responsabilità extracontrattuale

Responsabilità extracontrattuale: la guida La responsabilità extracontrattuale si configura quando un soggetto con dolo o colpa cagiona ad altri un danno ingiusto 

Cos’è la responsabilità extracontrattuale

La responsabilità extracontrattuale è uno dei pilastri del diritto civile, che sancisce l’obbligo di risarcire danni causati a terzi in assenza di un contratto preesistente. Questo principio si attiva quando un soggetto provoca un danno ingiusto attraverso un comportamento illecito.

Tipologie di responsabilità extracontrattuale

La responsabilità extracontrattuale si divide in tre principali categorie:

  • Responsabilità da fatto illecito: si basa sul comportamento diretto del soggetto. Per configurare questa responsabilità, devono essere presenti dolo (intenzione consapevole di arrecare danno) o colpa (negligenza, imprudenza o imperizia).
  • Responsabilità indiretta: in questo caso un soggetto risponde per il comportamento illecito di un’altra persona. I genitori, ad esempio, sono responsabili per i figli minorenni, i tutori per i tutelati e i datori di lavoro per i dipendenti. La legge impone questa responsabilità sulla base di rapporti di sorveglianza o dipendenza.
  • Responsabilità oggettiva: questa categoria invece è più stringente, poiché non richiede dolo o colpa. Conta solo la verificazione del danno. Tuttavia, è possibile liberarsi da questa responsabilità dimostrando di aver fatto il possibile per prevenire il danno o invocando cause di esonero, come il caso fortuito o la forza maggiore. Esempi di responsabilità oggettiva includono danni derivanti da attività pericolose, animali o beni in custodia.

Responsabilità extracontrattuale: elementi costitutivi

L’articolo 2043 del Codice Civile stabilisce che un comportamento doloso o colposo che provoca un danno ingiusto obbliga il responsabile al risarcimento. Per configurare questa responsabilità, devono concorrere alcuni elementi.

  • Un fatto imputabile: può trattarsi di un’azione o un’omissione attribuibile a un soggetto specifico.
  • Dolo o colpa: il comportamento deve essere intenzionalmente lesivo (dolo) o negligente (colpa).
  • Danno ingiusto: il danno deve violare diritti protetti dalla legge.
  • Nesso di causalità: deve esserci un collegamento diretto tra il comportamento illecito e il danno subito.

Il danno ingiusto

Il danno è considerato ingiusto quando lede diritti riconosciuti dall’ordinamento. Non tutti i danni subiti però sono risarcibili. L’esercizio di un diritto, ad esempio, non è fonte di responsabilità. Se un nuovo imprenditore apre un’attività economica vicino a una dello stesso tipo e già esistente, causando una riduzione della clientela, il danno economico subito dal primo esercizio non è risarcibile. L’apertura di un’attività commerciale infatti è un legittimo esercizio del diritto d’impresa.

Dolo e colpa nella responsabilità extracontrattuale

Il dolo implica la volontà consapevole di arrecare un danno. La colpa si configura invece quando il danno deriva da imprudenza, negligenza o imperizia.

Il nesso di causalità

Il nesso di causalità è il collegamento tra il comportamento illecito e il danno subito. Esso deve essere diretto e immediato. In alcuni casi complessi, la valutazione del nesso di causalità richiede una ricostruzione accurata degli eventi per stabilire se il danno è una conseguenza inevitabile del comportamento imputato.

Differenza con la responsabilità contrattuale

A differenza della responsabilità contrattuale, basata su un accordo tra le parti, la responsabilità extracontrattuale nasce direttamente dalla legge. Gli articoli 2043 e seguenti del Codice Civile italiano stabiliscono che chiunque provochi ingiustamente un danno ad altri, mediante dolo o colpa, è tenuto a risarcirlo. Questo tipo di responsabilità si configura anche quando un comportamento rappresenta sia una violazione contrattuale che un fatto illecito, come nel caso del medico che agisce con negligenza nei confronti di un paziente.

 

Leggi anche: Responsabilità contrattuale: la guida

rateizzazione dei debiti

Rateizzazione dei debiti contributivi: ancora in stand-by L'Inps chiarisce con messaggio che non è ancora possibile la rateizzazione dei debiti contributi fino a 60 rate in quanto mancano i decreti attuativi

Rateizzazione dei debiti contributivi Collegato Lavoro

Rateizzazione dei debiti contributivi ancora in stand-by. Lo chiarisce l’Inps con il messaggio n. 471/2025 (indirizzato alle sedi territoriali), chiarendo che la possibilità concessa dal Collegato Lavoro, per Inps e Inail di dilazionare i debiti contributivi fino a 60 rate mensili a partire dal 1° gennaio 2025 non è ancora operativa.
Tale facoltà è stata demandata, infatti, ad appositi decreti attuativi, con modalità disciplinate da specifici atti dei consigli d’amministrazione dei due istituti. Atti che ad oggi non sono stati ancora emanati.
Per cui, chiarisce l’Inps, finché questi atti non verranno adottati, le richieste dei contribuenti volte ad ottenere un numero di rate superiore a 24 non potranno essere accolte. E continueranno ad essere definite nel rispetto delle norme attualmente vigenti.
il sequestro preventivo

Il sequestro preventivo Il sequestro preventivo nel codice di procedura penale: disciplina, revoca e differenze con il sequestro conservativo

Cos’è il sequestro preventivo e come funziona

Il sequestro preventivo è una misura cautelare reale disciplinata dagli articoli 321-323 del codice di procedura penale. La sua funzione principale è impedire che la disponibilità di un bene possa aggravare o protrarre le conseguenze di un reato, oppure agevolare la commissione di altri reati.

Secondo l’art. 321 c.p.p., il sequestro preventivo può essere disposto dal giudice, su richiesta del pubblico ministero, quando vi è il fondato timore che il bene oggetto del provvedimento possa essere utilizzato per fini illeciti. Il provvedimento deve essere motivato e indicare con precisione le ragioni che giustificano la misura.

La revoca del sequestro

Il sequestro preventivo può essere revocato o modificato quando vengono meno i presupposti che ne hanno giustificato l’adozione. L’art. 324 c.p.p. stabilisce che la revoca può essere richiesta dalla parte interessata in qualsiasi momento, presentando apposita istanza al giudice che ha emesso il provvedimento. Il giudice può decidere di revocare o modificare la misura se ritiene che non sussistano più le condizioni di pericolo per la commissione di reati o per la conservazione dello stato di fatto che ha giustificato il sequestro.

La conversione del sequestro preventivo

In alcuni casi, il sequestro preventivo può essere convertito in altre misure. Ad esempio, se il bene sequestrato è un immobile utilizzato per attività illecite, il giudice può disporre il suo affidamento a un amministratore giudiziario affinché ne garantisca un uso lecito.

Un altro caso di conversione si verifica quando il sequestro viene tramutato in confisca in caso di condanna definitiva, come previsto dall’art. 240-bis c.p. in materia di confisca allargata per reati di particolare gravità.

I mezzi di impugnazione

Contro il decreto di sequestro preventivo sono ammessi diversi mezzi di impugnazione:

  • Riesame (art. 324 c.p.p.): può essere richiesto dalla persona interessata entro 10 giorni dall’esecuzione del provvedimento. Il Tribunale del riesame può confermare, revocare o modificare il sequestro.
  • Ricorso per cassazione (art. 325 c.p.p.): può essere proposto per violazione di legge contro l’ordinanza del Tribunale del riesame.

Differenze tra sequestro preventivo e conservativo

Il sequestro preventivo non deve essere confuso con il sequestro conservativo, previsto dall’art. 316 c.p.p. Quest’ultimo ha una finalità patrimoniale ed è diretto a garantire l’eventuale risarcimento del danno o il pagamento di sanzioni pecuniarie derivanti dal reato.

Le principali differenze tra i due istituti sono:

  • Finalità: il sequestro preventivo mira a impedire la prosecuzione o l’aggravamento del reato, mentre il sequestro conservativo tutela il credito dello Stato o della parte civile.
  • Presupposti: si basa sul pericolo di reiterazione del reato o di aggravamento delle sue conseguenze; il sequestro conservativo, invece, richiede il rischio che l’imputato possa sottrarre i propri beni al soddisfacimento delle obbligazioni risarcitorie.
  • Effetti: è una misura cautelare reale, mentre il sequestro conservativo è una misura a tutela di un credito.

Annullabile l’assemblea di condominio convocata via WhatsApp Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere ritiene che le comunicazioni in modalità diverse da quelle previste dalla legge debbano essere previamente concordate

Assemblea condominiale convocata via chat

Annullabile l’assemblea di condominio convocata via WhatsApp. Non rispetta infatti le modalità di convocazione previste dalla legge (cfr. art. 66 disp. att. del codice civile). E sebbene parte della giurisprudenza ritenga sia possibile che le comunicazioni possano avvenire in modi diversi, tali modalità devono essere state previamente concordate. Questo è quanto si ricava dalla sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. 269/2025.

La vicenda

Nella vicenda, un condomino impugnava la delibera assembleare convocata, a suo dire, da soggetto non legittimato, poichè non preceduta da rituale convocazione.

Dal verbale, infatti, si evinceva che la convocazione era avvenuta tramite bacheche apposte nelle scale degli edifici e sul gruppo WhatsApp del condominio, per cui con modalità non rispettose di quanto prescritto dall’art. 66 disp. att. c.c.

L’art. 66 disp. att. c.c.

Il giudice gli dà ragione. La suddetta disposizione civilistica prescrive, infatti, ricorda il giudicante che “la convocazione deve avvenire almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o consegna a mano”.

Nel caso di specie, invece, alcuna prova è stata fornita circa la convocazione con le modalità indicate ed anzi, dalla stessa delibera impugnata si ricava che a tutti i condomini la convocazione non è avvenuta con le modalità prescritte dalla legge.

Convocazione assemblea in modalità diverse

Tra l’altro, aggiunge il tribunale, “la convocazione via WhatsApp, oltre a non essere consentita dalla legge, non garantisce la certezza della ricezione, come condivisibilmente rilevato dalla giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Avellino n. 1705/2024)”.

Sebbene, poi, come rilevato da altra giurisprudenza di merito, prosegue il giudice, “è possibile che le comunicazioni possano avvenire in modi diversi da quelli previsti dalla legge purché tali modalità siano state concordate inequivocabilmente dai condomini o perché richieste direttamente dagli stessi o in quanto siano state formalizzate in regolamenti condominiali approvati (Tribunale Padova 1238 del 2023), nel caso di specie alcuna prova è stata fornita dal resistente, rimasto contumace, circa accordi tra i condomini relativi a modalità di convocazione diverse da quelle prescritte dalla legge”.

La decisione

Sul punto, inoltre, va considerato che in altre delibere condominiali prodotte in atti, la convocazione è avvenuta via bacheca e via chat per gli altri condomini e via mail per il ricorrente. E ciò fa presumere, ragiona il tribunale, “che in ogni caso l’odierno ricorrente non aveva consentito alla convocazione via WhatsApp”.

Da qui l’accoglimento della proposta e il conseguente annullamento della delibera impugnata.

 

Leggi gli altri articoli in materia di condominio

autonomia differenziata

Autonomia differenziata: referendum inammissibile La Corte Costituzionale ha depositato la sentenza di inammissibilità sul referendum abrogativo della legge sull'autonomia differenziata

Inammissibile referendum autonomia differenziata

La Corte costituzionale si è pronunciata sull’ammissibilità del referendum abrogativo della “Legge 26 giugno 2024, n. 86”, relativo all’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. La richiesta riguardava l’abrogazione totale delle disposizioni previste dalla legge.

La decisione della Corte costituzionale

In camera di consiglio, la Corte ha stabilito l’inammissibilità del quesito referendario. L’Ufficio comunicazione e stampa aveva reso noto di recente che tale giudizio è stato emesso in relazione alla legge n. 86 del 2024, già oggetto della sentenza n. 192 dello stesso anno.

Ora, con la sentenza n. 10/2025, la Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni di inammissibilità della richiesta di referendum per l’abrogazione della legge numero 86 del 2024, contenente disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni ordinarie ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

Motivi dell’inammissibilità

La Corte ha osservato che la sentenza n. 192/2024 ha profondamente inciso sull’architettura essenziale della predetta legge, dichiarando l’illegittimità costituzionale di molteplici disposizioni della stessa legge e l’illegittimità consequenziale di altre disposizioni, fornendo anche l’interpretazione costituzionalmente orientata di ulteriori disposizioni.

In particolare, la Consulta ha sottolineato che la sentenza in parola ha comportato “il trasversale ridimensionamento dell’oggetto dei possibili trasferimenti alle regioni (solo specifiche funzioni e non già materie), nonché la paralisi dell’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti diritti civili o sociali”.

Ne discende che attualmente non c’è modo di determinare i LEP.

Quesito “oscuro”

La conseguenza è che risulta obiettivamente oscuro l’oggetto del quesito, che originariamente riguardava la legge numero 86 e ora riguarda quel che resta della stessa legge a seguito delle numerose e complesse modifiche apportate dalla sentenza numero 192.

“Ciò pregiudica – per il giudice delle leggi – la possibilità di una scelta libera e consapevole da parte dell’elettore, che la Costituzione garantisce.

Il quesito è inoltre “privo di chiarezza quanto alla sua finalità. La rilevata oscurità dell’oggetto del quesito porta con sé un’insuperabile incertezza sulla stessa finalità obiettiva del referendum. Con il rischio che esso si risolva in altro: nel far esercitare un’opzione popolare non già su una legge ordinaria modificata da una sentenza di questa Corte, ma a favore o contro il regionalismo differenziato”.

La consultazione referendaria – ha concluso la Corte – “verrebbe ad avere una portata che trascende quel che i Costituenti ritennero fondamentale, cioè l’uso corretto – e ragionevole – di questo importante strumento di democrazia. Se si ammettesse la richiesta in esame, si avrebbe una radicale polarizzazione identitaria sull’autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo di revisione costituzionale”.

Leggi anche:

sanzionato il praticante avvocato

Sanzionato il praticante avvocato che “abbrevia” Configura illecito deontologico il praticante avvocato che omette di indicare per esteso il titolo nella propria carta intestata

Attività professionale senza titolo

Sanzionato il praticante avvocato che omette il titolo. Lo stesso infatti va inserito per esteso onde evitare nei terzi il convincimento che si tratti di professionista abilitato. E’ quanto emerge dalla decisione n. 1/2024 del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Napoli, pubblicata il 4 febbraio 2025 sul sito del Codice deontologico Forense, che ha sanzionato un praticante avvocato per non aver utilizzato nella propria carta intestata il titolo per esteso inserendo soltanto la dicitura “Studio legale”.

Illecito di cui all’art. 36 comma 1 Cdf

Per il Cdd, dunque, “configura l’illecito di cui all’art. 36 comma I CdF (uso di titolo professionale non conseguito ovvero svolgimento di attività in mancanza di titolo) la condotta del praticante avvocato che utilizza nella propria carta intestata la dicitura ‘Studio Legale’ omettendo di indicare per esteso il titolo di ‘praticante avvocato’ dal momento che tale indicazione è idonea ad ingenerare nei terzi il convincimento di potersi riferire ad un soggetto abilitato ad esercitare la professione forense, così inducendo in errore il cliente sui titoli del professionista”.

Obbligo di diligenza

“Né le indicazioni errate od omissive riportate dalla carta intestata utilizzata dal professionista possono ricondursi a incolpevoli distrazioni, in quanto – ha concluso il CDD confermando la sanzione – l’obbligo di diligenza cui è sottoposto il praticante avvocato impone a quest’ultimo di controllare diligentemente la propria carta intestata prima di farne un uso rivolto al pubblico”.

 

Leggi gli altri articoli in materia di professioni

naspi

Naspi: l’Inps si attiene ai principi della Corte Costituzionale L'istituto verificherà l'eventuale sussistenza di cause sopravvenute prima di procedere al recupero integrale della Naspi

Naspi, la sentenza della Corte Costituzionale

Naspi: la Consulta, con la sentenza n. 90/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, c. 4, del decreto legislativo 22/2015, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione della Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguireper causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione era stata erogata.

Restituzione integrale della Naspi

Nello specifico, la pronuncia della Suprema Corte si riferisce all’obbligo di restituzione integrale della NASpI in forma anticipata, da parte del lavoratore, nel caso in cui il medesimo, dopo avere intrapreso e svolto l’attività imprenditoriale:

  • non possa proseguirla per cause sopravvenute e imprevedibili a lui non imputabili;
  • costituisca un rapporto di lavoro subordinato, prima della scadenza del periodo teorico per cui è riconosciuta la NASpI.

Motivi di forza maggiore

A tale riguardo la Corte ha rilevato, ai fini della dichiarata illegittimità, la circostanza che l’attività di impresa si sia interrotta per motivi di forza maggiore, che hanno determinato un’impossibilità oggettiva che rende insuperabile la difficoltà della prosecuzione dell’attività.

Tali motivi non sono imputabili alla volontà del beneficiario e alle sue scelte organizzativo-gestionali.

La circolare Inps

L’Istituto, con la circolare 4 febbraio 2025, n. 36, alla luce della sentenza, chiarisce che provvederà a verificare l’eventuale sussistenza di cause sopravvenute e imprevedibili non imputabili all’interessato, che hanno comportato l’impossibilità a proseguire nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo o di impresa, prima di procedere alla notifica del provvedimento di indebito dell’importo integrale corrisposto.

Violenza di genere e violazione del divieto di avvicinamento Violenza di genere: la Cassazione ritiene violato il divieto di avvicinamento anche se è la vittima a recarsi a casa dell'imputato

Violazione del divieto di avvicinamento

La sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4936/2025, ha fornito un’importante interpretazione in materia di violenza di genere e rispetto delle misure cautelari. In particolare, la pronuncia chiarisce che l’indagato, sottoposto al divieto di avvicinamento alla vittima, viola tale disposizione anche se è la stessa vittima a recarsi presso la sua abitazione. Secondo la Suprema Corte, l’uomo avrebbe dovuto lasciare la propria casa o allertare le forze dell’ordine per evitare la violazione della misura cautelare.

La vicenda

Il caso riguarda un uomo sottoposto al divieto di avvicinamento alla sua ex compagna che vedeva annullata dal tribunale di Firenze l’ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 387-bis c.p. Nonostante la misura cautelare, infatti, la donna si era recata presso l’abitazione dell’indagato. Ma secondo i giudici non si poteva esigere dall’indagato la condotta di allontanamento dalla propria abitazione nè tantomeno era ravvisabile l’obbligo di allertare le forze dell’ordine.

il PM ricorreva innanzi al Palazzaccio sostenendo che sebbene l’uomo non avesse cercato l’incontro con la donna, aveva comunque violato la prescrizione impostagli nel permetterle di intrattenersi nella sua abitazione, omettendo di adottare comportamenti, scarsamente onerosi e quindi esigibili, come quello di richiedere l’intervento delle Forze del’Ordine.

La posizione della Cassazione

La Cassazione, dopo aver compiuto un lungo excursus sul quadro normativo in materia, ha dato ragione al pubblico ministero.

Nel caso specifico, se non era esigibile la condotta di lasciare la propria abitazione, era, nondimeno, esigibile lo ius excludendi, affermano i giudici: l’uomo ha consentito alla ex di entrare nella sua abitazione ospitandola per l’intera giornata o addirittura verosimilmente per alcuni giorni. Per cui, il ricorrente, “ha – scientemente e volutamente – stabilito un contatto diretto e ravvicinato con al giovane donna, cooperando nella violazione ab initio effettivamente riferibile alla persona offesa e approfittando della situazione venutasi a creare”.
In un contesto caratterizzato da una relazione personale nettamente
“squilibrata”, anche per lo stato di conclamata vulnerabilità della donna, scrivono da piazza Cavour, “la preoccupazione principale deve essere quella di garantire la incolumità anche contro la volontà della stessa persona offesa: la volontà della vittima non può, dunque, avere efficacia scriminante e/o esimente nè portata liberatoria dagli obblighi, «…occorrendo sempre effettuare una corretta valutazione e gestione dei rischi di letalità, di gravità della situazione, di reiterazione dei comportamenti violenti in un’ottica di prioritaria sicurezza della vittima » (cfr. Sez. 6, n.46797 del 18/10/2023)”. Per cui, essendo grave il quadro indiziario sotto il profilo della dolosa violazione del contenuto precettivo della misura cautelare, la S.C. annulla l’ordinanza passando la parola al giudice del rinvio.

Allegati

mandato d'arresto europeo

Mandato d’arresto europeo (MAE) Cos’è il mandato d’arresto europeo, quando si usa, qual è la procedura e quali sono i possibili motivi di rifiuto del MAE 

Cos’è il mandato d’arresto europeo

Il mandato darresto europeo (MAE) è uno strumento giuridico creato per facilitare la cooperazione tra gli Stati membri dell’Unione Europea in materia penale. Introdotto con la decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio UE, esso mira a garantire un meccanismo rapido e semplificato per la consegna di persone accusate o condannate di reati. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta, come funziona e in quali casi è possibile rifiutare l’esecuzione del MAE.

Quando può essere utilizzato il MAE

Il mandato d’arresto europeo è un provvedimento giudiziario emesso da uno Stato membro dell’Unione Europea per richiedere l’arresto e la consegna di una persona che si trovi in un altro Stato membro. Può essere utilizzato sia per procedere nei confronti di un indagato in fase di accertamento del reato sia per eseguire una sentenza di condanna definitiva.

Il MAE ha sostituito i tradizionali strumenti di estradizione all’interno dell’Unione, eliminando ostacoli burocratici e abbreviando i tempi necessari per la consegna del soggetto ricercato. Il principio fondamentale su cui si basa è quello del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie tra gli Stati membri, che garantisce una maggiore efficienza nella lotta contro il crimine transfrontaliero.

Qual è la procedura per il mandato d’arresto europeo?

La procedura del mandato d’arresto europeo è articolata in diverse fasi, tutte disciplinate da norme comuni che si applicano in ogni Stato membro. Ecco i principali passaggi:

  1. Emissione del MAE: il mandato è emesso dall’autorità giudiziaria competente dello Stato richiedente, che lo trasmette tramite il Sistema Informativo Schengen (SIS) o altri canali come l’Interpol o la Rete Giudiziaria Europea.
  2. Arresto e notifica: una volta individuata la persona ricercata, le autorità dello Stato di esecuzione procedono all’arresto e notificano il MAE all’
  3. Convalida dellarresto e audizione: la persona arrestata viene presentata a un giudice nello Stato di esecuzione, il quale verifica i requisiti formali del MAE e garantisce che i diritti fondamentali della persona siano rispettati.
  4. Decisione sullesecuzione: il giudice dello Stato di esecuzione decide se accogliere o rifiutare il mandato d’arresto, considerando le condizioni previste dalla normativa UE e dal diritto nazionale.
  5. Consegna: se il MAE viene accettato, la persona è consegnata alle autorità dello Stato richiedente entro un termine massimo di 60 giorni dall’ In caso di ricorso, il termine può estendersi a 90 giorni.

Quando si può rifiutare il mandato d’arresto europeo

Nonostante la natura vincolante del MAE, ci sono situazioni in cui lo Stato di esecuzione può o deve rifiutare l’esecuzione del mandato. I principali motivi di rifiuto possono essere quindi obbligatori e facoltativi.

Motivi obbligatori

  • La persona è già stata giudicata in via definitiva per lo stesso reato in uno Stato membro (principio del ne bis in idem).
  • Il reato oggetto del MAE non è punibile nello Stato di esecuzione per amnistia.
  • Il soggetto è minorenne e, secondo la legislazione dello Stato di esecuzione, non può essere considerato penalmente responsabile.

Motivi facoltativi

  • Nel paese di esecuzione il fatto che è alla base del mandato di arresto non è reato
  • Azione penale in corso nel paese di esecuzione
  • Azione penale o pena prescritte.
  • Sentenza definitiva di uno Stato terzo.

Il MAE può essere rifiutato anche se esistono fondati motivi per ritenere che la persona rischi trattamenti inumani o degradanti nello Stato richiedente, come previsto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

MAE: il manuale dell’Unione Europea

La Commissione europea ha reso disponibile un Manuale sull’emissione e l’esecuzione del mandato d’arresto europeo, concepito per agevolare e rendere più efficienti le attività quotidiane delle autorità giudiziarie coinvolte. Questo strumento fornisce indicazioni pratiche e dettagliate sulle varie fasi procedurali legate all’emissione e all’esecuzione del MAE. Inoltre, il manuale include un’ampia analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, offrendo chiarimenti su specifiche disposizioni contenute nella decisione quadro relativa al MAE.

 

Leggi anche gli altri interessanti articoli di diritto penale

interruzione trattative stragiudiziali

Interruzione trattative stragiudiziali: l’avvocato deve comunicarla Interruzione trattative stragiudiziali: viola l’articolo 46 comma 7 l’avvocato che non la comunica al collega di controparte

Avvocato non comunica l’interruzione delle trattative

E’ responsabile sotto il profilo disciplinare l’avvocato che non comunica al collega della controparte l’interruzione delle trattative stragiudiziali. Dalla sentenza del CNF n. 291/2024 risulta infatti che l’avvocato non ha informato il collega avverso del deposito di un ricorso per la regolamentazione del diritto di visita e la determinazione dell’assegno di mantenimento per un minore.

Interruzione trattative stragiudiziali non comunicata

Il procedimento disciplinare trae origine dall’esposto di un Avvocato. L’esponente ha lamentato di non essere stato informato dal collega difensore della parte avversa del deposito di un ricorso giudiziale, in pendenza di trattative stragiudiziali. Nel novembre 2017 si è tenuto un incontro tra le parti e i loro legali presso lo studio del collega incolpato, nel corso del quale quest’ultimo ha omesso di comunicare il deposito del ricorso. A distanza di due settimane circa l’avvocato ha inviato una comunicazione alla controparte senza menzionare ancora una volta il deposito del ricorso. Solamente a inizio dicembre 2017 ha informato il collega della volontà del proprio assistito di procedere con la notifica del ricorso.

L’Avvocato denunciato ha ammesso di aver depositato il ricorso il 3 novembre 2017. Lo stesso sostiene però di averlo comunicato alla controparte durante il primo incontro di novembre. Nelle sue difese ha evidenziato anche che con una comunicazione di fine ottobre 2017 aveva avvisato che, in assenza di un incontro entro la settimana successiva, avrebbe proceduto con il deposito del ricorso.

Avvocato responsabile della violazione dell’art. 46 CDF

Il CDD competente per territorio ha ritenuto l’Avvocato denunciato responsabile della violazione dell’art. 46, comma 7, del Codice Deontologico Forense. Lo stesso però ha considerato la condotta di ridotta gravità e ha applicato la sanzione dell’avvertimento. Il CDD ha motivato la propria decisione evidenziando che lo scambio di email tra i legali dimostrava l’esistenza di trattative stragiudiziali. Pertanto, il deposito del ricorso senza preventiva comunicazione rappresentava una violazione disciplinare.

L’Avvocato incolpato ha quindi impugnato la decisione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF), sostenendo che il CDD avrebbe erroneamente interpretato gli elementi probatori, non considerando la documentazione prodotta. La decisione sarebbe stata presa in modo acritico, senza valutare adeguatamente le circostanze del caso. La condotta contestata infine sarebbe stata meritevole solo di un richiamo verbale in presenza di una violazione.

Obbligo di comunicazione al collega

Per il CNF però i motivi di impugnazione sono infondati per cui ha confermato la decisione del CDD. Il Consiglio Nazionale Forense ha sottolineato che l’obbligo deontologico di comunicare l’interruzione delle trattative è finalizzato a garantire trasparenza e correttezza nei rapporti tra colleghi. L’Avvocato, partecipando all’incontro dei primi di novembre, ha implicitamente riconosciuto l’esistenza di trattative in corso, pertanto avrebbe dovuto informare la collega del deposito del ricorso. Il CNF ha evidenziato inoltre che la normativa deontologica in materia di diritto di famiglia impone un’attenzione particolare agli interessi del minore. L’Avvocato ha infatti il dovere di ridurre il conflitto tra le parti e favorire una soluzione condivisa. Importantissima la trasparenza nei rapporti tra colleghi nelle cause di diritto di famiglia.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati agli avvocati 

Allegati