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Adozione internazionale e persone singole È costituzionalmente legittima la disciplina di cui agli artt. 29bis, comma 1, e 30, comma 1, L. 184/2983 che esclude le persone singole dalla procedura di adozione internazionale?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

Va dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 29bis, comma 1, L. 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6 della medesima legge, non include le persone singole residenti in Italia fra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere così al tribunale per i minorenni, del distretto in cui hanno la residenza, che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione (Corte cost. 21 marzo 2025, n. 33 – Adozione internazionale e persone singole).

Dinanzi alla censura di legittimità costituzionale mossa dal Tribunale fiorentino e riguardante sia l’art. 29bis, comma 1, sia l’art. 30, comma 1, L. 184/2983, la Corte costituzionale ha deciso di investire la sua attenzione solo sulla prima delle due disposizioni.

L’evoluzione storica della normativa che ha riguardato l’adottabilità dei minori e che affonda le sue radici nel periodo successivo alla prima guerra mondiale evidenzia come il legislatore abbia nel tempo sempre più precluso la possibilità di adozione da parte di persone singole. A dispetto di questo approccio legislativo, la Consulta ha ritenuto di dover richiamare e valorizzare le disposizioni previste dall’ordinamento che permettono alle persone singole di adottare dei minori. Ai sensi dell’art. 25, comma 4, L. 184/1983, si consente l’inserimento del minore in un nucleo monoparentale, e quindi l’adozione da parte di un genitore singolo, se durante l’affidamento preadottivo uno dei due coniugi muore o diventa incapace. Il medesimo effetto lo si rinviene, ex art. 25, comma 5, L. 184/1983, anche nell’ipotesi in cui nell’affidamento preadottivo intervenga la separazione tra i coniugi affidatari. Altresì, ai sensi dell’art. 44, comma 3, L. 184/1983 si consente l’adozione in casi particolari da parte di persone singole. In tutte le ipotesi citate l’obiettivo del legislatore è quello di garantire la continuità del rapporto affettivo, obiettivo che, ad avviso della Consulta, si rinviene tutt’oggi anche nelle ipotesi di adozione da parte di coppie coniugate in seguito a un prolungato periodo di affidamento, e che può sussistere anche nell’ipotesi di adottabilità da parte di una singola.

In seguito ad una ricognizione della disciplina attuale, la Consulta ha evidenziato come l’aspirazione alla genitorialità, quindi la scelta di adottare o meno un minore, sia un’estrinsecazione della libertà di autodeterminazione di ciascun individuo di cui all’art. 8 Cedu e agli artt. 2, 3, 31 Cost. (Corte EDU 27 maggio 2021, Marchi c. Italia; Corte EDU 16 gennaio 2018, Nedescu c. Romania; Corte cost. 162/2014; Corte. cost. 332/2000) e che tale libertà non è suscettibile di ingiustificate limitazioni. Non possono, infatti, sussistere irragionevoli compressioni della scelta della genitorialità sia quando una persona può accedere all’adozione di minori in quanto soddisfa i requisiti previsti dalla legge sia quando non vi può accedere perché persona singola.

Sulla scorta di questa premessa la Corte ha pertanto ritenuto che l’esclusione della persona singola dall’accesso all’adozione internazionale sia lesiva degli artt. 2 e 117, comma 1, Cost. e questo in relazione all’art. 8 Cedu. Infatti, la normativa censurata lede la persona singola che abbia aspirazioni genitoriali e contestualmente non trova legittimazione in esigenze che sociali che fondino una ragionevole esclusione di queste persone dall’accesso all’adozione di minore straniero. A sostegno dell’irragionevolezza del divieto sussistono altre due argomentazioni. Da un lato, infatti, si evidenzia come a seguito della riforma del 2013 esista un unico stato di figlio ex art. 315 c.c. e non vi sia più nemmeno la distinzione tra figlio nato in costanza o meno di matrimonio. Dall’altro lato, invece, non vi è alcuna fondata ragione di ritenere che l’esclusione aprioristica delle persone singole dall’accesso alla genitorialità garantisca maggiormente al minore un ambiente stabile e armonioso (Corte cost. 16 maggio 1994, n. 183). Infatti, l’interesse del minore è comunque preservato dal giudizio di idoneità dell’adottante da parte dell’autorità giudiziaria, la quale guarderà alla rete familiare di riferimento.

Infine, la Corte ha sottolineato come il divieto alla persona singola di accedere alla genitorialità mediante l’adozione internazionale si riverbera negativamente, oltre che sul diritto all’autodeterminazione della persona singola, sul diritto del minore ad essere accolto in un ambiente stabile e armonioso.

 

 

(*Contributo in tema di “Adozione internazionale e persone singole”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate? Serve la prova dell’urgenza La Cassazione chiarisce che il condomino che anticipa spese urgenti per la cosa comune ha diritto al rimborso solo se dimostra l'urgenza

Spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate: con l’ordinanza n. 16351/2025, la seconda sezione civile della Cassazione ha ribadito un principio consolidato: il condomino che anticipa spese per la conservazione della cosa comune senza l’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea ha diritto al rimborso solo se dimostra l’urgenza dell’intervento, ai sensi dell’art. 1134 c.c. 

Il caso concreto

Il caso in esame riguardava condomini dell’ultimo piano che avevano anticipato lavori urgenti per la riparazione della copertura e dell’impianto di smaltimento delle acque meteoriche, gravemente deteriorati. Le somme anticipate superavano l’importo minimo, richiedendo un rimborso dagli altri condomini. 

Urgenza, non mera necessità

La Cassazione ha confermato che non basta la necessità dei lavori: è necessario dimostrare che essi non potevano essere differiti. L’urgenza si configura quando ritardare l’intervento avrebbe potuto provocare un danno, anche potenziale, alla cosa comune o alla sicurezza delle persone.

La Suprema Corte ha ribadito che l’urgenza va valutata secondo il criterio del “buon padre di famiglia”, considerando l’indifferibilità e l’impossibilità di avviso agli altri. 

Onere della prova: a carico del condomino

Spetta al condomino che chiede il rimborso dimostrare:

  1. le condizioni pericolose o degradanti della parte comune;

  2. l’indifferibilità dei lavori;

  3. l’impossibilità di coinvolgere tempestivamente l’amministratore o l’assemblea. 

Senza tali elementi, il diritto al rimborso non sussiste.

Allegati

ministero della giustizia

Ministero della Giustizia Ministero della Giustizia: cos'è, chi lo presiede, come è disciplinato e organizzato e quali funzioni svolge

Ministero della Giustizia: cos’è

Il Ministero della Giustizia è un organo centrale del governo italiano, cruciale per il corretto funzionamento dello stato di diritto.

La sua missione principale è garantire l’efficienza e la trasparenza dell’amministrazione giudiziaria in Italia, estendendo la sua competenza ai settori civile, penale, minorile e penitenziario.

Esso rappresenta un organismo fondamentale per la democrazia italiana, perché garantisce che i principi di legalità e giustizia siano concretamente applicati e accessibili a tutti i cittadini.

Attualmente, il dicastero è presieduto dal Ministro Carlo Nordio, in carica dal 22 ottobre 2022.

Per accedere ai servizi online dedicati è sufficiente visitare il sito ufficiale Ministero della Giustizia

Il Ministero nella Costituzione Italiana

Il Ministero della Giustizia riveste un’importanza tale da essere l’unico ministero esplicitamente citato nella Costituzione italiana, in particolare negli articoli 107 e 110. Questo sottolinea la sua funzione insostituibile nel mantenimento dell’ordine legale e della giustizia.

L’articolo 110 stabilisce che, fermo restando le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), al Ministro della Giustizia spettano l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Ciò include la supervisione dell’organizzazione degli uffici giudiziari (tribunali, corti, cancellerie, segreterie), la gestione del personale amministrativo e la cura delle infrastrutture.

L’articolo 107, comma 2, conferisce al Ministro la facoltà di promuovere l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Questo potere, sebbene delicato e bilanciato dal ruolo del CSM, evidenzia la responsabilità del Ministro nel garantire la correttezza e l’integrità della condotta giudiziaria.

Il ruolo di Guardasigilli

Il Ministro della Giustizia detiene anche il titolo di “Guardasigilli“, un’antica denominazione che riflette la sua funzione di custode del sigillo dello Stato. In questo ruolo, il Ministro è responsabile di controfirmare le leggi e i decreti per garantirne la pubblicazione ufficiale sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.

Organizzazione del Ministero: normativa di riferimento

L’organizzazione del Ministero della Giustizia è definita da specifici regolamenti, tra cui il Decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 2001, n. 55, e successivi aggiornamenti come il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 15 giugno 2015, n. 84, e il più recente Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 maggio 2024, n. 78.

Uffici e dipartimenti del Ministero della Giustizia

Il Ministero è presieduto dal Ministro e si articola in Uffici di diretta collaborazione del Ministro e in cinque Dipartimenti principali.

 Uffici di diretta collaborazione

Supportano il Ministro nelle sue funzioni di indirizzo politico e amministrativo e includono la Segreteria del Ministro, il Gabinetto del Ministro, l’Ufficio legislativo, l’Ispettorato generale, l’Ufficio per il coordinamento dell’attività internazionale, il servizio del controllo interno, il Portavoce del Ministro, l’Ufficio stampa ed informazione e l’Unità di Missione per il PNRR.

 Dipartimenti

Ciascuno è guidato da un dirigente generale, sono il cuore operativo del Ministero e sono responsabili della gestione amministrativa delle diverse aree di competenza:

  1. Dipartimento per gli affari di giustizia: si occupa della legislazione, della cooperazione internazionale e della gestione di atti e documenti ufficiali.
  2. Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi: gestisce le risorse umane (personale amministrativo degli uffici giudiziari), l’organizzazione degli uffici e i servizi di supporto alla giustizia.
  3. Dipartimento per l’innovazione tecnologica della giustizia: promuove e implementa soluzioni tecnologiche per migliorare l’efficienza dei servizi giudiziari.
  4. Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP): sovrintende alla gestione degli istituti penitenziari, alla rieducazione dei detenuti e alla sicurezza carceraria, avvalendosi del Corpo di Polizia Penitenziaria.
  5. Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità: si occupa della tutela e del recupero dei minori coinvolti in procedimenti giudiziari, sia come vittime che come autori di reati, e dei servizi di reinserimento sociale per adulti sottoposti a misure penali non detentive.

Funzioni principali del Ministero della Giustizia

Il Ministero della Giustizia ha una vasta gamma di responsabilità che vanno oltre la semplice organizzazione degli uffici. Si ricordano le più importanti.

  • Organizzazione degli uffici giudiziari: provvede alla creazione, alla manutenzione e al funzionamento di tribunali, corti e tutti i servizi annessi (cancellerie, segreterie, ecc.), garantendo le risorse necessarie per l’operato di magistrati e personale.
  • Amministrazione penitenziaria: gestisce le carceri statali, la popolazione carceraria e la Polizia Penitenziaria, che da esso dipende. Si occupa anche della manutenzione e della costruzione di nuove strutture penitenziarie.
  • Giustizia minorile: supervisiona le strutture e i servizi dedicati ai minori, che operano su base regionale attraverso i Servizi Minorili della Giustizia. Questi servizi affrontano sia problematiche sociali (adozioni, affidamenti) sia la gestione di minori autori di reati, con l’obiettivo del loro recupero e reinserimento.
  • Vigilanza professionale: vigila sull’attività di ordini e collegi professionali, come avvocati, notai, medici, commercialisti e ingegneri, garantendo il rispetto delle norme e dei codici deontologici.
  • Casellario giudiziale: amministra la banca dati contenente le informazioni relative alle condanne penali subite dai cittadini.
  • Domande di Grazia: istruisce le domande di grazia da proporre al Presidente della Repubblica.

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società di comodo

Società di comodo: disciplina e conseguenze fiscali Società di comodo: cos’è, come viene individuata, la normativa applicabile e le conseguenze fiscali previste dall’Agenzia delle Entrate

Società di comodo: cos’è

Per società di comodo si intende una società che, pur esistendo formalmente, non svolge un’attività economica reale o comunque non genera un volume di ricavi congruo rispetto agli asset patrimoniali di cui dispone. In sostanza, si tratta di entità che rimangono inattive o marginali per evitare la tassazione su redditi effettivi o per gestire beni personali sotto forma societaria.

Le società di comodo, conosciute anche come società non operative, rappresentano pertanto un fenomeno oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore fiscale italiano. La normativa in materia è finalizzata a contrastare l’utilizzo strumentale di strutture societarie costituite non per esercitare un’attività economica effettiva, ma per ottenere vantaggi fiscali indebiti.

La disciplina normativa

La disciplina delle società di comodo è contenuta:

  • nell’art. 30 della Legge 724/1994, che stabilisce i criteri per l’individuazione delle società non operative;
  • e, per gli aspetti sanzionatori e impositivi, nel TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi).

La normativa è integrata dalle circolari dell’Agenzia delle Entrate, che forniscono chiarimenti operativi e interpretativi.

Requisiti per essere considerate società “di comodo”

Una società è considerata di comodo se non supera il test di operatività previsto dalla legge. In pratica, occorre confrontare i ricavi effettivi conseguiti con una soglia minima presunta, calcolata in base a determinati coefficienti applicati al valore di alcuni beni patrimoniali (immobili, partecipazioni, beni mobili, ecc.).

I ricavi minimi presunti si calcolano applicando i seguenti coefficienti:

Se i ricavi realizzati risultano inferiori a quelli presunti, la società è classificata come di comodo.

Esclusioni e disapplicazione

La legge prevede cause oggettive di esclusione (es. società in liquidazione, fallimento ecc.) e possibilità di disapplicazione previa istanza all’Agenzia delle Entrate, dimostrando l’impossibilità oggettiva di raggiungere i ricavi minimi.

La disapplicazione può essere:

  • automatica, per situazioni già previste dalla normativa;
  • su istanza, per casi particolari valutati dall’Amministrazione Finanziaria.

Finalità del legislatore

L’obiettivo della normativa è quello di:

  • contrastare l’evasione e l’elusione fiscale;
  • scoraggiare l’uso di società per gestire beni personali senza reale attività d’impresa;
  • incentivare una gestione trasparente e coerente delle strutture societarie.

Le società di comodo sono spesso utilizzate per detenere immobili, autovetture di lusso o partecipazioni, al solo scopo di beneficiare di un regime fiscale più favorevole, simulando una fittizia operatività.

Conseguenze fiscali per le società di comodo

Le società che rientrano nella categoria delle “non operative” subiscono un regime fiscale penalizzante, che include:

1. Imputazione di reddito minimo

Se i ricavi effettivi sono inferiori alla soglia prevista, la società è tassata su un reddito minimo presunto, a prescindere dall’utile contabile.

2. Limitazioni all’uso delle perdite fiscali

Le perdite pregresse non possono essere portate in compensazione del reddito minimo.

3.  Esclusione da possibili compensazioni e rimborsi IVA 

4. IRES maggiorata di 10,5 punti percentuali

5. Sanzioni e controlli

L’Agenzia delle Entrate può applicare sanzioni amministrative in caso di dichiarazioni infedeli e disconoscere il regime societario se ritiene che vi sia un abuso del diritto.

Considerazioni conclusive

Le società di comodo rappresentano una tipologia societaria cui il legislatore dedica attenzione crescente, soprattutto in un contesto economico segnato da crisi e ristrutturazioni aziendali. Il test di operatività costituisce lo strumento principale per intercettare situazioni di inattività o di utilizzo distorto della forma societaria. Tuttavia, non ogni inattività comporta l’automatica applicazione delle penalizzazioni: la possibilità di disapplicazione resta uno strumento di tutela per quelle imprese che, per ragioni oggettive, non raggiungono i ricavi minimi pur mantenendo una finalità economica reale.

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compensazione crediti

Compensazione crediti nel rapporto di lavoro legittima Il Tribunale di Napoli riconosce la legittimità della trattenuta operata dal datore sul TFR per compensare l’indennità di preavviso non corrisposta dal dipendente

Compensazione crediti tra datore e lavoratore

Compensazione crediti: con la sentenza n. 5476/2025, il Tribunale di Napoli – sezione lavoro – ha affrontato il tema della possibilità per il datore di lavoro di trattenere unilateralmente somme dovute dal lavoratore, a fronte di poste creditorie sorte nel corso del medesimo rapporto di lavoro. In particolare, il giudice ha confermato la legittimità della compensazione tra il trattamento di fine rapporto (TFR) e l’indennità sostitutiva del preavviso dovuta dal dipendente in caso di recesso senza preavviso.

Il principio del “dare e avere” nei rapporti di lavoro

Richiamando il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. n. 26365/2024), il Tribunale ha ribadito che, quando i crediti reciproci di datore e lavoratore traggono origine dallo stesso rapporto contrattuale, non si configura una compensazione propria ai sensi dell’art. 1241 c.c., bensì un semplice accertamento del saldo finale tra le rispettive obbligazioni.

Tale elisione automatica tra debito e credito non richiede né domanda riconvenzionale né specifica eccezione di parte, potendo essere operata d’ufficio dal giudice nell’ambito del giudizio.

TFR trattenuto per compensare il preavviso mancante

Nel caso di specie, il lavoratore aveva diritto al TFR maturato, ma aveva risolto il rapporto in maniera unilaterale e immediata, senza rispettare il termine di preavviso. Il datore, nel liquidare le spettanze di fine rapporto, ha trattenuto l’importo corrispondente all’indennità sostitutiva del preavviso, versando al dipendente solo la somma residua.

Il Tribunale ha ritenuto pienamente legittima tale trattenuta, poiché fondata su obbligazioni reciproche derivanti dallo stesso contratto di lavoro. Il giudice ha quindi riconosciuto al datore la possibilità di operare una compensazione di fatto, subordinando il proprio intervento alla sola verifica della corretta quantificazione e dell’effettiva erogazione del saldo.

Compensazione implicita e ruolo del giudice del lavoro

La decisione ribadisce che, in presenza di contrapposte pretese patrimoniali tra datore e dipendente riconducibili al medesimo rapporto, il giudice può autonomamente accertare e liquidare le somme dovute a ciascuna parte, anche in assenza di eccezioni formali.

Tale dinamica non configura una compensazione tecnica, ma un accertamento contabile tra obbligazioni interdipendenti, volto a determinare l’importo effettivamente dovuto al termine del rapporto di lavoro.

Crediti e rimborsi nel rapporto di lavoro

Il principio affermato dal Tribunale di Napoli può trovare applicazione anche in altri contesti lavorativi. Ad esempio:

  • quando il datore ha diritto al rimborso di somme versate per danni arrecati dal dipendente a strumenti o beni aziendali;

  • nei casi di indebiti percetti da parte del lavoratore, come retribuzioni o indennità erogate in eccesso;

  • quando sussistono giustificati crediti documentati in capo al datore di lavoro, supportati da prove contabili (fatture, ricevute, perizie).

Tali situazioni rientrano nel più ampio concetto di conguaglio interno, che può essere valutato in sede giudiziale attraverso un’analisi del bilancio del rapporto, anche senza domanda specifica.

canone libero

Locazioni: canone libero non registrato, scatta l’adeguamento La Cassazione chiarisce: i contratti di locazione a canone libero non registrati prima del 2016 devono essere ricondotti a congruità solo da tale data, entro i limiti dei canoni concordati dalle associazioni

Locazioni canone libero: cosa dice la Cassazione

Con l’ordinanza n. 15891 del 2025, la Corte di Cassazione ha precisato che un contratto di locazione a canone libero, scritto ma non registrato, stipulato prima del 1° gennaio 2016, è soggetto alla cosiddetta “riconduzione a congruità” soltanto a partire da tale data.

Il canone che il giudice potrà stabilire, in sostituzione di quello pattuito, non potrà superare i limiti definiti dalle associazioni di categoria. Questo vale sia per i contratti a canone libero che per quelli a canone concordato.

Le tre ipotesi interpretative della Corte

I giudici hanno ricostruito il quadro normativo incrociando l’articolo 13, comma 6, della legge n. 431/1998 (nullità dei patti contrari alla legge) con l’articolo 2 della stessa legge (tipologie contrattuali). Le tre principali situazioni sono:

1. Contratto registrato ma con canone simulato

Se il contratto è registrato a canone libero, ma il canone effettivo supera quello dichiarato, il patto è nullo. È dovuto solo il canone risultante dal contratto registrato.

2. Contratto a canone concordato con canone eccedente

Nel caso di contratto a canone concordato, se il canone pattuito è superiore a quello stabilito dalle associazioni di categoria, il patto è nullo. Vale il canone concordato ufficialmente.

3. Contratto scritto e non simulato, ma non registrato

Questa è l’ipotesi affrontata dalla Cassazione. In mancanza di registrazione, il contratto è nullo. Il canone viene stabilito dal giudice entro il limite dei valori concordati dalle associazioni, a prescindere dal tipo di contratto (libero o concordato).

Effetti limitati al periodo post-2016

La Suprema Corte ha evidenziato che la riconduzione a congruità si applica esclusivamente a partire dal 1° gennaio 2016, data di entrata in vigore della disciplina che ha previsto tale meccanismo.

In precedenza, l’assenza di registrazione comportava l’inefficacia del contratto, senza possibilità di adeguamento ex lege.

impianto antincendio

Condominio: obbligo impianto antincendio Impianto antincendio: in quali casi sono obbligatori i dispositivi antincendio in condominio, il CPI e il ruolo dell'Amministratore

Impianto antincendio in condominio

La presenza di un impianto antincendio all’interno di un condominio non è sempre obbligatoria, ma dipende da precise condizioni strutturali e operative. L’obiettivo principale della presenza di eventuali obblighi è di garantire la sicurezza di tutti gli abitanti, valutando i rischi presenti e adottando le soluzioni più adeguate. Le norme vigenti stabiliscono quando è necessario dotare l’edificio di estintori, idranti e altri sistemi di protezione, e chi deve farsi carico delle relative spese.

Estintori obbligatori

La legge impone l’obbligo di installare estintori solo in determinate situazioni, come previsto dal D.M. 246/1987 e dal Testo Unico sulla Sicurezza (Decreto legislativo n. 81/2008).

Tali dispositivi devono essere presenti, ad esempio, nei locali tecnici (come centrali termiche o spazi con materiali combustibili), nelle autorimesse chiuse o sotterranee, nei vani degli ascensori se indicato dalla valutazione del rischio, e nelle aree comuni con pericoli specifici (come depositi di carburanti o quadri elettrici generali).

Inoltre, se nel condominio lavorano dipendenti come portieri o addetti alle pulizie, l’edificio è assimilato a un luogo di lavoro e gli estintori vanno installati su ogni piano.

Gli estintori devono rispettare  però precisi standard tecnici (almeno classe 21A 89BC) e devono essere collocati lungo le vie di fuga o nei pressi di potenziali fonti di incendio.

Idranti obbligatori: in quali casi?

In alcune circostanze però, gli estintori non sono sufficienti a garantire un’adeguata protezione.

Per edifici che superano i 24 metri di altezza antincendio o per autorimesse con una superficie superiore ai 300 mq, è obbligatoria infatti anche l’installazione di impianti fissi antincendio con idranti a muro o naspi rispettosi degli standard UNI EN 671-1 e 671-2. Anche centrali termiche di grande potenza o autorimesse di grandi dimensioni (più di 300 mq) possono richiedere tali sistemi.

Impianto antincendio: l’amministratore

L’amministratore condominiale ha un ruolo chiave nella gestione della sicurezza dell’edificio condominiale. Egli deve promuovere la valutazione del rischio incendio, soprattutto in presenza di lavoratori, ma è consigliabile farlo anche in loro assenza per definire le misure preventive e proteggere i residenti.

Responsabilità condivisa

Garantire la sicurezza antincendio è un dovere continuo che richiede attenzione, investimenti e collaborazione tra amministratori e condomini, accompagnati da una corretta informazione e formazione sugli eventuali comportamenti da adottare in caso di emergenza.

Certificato di Prevenzione Incendi (CPI)

Il CPI, rilasciato dai Vigili del Fuoco, certifica la conformità dell’immobile alle normative antincendio. È obbligatorio per edifici oltre i 24 metri di altezza, autorimesse con superficie superiore ai 300 mq, centrali termiche e depositi di gas. L’amministratore deve presentare una SCIA antincendio e aggiornare il certificato ogni cinque anni.

Spese e manutenzione dispositivi e impianto antincendio 

I costi per i dispositivi antincendio nelle aree comuni devono essere suddivisi tra tutti i condomini in base ai millesimi. Se invece riguardano spazi privati, paga solo chi li utilizza. La manutenzione segue la normativa UNI 9994-1:2024 e prevede controlli periodici, revisioni e collaudi, con aggiornamento del cartellino di manutenzione su ogni dispositivo.

 

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imbrattamento di cose altrui

Imbrattamento di cose altrui: resta reato La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la configurazione del reato di imbrattamento ex art. 639 c.p., anche nella forma più lieve, respingendo i dubbi di incostituzionalità

Reato di imbrattamento di cose altrui

Con la sentenza n. 105 del 2025, depositata il 7 luglio, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 639 del codice penale, nella parte in cui configura come reato l’imbrattamento di cose altrui anche nella sua forma base, cioè senza particolari aggravanti o gravi conseguenze.

Le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze

Il caso nasce da un giudizio pendente presso il Tribunale di Firenze, dove un imputato era accusato di aver imbrattato con materiale organico la porta e le pareti esterne di un immobile condominiale. Il giudice ha sollevato dubbi in riferimento agli articoli 3 e 27, comma 3, della Costituzione, ritenendo sproporzionata la sanzione penale rispetto alla gravità della condotta, anche considerando l’abrogazione del reato di danneggiamento semplice, ora trasformato in illecito civile.

L’orientamento della Corte: interesse collettivo al decoro urbano

La Corte ha chiarito che l’imbrattamento mantiene rilevanza penale per scelta consapevole del legislatore, volta a contrastare fenomeni di degrado urbano sempre più diffusi. Il danno non è solo al singolo proprietario ma colpisce un interesse collettivo, come il decoro dello spazio urbano, meritevole di una tutela penale autonoma.

L’introduzione del nuovo reato di deturpamento

A rafforzare tale orientamento è la recente introduzione, con il d.l. n. 48/2025 (convertito nella legge n. 80/2025), di una nuova figura di reato di deturpamento, che riorganizza e inasprisce il trattamento sanzionatorio dell’art. 639 c.p., configurando l’imbrattamento come condotta penalmente autonoma e non più meramente sussidiaria rispetto al danneggiamento.

Inammissibilità censure e limiti giudizio di costituzionalità

Secondo la Corte, intervenire su questa materia richiederebbe un riassetto complessivo della disciplina sanzionatoria, operazione non consentita al giudice delle leggi. La norma oggi tipizza un reato unitario, che tutela più beni giuridici (non solo patrimoniali), e il controllo di costituzionalità non può isolare singoli aspetti della condotta sanzionata.

patrocinio a spese dello stato

Patrocinio a spese dello Stato 2025: sale il limite di reddito Patrocinio a spese dello Stato: in Gazzetta Ufficiale il decreto del Ministero della Giustizia che fissa il nuovo limite di reddito

Nuovo limite di reddito per il patrocinio a spese dello Stato

Sale il limite di reddito per il patrocinio a spese dello Stato. Una novità importante per tutti coloro che potrebbero aver bisogno di assistenza legale, ma si trovano in difficoltà economiche.

Il Ministero della Giustizia ha infatti pubblicato il Decreto del 22 aprile 2025, che aggiorna i limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Questo significa che un numero maggiore di cittadini avrà la possibilità di accedere gratuitamente all’assistenza di un avvocato e di beneficiare della copertura delle spese legali.

Il patrocinio a spese dello Stato

Si ricorda in breve che il patrocinio a spese dello Stato è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione. Esso assicura a chi non ha i mezzi economici sufficienti di essere difeso in giudizio. In pratica, lo Stato si fa carico delle spese legali, permettendo a tutti, indipendentemente dalla propria situazione finanziaria, di far valere i propri diritti in tribunale o di difendersi da accuse. Questo servizio è cruciale per garantire la parità di accesso alla giustizia, principio cardine del nostro sistema democratico.

Limite di reddito adeguato all’inflazione

L’aggiornamento dei limiti di reddito è un meccanismo automatico previsto dalla legge. L’articolo 77 del Testo Unico delle spese di giustizia (D.P.R. 115/2002) stabilisce infatti che questi limiti vengano adeguati ogni due anni.

Il calcolo si basa sulla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), accertata dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) nel biennio precedente.

Questo adeguamento periodico è fondamentale per tenere conto dell’inflazione e del costo della vita. Se i limiti rimanessero invariati, con l’aumento dei prezzi, sempre meno persone riuscirebbero a rientrare nei requisiti.

Il nuovo limite di reddito 2025

Il precedente limite, fissato con decreto del 10 maggio 2023, era pari a 12.838,01 euro. Questo importo era stato calcolato tenendo conto della variazione dell’indice dei prezzi al consumo nel periodo dal 1° luglio 2020 al 30 giugno 2022.

Per il biennio successivo, ovvero dal 1° luglio 2022 al 30 giugno 2024, l’ISTAT ha rilevato un aumento dell’indice dei prezzi al consumo pari al 6,4%. In virtù di questo incremento, il Ministero della Giustizia, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha decretato il nuovo limite.

A partire dall’11 luglio 2025, data di pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale, il reddito massimo annuale per poter accedere al patrocinio a spese dello Stato è stato aggiornato a 13.659,64 euro.

 

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Compensi avvocato: il giudice non può tagliare oltre il 50% La Cassazione ribadisce che il giudice non può ridurre i compensi dell’avvocato oltre il 50% dei parametri medi previsti, anche in caso di cause semplici

Compensi avvocato: il principio della Cassazione

Compensi avvocato: con la sentenza n. 19049 depositata l’11 luglio 2025, la Sezione lavoro della Cassazione ha stabilito un principio di diritto rilevante in materia di liquidazione delle spese processuali. In particolare, ha affermato la Corte, il giudice non può in alcun caso ridurre oltre il 50% i valori medi previsti dalle tabelle ministeriali, anche quando la causa sia ritenuta di particolare semplicità. La pronuncia conferma l’orientamento già espresso in precedenti arresti (Cass. nn. 9815/2023 e 30154/2024) e si inserisce nel quadro della disciplina dell’equo compenso.

Il caso concreto: compenso liquidato al di sotto dei minimi

La vicenda trae origine da una causa in materia previdenziale instaurata da una donna contro l’INPS per il riconoscimento di un assegno mensile di assistenza. Il Tribunale di Cosenza, pur riconoscendo il diritto della ricorrente, aveva liquidato all’avvocato difensore un compenso di appena 1.932,00 euro, motivando tale riduzione con la “particolare semplicità della controversia”.

La professionista ha impugnato la decisione, lamentando la violazione del D.M. n. 55/2014, aggiornato prima dal D.M. n. 37/2018 e poi dal D.M. n. 147/2022, i quali prevedono soglie inderogabili per la determinazione del compenso forense in assenza di specifico accordo tra le parti.

Compensi avvocato: i limiti alla discrezionalità del giudice

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo che, nel determinare le spese processuali a carico della parte soccombente, il giudice non può scendere sotto il limite del 50% dei valori medi tabellari, anche se la causa appare semplice. Tale vincolo si applica in particolare nei casi di liquidazione giudiziale, cioè in assenza di un accordo tra avvocato e cliente.

Come chiarito dalla Corte, la discrezionalità del giudice è dunque delimitata:

  • può aumentare i valori medi oltre l’80% nei casi previsti;

  • può ridurre i valori medi fino al 50%, eccezionalmente fino al 70% per la sola fase istruttoria;

  • non può mai scendere sotto i minimi, pena la violazione del principio di equo compenso.

Equo compenso e funzione pubblica della soglia minima

La sentenza richiama anche la normativa sull’equo compenso, sottolineando come i parametri ministeriali costituiscano uno strumento di garanzia dell’autonomia del professionista e della qualità della prestazione, assolvendo una funzione di interesse pubblico. In particolare, l’art. 13-bis della legge professionale forense vieta compensi inadeguati e impone al giudice, in caso di squilibrio, di rideterminare il compenso secondo i criteri regolamentari.

La Corte aggiunge che il sistema italiano non si pone in contrasto con i principi dell’Unione europea: la normativa non impone tariffe rigide tra le parti, ma soltanto nei casi di liquidazione giudiziale a danno della parte soccombente. Le parti restano libere di pattuire compensi anche inferiori ai minimi, fuori dall’ambito giudiziale.

Giurisprudenza europea e compatibilità con il diritto UE

La Suprema Corte ha infine affrontato il tema della compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’Unione europea, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia del 25 gennaio 2024, causa C-438/22, in cui veniva dichiarata contraria alla concorrenza una normativa bulgara che impediva di pattuire compensi inferiori a soglie fissate per regolamento.

La Cassazione esclude analogie con il caso italiano, evidenziando tre differenze fondamentali:

  1. Le tariffe sono fissate per decreto ministeriale previa consultazione del Consiglio di Stato.

  2. La inderogabilità riguarda solo la liquidazione giudiziale, non gli accordi tra privati.

  3. L’individuazione di soglie minime è legittima perché risponde a finalità di tutela dell’interesse pubblico.

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