responsabilità medica

Responsabilità medica: la legge Gelli-Bianco Responsabilità del medico e della struttura sanitaria nella legge Gelli-Bianco: differenze, termini di prescrizione e onere della prova per il paziente

La legge sulla responsabilità per danno da colpa medica

Responsabilità medica: la legge n. 24 del 2017, più nota come legge Gelli-Bianco, rappresenta il provvedimento normativo di riferimento in materia.

Con tale legge sono state introdotte importanti novità che hanno contribuito a delimitare in modo più chiaro i confini della responsabilità sanitaria del medico e della struttura presso cui opera, in caso di danni provocati al paziente.

Imperizia e responsabilità penale del medico nella l. 24/2017

Una prima importante novità apportata dalla legge Gelli-Bianco è stata quella di prevedere una causa di esclusione della punibilità del medico in ambito penalistico.

Il provvedimento, infatti, ha introdotto, nel secondo comma dell’art. 590-sexies del codice penale (relativo alla responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), la previsione secondo cui è esonerato da responsabilità medica il sanitario che abbia causato l’evento dannoso per il paziente a causa di imperizia, se risulta che lo stesso si sia attenuto alle linee guida sanitarie e alle buone pratiche, ove queste risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Di contro, rimane penalmente responsabile il medico che abbia agito con negligenza o imprudenza.

A conferma di quanto sopra si è successivamente espressa anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza Cass. SS.UU. n. 8770 del 2018.

Responsabilità sanitaria nella legge Gelli-Bianco

Anche sul piano civilistico, la Legge Gelli-Bianco si è rivelata importante per definire i contorni della responsabilità sanitaria, introducendo una disciplina che favorisce, in sostanza, la richiesta di risarcimento del danno da parte del paziente nei confronti della struttura anziché del medico.

Al riguardo, è opportuno distinguere le varie ipotesi.

Responsabilità contrattuale

Innanzitutto, quando il sanitario opera nell’ambito di una struttura pubblica o privata, la responsabilità medica è considerata di natura contrattuale, in virtù del c.d. contratto di spedalità tra il paziente e la struttura stessa.

In caso di danno da responsabilità medica, quindi, il paziente potrà agire per il risarcimento direttamente nei confronti della struttura.

È vero che rimane possibile, in linea teorica, agire anche contro il medico, ma l’inquadramento normativo della responsabilità di quest’ultimo rende, in concreto, difficilmente percorribile questa strada.

Responsabilità extracontrattuale

Infatti, la responsabilità del medico dipendente di una struttura (o che operi per essa in ambito intramurario, collaborando con partita Iva) è considerata di natura extracontrattuale.

Prescrizione e onere della prova

Per il paziente, quindi, si presenta più agevole richiedere il risarcimento direttamente alla clinica, dal momento che la natura contrattuale del rapporto che egli ha instaurato con essa (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) comporta che il termine di prescrizione dell’azione sia decennale e che l’onere della prova per il danneggiato sia limitato all’esistenza di tale rapporto, sussistendo una presunzione di colpa in capo alla struttura ex art. 1218 c.c.

Un’eventuale richiesta di risarcimento verso il medico ex art. 2043 c.c. (sulla base, quindi, di una responsabilità extracontrattuale o aquiliana, come previsto dall’art. 7 della legge 24/2017), invece, deve rispettare un termine di prescrizione di soli cinque anni e risulta molto più gravosa per il paziente in ordine alla prova, poiché quest’ultimo avrebbe l’onere di dimostrare non solo il danno, ma anche il fatto illecito, il nesso di causalità tra evento e danno e l’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) che ha accompagnato la condotta del sanitario.

Azione diretta del paziente contro l’assicurazione

A corollario di quanto sopra, va anche ricordato che il paziente, a norma della Legge Gelli-Bianco, ha azione diretta anche nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria, come meglio specificato dal recente Decreto interministeriale n. 232 del 15 dicembre 2023, in vigore dal 16  marzo 2024.

Inoltre, è opportuno evidenziare che la struttura sanitaria ha diritto all’azione di rivalsa nei confronti del medico che abbia agito con dolo o colpa grave e che quest’ultimo può essere destinatario dell’azione per responsabilità amministrativa da parte della Corte dei Conti.

Leggi anche Vittima di errore medico: può agire direttamente per il risarcimento

L’obbligo di assicurazione professionale per il medico

Infine, rimane da considerare il caos in cui il medico operi al di fuori di una struttura sanitaria, e quindi in qualità di libero professionista. In tal caso sussiste un rapporto contrattuale tra lui ed il paziente e proprio per tale motivo egli è tenuto, per legge, a sottoscrivere una polizza assicurativa per eventuali danni arrecati nell’ambito della propria attività professionale.

affidamento condiviso

Affidamento condiviso L’affido condiviso e il principio di bigenitorialità: la centralità degli interessi del minore nei provvedimenti del giudice sulla separazione dei coniugi

L’affidamento condiviso nella separazione

L’affidamento condiviso è la condizione in cui, di regola, si trovano i figli in conseguenza della separazione dei genitori.

L’affido congiunto si contrappone ad altre possibili soluzioni che il giudice può adottare in sede di separazione dei coniugi con prole, come ad esempio l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori in considerazione di particolari circostanze (in particolare, quando l’affidamento all’altro genitore, anche in via condivisa, sia contrario all’interesse del minore).

Affido condiviso come funziona

Fino all’emanazione della legge 54/2006, la regola, in tema di affidamento dei figli in sede di separazione, era rappresentata dall’affido esclusivo. Con tale provvedimento legislativo, invece, si è scelto di rendere centrale il ruolo dell’affido condiviso paritario per garantire, da un lato il diritto di ciascun coniuge all’esercizio della responsabilità genitoriale e alla partecipazione alle decisioni più importanti nell’interesse dei figli, e dall’altro, il diritto di questi ultimi alla c.d. bigenitorialità.

Il principio della bigenitorialità

Il principio della bigenitorialità è riassunto nella formula dell’art. 337-ter del codice civile, in base al quale “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Più in generale, il secondo comma della norma citata evidenzia come oggi l’affidamento condiviso rappresenti la regola, in quanto impone al giudice, in caso di separazione dei coniugi, di valutare prioritariamente “la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”. Solo quando tale strada non sia percorribile egli è chiamato a stabilire a quale dei genitori i figli debbano essere affidati, fermi restando il diritto e il dovere di ciascuno dei genitori di contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Quali sono le regole per l’affidamento condiviso

Il regime di affido paritario non esclude, peraltro, che tra i due genitori ne sia individuato uno presso la cui abitazione i figli continueranno a dimorare.

Il collocamento dei figli

Al genitore collocatario, di norma, è concessa la possibilità di continuare ad abitare nella casa familiare. In tal caso, all’altro genitore viene garantita la presenza dei figli presso il proprio domicilio (evidentemente, una casa diversa presso cui il coniuge non collocatario è andato a vivere dopo la separazione). Sta al giudice, in assenza di accordo tra le parti, individuare i giorni o i periodi in cui i figli si trasferiscono presso l’abitazione del genitore non collocatario (frequente è, ad esempio, l’adozione di provvedimenti giudiziali che prevedano i c.d. fine settimana alternati presso ciascun genitore).

Una particolare tendenza emersa nelle decisioni della più recente giurisprudenza è quella di prevedere, nell’interesse dei figli, che questi abitino permanentemente nella casa familiare e che ad alternarsi nella presenza all’interno di essa siano gli ex coniugi.

In altre parole, tali provvedimenti mirano a garantire una stabilità emotiva, nei rapporti e nella vita quotidiana, in favore dei figli ed evitare che questi ultimi siano trattati, come si usa dire, come “pacchi postali”, in continua peregrinazione tra le attuali abitazioni dei due genitori. I giudici che seguono tale orientamento impongono, dunque, a ciascun genitore di abbandonare, in determinati giorni, la casa familiare per far posto all’altro coniuge.

Tale filone giurisprudenziale, che annovera anche autorevoli pronunce di legittimità (v. Cass., ord. n. 6810/2023), incontra, per avverso, le critiche di chi vi scorge un’eccessiva gravosità per i coniugi nella gestione della propria vita e dei propri rapporti quotidiani.

Quando decade l’affidamento condiviso

In ultima analisi, con l’affido condiviso viene garantita la partecipazione di entrambi i genitori alle più importanti decisioni relative alla cura e all’educazione dei figli, si pensi ad esempio al percorso scolastico da seguire, alle attività extrascolastiche da praticare o alle scelte in ambito sanitario, come la decisione di sottoporsi o meno ad un vaccino.

In ogni caso, ai figli minori è garantito l’ascolto da parte del giudice, ai sensi dell’473 bis 4 c.p.c. che prevede in capo al minore che abbia compiuto gli anni dodici (o meno, se capace di discernimento) un generale diritto di essere ascoltato in relazione ai provvedimenti giudiziali che lo riguardano.

Infine, va ricordato che ogni provvedimento giudiziale in tema di affidamento dei figli – ivi compreso quello che dispone sull’assegno di mantenimento  – può essere sottoposto a revisione su richiesta di uno dei genitori, ai sensi dell’art. 337-quinquies c.c.

società cooperativa

Società cooperativa La società cooperativa è un modello di società a capitale variabile che non persegue un fine di lucro, ma di tipo mutualistico

Società cooperativa: definizione

Il codice civile definisce la società cooperativa come quella che si caratterizza per il capitale variabile e lo scopo mutualistico. Lo scopo mutualistico si configura quando ai soci della cooperativa che persegue questo obiettivo vengono forniti servizi, beni, occasioni di lavoro o condizioni di maggiore vantaggio rispetto a quelle presenti sul mercato. Per queste caratteristiche distintive rispetto alle società lucrative, le società cooperative hanno un albo dedicato, ossia “l’albo delle società cooperative”.

Società cooperativa nella Costituzione

L’articolo 45 della Costituzione riconosce il ruolo sociale della cooperazione e della mutualità senza fini speculativi. La legge promuove e favorisce l’incremento delle società cooperative perché rappresentano un modello virtuoso. Essa ne assicura anche il carattere mutualistico e gli obiettivi con i controlli più opportuni.

Disciplina delle società cooperative

La società cooperativa nasce, si modifica e si scioglie nel rispetto delle regole del Codice civile. Il capo I del titolo IV, del Libro V del Codice civile contiene infatti la disciplina delle società cooperative e delle mutue assicuratrici. Queste ultime sono soggette in parte alle stesse regole delle società cooperative.

A mutualità prevalente e cooperative diverse

Le cooperative si distinguono in due tipologie:

  • a mutualità prevalente;
  • cooperative diverse a mutualità non è prevalente.

Le società cooperative, in base all’articolo 2512 c.c, sono a mutualità prevalente quando:

  • svolgono la loro attività soprattutto in favore dei soci, dei consumatori e degli utenti di beni e servizi;
  • nello svolgimento della loro attività tipica si avvalgono del lavoro dei soci;
  • nello svolgimento della loro attività si avvalgono dei beni e dei servizi che vengono apportati dai soci.

I successivi articoli 2513 e 2514 del Codice civile stabiliscono i criteri per la definizione della prevalenza e i requisiti che devono possedere le cooperative a mutualità prevalente.

Società cooperative: regole

Il codice civile detta tutta una serie di regole che disciplinano tutta la vita della società cooperativa e tutte le vicende che la riguardano e che la contraddistinguono.

Denominazione

La denominazione di questa società deve contenere l’indicazione di “società cooperativa”. Le società che non hanno scopo mutualistico non possono utilizzare la denominazione di “società cooperativa.”

Rapporti con i soci

Nel costruire e nell’eseguire i rapporti mutualistici si deve rispettare il principio di parità di trattamento.

Responsabilità limitata dei soci

La società cooperativa che assume obbligazioni sociali risponde solo con il suo patrimonio. Essa si caratterizza quindi per una autonomia patrimoniale perfetta.

Costituzione della società cooperativa

La società cooperativa si deve costituire obbligatoriamente con atto pubblico, che deve contenere tutta una serie di requisiti ed elementi sulla società, i soci, i conferimenti l’oggetto sociale, il collegio sindacale, gli amministratori, gli utili e le quote (art. 2521 c.c).

Il notaio che riceve l’atto deve depositarlo presso l’ufficio del registro entro 20 giorni.

Per costituire una società è necessaria inoltre la presenza di almeno 9 soci. Si può costituire anche una cooperativa con tre soli soci, ma devono essere tutti persone fisiche e la società deve adottare le stesse regole previste per le società a responsabilità limitata.

Capitale variabile

Queste società non determinano il capitale nel suo preciso ammontare quindo nascono, inoltre se nuovi soci entrano nella società non è necessario procedere alla modifica dell’atto costituivo. Questa regola però non è rigida. La società infatti può deliberare aumenti di capitale con modifica dell’atto costitutivo.

Valore di quote o azioni

Ogni quota o azione non può avere un valore nominale inferiore ai 25 euro e nessun socio può avere quote superiori ai 100.000 euro, a meno che la legge non disponga diversamente. Se i soci sono più di 500 questi limiti possono essere superati.

Il socio che non paga le quote o le azioni può essere escluso.

Soci della cooperativa

I soci devono essere in possesso dei requisiti indicati nell’atto costitutivo. Chi vuole entrare a far parte della cooperativa come socio deve fare domanda. L’ammissione o il rigetto sono deliberati da chi amministra la società.

Il socio che vuole trasferire la sua quota deve comunicarlo agli amministratori con lettera a/r.

Il socio può recedere dalla società nei casi previsti dalla legge e dall’atto costituivo ed essere escluso ai sensi dell’art. 2533 c.c.

Organi sociali delle società cooperative

Gli organi sociali delle società cooperative sono l’assemblea, il Consiglio di Amministrazione e il Collegio sindacale. La nomina di quest’ultimo organo di controllo è obbligatoria nei casi previsti dal comma 3 dell’articolo 2477 e quando la società emette strumenti finanziari di natura non partecipativa.

Vicende della società cooperativa

Una società cooperativa può perdere la qualifica “a mutualità prevalente”. Le società che non sono a mutualità prevalente possono trasformarsi in altri tipi di società. La società cooperativa infine può sciogliersi per diverse cause, come la perdita del capitale sociale.

Cooperative: esempi

I tipi di società cooperative più diffusi sono le banche popolari, le cooperative di credito, di consumo, di produzione e lavoro, sociali, di abitanti, edilizie, agricole o della pesca.

donne vittime di violenza

Donne vittime di violenza: la guida in 8 passi Dal numero verde al reddito di libertà, l'INPS fa il punto sui servizi e le prestazioni per le vittime di stalking, violenza o abusi

Donne vittime di violenza

Dal numero verde al Reddito di Libertà: le informazioni sui servizi e sulle prestazioni INPS per le vittime di stalking, violenza o abusi in una guida pubblicata online dallo stesso istituto di previdenza. La guida in otto passi per le donne vittime di violenza offre informazioni sui servizi e sulle prestazioni INPS per le donne vittime di stalking, violenza o abusi che abbiano o meno denunciato questi atti al numero verde 1522 per essere poste sotto la tutela dei Centri antiviolenza.

Numero verde 1522

Quando una donna si sente minacciata può chiamare il numero verde 1522, disponibile gratuitamente sia da rete fissa che mobile. Questo servizio offre supporto in italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo ed è esposto anche presso gli Uffici relazioni con il pubblico delle sedi INPS.

Astensione dal lavoro e congedo indennizzato

È una tutela riconosciuta alle lavoratrici inserite nei percorsi di protezione, che possono avvalersi di un’astensione dal lavoro per un periodo massimo di 90 giorni nell’arco temporale di tre anni.

Possono beneficiarne le:

  •  lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato;
  •  lavoratrici con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa;
  • apprendiste, operaie, impiegate e dirigenti con un rapporto di lavoro in corso all’inizio del congedo;
  •  lavoratrici agricole;
  •  lavoratrici domestiche;
  • lavoratrici autonome.

La domanda di congedo indennizzato per donne vittime di violenza può essere presentata online all’INPS dalle donne lavoratrici inserite nei percorsi di protezione.

ISEE per donne protette

Le donne inserite nei programmi di protezione dei Centri antiviolenza possono richiedere l’ISEE che non comprenda il reddito dell’altro genitore, nei casi in cui questi sia escluso dalla potestà genitoriale sui figli o sia soggetto a provvedimento di allontanamento dalla residenza familiare.

Reddito di Libertà

È una prestazione che sostiene l’autonomia e l’emancipazione delle donne vittime di violenza con un contributo fino a 400 euro mensili per 12 mensilità. La domanda può essere presentata al comune di residenza, direttamente o tramite un rappresentante legale.

Assegno di Inclusione (ADI)

L‘Assegno di Inclusione è un sostegno economico e di inclusione sociale per i nuclei familiari in condizione di svantaggio, comprese le vittime di violenza di genere. È necessario comprovare la situazione economica e partecipare a un percorso personalizzato di inclusione sociale e lavorativa.

pensione di reversibilità

Pensione reversibilità: l’assegno di divorzio non è un limite Pensione di reversibilità: nella ripartizione tra moglie superstite ed ex moglie l'assegno divorzile di questa non è un limite legale

Pensione di reversibilità e misura dell’assegno divorzile

La ripartizione della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge e il coniuge superstite deve avvenire nel rispetto di alcuni parametri. Rilevano la durata dei matrimoni e altri criteri che tengono conto della finalità solidaristica della misura, come la durata delle convivenze prematrimoniali. Nella ripartizione l’entità dell’assegno divorzio non rappresenta un limite legale alla quota per l’ex coniuge. La legge nulla dispone in tale senso. Lo ha chiarito la Cassazione nell’ordinanza n. 21997/2024.

Pensione di reversibilità: ripartizione tra ex moglie e moglie superstite

Una donna si rivolge al Tribunale per chiedere che la propria quota della pensione di reversibilità dell’ex marito, che concorre con la moglie superstite, venga determinata nella misura del 65%. La donna chiede che l’assegno decorra dal mese successivo a quello della morte dell’ex marito da cui la stessa aveva divorziato. Nella domanda la donna fa presente che il giudice  aveva stabilito per lei un assegno di divorzio, anche se di piccolo importo.

85% della pensione di reversibilità per la moglie superstite

Il giudizio di primo grado si conclude però a sfavore della ex moglie. Il Tribunale riconosce infatti alla ex moglie il 30% della pensione di reversibilità del marito, a quella superstite il restante 70%.

La moglie superstite impugna la decisione chiedendo il 95% della quota della pensione di reversibilità del marito defunto. La ex moglie però insiste e anche in sede di appello chiede il 65% del trattamento pensionistico dell’ex marito.

Il giudice dell’impugnazione accoglie in parte l’impugnazione della moglie superstite a cui riconosce l’85% della pensione del marito defunto in ragione della durata del matrimonio e dell’assenza di redditi propri.

Errato il calcolo della durata del matrimonio

La ex moglie decide quindi di ricorrere in Cassazione. Ella ritiene che la Corte d’Appello non abbia ricostruito correttamente la durata dei due matrimoni. La Corte non ha infatti tenuto conto che la durata del matrimonio deve essere calcolata dalla data della celebrazione fino al suo termine che si verifica a causa della intervenuta sentenza di divorzio o della morte di uno dei due coniugi.

Reversibilità: l’assegno divorzile non è un limite legale

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e precisa che la durata del matrimonio non rappresenta l’unico parametro di valutazione ai fini della reversibilità. Il giudice deve considerare altri dati, come la condizione economica delle parti.

In caso quindi di concorrenza tra coniuge superstite ed ex coniuge per la spettanza della pensione di reversibilità il giudice deve tenere conto della durata del matrimonio e della convivenza prematrimoniale “senza individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso.”

Nel caso di specie la Corte d’appello ha considerato la durata della convivenza matrimoniale e le condizioni economiche e patrimoniali al momento della morte del de cuius “il parametro dell’entità dell’assegno divorzile è stato chiaramente menzionato e valutato solo in funzione rafforzativa dello scopo solidaristico, non come limite legale. La ripartizione per quote che la Corte di merito ha stabilito costituisce una questione meritale non sindacabile in questa sede, che è stata effettuata mediante idonea ponderazione degli elementi fattuali di riferimento.”

 

Sull’argomento leggi anche questo articolo: “Pensione reversibilità ai nipoti: le nuove regole

Allegati

reato di minaccia

Reato di minaccia Il reato di minaccia si configura qualora un soggetto minacci un altro di un danno ingiusto, se aggravato è punito con la reclusione

Reato di minaccia: cos’è

La minaccia è un reato contemplato dall’art. 612 del codice penale. Esso si configura quando un soggetto minaccia un altro soggetto di cagionargli un danno ingiusto. La norma tutela la libertà morale e psichica contro ogni tipo di condotta in grado di creare un turbamento derivante dal prospettare un male ingiusto alla vittima. Il danno minacciato può consistere in una lesione o nella sola messa in pericolo di un interesse che ha rilievo giuridico. L’ingiustizia del danno si riferisce ai danni che vengono cagionati da condotte illecite.

Il reato di minaccia è definito “di pericolo” perché non richiede il verificarsi di un evento, è sufficiente che il male venga  prospettato e che questo induca nella vittima il timore che il danno minacciato si potrebbe effettivamente verificare.

Procedibilità del reato di minaccia

Il reato di minaccia è punibile a querela della persona offesa.

Si procede d’ufficio se:

  • la minaccia si realizza in uno dei modi contemplati dall’articolo 339 del codice penale;
  • la minaccia è grave e ricorrono circostanze aggravanti con effetto speciale diverse dalla recidiva;
  • la persona offesa è incapace per età o per infermità.

Minaccia aggravata: art. 339 c.p.

La minaccia è aggravata se il soggetto agente la commette:

  • durante manifestazioni che si svolgono in un luogo pubblico o aperto al pubblico;
  • con l’uso delle armi;
  • da un soggetto dal volto coperto;
  • da più soggetti riuniti;
  • con uno scritto anonimo;
  • ricorrendo alla forza intimidatorie di associazioni segrete, esistenti o anche solo supposte;
  • lanciando o utilizzando corpi contundenti o altri oggetti idonei a offendere come i fuochi d’artificio, tutti oggetti che creano situazioni di pericolo per le persone.

Elemento soggettivo

Per integrare il delitto di minaccia la legge richiede che il soggetto agisca con dolo generico ossia con la coscienza e la volontà di minacciare un altro soggetto di un danno ingiusto.

Come è punito il reato di minaccia

Il reato di minaccia viene punito con una multa che può arrivare fino a 1.032,00 euro.

Se la minaccia è grave o è commessa nei modi previsti dall’articolo 339 c.p il reato è punito con la pena della reclusione fino a un anno.

Minaccia: rapporto con altri reati

Il reato di minaccia può essere confuso con altri reati contro la persona, ma può anche rappresentare una componente di altre condotte illecite complesse. La Cassazione nel tempo ha fornito importanti chiarimenti al riguardo.

Minaccia in concorso con violenza privata

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 50702/2019 ha chiarito che: “il reato di violenza privata si distingue dal reato di minaccia per la coartata attuazione da parte del soggetto passivo di un contegno (commissivo od omissivo) che egli non avrebbe assunto, ovvero per la coartata sopportazione di una altrui condotta che egli non avrebbe tollerato. Ne consegue che i due reati, pur promossi da un comune atteggiamento minatorio, dando luogo ad eventi giuridici di diversa natura e valenza, concorrono tra loro.”

Minacce assorbite dal reato di maltrattamenti in famiglia

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 17599/2021 ha precisato che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe il delitto di minaccia previsto dall’art. 612 c.p. purché le minacce rivolte alla persona offesa non siano il risultato di una condotta criminosa autonoma e indipendente, ma costituiscano una delle condotte per mezzo delle quali si mette in atto il reato di maltrattamenti.

Minacce assorbite o in concorso con il reato di stalking

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 12720/2020 ha sancito che il delitto di minaccia contemplato dall’art. 612 c.p. è assorbito da quello di atti persecutori disciplinato dall’art. 612 bis c.p a condizione che le minacce vengano poste in essere nello stesso contesto temporale e fattuale che integrano lo stalking. Qualora invece le minacce risalgano a un periodo anteriore all’inizio degli atti persecutori allora le minacce concorrono con il reato di stalking.

 

Leggi anche gli arti articoli di diritto penale

interesse legittimo

Interesse legittimo Interesse legittimo: definizione, differenze rispetto al diritto soggettivo e  riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo

Interesse legittimo: definizione

L’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva di vantaggio. Esso consiste nella pretesa che un privato vanta nei confronti della  pubblica amministrazione affinché questa eserciti il suo potere nel rispetto della legge. Mediante questa pretesa il cittadino può incidere sul corretto esercizio del potere della PA e realizzare l’interesse al bene della vita oggetto di un determinato provvedimento amministrativo.

L’interesse legittimo vantato dal singolo si scontra però e inevitabilmente con l’interesse pubblico di cui è portatrice la PA. La pubblica amministrazione infatti, con i suoi provvedimenti, può sia ampliare la sfera giuridica del singolo che restringerla.

Interessi legittimi: tipologie

Questa la ragione per la quale l’ordinamento contempla due tipi di interessi legittimi. Gli interessi legittimi pretensivi sono quelli che il soggetto vanta nei confronti della PA affinché questa adotti un certo provvedimento. Gli interessi legittimi oppositivi invece riconoscono al singolo il diritto di opporsi agli atti amministrativi che possono pregiudicare la sua sfera giuridica.

Diritto soggettivo

Nei confronti della PA il cittadino non vanta però solo interessi legittimi, ma anche diritti soggettivi. Il diritto soggettivo è un’altra posizione giuridica di vantaggio che l’ordinamento riconosce a un soggetto in relazione a un determinato bene, compresa la sua tutela giuridica.

Interesse legittimo e diritto soggettivo: differenze

L’elemento distintivo del diritto soggettivo rispetto all’interesse legittimo è rappresentato dalla assolutezza del primo rispetto al secondo, che gode per questo motivo di una tutela piena e diretta.  L’interesse legittimo è invece collegato all’esercizio del potere amministrativo e si caratterizza per la differenziazione e la qualificazione. Per differenziazione si intende la posizione del soggetto rispetto alla generalità dei consociati. La qualificazione invece deriva dal fatto che la norma sull’esercizio del potere della PA per perseguire il pubblico interesse deve necessariamente considerare anche l’interesse del singolo che è collegato a quello pubblico.

Giudice ordinario e Giudice Amministrativo

La distinzione analizzata tra interesse legittimo e diritto soggettivo è necessaria ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giuridico amministrativo.

Sul riparto di giurisdizione leggi anche Riparto giurisdizione controversie finanziamenti pubblici

Interesse legittimo e giurisdizione nella Costituzione

Dalla lettura degli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione emerge infatti che il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo è conseguenza della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo.

L’articolo 24 riconosce a tutti i cittadini di agire in giudizio per tutelare i propri diritti soggettivi e interessi legittimi. L’articolo 103 precisa invece che la giurisdizione amministrativa per la tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi in determinate materie spetta per legge al Consiglio di Stato e agli altri organi della giustizia amministrativa.

L’articolo 113 infine riconosce la tutela contro gli atti della PA per la tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi.

Tipologie di giurisdizione del GA

Per quanto riguarda nello specifico la giurisdizione del Giudice amministrativo, essa si distingue in tre diverse tipologie.

  • Giurisdizione generale di legittimità: riguarda le controversie che hanno ad oggetto gli atti, i provvedimenti e le omissioni della PA.
  • Giurisdizione esclusiva: è quella che riguarda le materie previste specificamente dalla legge ed elencate nell’articolo 133 del Codice del processo amministrativo.
  • Giurisdizione di merito: in questi casi il giudice si sostituisce alla Pubblica Amministrazione, ma ha poteri più ampi.

Giudice amministrativo: competenza

Il Giudice amministrativo si occupa delle materie in cui ha la competenza esclusiva indicate dall’art. 133 del Codice del processo amministrativo (decreto legislativo n. 104/2010). Esso è competente anche nelle controversie che riguardano il risarcimento del danno derivante dalla commissione di un danno ingiusto causato dalla inosservanza colposa o dolosa del termine in cui dovrebbe concludersi il procedimento amministrativo.

Il Giudice amministrativo è competente inoltre nella tutela dei diritti soggettivi, ma solo in relazione a particolari materie indicate dalla legge che riguardano “l‘esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”. 

ddl intelligenza artificiale

Ddl Intelligenza artificiale: parere favorevole del Garante Il Garante Privacy ha dato parere favorevole al ddl intelligenza artificiale chiedendo però ulteriori misure a protezione dei dati personali

Ddl Intelligenza artificiale, sì ma con le dovute cautele

Ddl Intelligenza artificiale: parere favorevole del Garante Privacy sullo schema di disegno di legge governativo sull’IA, recante anche delega legislativa per l’adeguamento al Regolamento Ue sull’Intelligenza Artificiale (n.2024/1689 – AI Act).

Leggi l’articolo sul ddl varato dal Governo

Il disegno di legge disciplina ricerca, sperimentazione, sviluppo, adozione e applicazione dei sistemi e modelli di Intelligenza Artificiale (IA) nei diversi settori della società (sanità, giustizia, lavoro e professioni, sicurezza e difesa nazionale, etc.).

Maggiore tutela dei dati personali

Nel dare il proprio parere favorevole al testo, il Garante ha tuttavia chiesto al Governo di integrarlo in più parti per garantire una maggiore tutela dei dati personali dei cittadini.

In particolare l’Autorità ha chiesto di introdurre un nuovo articolo per precisare che i trattamenti di dati personali effettuati attraverso i sistemi di intelligenza artificiale devono rispettare la normativa privacy nazionale ed europea.

Age verification

Il testo, inoltre, dovrà essere integrato con uno specifico riferimento a sistemi adeguati di verifica dell’età (c.d. age verification) in grado di garantire limitazioni o divieti all’uso dei sistemi di IA da parte dei minori.

Nel caso poi di utilizzo di sistemi di IA in ambito sanitario ad alto rischio, il Garante ha chiesto di indicare particolari limitazioni per l’utilizzo dei dati (conservazione, divieto di trasmissione, trasferimento o comunicazione) e la preferenza per l’uso di dati sintetici o anonimi.

Autorità competente

È stato inoltre richiesto di indicare il Garante – come previsto nell’AI Act – quale Autorità competente per i sistemi di Intelligenza Artificiale ad alto rischio utilizzati ad es. per le attività di law enforcement, identificazione biometrica remota, riconoscimento delle emozioni, gestione delle frontiere, amministrazione della giustizia e processi democratici.

detenuto farsi sopracciglia

Il detenuto non può farsi le sopracciglia Il presunto diritto all'estetica è mero interesse di fatto privo di tutela vista la pericolosità dello strumento vietato in tutti gli istituti

Carcere duro

Non lede il diritto alla cura della persona negare al detenuto al carcere duro la possibilità di tenere delle pinzette per sopracciglia in metallo anzichè di plastica. Così la prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 22967/2024.

La vicenda

Nella vicenda, un detenuto presso la Casa Circondariale di Spoleto in regime di sorveglianza speciale ex art. 41 bis ord. pen., presentava reclamo avverso il diniego oppostogli per ragioni di sicurezza dal D.A.P. alla richiesta di acquistare una pinzetta per ciglia in metallo, in luogo di quella in plastica che gli era consentito di detenere.
Il magistrato di sorveglianza rigettava il reclamo «trattandosi di oggetto non consentito per ragioni di sicurezza e preso atto che non viene in evidenza la violazione di diritti».
Il difensore dell’uomo presentava reclamo ex art. 35 bis ord. pen., evidenziando che la giurisprudenza di merito aveva in più occasioni valutato positivamente la possibilità di consegnare ai soggetti ristretti in regime ex art. 41 bis ord. pen. pinzette in metallo.
Il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, tuttavia, rigettava il reclamo, rilevando che l’art. 6 della circolare D.A.P. .n 3676/1626 autorizzava l’uso di pinzette esclusivamente in plastica, ritenendo potenzialmente pericolose quelle in metallo, e ritenendo altresì che non venissero in rilievo né concreti pregiudizi al diritto alla salute nè irragionevoli disparità di trattamento, poiché le pinzette in metallo erano state ritirate a tutti i detenuti.

Il ricorso

La questione approdava innanzi al Palazzaccio, dove l’uomo, per il tramite del proprio difensore, si doleva della carenza di motivazione del provvedimento, “non essendo stata fornita risposta alle doglianze articolate in sede di reclamo, relative all’inefficacia dello strumento in plastica fornito dal’Amministrazione penitenziaria, «ritenuto insufficiente a sopperire alle esigenze di igiene personale», all’assenza di pericolosità dello strumento in metallo, soprattutto ove si consideri che ai detenuti è consentito detenere rasoi e forbicine, ed alla circostanza che in più occasioni la giurisprudenza di merito ha valutato positivamente la possibilità di consegnare ai soggetti ristretti al 41 bis pinzette in metallo”.

Diritto all’estetica privo di tutela

Per gli Ermellini, il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi. Intanto, premettono i giudici la circolare 2017 del DAP citata prevede espressamente che ai detenuti possono essere consegnate esclusivamente pinzette in plastica. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di statuire che “non è configurabile la lamentata violazione di legge per la lesione del diritto alla salute derivante dalla impossibilità di attendere ala cura della persona, mancando li potere dell’Amministrazione di limitare l’uso di tali strumenti non diversi da altri, parimenti pericolosi, ma pur tuttavia ammessi (cfr. Cass. n. 32947/2022).

Il provvedimento impugnato, proseguono da piazza Cavour, “non ha confuso il diritto alla salute con un presunto diritto alla estetica della persona. Si tratta, infatti, di un mero interesse di fatto, privo di tutela; invero, con l’impugnazione non si contesta che l’introduzione di tali strumenti è vietata, per ragioni di sicurezza, in tutti gli istituti; si tratta di una legittima misura precauzionale da cui non deriva alcuna lesione di diritti soggettivi”.

La decisione

Appare, quindi, evidente che, nel caso di specie, concludono dalla S.C., “non sussiste una situazione soggettiva tutelabile, né una concreta lesione di un diritto soggettivo e che quindi avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza non poteva essere proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza e neppure ricorso per cassazione”.
Per cui il ricorso è inammissibile con conseguente onere per il ricorrente di sostenere le spese del procedimento oltre a versare 3mila euro in favore della Cassa delle ammende.

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Allegati

visto di conformità

Visto di conformità riservato ai professionisti iscritti agli albi La Consulta boccia la posizione dei "tributaristi", la riserva verso le professioni ordinistiche non è irragionevole

Visto di conformità solo per i professionisti

Visto di conformità riservato ai professionisti: la riserva verso i professionisti ordinistici  non è illegittima, vista la «diversità sostanziale tra le due categorie di professionisti» (ordinistici e non). E non è irragionevole limitare la possibilità di rilascio ai «professionisti iscritti a ordini, che, avendo superato un esame di Stato per accedere agli albi ed essendo soggetti alla penetrante vigilanza degli ordini anche sul piano deontologico, sono muniti di particolari requisiti attitudinali e di affidabilità, a garanzia degli interessi dell’amministrazione alla corretta esecuzione dell’adempimento». È quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 144/2024 che ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai tributaristi.

Le questioni di legittimità costituzionale

Le questioni muovono dall’asserita irragionevolezza della distinzione tra professioni ordinistiche e non ordinistiche ai fini del rilascio del visto di conformità, sia “pesante” che “leggero”, non sussistendo più, ad avviso del rimettente, una differenza apprezzabile tra le due categorie professionali, tenuto conto dell’approvazione della legge n. 4 del 2013 e del fatto che i tributaristi non iscritti possono inviare le dichiarazioni dei redditi all’amministrazione finanziaria.

Tale distinzione, tuttavia, sarebbe più che ragionevole e costituirebbe in ogni caso il frutto di una scelta discrezionale del legislatore non manifestamente irragionevole.

Diversità sostanziale tra le due categorie di professionisti

Nel merito, precisa innanzitutto la Consulta, “il visto di conformità ha lo scopo di garantire ai contribuenti assistiti un corretto adempimento di taluni obblighi tributari e di agevolare l’amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare e nell’esecuzione dei controlli di propria competenza” enucleando poi la differenza tra quello “leggero” e “pesante”.

Accertato che permane una diversità sostanziale tra le due categorie di professionisti, la Corte verifica la ragionevolezza della scelta operata dal legislatore, con esito positivo.

“È da considerare il rilevante interesse pubblico correlato al rilascio del visto di conformità, che non si risolve nella mera predisposizione e trasmissione delle dichiarazioni o nella tenuta delle scritture e dei dati contabili, ma è diretto ad agevolare e rendere più efficiente l’esercizio dei poteri di controllo e di accertamento dell’amministrazione finanziaria, con assunzione della relativa responsabilità (si pensi, ad esempio, alla corretta determinazione degli oneri detraibili collegati al cosiddetto “superbonus edilizio”)” afferma la Consulta. Dunque, non è irragionevole “abilitare al rilascio del visto i professionisti iscritti a ordini, che, avendo superato un esame di Stato per accedere agli albi ed essendo soggetti alla penetrante vigilanza degli ordini anche sul piano deontologico, sono muniti di particolari requisiti attitudinali e di affidabilità, a garanzia degli interessi dell’amministrazione alla corretta esecuzione dell’adempimento”.

La decisione

In definitiva, la Corte esclude sia la discriminazione che l’irragionevolezza prospettate dal rimettente, in riferimento all’art. 3 Cost. e ritiene non fondate tutte le altre questioni sollevate.

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