affidamento in prova

Affidamento in prova all’estero: la Cassazione apre alla possibilità Per la giurisprudenza di legittimità, il condannato può essere affidato in prova ai servizi sociali in uno degli Stati membri

Affidamento in prova ai servizi sociali all’estero

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7352/2025 della Prima Sezione Penale, ha stabilito che l’affidamento in prova ai servizi sociali può essere eseguito in un altro Stato membro dell’Unione Europea.

Il caso specifico

Nel caso esaminato, un condannato aveva richiesto di scontare la propria pena attraverso l’affidamento in prova ai servizi sociali in Francia, dove risiedeva stabilmente con la famiglia.

Il tribunale di sorveglianza dichiarava inammissibile l’istanza diretta ad ottenere la fruizione di misure alternative all’estero, sul presupposto che tale misura alternativa deve svolgersi in via continuativa all’interno del territorio nazionale.

L’uomo, tramite il difensore adiva il Palazzaccio. Si lamentava in particolare che nel decreto impugnato non si era tenuto conto delle sopravvenienze normative (d.lgs. n. 38/2016) e della conseguente evoluzione giurisprudenziale scaturitane, che ha affermato principi diametralmente opposti a quelli richiamati nel provvedimento.

Il decreto legislativo 38/2016

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

L’indirizzo precedente, infatti, osservano “è stato superato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, la quale è pervenuta alla opposta e condivisibile soluzione interpretativa sulla base della nuova disciplina introdotta dal decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 38, che ha dato attuazione alla decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza, delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive”.

Difatti, a seguito dell’entrata in vigore di tale decreto legislativo, “si è ritenuto che il condannato possa essere affidato in prova ai servizi sociali in uno degli Stati che ha dato attuazione a tale decisione quadro” (cfr. ex multis, Cass. n. 20977 del 15/06/2020).

Affidamento in prova sanzione sostitutiva

Ciò in quanto “l’affidamento in prova, quale misura alternativa alla detenzione, deve ritenersi assimilabile, al di là del dato letterale, a una ‘sanzione sostitutiva’ come descritta dall’art. 2, lett. e), d.lgs. n. 38 del 2016, ovvero a una sanzione (misura) che impone obblighi e impartisce prescrizioni compatibili con quelli elencati nel successivo art. 4 e che costituiscono di norma il contenuto del «trattamento alternativo al carcere». Obblighi e prescrizioni diretti, da un lato, a promuovere la risocializzazione del condannato attraverso la imposizione di regole di condotta e del mantenimento di rapporti con il Servizio sociale, nonché di prescrizioni di solidarietà e, dall’altro, a neutralizzare fattori di recidiva attraverso la sottoposizione a obblighi e divieti concernenti la fissazione di una stabile dimora, la libertà di movimento, lo svolgimento di attività, la frequentazione di determinati soggetti che possono favorire l’occasione di commissione di altri reati, la frequentazione di locali, la detenzione di armi ecc.”.

Detenzione domiciliare e semilibertà non all’estero

Ad ogni modo, ricorda opportunamente la S.C., “la misura alternativa della detenzione domiciliare, richiesta in via subordinata dal ricorrente, non potrebbe, al contrario dell’affidamento in prova, essere eseguita in altro Stato, membro dell’Unione europea, in cui li condannato ha la residenza, poiché, non facendo cessare lo stato detentivo di quest’ultimo, non rientra nell’ambito di applicazione della decisione quadro 2008/947/GAI del 23 ottobre 2019 sul reciproco riconoscimento delle decisioni sulle ‘misure alternative alla detenzione cautelare’ e non è compresa tra le ipotesi di cui all’art. 4, lett. c), d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36, di attuazione della decisione quadro (Sez. 1, n. 20771 del 04/03/2022, Ursilo, Rv. 283366 – 01)”.

Cosa che a maggior regione, precisano ancora i giudici, “deve valere per la semilibertà, che implica la detenzione notturna”.

La decisione

Fatte queste premesse, concludono dal Palazzaccio, la richiesta del condannato di eseguire la misura alternativa dell’affidamento, richiesta in via principale, in Francia, ove egli risiede stabilmente, “non avrebbe trovato alcun impedimento sul piano normativo, diversamente da quanto erroneamente affermato nel provvedimento impugnato”.

Da qui l’annullamento dello stesso con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Torino.

Allegati

giurista risponde

Assunzione sostanza stupefacente: responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte Come viene a configurarsi l’elemento soggettivo colposo dello spacciatore in relazione alla morte dell’assuntore di sostanza stupefacente?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il processo di causalità tra consegna della droga e morte, ma anche che il decesso sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che, quindi, sia accertata nei suoi confronti la presenza, in concreto, dell’elemento soggettivo colposo, correlata alla violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma che incrimina il reato-base e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assuma la sostanza drogante, calibrate secondo la figura di un agente – modello che si trovi nella specifica situazione di quello “reale” ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto da quest’ultimo conosciute e conoscibili (Cass., sez. V, 14 novembre 2024, n. 41898).

In seguito ad una sentenza di proscioglimento per omissione di soccorso e contestuale condanna in appello ai sensi del reato ex art. 586 c.p. e cessione di sostanze stupefacenti, veniva presentato ricorso presso il Supremo Consesso per due ordini di motivi. Da una parte, violazione di legge per l’affermazione di responsabilità ex art. 586 c.p. per il mancato riconoscimento dell’elemento soggettivo colposo per la morte della persona offesa, assuntrice abituale di sostanza stupefacente; il secondo, invece, si limitava al vizio di legge per il trattamento sanzionatorio complessivo e il riconoscimento della recidiva. Il caso concerneva la responsabilità penale di uno spacciatore per la morte dell’assuntrice per la cessione di una dose, dopo che i due avevano trascorso insieme la notte a bere e consumare eroina, tanto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero riconosceva tra le cause del decesso un sovradosaggio acuto di oppiacei.

In merito al riconoscimento della colpa in capo all’imputato, il quesito veniva ritenuto fondato da parte del Supremo Consesso.

Il grado di colpa esigibile e il relativo accertamento necessario venivano illustrati dalla Corte partendo dalla interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla sentenza di Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676 (cd. Ronci). Quest’ultima si occupava di illustrare la compatibilità tra il reato di morte come conseguenza di altro delitto e il principio di colpevolezza, aderendo alla tesi già discussa in giurisprudenza della responsabilità per colpa in concreto.

Partendo dall’accertamento, questo deve necessariamente svolgersi mediante un giudizio di prognosi postuma, focalizzata sul frangente in cui è avvenuto il fatto. Oggetti dell’accertamento sono il nesso di causalità tra la consegna della droga e l’evento morte, ma anche e soprattutto la concreta rimproverabilità del decesso in capo allo spacciatore. Quest’ultima può ritenersi presente qualora la sussistenza dell’elemento soggettivo colposo risulti correlato alla violazione di una regola precauzionale differente a quella incriminante il reato – base e in presenza di un concreto coefficiente di prevedibilità ed evitabilità del rischio per il bene (ndr. vita dell’assuntore). Il parametro di valutazione è quello del comportamento dell’agente – modello, basato su tutte le circostanze del caso concreto dall’autore conosciute e conoscibili. Su queste fondamenta si è poi incardinata tutta la giurisprudenza successiva in materia di imputazione dell’omicidio dell’assuntore di sostanza stupefacente nei confronti dello spacciatore ex art. 586 c.p. (da ult. Cass. 19 settembre 2018, n. 49573).

L’analisi della Corte di legittimità prosegue riconoscendo il reato di morte come conseguenza di altro delitto quale forma di delitto aggravato dall’evento. Essa assume i contorni di una forma speciale di aberratio delicti ex art. 83, comma 2 c.p.: l’evento-morte, non voluto, viene imputato a titolo di colpa nell’ambito di un concorso formale di reati, in quanto derivante dalla commissione di una diversa condotta voluta e prevista ex se costituente reato. Tale circostanza impone che la valutazione del coefficiente psicologico colposo richiesto debba essere riferita al momento dell’evento morte, seppur collegato oggettivamente al precedente delitto doloso, poiché è dall’evento che viene ricavata la regola precauzionale violata.

Due sono gli elementi che confluiscono nella ricostruzione del fatto di reato: da una parte, l’agire prodromico all’evento che deve essere assistito dalla coscienza e volontà degli elementi essenziali del reato; dall’altra, l’accertamento della colpa, la quale deve essere proiettata nella fase consequenziale alla consumazione del delitto doloso. Pertanto, l’accertamento appena accennato va legato al momento della cessione della dose di sostanza stupefacente e non, come veniva realizzato dal giudice di merito nel caso di specie, nell’arco temporale tra questa e il decesso per non aver prestato assistenza alla vittima.

D’altra parte, la giurisprudenza di merito non ha valorizzato altri elementi ragionevolmente sintomatici della prevedibilità in concreto; indici di colpa possono risultare, sempre per giurisprudenza di legittimità consolidata, nella cessione contestuale o ravvicinata di più dosi alla medesima persona, nella consegna di una dose in elevata concentrazione o nella cessione a soggetto in evidente stato di alterazione da alcol (Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676).

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

animali in condominio

Animali in condominio: nullo il regolamento che li vieta Animali in condominio: è nulla la clausola del regolamento contrattuale che ne vieta la detenzione ai condomini

Clausola che vieta animali in condominio

Per il Tribunale di Cagliari è nulla la clausola del regolamento condominiale di natura contrattuale che vieta la detenzione di animali in condominio. La sentenza n. 134/2025, pubblicata il 28 gennaio, ha deciso in questo senso perché ha riconosciuto l’importanza del rapporto affettivo tra uomo e animale sancita indirettamente dal comma 5 dell’articolo 1138 del codice civile, ai sensi del quale “Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici.”

Animali in condominio vietati dal regolamento

La sentenza pone fine a un vicenda giudiziaria intrapresa da un condomino nei confronti di tutti gli altri condomini, perché il regolamento contrattuale del condominio vietava il possesso di animali domestici. Occorre tuttavia considerare che l’evoluzione normativa ha modificato la considerazione giuridica degli animali. Il Codice civile, all’articolo 1138, stabilisce infatti che il regolamento condominiale non può vietare la detenzione di animali domestici. Questo principio riconosce quindi la convivenza con un animale come un diritto fondamentale.

Regolamenti invalidi se vietano gli animali  in condominio

Il tribunale decide quindi di accogliere la domanda del singolo condomino, dichiarando nulla la clausola del regolamento contrattuale perché in contrasto con l’articolo 1138 del Codice civile, norma di ordine pubblico. La coscienza sociale considera gli animali domestici parte integrante della vita familiare. La giurisprudenza ha quindi confermato che le disposizioni condominiali devono garantire la tutela del legame affettivo tra individuo e animale.

La decisione ha stabilito inoltre che tutti i regolamenti condominiali devono rispettare la legge. Qualsiasi disposizione contraria a norme di ordine pubblico perde efficacia. Secondo l’articolo 155 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile, le norme regolamentari non possono derogare alle leggi. Di conseguenza, anche i regolamenti contrattuali risultano invalidi se impongono divieti contrari alla normativa vigente. 

Evoluzione normativa sugli animali domestici

La sentenza ricorda che negli ultimi anni, la legislazione ha rafforzato la tutela degli animali. La legge n. 281/1991 ha introdotto la protezione degli animali da affezione. La legge n. 189/2004 ha punito il maltrattamento e l’uccisione degli animali. La legge n. 120/2010 ha imposto l’obbligo di soccorrere animali feriti. A livello europeo, la Convenzione per la protezione degli animali da compagnia e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea impongono agli Stati membri di considerare il benessere degli animali.

L’articolo 1138 del Codice civile pertanto non fa che riflettere questa evoluzione. Esso favorisce la convivenza tra uomini e animali domestici nei condomìni. I regolamenti infatti non possono contenere divieti che impediscano questa convivenza. Il rapporto affettivo tra uomo e animale riceve tutela giuridica.

Orientamenti giurisprudenziali contrastanti

Il legislatore ad oggi non ha ancora chiarito se il divieto di detenere animali domestici si applichi solo ai regolamenti assembleari o anche a quelli contrattuali. Questa lacuna ha generato interpretazioni divergenti. Alcuni tribunali ritengono infatti che la norma riguardi solo i regolamenti approvati dall’assemblea. In questi casi quindi il singolo condomino ha il diritto a possedere animali, senza subire limitazioni imposte dalla maggioranza.

Altri orientamenti sostengono invece che il principio di tutela degli animali si estenda a tutti i regolamenti, siano essi di natura assembleare che contrattuale. La giurisprudenza più recente rafforza il diritto a convivere con gli animali domestici e considera nulle le clausole che impongono divieti, perché violano principi di ordine pubblico e diritti fondamentali dell’individuo.

Ne consegue, in conclusione che qualsiasi clausola regolamentare che imponga un simile divieto risulta nulla.

 

Leggi anche gli altri articoli sul diritto condominiale 

Allegati

licenza edilizia

Licenza edilizia La licenza edilizia: definizione, evoluzione normativa nella concessione edilizia e nel permesso di costruire, giurisprudenza rilevante

Cos’è la licenza edilizia

La licenza edilizia era, un tempo, un’autorizzazione rilasciata dalle autorità competenti per la realizzazione di interventi edilizi. Essa serviva a certificare che i lavori da eseguire fossero conformi alla normativa urbanistica e alle leggi edilizie locali. La licenza si distingue dalla concessione edilizia, in quanto originariamente era un vero e proprio atto di “permissio” da parte dell’amministrazione pubblica, che legittimava l’inizio dei lavori.

La licenza edilizia si basava sul presupposto che l’amministrazione avesse il diritto di autorizzare o vietare la costruzione di edifici, in funzione del rispetto delle norme di pianificazione territoriale, dell’estetica del paesaggio e delle esigenze di sicurezza.

Dalla licenza edilizia alla concessione edilizia

L’introduzione della legge 28 gennaio 1977, n. 10, segna un momento fondamentale nell’evoluzione della licenza edilizia, quando la licenza edilizia viene sostituita dalla concessione edilizia. In questo periodo, l’autorità comunale non rilasciava più una licenza “discrezionale”, ma una concessione che divenne un atto vincolato, basato sull’esistenza di determinate condizioni legali.

La concessione edilizia, a differenza della licenza, non dipendeva più dalla valutazione soggettiva dell’amministrazione, ma era subordinata alla verifica del rispetto di specifici requisiti stabiliti dal piano regolatore e dalle normative urbanistiche locali.

La concessione edilizia: un nuovo approccio

La legge n. 10/1977 stabilì che la concessione edilizia doveva essere rilasciata se l’opera proposta fosse conforme agli strumenti urbanistici, alla legislazione edilizia e alle prescrizioni del piano territoriale. Questo significava che i comuni non avevano più un margine di discrezionalità nel decidere se autorizzare o meno l’opera, ma erano obbligati a rilasciare la concessione se il progetto rispettava le normative. La concessione edilizia mirava a semplificare le pratiche burocratiche, rendendo l’iter edilizio più chiaro e uniforme.

La sostituzione con il permesso di costruire

Con l’entrata in vigore del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), la concessione edilizia venne sostituita dal permesso di costruire. Sebbene il permesso di costruire rappresenti una continuazione del principio giuridico della concessione edilizia, esso ha introdotto una maggiore semplificazione e velocizzazione dei procedimenti burocratici e ha ridotto le distinzioni tra interventi ordinari e straordinari.

La principale novità del permesso di costruire è che l’amministrazione non si limita a verificare la conformità dell’opera rispetto alle normative, ma ha anche il compito di valutare l’impatto dell’opera sull’ambiente e sulla qualità urbana. Inoltre, il permesso di costruire non è più rilasciato da un atto discrezionale dell’amministrazione, ma è subordinato a controlli puntuali su vari aspetti tecnici e normativi.

Giurisprudenza sulla licenza edilizia

Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione delle norme relative alla licenza edilizia e alle successive forme di autorizzazione edilizia. Diverse sentenze hanno cercato di chiarire la distinzione tra i vari tipi di autorizzazione e di interpretare la legittimità di determinate pratiche edilizie.

Cassazione civile n. 29166/2021

La licenza o concessione edilizia ha rilevanza solo nel rapporto tra la Pubblica Amministrazione e il privato richiedente, senza influenzare i rapporti tra privati, che restano regolati dal codice civile, dalle leggi speciali in materia edilizia e dai regolamenti locali. Pertanto, nelle controversie tra privati riguardanti opere edilizie, la presenza o assenza della concessione è irrilevante, salvo il caso di licenza in deroga. Il rispetto della concessione non garantisce di per sé l’assenza di violazioni dei diritti di terzi, così come la mancanza della licenza non comporta automaticamente un illecito, purché la costruzione sia conforme alle norme vigenti.

Cassazione n. 43840/2018

La mancata approvazione della licenza edilizia non incide sulla qualificazione di un’area come “cantiere”, secondo la definizione fornita dal D. Lgs. n. 81/2008. Diversamente, si rischierebbe di escludere dall’applicazione del diritto penale del lavoro attività edili abusive o completamente irregolari, favorendo l’elusione della normativa predisposta a tutela dei lavoratori, un’eventualità evidentemente inaccettabile.

Cassazione n. 2852/1983

La licenza edilizia ha la funzione limitata di eliminare un ostacolo di natura pubblicistica all’esercizio del diritto di edificare, senza tuttavia conferire all’attività del privato un carattere di interesse generale. Inoltre, esso non incide sugli eventuali vincoli di diritto privato che possano impedire la realizzazione dell’opera, i quali restano pienamente efficaci e non subiscono alcuna interferenza. Di conseguenza, anche quando la licenza è stata rilasciata legittimamente, il giudice ordinario conserva il potere di valutare la conformità della costruzione alle disposizioni del regolamento edilizio, in particolare per quanto riguarda il rispetto delle distanze legali.

 

Leggi anche: Permesso di costruire

incidente probatorio

Incidente probatorio Cos’è l’incidente probatorio, procedimento, i requisiti e l’ammissibilità e la giurisprudenza recente della Cassazione

Cos’è l’incidente probatorio

L’incidente probatorio è un istituto del diritto processuale penale italiano che consente l’acquisizione anticipata di prove durante le indagini preliminari, garantendo che queste vengano raccolte con le stesse formalità previste per il dibattimento. Questo strumento è disciplinato dagli articoli 392 e seguenti del Codice di Procedura Penale (c.p.p.).

Definizione e finalità

L’incidente probatorio permette al pubblico ministero o alla persona sottoposta alle indagini di richiedere al giudice l’assunzione anticipata di una prova quando vi è il rischio che questa possa disperdersi o non essere più acquisibile in sede dibattimentale. L’obiettivo principale consiste quindi nel preservare l’integrità e la disponibilità delle prove fondamentali per il processo.

Procedimento

La richiesta di incidente probatorio deve essere presentata dal pubblico ministero o dalla persona sottoposta alle indagini entro i termini previsti per la conclusione delle indagini preliminari e comunque entro un termine sufficiente per l’assunzione della prova prima della scadenza di detti termini. Una volta ricevuta la richiesta, il giudice valuta se sussistono i presupposti di legge per procedere. Se la richiesta viene accolta, l’assunzione della prova avviene in contraddittorio tra le parti, con le stesse garanzie previste per il dibattimento.

Requisiti e ammissibilità dell’incidente probatorio

Secondo l’articolo 392 c.p.p., l’incidente probatorio è ammissibile nei seguenti casi:

  • Testimonianza a rischio: quando vi è fondato motivo di ritenere che un testimone non potrà essere esaminato durante il dibattimento perchè vi sono elementi per ritenere che la stessa sia soggetta a violenza, minaccia o offerta di denaro per dichiarare il falso o non deporre;
  • Prove soggette a modifiche: quando si teme che una prova possa subire alterazioni o non essere più disponibile in futuro.
  • Reati specifici: nei procedimenti per determinati reati, come quelli contro la libertà sessuale o che coinvolgono minori, l’incidente probatorio può essere richiesto per assumere la testimonianza della persona offesa, anche al di fuori delle ipotesi sopra indicate.

Giurisprudenza della Cassazione

La giurisprudenza ha più volte affrontato temi legati all’incidente probatorio. Ad esempio, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27104 del 23 maggio 2024, hanno stabilito che è abnorme, e quindi impugnabile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice rigetta la richiesta di incidente probatorio riguardante la testimonianza della persona offesa in reati come maltrattamenti, motivando il rigetto con la non vulnerabilità della persona offesa o la possibilità di rinviare la prova. La Corte ha ritenuto tali presupposti come presunti per legge, rendendo il rigetto del tutto ingiustificato.

La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza n. 17521 del 2 maggio 2024, invece ha esaminato un ricorso contro l’ordinanza del GIP che aveva respinto la richiesta di incidente probatorio avanzata dal Pubblico Ministero. La richiesta riguardava l’escussione di un minore, presunta vittima di maltrattamenti da parte del padre, ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis, c.p.p.

La Cassazione ha chiarito che il rigetto della richiesta non interrompe il procedimento, ma rientra nella discrezionalità del giudice. Il GIP valuta la necessità e l’opportunità dell’incidente probatorio in base alle specificità del caso e alla tutela del minore.

Cassazione n. 42942/2024: A seguito della modifica dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. i), n. 1, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, il giudice deve rinnovare l’istruttoria quando una diversa valutazione di una prova dichiarativa, considerata decisiva, riguarda una testimonianza raccolta tramite incidente probatorio. L’assenza di un’esplicita menzione delle prove acquisite con questa modalità non implica che il legislatore abbia voluto escluderle dalla rinnovazione.

 

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto penale 

incentivo al posticipo

Incentivo al posticipo del pensionamento: al via le domande Implementato dall'Inps il servizio per la presentazione della domanda di incentivo al posticipo del pensionamento

Incentivo posticipo pensionamento

Con il messaggio n. 799/2025, l’INPS ha reso noto di aver implementato il servizio per la presentazione della domanda di incentivo al posticipo del pensionamento.

Il servizio online, che gestisce le domande di pensione, consente la presentazione della domanda dell’incentivo, previsto dalla legge di bilancio 2023 (art. 1, legge 29 dicembre 2022, n. 197) e modificato dalla legge di bilancio 2025 (art. 1, legge 30 dicembre 2024, n. 207).

Come richiederlo

lavori usuranti

Lavori usuranti Lavori usuranti: cosa sono, chi rientra nell'elenco, qual è la normativa e come ottenere la pensione anticipata

Cosa sono i lavori usuranti

I lavori usuranti sono quelle attività lavorative caratterizzate da un’elevata gravosità fisica o da condizioni ambientali particolarmente difficili, che possono compromettere la salute del lavoratore nel lungo periodo. A causa di tali fattori, chi svolge queste mansioni ha diritto alla pensione anticipata rispetto ai requisiti ordinari previsti per la pensione di vecchiaia.

Quali sono i lavori usuranti

Secondo il D.Lgs. 67/2011, rientrano tra i lavori usuranti le seguenti categorie:

  • Lavori in galleria, cave o miniere con esposizione a polveri e agenti nocivi.
  • Lavori in cassoni ad aria compressa e ad alte pressioni.
  • Lavori svolti ad alte temperature, come in fonderie o forni industriali.
  • Lavori notturni svolti per almeno 64 notti all’anno.
  • Lavori su turni con almeno 6 ore tra mezzanotte e le 5 del mattino.
  • Conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo, con capacità superiore a 9 posti.
  • Lavori di catena nell’industria manifatturiera, come il settore tessile o alimentare.

Perché danno diritto alla pensione anticipata?

L’esposizione prolungata a condizioni di lavoro gravose incide negativamente sulla salute del lavoratore, determinando un maggiore rischio di patologie professionali. Per questa ragione, la legge prevede misure previdenziali specifiche che consentono ai lavoratori usuranti di accedere alla pensione con requisiti ridotti.

Requisiti per la pensione anticipata

La pensione anticipata per i lavori usuranti può essere ottenuta con:

  • Quota 97,6: almeno 61 anni e 7 mesi di età, con 35 anni di contributi (per i dipendenti).
  • Quota 98,6: almeno 62 anni e 7 mesi di età, con 35 anni di contributi (per gli autonomi).
  • Pensione anticipata con Ape Sociale per chi ha almeno 63 anni di età e 36 anni di contributi.

Normativa di riferimento

Le principali norme che regolano i benefici previdenziali per i lavoratori usuranti sono:

  • D.Lgs. 67/2011: disciplina i requisiti per l’accesso alla pensione anticipata.
  • Legge 232/2016 (Legge di Bilancio 2017): introduce l’Ape Sociale per alcune categorie.
  • D.L. 4/2019: modifica alcuni requisiti di accesso alla pensione anticipata.

Come fare domanda lavori usuranti

La domanda deve essere presentata all’INPS entro il 1° maggio di ogni anno per poter usufruire del pensionamento anticipato nell’anno successivo.

Procedura:

  1. Verifica dei requisiti contributivi attraverso l’estratto conto INPS.
  2. Presentazione della domanda tramite:
    • Portale INPS (SPID, CIE o CNS);
    • Patronati e CAF;
    • Contact Center INPS (803 164 da rete fissa o 06 164 164 da cellulare).
  3. Attesa della certificazione INPS che confermi il diritto alla pensione anticipata.
  4. Presentazione della domanda di pensione vera e propria, una volta ottenuta la certificazione.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato hanno emesso diverse sentenze sui lavori usuranti:

  • Cass. civ. n. 27390/2019: ha chiarito che l’attività lavorativa deve essere valutata nella sua continuità per stabilire il diritto alla pensione anticipata.
  • Cass. civ. n. 4568/2020: ha stabilito che anche i lavoratori part-time possono accedere ai benefici se dimostrano la continuità dell’attività usurante.
  • Cons. Stato n. 789/2021: ha affermato che l’onere della prova della natura usurante dell’attività spetta al lavoratore, ma l’INPS deve fornire criteri oggettivi di valutazione.

 

codice fiscale per i neonati

Codice fiscale per i neonati: il servizio online L'Agenzia delle Entrate ha implementato un nuovo servizio online per il rilascio del codice fiscale per i neonati e anche per il duplicato della tessera sanitaria

Codice fiscale sprint per i neonati

Al via il nuovo servizio online per ottenere velocemente il codice fiscale per i neonati, se il Comune di residenza non lo ha comunicato ai genitori. Questi ultimi, infatti, adesso possono richiederlo direttamente online nell’area riservata del sito dell’Agenzia. E’ il nuovo servizio implementato dalle Entrate che hanno esteso anche la possibilità di richiedere il duplicato della tessera sanitaria direttamente online. Le regole sono indicate nel provvedimento del direttore dell’Agenzia del 5 marzo 2025.

Come fare richiesta per il codice fiscale neonati

Il nuovo servizio per la richiesta del certificato di codice fiscale, spiegano dal fisco, è disponibile in area riservata sul sito dell’Agenzia: per accedere è quindi necessario avere Spid o in alternativa le credenziali Cie (Carta d’identità elettronica) o CNS (Carta Nazionale dei Servizi). La richiesta può essere fatta da uno dei due genitori così come dai loro eventuali rappresentanti (come per esempio i tutori). Una volta entrati nell’applicativo, basta inserire i dati anagrafici della bambina o del bambino e allegare la copia dei documenti di nascita (certificato di nascita o dichiarazione di nascita resa presso l’ospedale). Non appena l’ufficio ha lavorato la richiesta, il sistema invia una email per avvisare che il certificato è disponibile online.

Duplicato tessera sanitaria online

Più semplice anche richiedere il duplicato della tessera sanitaria, a prescindere dalla tipologia (con o senza microchip).

Grazie al nuovo servizio, disponibile in area riservata sul sito dell’Agenzia, è innanzitutto possibile visualizzare e stampare una copia dell’ultima tessera sanitaria attiva, chiedere la riemissione su supporto plastificato e anche verificare l’indirizzo al quale sarà spedita, che normalmente coincide con l’indirizzo di residenza registrato in Anagrafe tributaria. Qualora si volesse far recapitare la tessera presso un indirizzo diverso da quello di residenza, il servizio consente di indicare direttamente online un diverso recapito di spedizione.

testamento olografo

Testamento olografo Testamento olografo: definizione, requisiti, differenza con altri tipi di testamento, validità e impugnazione, giurisprudenza

Cos’è il testamento olografo?

Il testamento olografo è una delle forme di testamento previste dall’ordinamento giuridico italiano ed è disciplinato dall’art. 602 del Codice Civile. Si tratta di un atto unilaterale con cui una persona dispone delle proprie volontà successorie, redatto senza l’intervento di un notaio e con piena autonomia del testatore.

Requisiti del testamento olografo

Affinché questo tipo di testamento sia valido, deve rispettare tre requisiti fondamentali:

  1. Autografia: deve essere scritto interamente a mano dal testatore , lo stampatello però non è ammesso a meno il testatore non scriva abitualmente i questo modo.
  2. Data: deve contenere l’indicazione del giorno, mese e anno di redazione.
  3. Firma: il testatore deve apporre la propria firma per identificare la paternità dell’atto.

La mancata osservanza di anche uno solo di questi elementi può comportare l’invalidità del testamento.

Differenze con altri tipi di testamento

Il testamento olografo si distingue dalle altre forme di testamento previste dal Codice Civile:

  • Testamento pubblico: redatto da un notaio alla presenza di due testimoni.
  • Testamento segreto: scritto dal testatore o da un terzo e consegnato sigillato a un notaio.

A differenza di queste forme, quello olografo non richiede l’intervento di terzi, garantendo riservatezza e nessun costo di redazione. Tuttavia, essendo un documento privato, presenta maggiori rischi di smarrimento, alterazione o contestazione.

Validità e impugnazione del testamento olografo

Il testamento olografo può essere impugnato dai soggetti legittimati per vari motivi:

  • Vizi di forma: mancanza di autografia, data o firma.
  • Incapacità del testatore: se redatto da una persona non in grado di intendere e volere.
  • Vizi della volontà: errore, dolo o violenza che abbiano influito sulla decisione del testatore.

Giurisprudenza rilevante

Alcune pronunce significative della Corte di Cassazione riguardano la validità del testamento olografo:

Corte di Cassazione n. 10065/2020: L’art. 590 c.c. consente agli eredi di confermare o eseguire una disposizione testamentaria nulla, ma la sua applicabilità presuppone l’effettiva esistenza di una volontà del de cuius espressa nel testamento. Di conseguenza, la norma non trova applicazione nei casi in cui sia accertata la falsità della sottoscrizione, poiché ciò esclude qualsiasi collegamento tra il testamento e la volontà del testatore.

Cassazione n. 31322/2023: Il testamento olografo, per essere valido, deve riportare la data completa di giorno, mese e anno, scritta di pugno dal testatore. Questa data è un elemento essenziale, la cui mancanza o alterazione da parte di terzi può invalidare il testamento. Se l’alterazione della data avviene contestualmente alla redazione del testamento, questo è nullo. Tuttavia, se l’intervento del terzo è successivo, il testamento rimane valido, purché sia possibile accertare la volontà originale del testatore.

Cassazione n. 5505/2017: La validità di un testamento olografo, ovvero scritto interamente a mano dal testatore, è strettamente legata alla sua autografia. L’intervento di terzi nella redazione dell’atto, anche solo guidando la mano del testatore, compromette questa caratteristica essenziale e rende il testamento nullo. La legge richiede che il testamento olografo sia scritto di pugno dal testatore in ogni sua parte, senza ausilio di mezzi meccanici o interventi esterni. Questo requisito garantisce che il documento rifletta la volontà autentica del testatore.

Fac-simile di testamento olografo

Di seguito un esempio di testamento olografo conforme alla normativa:

TESTAMENTO OLOGRAFO

Io, [Nome e Cognome], nato a [Luogo di nascita] il [Data di nascita], residente in [Indirizzo], nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, dispongo delle mie volontà testamentarie nel modo seguente:

  1. Nomino erede universale [Nome del beneficiario] nato a [Luogo e data di nascita].
  2. Lascio a [Nome] la proprietà del mio immobile sito in [Indirizzo].
  3. Lascio a [Nome] la somma di [Importo] depositata presso [Istituto bancario].
  4. Dispongo che i miei beni vengano divisi secondo le quote di legge tra gli eredi legittimi.

Redatto a [Luogo], il [Data].

Firma: [Firma del testatore]

 

 

Leggi anche: Testamento: no all’interpretazione troppo “tecnica”

sospensione cautelare avvocato

Sospensione cautelare avvocato: ha natura non sanzionatoria Sospensione cautelare avvocato: il CNF fornisce importanti precisazioni sulla natura e sull’applicazione della misura

Sospensione cautelare avvocato

La sospensione cautelare avvocato prevista e disciplinata dall’articolo 60 della legge n. 24772012 non ha natura sanzionatoria. Lo ha ribadito il CNF nella sentenza n. 336/2024, che ha chiarito anche altri aspetti della misura.

La vicenda

Un avvocato viene condannato alla pena della reclusione all’esito di un procedimento penale che lo ha visto imputato per diverse gravi fattispecie in concorso con altri soggetti. L’avvocato viene quindi sottoposto anche a procedimento disciplinare presso il consiglio distrettuale di disciplina, che si conclude con l’irrogazione della sospensione cautelare dall’esercizio della professione per otto mesi.

Sospensione cautelare avvocato eccessiva e dannosa

L’avvocato contesta di fronte al CNF diversi aspetti e presupposti che hanno condotto il CDD ad adottare il provvedimento di sospensione cautelare. Per questo ne chiede l’annullamento in via principale e, in via subordinata, la sua riduzione.

Negata la natura sanzionatoria

Per il CNF però le contestazioni sollevate da ricorrente in relazione alla sospensione cautelare avvocato risultano prive di fondamento, per diverse ragioni.

Sospensione cautelare: diversa la nuova legge

Prima di tutto il CNF ci tiene a ricordare che le SU nella sentenza n. 18984/2017 hanno chiarito che la sospensione cautelare prevista dall’articolo 60 della legge 247/2012 si distingue nettamente da quella disciplinata dall’articolo 43 del R.D.L. 1578/1933. La vecchia normativa prevedeva una misura atipica, applicabile in diverse situazioni che compromettevano l’immagine dell’avvocatura.

La nuova legge, invece, elenca specificamente i casi in cui la sospensione è legittima, eliminando il potere discrezionale. Inoltre, mentre la precedente sospensione era a tempo indeterminato, l’articolo 60 stabilisce un limite massimo di un anno e prevede l’annullamento della sospensione se, entro sei mesi, non viene emesso un provvedimento sanzionatorio. In sostanza, la nuova normativa ha introdotto maggiore certezza e limiti temporali alla sospensione cautelare.

Misura cautelare con finalità preventiva

La misura cautelare di sospensione poi ha lo scopo di prevenire la ripetizione di illeciti legati all’esercizio della professione forense e di proteggere chi potrebbe interagire con un avvocato che ha abusato del suo ruolo per scopi estranei alla difesa. La tutela della fiducia pubblica e dei clienti, insieme alla correttezza dei comportamenti, sono obiettivi fondamentali dell’ordinamento forense, pertanto la sospensione cautelare si affianca alle misure cautelari penali per garantire questi valori.

Procedimento disciplinare non necessario

La difesa del ricorrente ha anche contestato l‘eccessiva durata di otto mesi della sospensione cautelare, data la pendenza del processo penale e il rischio di un danno irreparabile in caso di assoluzione, e lamenta la mancanza di motivazione sulla durata della sospensione.

Tali contestazioni però devono ritenersi infondate, poiché la sospensione cautelare ha una natura e finalità diverse dalla sanzione disciplinare, e la sua legittimità non dipende dall’esito del procedimento penale. Inoltre, l’assenza di motivazione sulla durata della sospensione non invalida la decisione, secondo l’orientamento del Consiglio Nazionale Forense, che richiede solo l’adeguatezza della misura rispetto all’offesa al decoro professionale. Il CNF ha comunque il potere di integrare la motivazione sulla quantificazione della sanzione.

Come precisato inoltre in una precedente sentenza del 2017 la sospensione cautelare, non essendo una sanzione, non richiede l’apertura formale di un procedimento disciplinare, ma decade se non viene comminata una sanzione entro sei mesi. Tuttavia, per essere legittima, l’organo disciplinare deve poter ragionevolmente ipotizzare che il reato contestato o accertato penalmente possa avere rilevanza deontologica, anche considerando l’eventuale prescrizione dell’azione disciplinare. In sostanza, la sospensione cautelare è legata alla potenziale sussistenza di un illecito disciplinare.

Sentenza definitiva non necessaria

Infondata infine anche la doglianza che ritiene necessaria la condanna definitiva in sede penale.

Per applicare la sospensione cautelare all’avvocato. Le SU della Cassazione n. 26148/2017 hanno precisato infatti che l’articolo 60, comma 1, della legge n. 247 del 2012, permette la sospensione cautelare di un avvocato senza attendere una sentenza penale definitiva, quando si verificano situazioni di particolare gravità che danneggiano l’immagine della professione. Questa misura urgente protegge il decoro della classe forense, intervenendo tempestivamente in casi di clamore pubblico, come l’applicazione di misure cautelari penali o condanne in primo grado per reati specifici. In sostanza, la legge privilegia la tutela immediata della reputazione della professione, piuttosto che attendere l’esito finale di un processo.

 

Leggi anche gli altri articoli che si occupano degli illeciti deontologici degli avvocati nella categoria professioni