condominio minimo

Condominio minimo Condominio minimo: cos’è, normativa e regole di gestione, costituzione, maggioranze, obbligo del codice fiscale e dell'amministratore

Cos’è il condominio minimo

Il condominio minimo è una particolare forma di condominio che sorge quando in un edificio vi sono almeno due proprietari di unità immobiliari distinte. Nonostante il numero ridotto di partecipanti, il condominio minimo è soggetto alla disciplina del Codice Civile e alle normative condominiali generali.

Gestione semplificata

Si parla di condominio minimo quando un edificio con almeno due unità immobiliari autonome appartiene a due diversi proprietari, i quali condividono alcune parti comuni come il tetto, le scale, la facciata o l’ascensore. Questo tipo di condominio si distingue per la sua gestione semplificata, che non prevede l’obbligo di un amministratore, fatte salve specifiche necessità.

Normativa di riferimento

Il condominio minimo è regolato dagli articoli 1117 e seguenti del Codice Civile, che disciplinano la gestione delle parti comuni nei condomini.

La Legge n. 220/2012 (riforma del condominio) del reato ha confermato l’applicabilità della normativa condominiale anche ai condomini minimi, sebbene con alcune semplificazioni.

Vediamo quali sono le disposizioni più significative del codice civile che interessano il condominio minimo.

L’art. 1117 c.c elenca le parti comuni dell’edificio, che devono essere gestite congiuntamente dai proprietari.

L’articolo 1129 c.c stabilisce che quando i condomini sono più di nove è necessario nominare un amministratore. Da questa norma si deduce che la gestione è semplificata fino a quando i condomini non sono più di otto. In questi casi infatti la nomina dell’amministratore è facoltativa.

L’art. 1138 c.c.: esonera dall’obbligo di approvare un regolamento i condomini in cui i condomini non siano più di 10.

Come si costituisce  

A differenza di un condominio tradizionale, il condominio minimo nasce automaticamente nel momento in cui un edificio con parti comuni è suddiviso tra due proprietari diversi. Non è necessario un atto formale di costituzione. I condomini però devono rispettare alcune regole fondamentali:

  • attribuzione delle spese: le spese per la manutenzione delle parti comuni vanno ripartite tra i proprietari in base ai millesimi di proprietà, salvo diverso accordo;
  • registrazione fiscale: se il condominio ha necessità di gestire un conto corrente o di effettuare operazioni fiscali (ad esempio, pagamenti a fornitori), è necessario richiedere un codice fiscale presso l’Agenzia delle Entrate;
  • assemblea condominiale: anche se si tratta di un piccolo condominio, è necessario rispettare le regole decisionali per la gestione delle spese e delle manutenzioni straordinarie.

Maggioranze necessarie nel condominio minimo

Le decisioni nel condominio minimo devono essere prese con il consenso dei due proprietari. Se non si trova un accordo, è possibile rivolgersi al giudice per dirimere la controversia.

Le maggioranze richieste sono:

  • Unanimità per le decisioni che riguardano la modifica delle parti comuni e le innovazioni;
  • Maggioranza semplice (50% + 1) per le spese ordinarie e le decisioni di gestione.

Se uno dei due proprietari si oppone a una decisione necessaria, l’altro può rivolgersi al Tribunale per ottenere un provvedimento che autorizzi l’intervento.

Obbligo di amministratore e codice fiscale

Nel condominio minimo non è obbligatoria la nomina di un amministratore, a meno che i due condomini non lo ritengano opportuno. Tuttavia, se il condominio deve effettuare operazioni contabili o fiscali (ad esempio, lavori straordinari che richiedono detrazioni fiscali), è necessario dotarsi di un codice fiscale condominiale.

 

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i principi della deontologia forense

I principi della deontologia forense secondo il CNF Il CNF coglie l'occasione per affrontare i temi fondamentali dei principi della deontologia forense, con particolare riferimento ai doveri di probità, dignità e decoro

I principi della deontologia forense

La sentenza n. 352/2024 del Consiglio Nazionale Forense, pubblicata il 26 marzo 2025 sul sito del Codice deontologico, affronta i fondamentali principi della deontologia forense, con particolare riferimento ai doveri di probità, dignità e decoro che l’avvocato è tenuto a osservare, anche al di fuori dell’esercizio della professione.

Contesto e fatti della vicenda

L’avvocato protagonista della vicenda è stato sottoposto a procedimento disciplinare per violazione dei doveri deontologici sanciti dall’articolo 9 del Codice Deontologico Forense (CDF). Le accuse mosse riguardavano gravi reati, tra cui il riciclaggio di rifiuti tossici e il concorso esterno in associazione camorristica, commessi tra il 2001 e il 2019. Tali condotte, sebbene non direttamente legate all’attività professionale, hanno sollevato preoccupazioni circa l’integrità e l’immagine dell’intera classe forense.

La decisione del Consiglio Nazionale Forense

Il CNF, nella sua decisione, ha ribadito che i principi disciplinati dall’articolo 9 del CDF rappresentano valori fondamentali che l’avvocato deve rispettare non solo nell’esercizio della professione, ma anche al di fuori, nella vita privata. L’articolo 9, infatti, stabilisce che l’avvocato deve esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. Inoltre, impone che l’avvocato, anche al di là dell’attività professionale, osservi i doveri di probità, dignità e decoro, salvaguardando la propria reputazione e l’immagine della classe forense.

Il CNF ha sottolineato che tali principi sono essenziali per tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’intera classe professionale. Comportamenti contrari a questi valori, anche se estranei all’attività professionale, possono ledere la fiducia pubblica nell’avvocatura e compromettere l’immagine della professione. Pertanto, l’avvocato è tenuto a mantenere una condotta irreprensibile in ogni ambito della propria vita, a tutela della dignità e del decoro dell’intera categoria. Da qui il rigetto del ricorso. 

processo tributario

Processo tributario e prove in appello: l’affondo della Consulta La Corte Costituzionale si pronuncia sulla nuova disciplina delle prove in appello nel processo tributario

Processo tributario e prove in appello

Con la sentenza numero 36/2025 la Consulta ha esaminato la legittimità costituzionale di alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 220/2023, che ha introdotto modifiche significative in materia di contenzioso tributario.

L’oggetto del giudizio riguarda, in particolare, le criticità sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia, in relazione alle nuove restrizioni sulla produzione di prove in appello.

Il divieto di deposito di deleghe e procure

La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 58, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera bb) del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui vieta il deposito in appello di deleghe, procure e atti di conferimento di potere. Secondo la Corte, tale divieto contrasta con il diritto alla prova e non trova giustificazione rispetto agli altri elementi probatori ammessi in secondo grado.

Confermato il divieto sulle notifiche dell’atto impugnato

Di contro, la Corte ha ritenuto legittimo il divieto di produrre in appello le notifiche dell’atto impugnato e gli atti presupposti, escludendone il contrasto con i principi costituzionali. Questa restrizione, secondo i giudici, evita che il processo d’appello diventi un’occasione per sanare omissioni probatorie commesse in primo grado.

Dichiarata l’irragionevolezza della norma transitoria

Un ulteriore profilo di incostituzionalità ha riguardato l’articolo 4, comma 2, del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui estende le nuove regole sulle prove anche ai giudizi già pendenti in secondo grado. La Corte ha ritenuto questa disciplina irragionevole, in quanto incide retroattivamente sulle aspettative delle parti, lesinando la tutela di posizioni giuridiche già consolidate.

Implicazioni pratiche per il processo tributario

Questa pronuncia rappresenta un punto di riferimento per gli operatori del diritto tributario, chiarendo i limiti alla produzione di prove in appello e confermando la volontà del legislatore di limitare il ricorso all’appello per sanare vizi procedurali. Tuttavia, la Corte ha ribadito che le restrizioni non possono ledere il diritto alla difesa, soprattutto quando la mancata produzione della prova non sia imputabile alla parte.

maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia Maltrattamenti in famiglia: quando sia configura, analisi dell’art. 572 c.p, elementi del reato, pena, procedibilità e sentenze

Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p.

Il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’art. 572 del Codice Penale, tutela l’integrità fisica e psicologica delle persone all’interno del nucleo familiare o in rapporti assimilabili. Questa fattispecie punisce chiunque sottoponga un familiare o un convivente a sofferenze fisiche o morali in modo abituale, creando un clima di sopraffazione e paura.

Quando si configura il reato di maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti si configura quando vi è una condotta abituale di vessazioni, violenze fisiche o psicologiche, ingiurie, umiliazioni o privazioni nei confronti di un soggetto appartenente al nucleo familiare o convivente. Per l’integrazione del reato non è sufficiente un singolo episodio di violenza, ma è necessaria la reiterazione dei comportamenti vessatori nel tempo.

Le vittime possono essere:

  • il coniuge o il convivente;
  • i figli, anche adottivi;
  • gli ascendenti o gli altri parenti conviventi;
  • le persone sottoposte alla tutela, vigilanza o autorità dell’autore del reato (ad esempio, una badante nei confronti di un anziano assistito).

Cosa prevede l’art. 572 c.p.?

L’art. 572 c.p. punisce “chiunque (…) maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia”. Per la configurazione del reato è essenziale che i maltrattamenti siano continuativi e creino un perdurante stato di sofferenza nella vittima.

Elementi del reato: oggettivo e soggettivo

Analizziamo distintamente l’elemento oggettivo e quello soggettivo del reato.

Elemento oggettivo

Il reato di maltrattamenti si caratterizza per:

  • condotta abituale: comportamenti reiterati e non un singolo atto di violenza;
  • vessazioni fisiche o morali: umiliazioni, minacce, percosse, privazioni affettive, isolamento.

Elemento soggettivo

Il dolo richiesto è generico, ossia la consapevolezza e volontà di infliggere sofferenze alla vittima. Non è necessario che l’autore del reato abbia un fine specifico, ma è sufficiente che agisca intenzionalmente.

Pena prevista per i maltrattamenti in famiglia

L’art. 572 c.p. prevede una pena da 3 a 7 anni di reclusione, che viene aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o ai danni di minori, donne in stato di gravidanza, disabili o con l’uso delle armi. La pena della reclusione sale dai 4 ai 9 anni, se i maltrattamenti provocano lesioni gravi o gravissime. Se dai maltrattamenti deriva la morte della vittima, la pena può arrivare fino a 24 anni di reclusione.

Procedibilità del reato

Il reato di maltrattamenti in famiglia è procedibile d’ufficio, il che significa che l’azione penale viene avviata automaticamente non appena le autorità ne vengono a conoscenza, senza necessità di querela da parte della vittima.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha fornito diverse interpretazioni significative sul reato di maltrattamenti.

Cassazione n. 1268/2025: integra il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi il comportamento di chi impedisce alla vittima di raggiungere l’indipendenza economica, a condizione che tali condotte vessatorie provochino nella vittima uno stato di prostrazione psico-fisica e che le decisioni economiche e organizzative familiari, imposte unilateralmente e non condivise, siano il risultato di comprovati atti di violenza o prevaricazione psicologica.

Cassazione n. 20352/2024: le condotte vessatorie nei confronti del coniuge, che hanno avuto origine in ambito domestico e persistono dopo la separazione di fatto o legale, rientrano nel reato di maltrattamenti in famiglia, anziché in quello di atti persecutori, poiché il coniuge rimane parte della famiglia fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio o allo scioglimento del vincolo matrimoniale, indipendentemente dalla convivenza.

Cassazione n. 16543/2017: il reato di maltrattamenti configura un’ipotesi di reato necessariamente abituale, caratterizzato dalla presenza di una serie di azioni, prevalentemente commissive ma anche omissive, che, considerate singolarmente, potrebbero non essere punibili (come atti di infedeltà o umiliazioni generiche) o non perseguibili (come percosse o minacce lievi, perseguibili solo su querela), ma che nel loro insieme sono in grado di provocare nella vittima sofferenze fisiche e morali durature.

 

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atti di ritiro

Atti di ritiro Atti di ritiro della Pubblica Amministrazione: definizione, normativa di riferimento, tipologie, requisiti di adozione e procedura

Cosa sono gli atti di ritiro

Gli atti di ritiro rappresentano importanti strumenti di autotutela della pubblica amministrazione. Essi consentono di correggere, eliminare o modificare provvedimenti amministrativi precedentemente adottati. Essi svolgono la funzione principale di garantire la legalità e l’efficienza dell’azione amministrativa, tutelando al contempo gli interessi della collettività e dei singoli cittadini.

Gli atti di ritiro sono, in sostanza, provvedimenti con cui la pubblica amministrazione decide di revocare o annullare un atto amministrativo già emanato. Si tratta di un meccanismo di correzione dell’attività amministrativa che si basa sul principio di legalità e sull’autotutela decisionale della pubblica amministrazione.

Normativa di riferimento

La fonte principale degli atti di ritiro è la Legge n. 241/1990, che regola il procedimento amministrativo. Gli articoli di riferimento più importanti sono:

  • art. 21-quinquies: disciplina la revoca degli atti amministrativi per motivi di opportunità o sopravvenuta inidoneità a perseguire l’interesse pubblico;
  • art. 21-nonies: prevede l’annullamento d’ufficio degli atti illegittimi, in presenza di un interesse pubblico, concreo e attuale a far caducare il provvedimento.

Tipologie  

Gli atti di ritiro si distinguono principalmente nelle seguenti tipologie:

  • annullamento d’ufficio: è finalizzato ad eliminare un atto viziato da illegittimità. Esso ha efficacia retroattiva, rendendo l’atto come mai esistito (art. 21 nonies Legge 241/1990);
  • revoca: viene disposta per ragioni di opportunità, quando l’atto non risponde più all’interesse pubblico. Essa produce effetti solo per il futuro (art. 21 quinques Legge n. 241/1990). La revoca può essere disposta in seguito a una nuova ponderazione delle finalità di interesse pubblico presenti quando l’atto era stato emanato, o perché sono sopravvenute delle circostanze che non rendono opportuno il provvedimento (in questo caso si parla anche di abrogazione).
  • decadenza: è prevista quanto vengono meno i requisiti di idoneità per costituire o continuare un rapporto, quando non vengono adempiuti gli obblighi imposti dal provvedimento o quando per un certo periodo non vengono esercitate le facoltà previste dal provvedimento.
  • mero ritiro: riguarda provvedimenti inefficaci.

Requisiti per l’adozione degli atti di ritiro

Per poter adottare un atto di ritiro, l’amministrazione deve rispettare determinati requisiti:

  • motivazione adeguata: deve essere specificata la ragione dell’annullamento o della revoca.
  • principio del legittimo affidamento: tutela i destinatari dell’atto amministrativo, evitando decisioni arbitrarie o ingiuste.
  • tempestività: l’annullamento d’ufficio deve avvenire entro un termine ragionevole dall’adozione dell’atto viziato.
  • Effetti temporali: l’annullamento d’ufficio ha effetto retroattivo, mentre la revoca produce effetti solo ex nunc (dal momento della sua adozione in avanti).

Funzionamento  

L’atto di ritiro segue un procedimento articolato che prevede:

  1. accertamento della situazione giuridica: l’amministrazione verifica la legittimità e l’opportunità del provvedimento;
  2. valutazione dell’interesse pubblico: si ponderano i benefici e gli eventuali danni derivanti dal ritiro dell’atto;
  3. notifica agli interessati: i soggetti coinvolti vengono informati e, in alcuni casi, possono presentare osservazioni;
  4. adozione dell’atto di ritiro: viene formalizzato con provvedimento motivato.

 

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giurista risponde

Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT della PA In tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica, si determina un vuoto di tutela?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica non si determina un vuoto di tutela, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo (Cass., Sez. Un., 25 novembre 2024, n. 30220).

Le Sezioni Unite hanno stabilito che: “In tema di impugnazione dell’elenco annuale ISTAT delle pubbliche amministrazioni predisposto ai sensi del SEC 2010, l’art. 23quater D.L. 137/2020, nel delimitare la giurisdizione della Corte dei Conti – Sezioni Riunite alla sola applicazione della disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non ha determinato un vuoto di tutela o il mancato rispetto dell’effetto utile della disciplina unionale, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo”.

Pertanto, la Cassazione conferma la centralità dell’art. 103 Cost., che attribuisce alla Corte dei Conti una giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, senza tuttavia precludere al legislatore di ridefinirne i confini per esigenze di sistema. Inoltre, ribadisce che il sistema italiano è compatibile con il principio di effettività, affidando al G.A. il controllo sugli aspetti procedurali e di legittimità e alla Corte dei Conti il compito di vigilare sugli effetti contabili della spesa pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA.”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

sostituto procuratore

Il sostituto procuratore può impugnare le decisioni disciplinari Il Consiglio Nazionale Forense ha chiarito che il sostituto procuratore è legittimato a proporre impugnazione al CNF

Sostituto procuratore e legittimazione ad impugnare

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 353/2024 pubblicata il 13 marzo 2025 sul sito del Codice deontologico, ha chiarito che il Sostituto Procuratore della Repubblica è legittimato a proporre impugnazione avverso le decisioni dei Consigli Distrettuali di Disciplina. Tale pronuncia assume particolare rilievo nell’interpretazione dell’art. 61 della legge n. 247/2012, che indica il Procuratore della Repubblica quale titolare dell’iniziativa ad impugnare dinanzi al CNF ogni decisione del CDD.

Il caso concreto

La vicenda trae origine da un esposto presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Frosinone da parte di un assistito nei confronti del proprio avvocato. L’uomo lamentava che il professionista, incaricato di promuovere un’azione risarcitoria, avrebbe omesso di riassumere nei termini previsti una causa non iscritta a ruolo per difetto di notifica. Avrebbe fornito nel contempo informazioni fuorvianti sullo stato del procedimento e richiedendo compensi per attività non svolte. 

Il CDD di Roma disponeva l’archiviazione del procedimento per “manifesta infondatezza della notizia di illecito disciplinare”. Successivamente, il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Frosinone impugnava tale decisione dinanzi al CNF, chiedendo l’annullamento dell’archiviazione e la prosecuzione del procedimento disciplinare. 

Le motivazioni del CNF

Il CNF ha ritenuto ammissibile l’impugnazione proposta dal Sostituto Procuratore, evidenziando che, nonostante l’art. 61 della legge n. 247/2012 attribuisca formalmente al Procuratore della Repubblica il potere di impugnare le decisioni dei CDD, tale facoltà deve essere interpretata alla luce del principio di impersonalità dell’ufficio del Pubblico Ministero. Pertanto, anche i Sostituti Procuratori, in quanto componenti dell’ufficio, sono legittimati a esercitare tale potere.

Nel merito, il CNF ha rilevato che la decisione di archiviazione adottata dal CDD risultava carente di motivazione, soprattutto alla luce della pendenza di un procedimento penale a carico dell’incolpato, relativo ai medesimi fatti. Di conseguenza, il CNF ha annullato la delibera di archiviazione e ha disposto la trasmissione degli atti al CDD per il seguito. 

processo penale

Processo penale: deposito telematico obbligatorio dal 1° aprile Dal 1° aprile 2025 scatta il deposito telematico obbligatorio per alcuni atti del processo penale, come previsto dal dm 206/2024

Deposito telematico processo penale

Il Decreto n. 206 del 27.12.2024 del Ministero della giustizia modifica il precedente regolamento sul processo penale telematico, introducendo importanti novità sui depositi telematici degli atti nei procedimenti penali.

In particolare, il provvedimento ha previsto il deposito telematico obbligatorio dal 1° gennaio 2025 negli uffici giudiziari penali (Procura della Repubblica presso il tribunale ordinario; Procura europea; Sezione del giudice per le indagini preliminari (GIP) del tribunale ordinario; Tribunale ordinario; Procura generale presso la corte d’appello (limitata ai procedimenti di avocazione)) contemplando tuttavia alcune deroghe temporanee.

Depositi telematici dal 1° aprile 2025

Tra queste rileva l’obbligo differito, appunto, al 1° aprile 2025, del deposito telematico per l’iscrizione delle notizie di reato (articolo 335 del codice di procedura penale) e per gli atti relativi ai procedimenti disciplinati dal libro VI, titoli I (abbreviato) III (direttissimo) e IV (immediato, del codice di procedura penale, impugnazioni comprese. Fino al 31 marzo tali atti potevano essere depositati non telematicamente. Dal 1° aprile, invece, le iscrizioni al Registro delle notizie di reato e i depositi relativi ai giudizi abbreviati, direttissimi e immediati dovranno avvenire esclusivamente in via telematica,

Le richieste dell’OCF

Tale adempimento ha messo in subbuglio l’avvocatura, che ha già evidenziato le criticità dei depositi telematici obbligatori nel processo penale, dati i malfunzionamenti e le sospensioni registrate nei mesi scorsi. Ad intervenire, nello specifico, è l’Organismo Congressuale Forense, con una nota del 31 marzo, esprimendo “forte preoccupazione per le numerose criticità ancora presenti, che rischiano di compromettere il diritto di difesa e il corretto funzionamento della giustizia”.

A gennaio, rammenta infatti l’OCF, “87 Presidenti di Tribunale hanno sospeso l’efficacia del DM nei rispettivi circondari a fronte di segnalazioni di malfunzionamento dai rispettivi RID (Referente Distrettuale per l’Innovazione) e MAGRIF (Magistrato di Riferimento per l’Innovazione)”. Alcuni decreti di sospensione sono stati prorogati nei giorni scorsi e altri potrebbero seguire. “Restano molte inefficienze, tra cui ritardi nelle iscrizioni al Registro Notizie di Reato, mancata annotazione delle nomine che impedisce il deposito di atti successivi, richiesta sistematica del certificato ex art. 335 CPP, mancata attivazione di funzionalità essenziali e rifiuto di accettazione dei depositi”. Queste le criticità evidenziate dall’Organismo. Senza contare che “l’assenza di un atto generico impedisce il deposito di richieste non previste espressamente, mentre le diverse interpretazioni della normativa da parte dei magistrati generano incertezza applicativa”.

Inoltre, rileva la nota, “alcuni uffici giudiziari escludono la costituzione di parte civile o la produzione documentale se non previamente depositata sul Portale depositi atti penali, altri richiedono il doppio deposito cartaceo e telematico nella stessa giornata, ignorando le difficoltà di accesso al fascicolo telematico da parte delle parti processuali”.

Da qui la richiesta di “interventi urgenti per risolvere le criticità evidenziate, garantendo uniformità e funzionalità al sistema telematico”.

 

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separazione dei beni

La separazione dei beni Cos’è la separazione dei beni, come funziona, quando è opportuna, vantaggi e svantaggi, differenze con la comunione

Cos’è la separazione dei beni

La separazione dei beni è un regime patrimoniale matrimoniale in cui ciascun coniuge mantiene la proprietà esclusiva dei beni acquisiti sia prima che durante il matrimonio. Questo implica che ogni coniuge gestisce autonomamente il proprio patrimonio, senza condivisione automatica con l’altro.

Come funziona il regime

Nel regime di separazione dei beni, ogni coniuge è proprietario esclusivo dei beni acquistati a proprio nome, sia prima che dopo il matrimonio. Tuttavia, è possibile che i coniugi decidano di acquistare beni in comune; in tal caso, la proprietà sarà condivisa secondo le quote stabilite al momento dell’acquisto. È importante sottolineare che, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto, entrambi i coniugi hanno l’obbligo di contribuire alle necessità della famiglia in proporzione alle proprie capacità economiche e lavorative.

Normativa di riferimento

In Italia, il regime patrimoniale legale previsto in assenza di diversa scelta è la comunione dei beni. Per adottare la separazione dei beni, i coniugi devono esprimere una volontà esplicita. Questa scelta può essere effettuata:

  • prima del matrimonio: mediante una dichiarazione resa davanti a un notaio in presenza di testimoni;
  • al momento del matrimonio: dichiarando la scelta all’ufficiale di stato civile o al ministro di culto che celebra il matrimonio, affinché venga annotata nell’atto matrimoniale;
  • dopo il matrimonio: modificando il regime patrimoniale attraverso un atto notarile.

Quando scegliere la separazione dei beni

La scelta del regime di separazione dei beni può essere opportuna in diverse situazioni, tra cui:

  • attività imprenditoriali o professionali a rischio: per proteggere il patrimonio personale del coniuge non coinvolto da eventuali obbligazioni o debiti derivanti dall’attività dell’altro coniuge;
  • differenze patrimoniali significative: quando uno dei coniugi possiede un patrimonio significativamente superiore e desidera mantenerne la gestione separata.
  • secondo matrimonio o famiglia allargata: per tutelare gli interessi patrimoniali dei figli avuti da precedenti unioni.

Vantaggi del regime di separazione

  • autonomia patrimoniale: ogni coniuge mantiene il controllo esclusivo sui propri beni e sulle decisioni economiche correlate.
  • tutela dalle obbligazioni altrui: i creditori di un coniuge non possono aggredire il patrimonio dell’altro, limitando così i rischi finanziari.

Svantaggi della separazione dei beni

  • mancata condivisione automatica: i beni acquistati non sono automaticamente condivisi, il che potrebbe richiedere accordi specifici per la gestione di patrimoni comuni.
  • gestione separata delle risorse: potrebbe risultare più complesso coordinare le finanze familiari, soprattutto in presenza di figli o spese comuni significative.

Differenze con la comunione dei beni

La principale differenza tra separazione e comunione dei beni risiede nella titolarità dei beni acquisiti durante il matrimonio:

  • Comunione dei beni: i beni acquistati dopo il matrimonio, ad eccezione di quelli personali, sono di proprietà comune di entrambi i coniugi.
  • Separazione dei beni: i beni acquistati da ciascun coniuge restano di proprietà esclusiva di chi li ha acquistati.

Inoltre, nel regime di comunione, i creditori possono rivalersi sui beni comuni per debiti contratti da uno dei coniugi nell’interesse della famiglia, mentre nella separazione dei beni, i creditori possono aggredire solo il patrimonio del coniuge debitore.

La scelta tra comunione e separazione dei beni dovrebbe essere ponderata attentamente, considerando le specifiche esigenze e situazioni patrimoniali della coppia, al fine di adottare la soluzione più idonea alla tutela degli interessi di entrambi i coniugi.

 

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messa in mora

La messa in mora Messa in mora: cos’è, quali sono i suoi requisiti, normativa di riferimento, procedura di messa in mora e fac-simile

Cos’è la messa in mora del debitore

La messa in mora è un atto formale con cui il creditore sollecita il debitore ad adempiere a un’obbligazione. Questo atto è disciplinato dall’art. 1219 del Codice Civile e rappresenta un passaggio fondamentale prima di avviare azioni legali per il recupero del credito.

Si tratta in sostanza di una diffida scritta che il creditore invia al debitore per richiedere il pagamento di una somma dovuta o l’adempimento di una prestazione.

Lo scopo della messa in mora

Essa ha lo scopo di:

  • costituire formalmente in mora il debitore;
  • interrompere la prescrizione del credito;
  • creare le basi per il risarcimento dei danni derivanti dal ritardo.

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 18631/2021 ha stabilito che, per interrompere la prescrizione tramite la costituzione in mora (art. 1219 c.c.), è sufficiente una comunicazione scritta che manifesti chiaramente la volontà del creditore di ottenere il pagamento, senza necessità di formule o adempimenti specifici. Tale comunicazione deve identificare il debitore e contenere una richiesta esplicita di adempimento. La Corte ha inoltre sottolineato che i giudici di merito devono verificare se la frase “Attendo pertanto il pagamento di quanto sopra accertato” costituisca una semplice sollecitazione o una vera e propria intimazione di pagamento.

Di recente, sempre in relazione alla forma e ai requisiti della lettera messa in mora la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2335/2024 ha chiarito che la sottoscrizione è un requisito imprescindibile per l’atto di costituzione in mora, poiché ne determina la validità e l’efficacia interruttiva della prescrizione. Essendo un atto giuridico unilaterale recettizio, a contenuto dichiarativo, richiede la forma scritta “ad validitatem”, e la firma del creditore attesta la paternità della dichiarazione. La mancanza di sottoscrizione rende l’atto inidoneo a produrre gli effetti giuridici previsti dall’art. 2943, comma 4, c.c., e tale carenza non può essere sanata successivamente con condotte che tentino di attribuire efficacia retroattiva all’atto.

Requisiti

Affinché la messa in mora sia valida, deve contenere i seguenti elementi:

  • dati delle parti (creditore e debitore);
  • descrizione chiara dell’obbligazione (importo del debito o prestazione dovuta);
  • termine per l’adempimento (generalmente 15 giorni);
  • avviso delle conseguenze legali in caso di mancato pagamento;
  • firma del creditore o del suo rappresentante legale.

Normativa di riferimento

L’art. 1219 c.c. stabilisce che la messa in mora è necessaria per rendere esigibile il credito, salvo i casi in cui:

  • l’obbligazione derivi da un fatto illecito;
  • il debito sia già scaduto e il debitore abbia dichiarato di non voler pagare;
  • il termine di pagamento sia essenziale per il contratto.

Procedura

La procedura prevede i seguenti passaggi:

  1. redazione della lettera completa di tutti gli elementi essenziali sopra indicati;
  2. invio della lettera al debitore tramite raccomandata A/R o PEC (Posta Elettronica Certificata);
  3. attesa della risposta: il debitore ha un termine per adempiere (generalmente 15 giorni). Trascorso questo periodo senza pagamento, il creditore può:
  • intraprendere un’azione legale nelle forme ordinarie;
  • richiedere un decreto ingiuntivo, in presenza dei presupposti richiesti dalla legge per il procedimento monitorio.

Se il debitore non paga dopo la messa in mora

Se il debitore non provvede al pagamento, il creditore può agire legalmente attraverso:

  • la procedura per decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento velocemente;
  • il pignoramento di beni mobili, immobili o conti correnti;
  • l’azione di risarcimento danni causati dal ritardo nell’adempimento.

Fac-simile di lettera di messa in mora

Oggetto: Messa in mora per mancato pagamento

Spett.le [Nome del debitore],
Con la presente, la sottoscritta [Nome e cognome del creditore], residente in [Indirizzo], la invita formalmente a provvedere al pagamento della somma di [Importo dovuto] entro e non oltre [Termine per il pagamento].

Il debito deriva da [Descrizione del motivo del credito, es. fattura n. XYZ del XX/XX/XXXX].

Decorso inutilmente il termine, mi vedrò costretto ad agire per il recupero del credito, con aggravio di spese legali a suo carico.

 

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