somministrazione di lavoro

Somministrazione di lavoro: la guida Somministrazione di lavoro: cos’è, normativa, tipologie contrattuali, principali novità 2025, quando la somministrazione è irregolare

Cos’è la somministrazione di lavoro

La somministrazione di lavoro è una forma contrattuale regolata dal diritto del lavoro italiano che consente a un soggetto (agenzia per il lavoro) di assumere un lavoratore per poi “somministrarlo” a un’altra azienda. Questo modello è utilizzato per garantire flessibilità alle imprese e tutele ai lavoratori. La somministrazione di lavoro configura quindi un rapporto triangolare tra:

  • agenzia per il lavoro (somministratore), che assume il lavoratore;
  • lavoratore somministrato, assunto dall’agenzia;
  • impresa utilizzatrice, che ne utilizza le prestazioni lavorative.

L’impresa utilizzatrice non è il datore di lavoro in senso giuridico, ma esercita il potere direttivo e di controllo durante la prestazione.

Normativa di riferimento

Il contratto di somministrazione è regolato principalmente da:

  • Decreto legislativo  n. 81/2015, articoli 30-40;
  • Decreto legislativo n. 276/2003, per alcuni profili ancora vigenti;
  • Direttiva 2008/104/CE sul lavoro tramite agenzia interinale.

Le agenzie autorizzate devono essere iscritte nell’apposito albo dell’ANPAL e possono operare solo se accreditate.

Tipologie di contratto di somministrazione

Il contratto di somministrazione può essere:

1. A tempo determinato

È la forma più diffusa e ha una durata massima di 24 mesi presso lo stesso utilizzatore.

2. A tempo indeterminato (staff leasing)

Il lavoratore è assunto a tempo indeterminato dall’agenzia e messo a disposizione dell’utilizzatore per periodi anche lunghi, superiori ai 24 mesi. Questa forma è ammessa solo nei casi espressamente previsti dalla legge o dai contratti collettivi.

Somministrazione di lavoro: forma contratto

Il contratto di somministrazione deve essere:

  • stipulato per iscritto a pena di nullità;
  • deve contenere elementi essenziali come: identità delle parti, la durata, l’attività richiesta, la sede di lavoro, il livello contrattuale.

Anche il contratto di lavoro tra agenzia e lavoratore deve essere scritto e deve contenere:

  • le condizioni economiche e normative del rapporto di lavoro;
  • la previsione del diritto alla parità di trattamento del lavoratore in somministrazione rispetto agli altri dipendenti;
  • eventuali benefit (es. buoni pasto, premi aziendali).

Parità di trattamento e tutele del lavoratore

Il lavoratore in somministrazione, proprio in virtù del diritto alla parità di trattamnento, ha diritto alle medesime condizioni economiche e normative previste per i dipendenti diretti dell’impresa utilizzatrice (inclusi ferie, malattia, permessi, sicurezza sul lavoro, accesso alla mensa, ecc.).

Ha inoltre diritto alla:

  • formazione professionale da parte dell’agenzia;
  • indennità mensile di disponibilità (se a tempo indeterminato e non assegnato a missione);
  • copertura assicurativa INAIL e previdenziale INPS.

Somministrazione di lavoro: novità 2025 

Nel 2025 sono state apportate modifiche significative al contratto di somministrazione di lavoro ad opera del Decreto Lavoro 2024 (attuativo del PNRR), in particolare:

  • l’utilizzo di lavoratori somministrati a tempo indeterminato è contingentato: non possono superare il 20% dei dipendenti a tempo indeterminato dell’azienda utilizzatrice. Tuttavia, questa limitazione non si applica a categorie specifiche come i lavoratori in mobilità, i disoccupati da almeno sei mesi con sostegno al reddito e i lavoratori svantaggiati;
  • è stata eliminata la possibilità di impiegare lo stesso lavoratore somministrato a tempo determinato per periodi superiori a 24 mesi senza l’effetto di l’instaurare un contratto a tempo indeterminato con l’azienda utilizzatrice;
  • per i contratti a tempo determinato, inclusi quelli in somministrazione, è previsto un limite numerico complessivo: non possono eccedere il 30% dei lavoratori a tempo indeterminato dell’utilizzatore. Anche in questo caso, sono esenti da tale limite i lavoratori somministrati a tempo indeterminato, i disoccupati di lunga durata con ammortizzatori sociali e i lavoratori svantaggiati.

A partire dal 1° luglio 2025, inoltre, conclusa la fase transitoria, non è più possibile stipulare contratti di somministrazione di durata superiore ai 24 mesi. In caso contrario, si costituisce un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Somministrazione irregolare 

Se il contratto di somministrazione viene stipulato senza rispettare le condizioni previste dagli artt. 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), del decreto legislativo n. 81/2021, la somministrazione risulta irregolare (art. 38 d.lgs. 81/2015). In questo caso, il lavoratore può chiedere la constitutio ex tunc del rapporto con l’utilizzatore, con assunzione diretta.

Leggi anche: Collegato Lavoro: cosa prevede

bonus giovani under 35

Bonus giovani under 35: come ottenerlo Bonus giovani under 35: in cosa consiste l'esonero contributo previsto dal decreto Coesione e come presentare domanda

Bonus giovani under 35

Bonus giovani under 35: dal 1° settembre 2024 al 31 dicembre 2025 i datori di lavoro privati possono usufruire di un incentivo contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani che non abbiano mai avuto un contratto stabile. Lo ha previsto il decreto-legge n. 60/2024 (decreto Coesione) e le modalità operative sono state dettagliate nella circolare INPS n. 90 del 12 maggio 2025.

A partire dal 16 maggio 2025, è attivo il modulo telematico per richiedere l’agevolazione sul Portale delle Agevolazioni INPS (ex DiResCo), modificato dall’istituto a partire dal 18 giugno 2025 in conformità alle indicazioni del ministero del Lavoro.

A chi spetta il Bonus giovani 2025

L’incentivo, si ricorda, è rivolto a tutti i datori di lavoro privati (esclusi gli enti pubblici) che assumano, o trasformino un contratto da determinato a indeterminato, giovani che:

  • non abbiano ancora compiuto 35 anni alla data di assunzione;

  • non siano mai stati occupati con contratto a tempo indeterminato, in Italia o all’estero.

Quali sono i vantaggi per le imprese?

Il beneficio consiste in un esonero del 100% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per un periodo massimo di 24 mesi, con un tetto mensile di 500 euro per lavoratore.

Per i datori di lavoro con sede in una delle regioni della Zona Economica Speciale (ZES) Unica per il Mezzogiorno – ovvero Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna – il limite dell’incentivo mensile sale a 650 euro per ciascun lavoratore assunto.

Requisito dell’incremento netto dell’occupazione

A seguito della pubblicazione da parte del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, del decreto interministeriale 11 aprile 2025, che ha definito i criteri e le modalità attuative del Bonus giovani, sono state fornite nuove indicazioni ai fini della legittima fruizione dell’esonero contributivo.

Come richiesto, nello specifico, dalla Commissione europea, la fruizione del bonus, per le assunzioni/trasformazioni effettuate a decorrere dal 1° luglio 2025, è subordinata, come condizione di ammissibilità, al rispetto del requisito dell’incremento netto dell’occupazione.

Pertanto, l’INPS, con il messaggio n. 1935 del 18 giugno 2025, ha comunicato di aver aggiornato sia le procedure attuative che il modulo di domanda in aderenza alle indicazioni fornite.

Chi sono i lavoratori esclusi?

Non rientrano nell’ambito del Bonus:

  • i dirigenti;

  • i lavoratori domestici;

  • i rapporti di lavoro instaurati con contratto di apprendistato.

Come presentare la domanda

Per accedere all’incentivo, è necessario:

  1. accedere al Portale delle Agevolazioni INPS (ex DiResCo);

  2. compilare e inviare l’apposito modulo online disponibile dal 16 maggio 2025;

  3. seguire le istruzioni operative contenute nella circolare INPS n. 90/2025.

 

Leggi anche Decreto coesione: bonus under 35 e donne

italgiure

Italgiure: guida al servizio della Cassazione Italgiure: il servizio della Corte di Cassazione che consente l'accesso alla banca dati di norme e giurisprudenza curata dal CED

Cos’è Italgiure

Italgiure è il motore di ricerca della Corte di Cassazione presente alla pagina dedicata, alla quale si può accedere anche dal sito ufficiale della Suprema Corte. Lo sviluppo di questa banca dati è affidata al CED, Centro elettronico di documentazione

Cosa si può consultare su Italgiure

Accendendo all servizio è possibile consultare un vasto archivio normativo, che include la legislazione statale, regionale e comunitaria, i Codici e i regolamenti e le circolari ministeriali.

Il servizio offre anche l’accesso alla dottrina tramite la consultazione di riviste, monografie e sentenze.

L’area dedicata alla consultazione della giurisprudenza è molto vasta. Essa consente infatti di consultare non solo le pronunce della Cassazione, ma anche quelle della Corte Costituzionale, dei Tribunali delle Acque Pubbliche, le sentenze di merito civili e penali, le massime dei TAR, del Consiglio di Stato e le sentenze della Corte UE, della Corte dei Conti, delle Commissioni Tributarie e, in materia disciplinare, le pronunce del CSM a Sezioni Unite.

Chi può accedere a Italgiure

Cliccando sul link “Amministrazioni abilitate” presente nel menu in basso della homepage si accede all’elenco dei soggetti che possono accedere al servizio in modalità gratuita o a pagamento.

Accesso gratuito

L’accesso gratuito è previsto per Giudici ordinari, amministrativi, contabili, militari, Avvocati e Procuratori dello Stato, Giudici costituzionali non togati, giudici tributari, giudici di pace, giudici onorari e alcune pubbliche amministrazioni, previa registrazione dei pubblici dipendenti.

Accesso a pagamento

Le pubbliche amministrazioni che non rientrano nell’elenco di quelle a cui è consentito l’accesso gratuito e i privati sono divisi in tre categorie. Per ogni categoria sono previsti costi diversi per accedere al servizio di ricerca normativa e giurisprudenziale.

Convenzioni speciali sono state stipulate infine con l’INPS e il Notariato.

Cliccando sulla voce di menu “Area abbonati” si accede invece a una pagina che fornisce diverse informazioni, tra cui i costi del servizio.

Corsi e manuale utente

Chi fosse interessato ad abbonarsi a Italgiure ha la possibilità di accedere a corsi di addestramento sull’utilizzo della banca dati, della durata di due giorni, che si svolgono presso la Corte di Cassazione.

I corsi, gratuiti per chi ha l’accesso gratuito alla banca dati, è a pagamento per le altre categorie. I costi variano da 120 a 240 euro in base al tipo di utente.

Cliccando sulla voce del menu “Manuale utente” si accede alla manualistica dedicata all’uso della banca dati, che al momento è in fase di aggiornamento, anche se il sito rende disponibile la versione del novembre 2018.   

Registrazione, password e email

Alcune categorie di utenti per accedere al servizio devono registrarsi cliccandosi sulla voce in basso “Registrazione”.

Questi utenti hanno la possibilità di procedere alla “Gestione password” e al “Cambio email”, cliccando direttamente su queste voci di menu.

Collegamento con il Ministero della Giustizia

In alto a destra è presente infine il logo del sito del Ministero della Giustizia. Cliccando su questa immagine è possibile accedere direttamente alla home page del sito(con le notizie più recenti in primo piano), da cui si accede ai vari servizi e strumenti del sito.

Leggi anche gli altri articoli dedicati alle professioni 

appalti pubblici

Appalti pubblici: no a costi e sicurezza solo per il primo concorrente La Corte costituzionale boccia la norma della Provincia di Bolzano che richiede i costi della manodopera e sicurezza solo al primo classificato nelle gare pubbliche

Appalti pubblici: la bocciatura della Consulta

Appalti pubblici: con la sentenza n. 80/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 22, comma 13, della legge provinciale di Bolzano n. 2 del 2024. La norma prevedeva che soltanto il primo concorrente in graduatoria fosse tenuto a indicare i costi della manodopera e della sicurezza nei contratti pubblici.

Violazione del codice dei contratti pubblici

La Corte ha evidenziato il contrasto con gli articoli 108, comma 9, e 110, comma 1, del d.lgs. n. 36/2023 (nuovo codice dei contratti pubblici), i quali impongono:

  • l’indicazione obbligatoria dei costi della manodopera e degli oneri di sicurezza da parte di tutti i concorrenti, a pena di esclusione;

  • la verifica delle offerte sospettate di anomalia da parte della stazione appaltante in base a questi costi.

La norma provinciale, limitando l’obbligo al solo primo classificato, vanifica gli strumenti di controllo e trasparenza previsti a tutela del lavoro e della concorrenza.

Tutela del lavoro e trasparenza nelle gare

L’obbligo dichiarativo previsto dal codice ha una finalità precisa: garantire la protezione dei lavoratori, responsabilizzare gli operatori economici e facilitare i controlli della stazione appaltante. La violazione di questo impianto normativo compromette tali obiettivi, aprendo la strada a offerte opache e potenzialmente dannose per i diritti dei lavoratori.

Norme di riforma economico-sociale prevalenti

Secondo la Corte, le disposizioni del codice dei contratti pubblici rientrano nella materia della tutela della concorrenza e costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale, con rilievo anche sovranazionale, in quanto attuative di obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

Pertanto, anche la Provincia autonoma di Bolzano, pur dotata di competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici di interesse provinciale, è tenuta a rispettarle in virtù dell’articolo 8 dello statuto speciale e del richiamo all’articolo 4.

ingresso illegale

Ingresso illegale: legittima la mancata depenalizzazione La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la mancata depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale. Nessuna violazione della delega legislativa

Reato di ingresso e soggiorno illegale

Con la sentenza n. 81/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Firenze in merito alla mancata depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. La questione era stata posta con riferimento all’articolo 76 della Costituzione e all’articolo 3 del decreto legislativo n. 8 del 2016.

Delega legislativa non violata

Secondo la Corte, l’omessa depenalizzazione rappresenta un’ipotesi di “delega in minus”, ovvero una parziale attuazione della delega conferita con la legge n. 67 del 2014. Non essendo stato alterato il disegno complessivo del legislatore delegante, non si configura alcuna violazione dell’articolo 76 della Costituzione.

Depenalizzazione ampia ma selettiva

La Consulta ha sottolineato che la legge di delegazione aveva previsto una depenalizzazione “cieca” e nominativa, rivolta a una vasta gamma di reati. L’omessa attuazione per una singola fattispecie – quella dell’ingresso e soggiorno illegale – non può considerarsi uno stravolgimento del progetto complessivo.

Conferma anche dalla Commissione giustizia

A rafforzare l’orientamento della Corte, la sentenza richiama il parere espresso a suo tempo dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati. Quest’ultima aveva osservato che la scelta del Governo costituiva un mancato esercizio della delega limitato a un singolo e autonomo punto, privo di incidenza sull’efficacia generale della riforma.

vizi dell'atto amministrativo

Vizi dell’atto amministrativo Vizi dell'atto amministrativo: requisiti dell'atto amministrativo, tipologie di vizi, annullamento, nullità, correzione e conseguenze

Vizi dell’atto amministrativo: cosa sono

Per comprendere in cosa consistono i vizi dell’atto amministrativo occorre premettere che questo è lo strumento principe mediante il quale la Pubblica Amministrazione esercita il proprio potere. Gli atti amministrativi si possono classificare in tre categorie principali: gli atti amministrativi in senso stretto, gli atti amministrativi normativi e i provvedimenti amministrativi.

Affinché l’atto amministrativo sia valido ed efficace, deve rispettare determinati requisiti previsti dalla legge. Quando questi requisiti mancano o sono compromessi, si parla di vizi dell’atto amministrativo.

I vizi compromettono la legittimità dell’atto e possono portare alla sua annullabilità o nullità, con conseguenze rilevanti per la pubblica amministrazione e per i cittadini destinatari. L’atto però può anche presentare vizi di merito, come vedremo.

La disciplina dei vizi dell’atto amministrativo rappresenta uno dei pilastri del diritto amministrativo. Essa garantisce che la pubblica amministrazione operi nel rispetto della legalità, della trasparenza e dell’efficienza, tutelando al contempo i diritti dei cittadini. Conoscere i diversi tipi di vizi e le relative conseguenze è essenziale per capire il funzionamento corretto del potere amministrativo e il ruolo del controllo giurisdizionale nell’ordinamento italiano.

I requisiti dell’atto amministrativo

Per comprendere a fondo i vizi dell’atto amministrativo, è necessario esaminare gli elementi costitutivi dell’atto amministrativo:

  • il soggetto: l’autorità, l’ente competente a emanare l’atto;
  • la forma: il modo con cui l’atto si presenta all’esterno, esso in alcuni casi deve rispettare la forma scritta, mentre in altri casi la forma è libera;
  • l’oggetto: corrisponde al contenuto dell’atto, che deve essere lecito, possibile e determinato;
  • la motivazione: ossia l’indicazione delle ragioni di fatto e di diritto per cui l’atto viene emanato;
  • le finalità o causa dell’atto, il quale deve perseguire sempre l’interesse pubblico, in quanto principio cardine dell’azione amministrativa;

La mancanza o l’errata configurazione di uno di questi elementi essenziali dell’atto amministrativo è causa di vizi dell’atto amministrativo

Tipologie di vizi  

I principali vizi dell’atto amministrativo sono classificabili in due categorie: i vizi di legittimità (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge previsti dall’art. 21 octies Legge n. 241/1990) e i vizi di merito.

Vizi di legittimità dell’atto amministrativo

1. Incompetenza: si ha incompetenza quando l’atto è adottato da un soggetto diverso da quello previsto dalla legge. L’incompetenza può essere:

  • assoluta: se l’atto è emanato da un’autorità priva di qualsiasi potere sull’oggetto;
  • relativa: se l’autorità appartiene alla stessa amministrazione, ma non è il soggetto specificamente competente (es. un dirigente invece del responsabile di settore).

L’incompetenza è generalmente causa di annullabilità, ma può portare alla nullità se è assoluta (es. un comune che emana un atto spettante allo Stato).

2. Violazione di legge: la violazione di legge si verifica quando l’atto è contrario a norme di legge, regolamenti o altre fonti normative. Questo vizio può riguardare:

  • la forma (es. mancanza della motivazione);
  • il procedimento (es. omessa partecipazione del privato);
  • il contenuto (es. provvedimento contrario a una norma imperativa).

La violazione di legge comporta l’annullabilità dell’atto amministrativo, salvo i casi più gravi.

3. Eccesso di potere: è un vizio tipico del diritto amministrativo e si ha quando l’atto, pur formalmente corretto, è illegittimo per un uso distorto del potere. Esso colpisce gli atti di natura discrezionale. Le forme più comuni di eccesso di potere sono:

  • lo sviamento di potere: quando l’amministrazione persegue un fine diverso da quello pubblico;
  • l’illogicità manifesta: se l’atto appare incoerente o irragionevole;
  • la contraddittorietà: quando l’atto è in contrasto con precedenti decisioni non motivate;
  • l’insufficienza di motivazione: l’atto presenta una motivazione vaga o assente;
  • il travisamento dei fatti: l’atto si basa su presupposti errati.

L’eccesso di potere determina l’annullabilità.

Vizi di merito dell’atto amministrativo 

L’atto amministrativo può presentare anche vizi di merito. In questo caso il vizio non è determinato dalla contrarietà a norme giuridiche, ma dal mancato rispetto del principio generale della buona amministrazione sancito dall’articolo 97 della Costituzione. L’attività della Pubblica amministrazione infatti deve essere esercitata avendo bene a mente la necessità di utilizzare i mezzi più idonei ed efficaci per il raggiungimento del fine. I vizi di merito possono quindi configurarsi quando non vengono rispettati i principi cardine dell’azione amministrativa come l’opportunità, l’eticità, l’economicità e l’equità.

La nullità dell’atto amministrativo

Secondo l’art. 21-septies della legge n. 241/1990, l’atto amministrativo è nullo (e quindi privo di effetti) nei seguenti casi:

  • mancanza di elementi essenziali;
  • difetto assoluto di attribuzione;
  • contenuto illecito (contrario all’ordinamento);
  • violazione o elusione di giudicato.

La nullità è rilevabile d’ufficio in ogni tempo, anche oltre i termini per l’impugnazione.

Annullamento dell’atto viziato

L’annullamento dell’atto viziato può essere:

  • giurisdizionale: se viene disposto dal giudice amministrativo su ricorso di un interessato;
  • d’ufficio: se esercitato dalla stessa amministrazione entro un termine ragionevole e nel rispetto dell’interesse pubblico (art. 21-nonies legge 241/1990).

Correzione dell’atto amministrativo viziato

Quando un atto amministrativo presenta un vizio di legittimità e risulta annullabile, la pubblica amministrazione può anche decidere di non ritrarlo, ma di “correggerlo” attraverso gli strumenti che la legge le mette a disposizione e che sono: la sanatoria, la convalida, la ratifica, la consolidazione e l’acquiescenza.

Conseguenze pratiche

I vizi dell’atto amministrativo incidono sull’affidamento del cittadino, sull’efficacia dell’azione pubblica e sulla legittimità dell’intervento amministrativo. È perciò fondamentale che la pubblica amministrazione:

  • rispetti le regole procedimentali;
  • fornisca motivazioni adeguatamente le proprie decisioni;
  • agisca con coerenza, imparzialità e razionalità.

L’ordinamento prevede meccanismi di controllo (interni e giurisdizionali) volti a tutelare i cittadini e garantire la legalità dell’azione amministrativa.

 

Leggi anche gli altri articoli che si occupano dell’atto amministrativo

giurista risponde

Mancato deposito sentenza entro il termine: quali conseguenze L'Adunanza plenaria sulla questione relativa all’individuazione delle conseguenze del mancato adempimento dell’onere di depositare la sentenza impugnata entro il termine di legge

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

L’art. 94, comma 1, del codice del processo amministrativo non dispone l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’impugnazione, nel caso di mancato deposito della sentenza impugnata (Cons. Stato, Ad. Plen., 27 marzo 2025, n. 4 e 5 – mancato deposito della sentenza)

Per un orientamento condiviso dalle ordinanze di rimessione, l’onere del deposito della copia della decisione impugnata entro il termine di trenta giorni dall’ultima notificazione dell’impugnazione sarebbe da intendersi a pena di decadenza, in quanto «funzionale a garantire esigenze di ordine pubblico processuale, indisponibili per le parti private, strumentali al regolare svolgimento del giudizio», rispetto alle quali l’adempimento in questione si configurerebbe come corollario dei «canoni di chiarezza, sinteticità, leale collaborazione, che non sono mere enunciazioni di principio o puri esercizi cartolari, ma il contenuto di puntuali doveri delle parti» (così da ultimo, ex multis, Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3154, 20 febbraio 2024, n. 1663 e 4 giugno 2024, n. 5000; Cons. giust. amm. per la Regione siciliana, 23 gennaio 2023, n. 86, e 22 settembre 2022, n. 956, Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2022, n. 4520).

Secondo l’indicato orientamento, rileverebbe a contrario il testo dell’art. 45, comma 4, del c.p.a., per il quale non si verifica alcuna decadenza, qualora il ricorrente non abbia depositato il provvedimento impugnato e la relativa documentazione, non sempre facile da reperire: l’ultima frase del comma 1 dell’art. 94 affermerebbe un principio opposto a quello sancito dal medesimo art. 45, comma 4.

A parere di tale prospettazione, rileverebbe anche l’introduzione di una espressa regola nel c.p.a., innovativa rispetto al diverso principio contenuto nell’art. 347, comma 2, del codice di procedura civile, in precedenza applicabile al processo amministrativo.

Non vi sarebbe pertanto alcuna lacuna nell’art. 94, sicché non vi sarebbero i presupposti per applicare l’art. 39, comma 1, del c.p.a., che, quale ‘disposizione di chiusura’, determina il ‘rinvio esterno’ alle disposizioni del codice di procedura civile (cfr., sui presupposti per l’operatività del ‘rinvio esterno’, Cons. Stato, Ad. Plen., 22 marzo 2024, n. 4; 27 aprile 2015, n. 5, e 10 dicembre 2014, n. 33).

Nel vigore del codice del processo amministrativo, si è affermato che il deposito di copia della sentenza impugnata – quando esso non sia contestuale al deposito dell’atto di impugnazione – debba esservi entro il «termine perentorio di trenta giorni dall’ultima notificazione del ricorso, dimezzato nel rito abbreviato» (Cons. Stato, sez. III, 14 giugno 2011, n. 3619 – onere deposito sentenza impugnata).

Tale orientamento è stato seguito anche dopo l’entrata in vigore delle disposizioni sul processo amministrativo telematico, poiché l’art. 94 del c.p.a. si dovrebbe considerare quale norma inderogabile, che imporrebbe doveri puntuali a tutela di interessi di ordine pubblico processuale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2023, n. 9958; Cons. giust. amm. per la Regione siciliana, n. 955, 956, 958, 959, 960, 962, 965/2022; Cons. Stato, sez. VI 3 giugno 2022, n. 4520, e 20 febbraio 2024, n. 1680).

Si è anche rimarcato come le riforme approvate nel periodo successivo alla digitalizzazione amministrativa, pur apportando numerose modifiche al codice del processo amministrativo (si pensi all’inserimento dei commi 1bis e 1ter nell’art. 25 o alle innovazioni relative all’art. 136 e a diverse norme di attuazione [in primis l’art. 5], per opera del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni in L. 25 ottobre 2016, n. 197), abbiano lasciato invariato l’art. 94.

Secondo tale indirizzo, l’onere di deposito della sentenza impugnata non sarebbe diventato un ‘adempimento superfluo’, malgrado i componenti del Consiglio di Stato possano accedere al fascicolo di primo grado, così come a quello del giudizio al loro esame, ove si consideri che va verificato se la sentenza impugnata sia stata notificata al soccombente, al fine di accertare se l’impugnazione sia tempestiva.

Si osserva al riguardo che la parte appellante, con il deposito della sentenza, non si limita a compiere un’attività materiale, ma pone in essere un’attività stricto sensu giuridica, perché, depositando la sentenza senza la documentazione attestante la sua notifica, assume implicitamente la responsabilità di dichiarare che essa non è stata notificata.

Inoltre, si aggiunge che il giudice che acquisisse d’ufficio la sentenza impugnata nel fascicolo di primo grado dovrebbe disporre anche una istruttoria per verificare, ai fini dello scrutinio della tempestività dell’impugnazione, se la sentenza sia stata, o meno, notificata, in contrasto con le regole sull’onere della prova nel processo amministrativo.

Si è, infine, messo in rilievo che l’onere di deposito della sentenza non si potrebbe considerare “sproporzionato o irragionevole” nemmeno alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, essendo richiesto solo il deposito della sentenza, entro un termine ragionevole decorrente dalla notifica dell’impugnazione (Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3154), tanto più che non occorre il deposito di una copia autentica della sentenza impugnata (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2024, n. 1384, e la già richiamata sent. 2773/2014).

In definitiva, l’art. 94 c.p.a., comma 1, andrebbe interpretato nel senso che l’impugnazione sarebbe inammissibile nel caso di mancato tempestivo deposito della sentenza impugnata, in coerenza con il dovere di cooperazione di cui all’art. 2, comma 2, del c.p.a., preordinato a consentire la ragionevole durata del processo.

Per un orientamento più recente, invece, l’onere del deposito della sentenza impugnata non sarebbe previsto a pena di inammissibilità dell’atto di impugnazione (Cons. Stato, sez. VI, 4542 e 4548/2024; sez. III, 8 marzo 2023, n. 2403).

Questo indirizzo interpretativo si basa sul dato testuale dell’art. 94, comma 1, del c.p.a., il quale prevede la sanzione della decadenza unicamente per il caso del mancato tempestivo deposito del ricorso, e non anche per quella del mancato tempestivo deposito della sentenza impugnata: le parole “a pena di decadenza” sono contenute nella frase che riguarda esclusivamente il deposito del ricorso e non vi è la espressa previsione sulla decadenza anche per il diverso caso di mancato deposito della sentenza impugnata.

Si è anche osservato che la sanzione della decadenza per mancato o tardivo deposito della sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza e con il diritto di azione e difesa di cui agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nonché all’art. 117, comma 1, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 47 della Carta di Nizza, in quanto rappresenterebbe una conseguenza sproporzionata ed eccessiva, anche perché in attuazione delle regole sul processo amministrativo telematico il giudice dell’impugnazione può reperire nel fascicolo d’ufficio la copia digitale della sentenza impugnata, così come può reperirla consultando il sito della Giustizia amministrativa (così Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4542).

Seguendo il medesimo percorso argomentativo, nel richiamare la giurisprudenza formatasi prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (per la quale solo nel caso di mancato deposito della sentenza impugnata nel corso del giudizio si poteva pronunciare l’improcedibilità dell’appello: Ad. Plen., 22 dicembre 1982, n. 20), si è affermato che: «Le esigenze di carattere processuale poste a fondamento della soluzione finora seguita dalla giurisprudenza prevalente possono essere efficacemente soddisfatte con la fissazione di un termine, come condizione di procedibilità del gravame, per la produzione in giudizio di copia della sentenza impugnata» (Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4548).

Per un orientamento ‘mediano’, l’impugnazione sarebbe inammissibile soltanto nel caso più grave in cui manchi l’effettiva volontà della parte di depositare la sentenza impugnata congiuntamente all’atto introduttivo (Cons. Stato, sez. IV, 4488/2020), sicché per i casi di “sviste” o di “inconvenienti informatici” il collegio potrebbe fissare un termine, come condizione di procedibilità del gravame, per la produzione in giudizio di copia della sentenza impugnata (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 maggio 2024, n. 4831, 4832, 4833 e 4834; 8 maggio 2024, n. 4130 e ord. 22 gennaio 2024, n. 683, in casi in cui la sentenza impugnata risultava indicata nel foliario depositato, unitamente all’atto di impugnazione).

Questa Adunanza ritiene di aderire all’orientamento secondo cui l’art. 94, comma 1, del c.p.a. va interpretato nel senso che la sanzione della decadenza, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione, non è riferibile al mancato (tempestivo) deposito della sentenza impugnata (onere deposito sentenza impugnata).

Rileva in primo luogo, l’argomento letterale (la cui importanza, ex art. 12 delle disposizioni generali, è stata sottolineata da questa Adunanza plenaria con le sent. 1/2025, §4.2, 7/2022, §5; 3/2017, §3.1; 3/2010, §18.1).

La disposizione in parola fissa un chiaro e diretto collegamento con la sanzione della decadenza unicamente per l’incombenza relativa al deposito del ricorso, e non anche per quelle dei depositi della sentenza impugnata e della prova delle eseguite notificazioni. Infatti, l’effetto preclusivo è confinato in un inciso (“[…] a pena di decadenza […]”) che il legislatore ha inserito, sul piano strutturale, nella parte del precetto riferita esclusivamente al deposito del ricorso. Il testo dell’articolo disgiunge, poi, le due proposizioni attraverso una virgola che crea una cesura tra l’adempimento principale (il deposito dell’atto di appello) e i due adempimenti accessori (i depositi della sentenza di primo grado e della prova delle eseguite notificazioni). La forza di tali elementi testuali è corroborata dalla considerazione logica per cui, se il legislatore avesse inteso riferire la rilevanza del termine di decadenza anche ai due adempimenti integrativi, esso avrebbe anticipato l’inserimento del sintagma in parola collocandolo dopo la parola “ricorso”, dando vita alla seguente formulazione: “Nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo il ricorso, unitamente ad una copia della sentenza impugnata […], deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’art. 45”.

Da tali argomenti si ricava che la decadenza è correlata expressis verbis al solo mancato rispetto del termine per il deposito dell’atto di impugnazione e che, quindi, l’estensione del medesimo effetto preclusivo agli altri incombenti, non prevista in modo univoco dalla lettera della legge, richiederebbe una interpretazione estensiva, volta a dilatare la portata del dato testuale. Tale metodo interpretativo è, tuttavia, ostacolato dal rilievo che le disposizioni che fissano oneri decadenziali e cause di inammissibilità, in quanto precetti a carattere eccezionale ex art. 14 delle preleggi, devono essere formulate in modo tassativo e, quindi, soggiacciono, per esigenze di certezza del diritto e in omaggio al canone di prevedibilità degli effetti applicativi, a un’interpretazione ancorata al dato strettamente linguistico (vedi Corte cost. 14 maggio 2021, n. 98, che ha ribadito il primato del dato testuale, considerato limite esterno di legittimità al potere giurisdizionale).

Si deve fare pertanto applicazione del principio per il quale non può essere applicata analogicamente una disposizione processuale che comporta come conseguenza la sanzione della decadenza.

D’altra parte, in coerenza con il principio della effettività della tutela giurisdizionale, il giudice deve preferire una interpretazione che consenta una pronuncia sulla spettanza del ‘bene della vita’, piuttosto che quella che imponga una sentenza di inammissibilità o di improcedibilità, eccedente rispetto al testo ed alla ratio della previsione violata.

La previsione di un termine a pena di decadenza si giustifica solo per il deposito del ricorso, trattandosi di un incombente diretto all’instaurazione del rapporto processuale e alla devoluzione all’organo giurisdizionale della res litigiosa.

Nell’attuale quadro normativo, non sussiste invece una effettiva esigenza di depositare anche la sentenza impugnata.

Il comma 1 dell’art. 94 del c.p.a. non richiede il deposito di una ‘copia autentica’ della sentenza impugnata, il cui testo è reperibile nel fascicolo d’ufficio: essa va depositata in una logica di garanzia della mera completezza e regolarità formale del fascicolo (così, già prima del codice, Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1982, n. 20; Cons. Stato, sez. VI, 17 settembre 1985, n. 468).

Inoltre, neppure rileva l’osservazione per la quale va verificata la tempestività dell’atto di impugnazione.

In primo luogo, il comma 1 in esame non ha imposto a chi proponga l’impugnazione l’onere di depositare la copia della sentenza eventualmente notificatagli, con gli elementi concernenti la notifica.

In secondo luogo, la questione non si pone quando l’impugnazione sia proposta entro il termine breve calcolato dalla pubblicazione della sentenza impugnata, non potendosi dubitare in tal caso della tempestività dell’impugnazione.

In terzo luogo, non può sottacersi come la parte destinataria dell’impugnazione abbia interesse a costituirsi, per porre il giudice a conoscenza di un fatto (l’avvenuta notifica della sentenza impugnata) non preso in considerazione dal sopra riportato comma 1 dell’art. 94.

D’altra parte, anche il termine per il deposito delle prove delle notifiche non è previsto a pena di decadenza (Cons. Stato, sez. II, 29 aprile 2024, n. 3868). A maggior ragione, il giudice non può dichiarare la decadenza dell’impugnazione, potendo agevolmente consultare il fascicolo d’ufficio, che consente di leggere immediatamente la sentenza impugnata, o la banca dati, accessibile da chiunque sul sito www.giustizia-amministrativa.it.

Tale soluzione è avvalorata dal canone dell’interpretazione storico-evolutiva, che impone al diritto vivente di adeguare il dato letterale ai cambiamenti decisivi verificatisi tra la sua entrata in vigore e la sua applicazione attuale (Cass., Sez. Un., 2061/2021; Cass., sez. III, 26 ottobre 1998, n. 10629).

Nella specie, si deve considerare che l’art. 94 c.p.a. è stato redatto prima dell’entrata in vigore delle disposizioni sul processo amministrativo telematico, le cui modalità applicative consentono al giudice di ovviare agevolmente alla dimenticanza della parte che ha proposto l’impugnazione, con la consultazione del fascicolo telematico di primo grado e del sito della giustizia amministrativa.

Se, infatti, la ratio del secondo periodo del comma 1 dell’art. 94 è quella di consentire al giudice dell’impugnazione la lettura della sentenza impugnata, essa è realizzata dalla sua acquisizione, conseguente alla richiesta da parte del segretario della trasmissione del fascicolo d’ufficio al segretario del giudice di primo grado (art. 6, comma 2, all. I, c.p.a.), sul portale SIGA che consente l’accesso diretto al fascicolo di primo grado da parte dei soggetti abilitati (art. 11, all. 2, del decreto Presidente del Consiglio di Stato 28 luglio 2021, recante «Regole tecniche-operative del processo amministrativo telematico», emanato ai sensi dell’art. 13, comma 1, c.p.a.), nonché a seguito dell’agevole e immediata consultazione del sito della giustizia amministrativa.

Un’irregolarità solo formale non può dunque comportare alcuna decadenza, che risulterebbe irragionevole e sproporzionata, per il principio di strumentalità delle forme (art. 159 c.p.c.), nel vigore delle regole sul processo amministrativo telematico, improntate alla semplificazione delle forme e all’informatizzazione dell’intero procedimento.

Va, infine, osservato, che una disposizione espressa che comminasse la decadenza – per effetto del mancato o tardivo deposito della sentenza impugnata (onere deposito sentenza impugnata) – non sarebbe coerente con i principi costituzionali ed euro-unitari sul diritto di azione e di difesa (artt. 24. 103, 113 e 117, comma 1, della Costituzione; artt. 6 della CEDU e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

Secondo la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, infatti, l’ampia discrezionalità di cui è dotato il legislatore nella conformazione degli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene travalicato qualora emerga un’ingiustificata compressione del diritto di agire in giudizio in ragione di un vizio esterno all’atto di esercizio dell’azione (ex multis, sent. 148/2021, 102/2021, 253, 95, 80, 79/2020 e 271/2019).

Inoltre, per la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non può essere dichiarata inammissibile una impugnazione quando sia mancato un adempimento meramente formale (cfr. la sent. 23 maggio 2024, Pat. e altri contro la Repubblica italiana, §102, sulla violazione dell’art. 6, comma 1, della Convenzione europea in un caso in cui una impugnazione era stata dichiarata inammissibile per la mancata attestazione della conformità all’originale della sentenza impugnata – onere deposito sentenza impugnata).

In una prospettiva convergente, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che il diritto di agire in giudizio, pur non atteggiandosi a diritto assoluto, è passibile solo di restrizioni proporzionate e volte al perseguimento di uno scopo legittimo (Corte di giustizia UE, sez. III, 15 settembre 2016, C-439/14 e C-488/14, Sc Star; sez. V, 6 ottobre 2015, C-61/14, Orizzonte salute, sez. II, 30 giugno 2016, C-205715, Directia Generala).

Poiché la regola sull’inammissibilità dell’impugnazione per il mancato deposito della sentenza impugnata contrasterebbe con i sopra richiamati principi costituzionali ed euro-unitari, si deve tenere dunque anche conto del criterio dell’interpretazione ‘conforme’ ‘o adeguatrice’ (cfr. Corte cost. 36/2016 e 559/1988., secondo cui tra le possibili diverse interpretazioni va preferita quella che sia rispettosa dei principi costituzionali).

Sulla base delle considerazioni fin qui esposte, reputa questa Adunanza Plenaria che il mancato deposito della sentenza impugnata, nel termine fissato dall’art. 94 del c.p.a., non produca la conseguenza dell’inammissibilità dell’appello.

Va anche escluso che la parte ricorrente sia onerata, a pena di improcedibilità, a espletare l’incombente in un momento successivo allo spirare del termine legale (e che, comunque, il mancato deposito della sentenza di primo grado costituisca una «causa impeditiva della spedizione della causa in decisione» – onere deposito sentenza impugnata).

Il giudice può leggere la sentenza impugnata, che non sia stata depositata, senza la necessità di compiere atti processuali formali, sicché non vi è alcunché da sanare e non va differita la decisione della causa.

 

(*Contributo in tema di “Mancato adempimento dell’onere di deposito della sentenza oggetto di impugnazione entro il termine di legge. Conseguenze”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

assegno di divorzio

Assegno di divorzio: si può aumentare per le spese dei figli La Cassazione ammette la revisione dell’assegno di divorzio in caso di aumento delle spese per la crescita dei figli

Revisione assegno di divorzio per spese dei figli

Con l’ordinanza n. 16316/2025, la prima sezione civile della Cassazione ha chiarito che l’aumento delle spese legate alla crescita dei figli può giustificare la revisione dell’assegno di divorzio, anche in assenza di una formale domanda di modifica. L’obiettivo è tutelare il benessere dei minori e garantire l’equilibrio tra le risorse economiche dei genitori.

Il caso

Il caso nasce da un ricorso per cassazione contro una sentenza della Corte d’appello di Catanzaro. Quest’ultima, nel determinare le spese straordinarie a carico del padre, aveva escluso dal rimborso quelle relative alla scuola privata frequentata dai figli in Spagna, per via dell’elevato costo non più sostenibile dal genitore dopo il rientro in Italia e la perdita di benefici economici legati al lavoro all’estero.

La madre, tuttavia, aveva proposto appello incidentale chiedendo un aumento del contributo di mantenimento, inizialmente fissato in € 250,00 mensili per ciascun figlio, proprio per compensare l’esclusione delle spese scolastiche.

L’errore del giudice d’appello

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha erroneamente trattato l’appello incidentale come una richiesta di revisione ai sensi dell’art. 9 della legge sul divorzio (L. 898/1970), trascurando che la madre aveva già chiesto un contributo più elevato (€ 1.000,00 totali) sin dall’originaria domanda di divorzio. Tale fraintendimento ha portato a un’errata applicazione dei criteri dell’art. 337-ter c.c., che richiedono un’analisi comparata e proporzionata delle risorse dei genitori.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Suprema Corte ha affermato che, in materia di mantenimento dei figli, non è sufficiente richiamare il precedente assetto economico o proporre alternative ipotetiche (come l’iscrizione a scuole pubbliche). È necessario esaminare le esigenze attuali dei minori, le capacità economiche di entrambi i genitori e il tenore di vita mantenuto durante il matrimonio. Accogliendo il primo motivo di ricorso, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, per un nuovo esame che tenga conto delle reali esigenze dei figli e delle risorse attuali di entrambi i genitori.

Allegati

contratto di ormeggio

Furto barca? Sì al risarcimento nel contratto di ormeggio La Cassazione conferma il diritto al risarcimento per furto dell’imbarcazione in porto: il contratto di ormeggio può includere responsabilità di custodia

Cos’è il contratto di ormeggio

Il contratto di ormeggio è un accordo atipico tra il diportista e il gestore del porto o marina, in cui il conduttore ottiene l’uso di uno spazio protetto per la propria imbarcazione. Non essendo disciplinato espressamente dal codice civile o navale, si caratterizza per una struttura minima essenziale: messa a disposizione dello spazio acqueo e sue pertinenze. Qualora includa servizi accessori come la custodia, si applicano disposizioni simili al deposito. 

Il caso sottoposto alla Cassazione

Con l’ordinanza n. 16318/2025, la Terza Sezione Civile ha esaminato un ricorso relativo al furto di un’imbarcazione ormeggiata. Il proprietario sosteneva che il gestore del porto avesse l’obbligo di custodia e quindi dovesse rispondere del danno subito.

La Corte ha rilevato che, se nel contratto è prevista la custodia, il porto assume un obbligo autonomo e non si limita a fornire il posto barca. Per escludere la propria responsabilità il gestore deve provare di aver vigilato con diligenza, impiegando misure adeguate alla prevenzione del furto.

La motivazione: dalla diligenza al risarcimento

La Cassazione ha ribadito che, in presenza di obbligo di custodia, si presume la responsabilità del gestore in caso di furto o danneggiamento. Per sottrarsi al risarcimento, la marina deve dimostrare:

  1. Un’attenta sorveglianza con standard conformi al “buon padre di famiglia”;

  2. Che l’evento sia stato causato da circostanze non imputabili a colpa. 

La mancata produzione di prove probanti in giudizio inficia la possibilità di escludere la responsabilità e legittima il risarcimento.

Allegati

cancello in condominio

Cancello in condominio: non serve la maggioranza dei due terzi La Cassazione chiarisce che l'installazione di un cancello in condominio non costituisce innovazione e può essere deliberata senza la maggioranza dei due terzi

Apposizione di cancello in condominio

Con la sentenza n. 16148/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito un importante principio in tema di decisioni assembleari condominiali: l’installazione di un cancello all’ingresso di un’area comune non costituisce innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c., e pertanto non richiede la maggioranza qualificata prevista dal quinto comma dell’art. 1136 c.c.

Il fatto: il ricorso contro la delibera assembleare

La controversia trae origine dalla delibera adottata da un’assemblea condominiale nel 2009, con cui era stata approvata, a maggioranza semplice (501,38 millesimi), l’installazione e regolamentazione di un cancello nell’area scoperta antistante l’edificio. Alcuni condomini hanno impugnato la decisione, ritenendo violati i quorum richiesti per le innovazioni. Secondo i ricorrenti, l’intervento doveva essere approvato con almeno due terzi del valore dell’edificio, come richiesto dall’art. 1136, co. 5 c.c.

Il principio della Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato l’impugnazione, ritenendo che l’intervento deliberato non rappresentasse un’innovazione bensì una modalità di regolamentazione dell’uso della cosa comune. In particolare, il cancello non modifica la destinazione della parte comune, né ne limita l’uso da parte dei condomini, ma si limita a disciplinare l’accesso all’area per motivi di sicurezza e decoro.

Interventi non qualificabili come innovazioni

Nel solco della giurisprudenza costante, la Corte ha ribadito che rientrano nei poteri dell’assemblea anche interventi come l’installazione di cancelli o sbarre, qualora finalizzati a tutelare l’utilizzo ordinato delle parti comuni e a prevenire l’ingresso di soggetti estranei. Tali interventi, se non alterano l’essenza del bene comune né incidono negativamente sui diritti dei condomini, non necessitano della maggioranza rinforzata prevista per le innovazioni.

Allegati