accerta le infrazioni legate al divieto di sorpasso. Esso si concentra infatti sul movimento dei veicoli e sull’attraversamento della linea continua.

Il sorpassometro è uno strumento tecnologico efficace per la sicurezza stradale, ma la sua validità giuridica rimane parzialmente vulnerabile a causa dell’ambiguità normativa che circonda la differenza tra approvazione e omologazione.

Normativa di riferimento

L’uso dei sorpassometri è regolato da diversi decreti ministeriali.

Il primo decreto del 2008 è stato aggiornato nel 2011 (modello SV2) e, più di recente, dal Decreto n. 603 dell’11 dicembre 2024. Quest’ultimo ha approvato i dispositivi di ultima generazione (modello SV3) e ha esteso la loro installazione su strade con un limite di velocità fino a 90 km/h, ampliandone così l’ambito di applicazione.

Come funziona il soprassometro

Il funzionamento del sorpassometro si basa su una combinazione di tecnologie.

  • Dei sensori posizionati nel manto stradale rilevano il passaggio di un veicolo sulla corsia opposta, attivando un sistema di telecamere ad alta risoluzione.
  • Queste telecamere registrano un breve filmato (di circa 15 secondi) che documenta l’intera manovra di sorpasso.
  • I dati, inclusa la targa, vengono trasmessi in tempo reale al comando della Polizia Locale.
  • Un operatore esamina il filmato per convalidare l’infrazione prima di emettere la multa.
  • Non è prevista la contestazione immediata. L’articolo 201 del Codice della Strada prevede infatti la possibilità di elevare l’infrazione in modalità differita.

Regole di installazione per il sorpassometro

L’installazione di questi dispositivi richiedono l”autorizzazione formale del Prefetto, la quale deve fondarsi su dati oggettivi in grado di dimostrare un’elevata incidentalità nel tratto stradale interessato. I sorpassometri infatti sono presenti soprattutto in zone pericolose (curve cieche, dossi e rettilinei caratterizzati da segnaletica insufficiente).

Sanzioni previste

Le sanzioni per il sorpasso vietato, sono regolamentate dall’articolo 148 del Codice della Strada:

  • multa da 167 a 665 euro e decurtazione di 10 punti dalla patente;
  • la sanzione può arrivare a 327-1.308 euro se l’infrazione avviene in curve, dossi o incroci;
  • i neopatentati rischiano anche la sospensione della patente da 1 a 3 mesi in caso di recidiva;
  • le multe infine vengono aumentate di un terzo qualora l’infrazione venga commessa tra le 22:00 e le 7:00.

L’attraversamento della striscia continua senza l’esecuzione di un sorpasso effettivo prevede invece una sanzione minore e la decurtazione di 2 punti dalla patente.

Quando e come fare ricorso

Come per tutte le sanzioni amministrative, anche le multe elevate per la violazione del divieto di sorpasso rilevate con il soprassometro possono essere contestate entro 60 giorni al Prefetto o entro 30 giorni al Giudice di Pace. Oltre ai vizi formali classici, un ricorso può essere fondato su due elementi chiave:

  • assenza di segnaletica: la presenza del sorpassometro deve essere annunciata da un cartello ben visibile. In assenza la multa può essere annullata;
  • mancata omologazione: la legge distingue tra “approvazione” (autorizzazione ministeriale generica) e “omologazione” (certificazione tecnica rigorosa). Sebbene il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti tenda a equiparare i due concetti, la Corte di Cassazione ha stabilito che per la validità delle multe è necessaria l’omologazione. Questo punto, ancora oggetto di dibattito, rappresenta una via efficace per contestare la sanzione.

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vendita con patto di riscatto

Vendita con patto di riscatto Vendita con patto di riscatto: cos’è, ratio del patto, caratteristiche, termini e modalità del riscatto, effetti

Cos’è la vendita con patto di riscatto

La vendita con patto di riscatto è un tipo di contratto di compravendita, disciplinato dall’articolo 1500 e seguenti del Codice civile, che concede al venditore la possibilità di riacquistare la proprietà del bene venduto. Questo diritto potestativo di riscatto, che consente al venditore di esercitarlo unilateralmente senza il consenso del compratore, è una condizione risolutiva che fa retroagire gli effetti della vendita. In altre parole, una volta esercitato il riscatto, la vendita si considera come mai avvenuta e il bene torna nel patrimonio del venditore.

Caratteristiche e finalità del patto

Il patto di riscatto risponde all’esigenza del venditore di alienare un bene per necessità economiche urgenti, con la speranza di poterlo riavere una volta superata la difficoltà. Per legge il prezzo da restituire al compratore non può essere superiore a quello pattuito inizialmente. Un patto che preveda un prezzo superiore è nullo per l’eccedenza, a tutela del venditore che si trova in una posizione di debolezza. Questa clausola ha lo scopo specifico di evitare che il compratore possa approfittare dello stato di bisogno dell’alienante.

Termini per il riscatto

Il diritto di riscatto non può essere esercitato indefinitamente. La legge fissa dei termini perentori e non prorogabili: due anni per i beni mobili e cinque anni per i beni immobili. Se le parti stabiliscono un termine maggiore, questo viene automaticamente ridotto al limite legale.

Modalità di esercizio del riscatto

Per esercitare il riscatto, il venditore deve rispettare due condizioni fondamentali:

– entro il termine stabilito, deve comunicare al compratore la sua intenzione di riscattare il bene. Per i beni immobili, questa dichiarazione deve essere fatta in forma scritta a pena di nullità;

deve restituire al compratore il prezzo di vendita, oltre a rimborsare le spese sostenute per la vendita (come l’atto notarile e le tasse), per le riparazioni necessarie e quelle che hanno aumentato il valore del bene (fino all’importo dell’aumento). In caso di rifiuto del compratore a ricevere il pagamento, il venditore ha otto giorni per fare un’offerta reale altrimenti decade dal suo diritto.

Vendita con patto di riscatto: effetti del riscatto

Una volta che il venditore esercita il diritto di riscatto, la vendita viene annullata con effetto retroattivo. Di conseguenza:

il venditore può riavere il bene anche da eventuali acquirenti successivi. Questa opponibilità è possibile solo se il patto di riscatto è stato reso noto ai terzi con mezzi idonei per legge, come la trascrizione per i beni immobili e la data certa per i beni mobili. Se il venditore non è a conoscenza dell’alienazione a un terzo, può comunque esercitare il riscatto nei confronti del primo acquirente;

– il venditore riacquista la proprietà del bene libera da ipoteche e altri pesi costituiti dal compratore. Fanno eccezione le locazioni fatte in buona fede, che il venditore è tenuto a rispettare se hanno data certa e una durata non superiore a tre anni.

Vendita con patto di riscatto con più venditori o più compratori

Il Codice Civile disciplina anche la vendita con patto di riscatto in cui vi siano più soggetti coinvolti:

  • riscatto di parte indivisa (art. 1506 c.c);
  • vendita congiuntiva di cosa indivisa (art. 1507 c.c.);
  • vendita separata di cosa indivisa (art. 1508 c.c.);
  • riscatto contro gli eredi del compratore (art. 1509 c.c.).

Figure similari alla vendita con patto di riscatto

È importante infine, per evitare di fare confusione, distinguere il patto di riscatto da altre figure similari.

Patto di retrovendita: a differenza del patto di riscatto, che ha natura reale e risolve la vendita automaticamente, il patto di retrovendita ha natura obbligatoria. Esso implica l’obbligo, per l’acquirente, di rivendere il bene all’alienante tramite un nuovo contratto entro un tempo determinato.

“In diem addictio”: questa clausola stabilisce invece che la vendita si risolve se il venditore trova, entro un certo termine, un nuovo compratore che offre condizioni migliori.

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ricongiungimento familiare

Ricongiungimento familiare Ricongiungimento familiare: cos’è, chi ne ha diritto, come funziona la procedura, il ricongiungimento per i rifugiati

Cos’è il ricongiungimento familiare

Il ricongiungimento familiare è un diritto fondamentale riconosciuto ai cittadini stranieri legalmente soggiornanti in Italia, che consente di far entrare e stabilire nel territorio nazionale determinati familiari. Si tratta di un istituto volto a tutelare l’unità familiare, come garantito dall’art. 29 del Testo Unico sull’Immigrazione (Decreto legislativo n. 286/1998) e dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Il ricongiungimento familiare è la procedura amministrativa che consente al cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia di richiedere il permesso d’ingresso per i propri familiari stretti rimasti nel Paese d’origine o in un altro Stato estero.

Non si tratta di una facoltà discrezionale dell’amministrazione, bensì di un diritto soggettivo, esercitabile in presenza di specifici requisiti anagrafici, reddituali e abitativi.

Chi ha diritto al ricongiungimento familiare

Possono richiedere il ricongiungimento:

I cittadini extracomunitari titolari di permesso di soggiorno di almeno un anno per motivi di:

  • lavoro subordinato o autonomo;
  • asilo o protezione sussidiaria;
  • motivi familiari;
  • studio o motivi religiosi (solo in alcuni casi particolari).

È necessario che il richiedente sia regolarmente soggiornante in Italia e possa dimostrare di disporre di:

  • un alloggio idoneo secondo i parametri igienico-sanitari e abitativi previsti dalla legge;
  • un reddito minimo annuale sufficiente a mantenere sé stesso e i familiari da ricongiungere;
  • un’assicurazione sanitaria o di un altro titolo idoneo.

Il reddito minimo è pari all’importo annuo dell’assegno sociale, aumentato della metà dell’importo dello stesso per ogni familiare.

Per quali familiari si può richiedere

Il ricongiungimento familiare può essere richiesto per i seguenti familiari stretti:

  1. il coniuge non legalmente separato e non minore;
  2. i figli minori del richiedente o del coniuge, anche adottivi, non coniugati;
  3. i figli maggiorenni a carico, se inabili in modo permanente al lavoro per gravi disabilità;
  4. i genitori a carico, se non hanno altri figli nel Paese di origine o, se presenti, non possono provvedere al loro mantenimento per gravi motivi di salute certificati.

Non è ammesso il ricongiungimento con fratelli, sorelle o altri parenti diversi da quelli elencati, salvo casi molto specifici e documentati.

Come si fa la domanda di ricongiungimento familiare

La procedura si articola in due fasi principali:

1. Richiesta del nulla osta

La domanda va presentata telematicamente attraverso lo sportello online del Ministero dell’Interno (portale ALI – Sportello Unico Immigrazione)

Il richiedente dovrà allegare, tra i vari documenti richiesti:

  • il documento d’identità valido;
  • il permesso di soggiorno;
  • il certificato del reddito e contratto di lavoro (o dichiarazione dei redditi);
  • il certificato di idoneità alloggiativa rilasciato dal Comune;
  • la documentazione attestante il legame di parentela (tradotta e legalizzata);
  • il certificato di nascita dei figli o certificato di matrimonio.

Il nulla osta viene rilasciato dalla Prefettura – Sportello Unico per l’Immigrazione, previa verifica dei requisiti. In caso di silenzio amministrativo per oltre 90 giorni, si può fare ricorso al TAR.

2. Richiesta del visto

Una volta ottenuto il nulla osta, il familiare deve presentarsi presso l’Ambasciata o Consolato italiano nel Paese d’origine, dove verrà rilasciato il visto per ricongiungimento familiare.

Dopo l’ingresso in Italia, entro 8 giorni il familiare deve richiedere il permesso di soggiorno presso la Questura.

Tempi della procedura

In condizioni ordinarie, i tempi per la procedura di ricongiungimento familiare sono:

  •   30 giorni per l’emissione del visto da parte dell’autorità competente, che decorrono dalla richiesta;
  • I tempi possono per allungarsi se è necessario procedere a verifiche ulteriori.

Ricongiungimento familiare e rifugiati

Per i titolari di protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria), il ricongiungimento è soggetto a una disciplina semplificata. Non sono richiesti requisiti reddituali, di alloggio e assicurativi, ma è necessario dimostrare il legame familiare con:

  • il coniuge o il partner unito da legame stabile;
  • i figli minori;
  • i genitori a carico.

Considerazioni conclusive

Il ricongiungimento familiare è uno strumento giuridico fondamentale per la tutela dell’unità familiare e il rispetto dei diritti umani. In presenza dei requisiti previsti, il cittadino straniero ha diritto soggettivo all’ingresso dei propri familiari in Italia, senza discrezionalità da parte dell’autorità amministrativa.

La corretta presentazione della domanda e la completezza della documentazione sono essenziali per evitare ritardi o rigetti. In caso di diniego, è possibile presentare ricorso al TAR.

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guida troppo piano

Multa anche per chi guida troppo piano Chi guida troppo piano rischia la multa se non rispetta i limiti minimi di velocità presenti in alcuni tipi di strade o intralcia il traffico

Anche chi guida troppo piano rischia la multa

Potrà sembrare strano, ma anche chi guida piano rischia la multa. Quante volte capita di avere fretta e di trovarsi davanti un conducente fin troppo prudente che blocca il traffico. Ecco, anche questa situazione per il Codice della Strada rappresenta una possibile fonte di pericolo. Andare troppo piano infatti impedisce al traffico di scorre in modo fluido, perché crea rallentamenti e inutili ingorghi.

Chi guida troppo piano intralcia il traffico

Lo dice anche il Codice della Strada nell’articolo 141 dedicato alla velocità di circolazione. Il comma 6 di questa norma stabilisce infatti che: “Il conducente non deve circolare a velocità talmente ridotta da costituire intralcio o pericolo per il normale flusso della circolazione.”

Chi non rispetta questa regola pertanto è soggetto a una sanzione minima di 42 euro, che può arrivare fino a un massimo di 173, come previsto dal comma 11 dello stesso articolo 141.

In casi come questi quindi le forze di polizia hanno il potere di fermare e sanzionare il conducente troppo prudente se:

  • nel tratto stradale è imposta una velocità minima che non viene rispettata;
  • la velocità minima di circolazione non viene rispettata in autostrada, destinata notoriamente allo scorrimento veloce;
  • il veicolo crea intralcio alla circolazione rallentando l’andamento regolare anche degli altri mezzi.

Regole generali sulla velocità di guida

Se guidare oltre i limiti di velocità è pericoloso, lo è altrettanto quindi anche guidare troppo piano. Del resto il comma 1 dell’articolo 141 del Codice della Strada stabilisce che il conducente è obbligato ad adeguare la velocità di marcia, nel rispetto delle seguenti variabili:

  • caratteristiche, stato e carico del veicolo;
  • caratteristiche e condizioni della strada;
  • caratteristiche e condizioni e del traffico;
  • ogni altra circostanza di qualsiasi natura;
  • visibilità e condizioni meteo.

Limiti di velocità minimi

A parte le regole generali sulla velocità di guida che impongono di non guidare troppo piano per non creare ingorghi e impedire il flusso della circolazione stradale, ci sono anche veri e propri limiti minimi di velocità da rispettare in certi tipi di strada.

  • In autostrada ad esempio, chi guida sulla corsia di destra deve rispettare i limiti generali appena visti e prescritti dall’articolo 141.
  • Chi guida invece nella corsia centrale dell’autostrada non può circolare a una velocità inferiore ai 60 chilometri orari.
  • Chi poi decide di compiere un sorpasso in autostrada e quindi di percorrere la corsia di sinistra non può tenere una velocità inferiore ai 90 chilometri orari.
  • In altri tipi di strada invece i limiti minimi di velocità da rispettare sono indicati all’interno di specifici cartelli con sfondo blu e numero bianco.

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pagamento dell'assicurazione

Condominio: amministratore responsabile per mancato pagamento dell’assicurazione La Corte d’Appello di Ancona ha stabilito che l’amministratore risponde dei danni se omette il pagamento del premio assicurativo, salvo prova di solleciti ai condòmini

Amministratore condominio e pagamento dell’assicurazione

L’amministratore di condominio ha il dovere di garantire la copertura assicurativa dell’edificio, provvedendo al pagamento dell’assicurazione in modo puntuale. La mancata corresponsione dell’importo dovuto comporta la sospensione della polizza e può determinare la responsabilità personale dell’amministratore per i danni subiti dal condominio.
La Corte di Appello di Ancona, con sentenza n. 1001 del 29 luglio 2025, ha ribadito che non è sufficiente invocare la mancanza di fondi: l’amministratore deve dimostrare di aver sollecitato concretamente i condòmini al versamento delle quote necessarie.

Il caso concreto esaminato dalla Corte

Una donna, recandosi in uno studio situato all’interno di un condominio, cadeva sulle scale interne, prive di corrimano e di sistemi antiscivolo. Dopo l’infortunio, avviava una richiesta di indennizzo alla compagnia assicurativa indicata dall’amministratore.
La compagnia rifiutava il pagamento, evidenziando che il premio non era stato saldato e che la copertura era sospesa. Il condominio, citato in giudizio, respingeva ogni responsabilità, attribuendo l’accaduto alla disattenzione della donna e chiedendo la chiamata in causa dell’amministratore per grave inadempimento.

Le difese dell’amministratore e l’esito del giudizio

L’amministratore sosteneva di non aver potuto pagare il premio per assenza di fondi, imputando tale situazione alla morosità di alcuni condòmini. Tentava inoltre di rivalersi su due polizze personali, che però risultavano intestate a lui come persona fisica e non alla società amministratrice, risultando così irrilevanti.

Il Tribunale di primo grado respingeva la domanda della danneggiata, ritenendola esclusivamente responsabile. La Corte d’Appello, invece, riformava la decisione:

  • riconosceva un concorso di colpa (60% alla donna ai sensi dell’art. 1227 c.c., 40% al condominio ex art. 2051 c.c.);

  • condannava l’amministratore a risarcire il condominio per il mancato pagamento del premio, ritenuto un grave inadempimento contrattuale.

Omesso pagamento dell’assicurazione: il principio di diritto

La Corte ha sottolineato che l’amministratore non può giustificarsi con generiche affermazioni di mancanza di liquidità. È necessario dimostrare di aver intrapreso tutte le iniziative idonee a reperire le somme, compresi solleciti scritti e azioni nei confronti dei morosi. Nel caso esaminato, era stata rinvenuta solo una diffida a un singolo condòmino, senza alcun riferimento alla necessità di coprire il premio assicurativo.

Questo orientamento è coerente con la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 2831/2021), che afferma la responsabilità dell’amministratore quando la scopertura assicurativa derivi dall’omesso pagamento dei premi.

bonus sociale rifiuti

Bonus sociale rifiuti 2026 Bonus sociale rifiuti 2026: cos’è, chi lo ha deciso, chi ne beneficerà, come ottenerlo, e quale sarà il suo impatto sul costo della TARI

Bonus sociale rifiuti dal 2026

Da gennaio 2026 verrà introdotto il bonus sociale rifiuti. Trattasi di una nuova misura per aiutare circa 4 milioni di famiglie in difficoltà economica. La decisione, annunciata con un comunicato stampa del 1° agosto 2025, è stata presa da ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) con la delibera 355/2025/R/rif, corredata dall’Allegato A contenete il “testo Unico per la regolazione delle modalità applicative per riconoscimento del bonus sociale Rifiuti TUBR”. La delibera ha stabilito nello specifico le procedure per l’erogazione di uno sconto automatico del 25% sulla tassa sui rifiuti.

Chi può beneficiarne 

Il bonus è destinato a due categorie di famiglie:

  • quelle con un ISEE inferiore a 9.530 euro;
  • le famiglie numerose con almeno quattro figli a carico e con un ISEE fino a 20.000 euro.

Come si ottiene il bonus sociale rifiuti

Il processo per ottenere lo sconto è completamente automatico. Non sarà necessario presentare alcuna domanda specifica, ma sarà sufficiente aver compilato la Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU) all’INPS per l’anno 2025. Un sistema digitale incrocerà automaticamente i dati ISEE con quelli dei gestori del servizio rifiuti, applicando lo sconto direttamente in bolletta. L’automatizzazione del processo, che si affianca a quella già in uso per i bonus di luce, gas e acqua, garantisce la protezione dei dati personali, in linea con il GDPR.

Impatto e risparmio

La TARI è la tassa comunale destinata a coprire i costi della gestione dei rifiuti solidi urbani, e il suo costo medio nazionale nel 2024 è stato di circa 329 euro per una famiglia tipo. Tuttavia, le tariffe variano notevolmente a seconda del Comune di residenza. Lo sconto del 25% si tradurrà in un risparmio annuale stimato tra 50 e 150 euro, a seconda della zona. Questo bonus sarà particolarmente vantaggioso per le famiglie che vivono in Comuni dove il costo della TARI è più elevato.

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dati personali

Dati personali: oscuramento nelle sentenze  Dati personali: la normativa privacy e la giurisprudenza sull'oscuramento nelle sentenze tra esigenze pubblicitarie e privacy

Oscuramento dei dati nelle sentenze: disciplina

L’oscuramento dei dati personali nelle sentenze è disciplinato dall’articolo 52 del Codice in materia di protezione dei dati personali, contenuto nel decreto legislativo n. 196/2003.

Questa norma introduce e rafforza in particolare i meccanismi volti a garantire la riservatezza dei dati personali all’interno delle sentenze e dei provvedimenti giurisdizionali, bilanciando il principio di pubblicità degli atti giudiziari con il diritto alla privacy degli interessati.

La norma consente all’interessato di richiedere l’apposizione di un’annotazione sull’originale della sentenza o del provvedimento. Tale richiesta, motivata da legittimi motivi, deve essere depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio giudiziario competente prima della definizione del grado di giudizio. L’obiettivo dell’annotazione è di precludere l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell’interessato in caso di riproduzione o diffusione del provvedimento.

L’autorità giudiziaria che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento valuta la richiesta e provvede con decreto in calce, senza ulteriori formalità. È altresì prevista la possibilità per la medesima autorità di disporre l’apposizione dell’annotazione d’ufficio, qualora ritenga necessario tutelare i diritti o la dignità degli interessati.

Una volta disposta l’annotazione, la cancelleria o la segreteria appone e sottoscrive sul documento originale la dicitura: “In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di….”, con indicazione degli estremi normativi. Questa disposizione comporta un obbligo di oscuramento per chiunque diffonda la sentenza o il provvedimento (o le relative massime giuridiche), incluso l’utilizzo da parte di terzi.

Indipendentemente dalla presenza di specifiche annotazioni, la norma impone un obbligo generale di omissione delle generalità, altri dati identificativi o dati indirettamente riconducibili all’identità di minori o delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone. Questa previsione rafforza la tutela per le categorie più vulnerabili e per le materie intrinsecamente sensibili.

Le medesime disposizioni trovano applicazione anche in ambito arbitrale, estendendosi ai lodi depositati ai sensi dell’articolo 825 c.p.c. Le parti possono formulare la richiesta di riservatezza agli arbitri prima della pronuncia del lodo, i quali sono tenuti ad apporre l’annotazione prevista.

Al di fuori dei casi specificamente individuati da questa normativa, la diffusione del contenuto, anche integrale, delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali rimane liberamente ammessa, mantenendo il principio di pubblicità degli atti giudiziari come regola generale.

Dati personali oscurati: cosa dice la giurisprudenza

Sull’oscuramento dei dati personali nei provvedimenti giudiziari così come in altri atti si è espressa in diverse occasioni la giurisprudenza, fornendo importanti precisazioni sulla normativa:

Tar Lazio nella sentenza n. 7625/2025: la diffusione integrale dei provvedimenti giudiziari è permessa, a meno che la legge o il giudice stesso non impongano l’anonimizzazione dei dati personali. Nonostante l’importanza della privacy, l’accesso alle sentenze è un diritto che va bilanciato dall’autorità giudiziaria, non dalla pubblica amministrazione. Di conseguenza, un oscuramento generalizzato dei dati personali da parte di un’amministrazione non è legittimo, poiché invaderebbe una sfera decisionale propria del giudice. Solo il giudice può valutare caso per caso la necessità di anonimizzare i dati, salvo specifiche eccezioni di legge.

Leggi l’articolo dedicato al commento di questa sentenza Anonimizzazione delle sentenze: il Tar dice no

Corte di Cassazione, sentenza Sezioni Unite n. 36764/2024: la legge non definisce i “motivi legittimi” per l’anonimizzazione dei dati nei provvedimenti giudiziari. Tuttavia, la giurisprudenza si rifà alle linee guida del Garante della Privacy (2010), che indicano la natura sensibile dei dati o la delicatezza della vicenda come criteri. La delicatezza si lega alle conseguenze negative sulla vita sociale e relazionale dell’interessato (es. in famiglia o lavoro). Il giudice deve bilanciare questo diritto alla privacy con la pubblicità delle sentenze, valore costituzionale, valutando caso per caso la specificità della richiesta e la reale incidenza che la diffusione dei dati avrebbe sulla vita del soggetto.

Corte di Cassazione, ordinanza n. 25173/2023: da rigettare l’istanza di anonimizzazione presentata dalla società ricorrente. Le modifiche legislative stabiliscono che solo le persone fisiche possono richiedere l’anonimizzazione dei dati nei provvedimenti giudiziari, se sussistono motivi legittimi (opportuni). Nel caso specifico, mancava il presupposto soggettivo (essendo una società) e quello oggettivo, poiché le questioni relative a dazi e sanzioni tributarie non sono considerate dati sensibili o di particolare riservatezza tali da giustificare l’oscuramento, né la società ha fornito ragioni valide.