conti correnti

Conti correnti: obbligo di apertura e divieto di recesso Conti correnti: ok della Camera alla proposta che prevede il diritto dei cittadini all’apertura del conto e vieta alla banca di recedere

Conti correnti: un diritto del cittadino

Il testo unificato di due proposte di legge (n. 1091 e n. 1240) appena approvato dalla Camera dei deputati all’unanimità (254 sì e nessun no) prevede importanti novità in materia di conti correnti. Le proposte mirano a introdurre l’art. 1857-bis nel codice civile e a modificare l’art. 33 del D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo), che si occupa delle clausole vessatorie relative ai contratti intercorrenti tra consumatori e professionisti.

Vediamo in breve in che cosa consiste il provvedimento approvato che ora passa al Senato per il sì definitivo.

Conti correnti: il nuovo articolo 1857-bis c.c.

Il nuovo articolo 1857 bis codice civile prevede per la banca abbia l’obbligo di aprire un conto corrente a chiunque lo richieda. La stessa non potrà rifiutarsi di farlo, a meno che non ci siano motivi specifici legati alle normative antiriciclaggio e antiterrorismo.

Se la banca dovesse negare l’apertura del conto a causa di queste normative, sarà tenuta a comunicarlo per iscritto entro dieci giorni dalla richiesta, spiegando dettagliatamente il motivo del rifiuto.

Abrogazione comma 3 art. 33 Codice del Consumo

Il secondo comma dell’ articolo che compone il testo unificato prevede invece l’abrogazione del comma 3 dell’articolo 33 del Codice del Consumo decreto legislativo n. 206/2005, che così dispone: “Se il contratto ha ad oggetto la prestazione di servizi finanziari a tempo indeterminato il professionista può, in deroga alle lettere h) e m) del comma 2:

  1. recedere, qualora vi sia un giustificato motivo, senza preavviso, dandone immediata comunicazione al consumatore;
  2. modificare, qualora sussista un giustificato motivo, le condizioni del contratto, preavvisando entro un congruo termine il consumatore, che ha diritto di recedere dal contratto.”

Conti correnti: inclusione finanziaria

L’iniziativa legislativa vuole realizzare il principio dell’inclusione finanziaria, garantendo che chiunque possa avere accesso a un conto corrente. Ciò significa che la storia finanziaria personale, come precedenti segnalazioni alla Centrale Rischi, un passato da cattivo pagatore, protesti o insolvenze accertate, non potranno più rappresentare un ostacolo all’apertura del conto. L’unico caso in cui una banca potrà rifiutarsi di aprire un conto, o successivamente di chiuderlo, è la presenza di forti sospetti legati a pratiche di riciclaggio di denaro o finanziamento del terrorismo, in base alle normative vigenti. Sempre nell’ottica dell’inclusione finanziaria la proposta prevede anche il divieto per le banche di recedere dal contratto di conto corrente in via unilaterale, se presenta un saldo attivo.

 

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sequestro a scopo di estorsione

Sequestro a scopo di estorsione: pene adeguate La Corte costituzionale conferma che la pena per il sequestro a scopo di estorsione non viola il principio di proporzionalità, grazie agli strumenti interpretativi a disposizione del giudice

Proporzionalità della pena nel sequestro estorsivo

Sequestro a scopo di estorsione: la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2025, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della pena prevista per il delitto di sequestro di persona a scopo estorsivo, ritenendo che il giudice disponga già di strumenti interpretativi e applicativi idonei a garantire il rispetto del principio di proporzionalità della pena, sancito dall’art. 27, comma 3, della Costituzione.

Il caso concreto esaminato dalla Consulta

La pronuncia è intervenuta su rinvio della Corte d’assise di Torino, che aveva sollevato dubbi di legittimità costituzionale in un procedimento penale nei confronti di tre imputati accusati di avere privato, per breve tempo, alcune vittime della libertà personale, allo scopo di ottenere pagamenti compresi tra 100 e 320 euro come corrispettivo per prestazioni sessuali, che le persone offese ritenevano gratuite. Il fatto era stato qualificato come sequestro estorsivo, reato punito, ai sensi dell’art. 630 c.p., con la reclusione da venticinque a trent’anni.

La pena per il sequestro estorsivo: origine e ratio

La Corte ha richiamato il contesto storico della norma, evidenziando come la previsione di una pena di eccezionale severità fosse stata introdotta in risposta ai sequestri di persona verificatisi negli anni Settanta, caratterizzati da una lunga durata della privazione della libertà personale, riscatti elevatissimi e pericolo per la vita degli ostaggi. In tale contesto, l’inasprimento sanzionatorio era giustificato.

Il correttivo introdotto nel 2012 e gli strumenti oggi disponibili

Già con la sentenza n. 68 del 2012, la Corte costituzionale aveva giudicato manifestamente sproporzionata la pena minima di venticinque anni nei casi di sequestro di minore gravità, introducendo la possibilità di riduzione fino a un terzo della pena (minimo di sedici anni e otto mesi di reclusione).

Con la nuova pronuncia, la Corte ribadisce che, anche qualora la pena ridotta appaia ancora eccessiva, il giudice può fare applicazione del principio di proporzionalità, utilizzandolo come criterio interpretativo della norma penale, per escludere l’applicabilità dell’art. 630 c.p. ai fatti che non raggiungano la soglia di gravità voluta dal legislatore.

L’obbligo del giudice di una valutazione conforme al principio di proporzione

La Consulta afferma che il giudice deve valutare attentamente la qualificazione giuridica del fatto, verificando se esso configuri effettivamente un sequestro a scopo di estorsione, oppure se sia più correttamente riconducibile a reati diversi, come il sequestro di persona semplice (art. 605 c.p.), l’estorsione (art. 629 c.p.) o la rapina (art. 628 c.p.).

Tali reati, pur essendo gravi, prevedono pene più proporzionate alla lesione effettiva del bene giuridico tutelato, evitando così l’irrogazione di una sanzione eccessiva rispetto alla concreta entità del fatto.

La compatibilità con il principio di legalità

Infine, la Corte precisa che questa interpretazione non viola il principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.). Tale principio, infatti, impedisce l’applicazione analogica in malam partem, ma non esclude una interpretazione restrittiva della norma incriminatrice, qualora il fatto concreto sia estraneo ai fenomeni criminosi che il legislatore ha inteso colpire con una sanzione di particolare rigore.

assegno nucleo familiare

Assegno nucleo familiare: la convivenza di fatto non esclude il diritto La Corte costituzionale ha stabilito che il rapporto di convivenza di fatto non comporta la perdita del diritto all’assegno per il nucleo familiare

Convivenza di fatto e diritto all’ANF

Assegno nucleo familiare: la Corte costituzionale, con la sentenza numero 120/2025, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, in relazione all’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica numero 797 del 1955. Questa norma stabilisce che l’assegno per il nucleo familiare non spetta al coniuge del datore di lavoro, senza invece escludere il diritto al beneficio in caso di convivenza di fatto tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato. Tale differenziazione, secondo il rimettente, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione.

La finalità della norma sull’assegno per il nucleo familiare

La Corte ha chiarito che la ratio dell’articolo 2 del d.P.R. numero 797 del 1955 può essere ravvisata nell’esigenza di non erogare il beneficio a un nucleo familiare comprendente lo stesso datore di lavoro, al fine di evitare una forma di “autofinanziamento”. Dunque, la norma censurata non può ritenersi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione per il fatto di non assimilare, ai fini dell’esclusione dall’ANF, il convivente di fatto al coniuge, dal momento che, ai fini della concessione dell’ANF e della sua quantificazione, il nucleo familiare comprende solo il coniuge e non il convivente di fatto, in base all’articolo 2, comma 6, del decreto-legge numero 69 del 1988.

Rilevanza giuridica della convivenza di fatto

La convivenza di fatto rileva solo in presenza di un contratto di convivenza, stipulato ai sensi dell’articolo 1, comma 50, della legge numero 76 del 2016.

Coerenza della disciplina sull’ANF

La disciplina dell’ANF risulta, pertanto, armonica, vista la coerenza tra la mancata considerazione della convivenza ai fini della concessione dell’assegno e la stessa mancata considerazione ai fini della sua esclusione.

esenzione ici

Esenzione ICI: basta la dimora del contribuente La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità della norma che subordinava l’esenzione ICI alla dimora abituale anche dei familiari nell’abitazione principale

La decisione della Corte costituzionale sull’esenzione ICI

Con la sentenza n. 112 del 2025, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. 504/1992, nella parte in cui subordinava l’esenzione dall’Imposta comunale sugli immobili (ICI) all’abituale dimora non solo del contribuente, ma anche dei suoi familiari nell’abitazione principale.

Secondo la Consulta, tale requisito eccede i limiti della razionalità fiscale, comprimendo indebitamente la posizione del contribuente, in violazione degli articoli 3 e 31 della Costituzione.

L’ICI come imposta reale e il criterio oggettivo dell’abitazione

L’ICI, come l’attuale IMU, è un’imposta reale, il cui presupposto è costituito dal possesso, proprietà o altro diritto reale su beni immobili, a prescindere dalle caratteristiche soggettive del contribuente.

L’esenzione per l’abitazione principale si fonda su un criterio oggettivo, ovvero sull’utilizzo effettivo dell’immobile come dimora abituale del contribuente stesso. La norma impugnata andava oltre, imponendo anche la dimora abituale dei familiari, configurando una condizione non coerente con la natura dell’imposta.

La realtà sociale delle famiglie e le dimore separate

La Corte ha richiamato le trasformazioni delle strutture familiari, rilevando che sempre più frequentemente i coniugi o familiari stretti risiedono in luoghi differenti, per ragioni legate a esigenze lavorative, di studio o assistenza ad altri familiari (anziani, malati, ecc.).

In tale contesto, escludere l’esenzione ICI per il solo fatto che i familiari non convivano con il contribuente significa introdurre una penalizzazione irragionevole, che colpisce situazioni personali e familiari del tutto lecite e diffuse.

Violazione dei principi di eguaglianza e tutela della famiglia

La disposizione censurata si traduce, secondo la Corte, in una disparità di trattamento nei confronti del contribuente coniugato ma non convivente, che risulta ingiustificatamente escluso dal beneficio fiscale rispetto a chi, nelle stesse condizioni patrimoniali, risiede con i familiari.

Tale assetto contrasta sia con il principio di eguaglianza tributaria (art. 3 Cost.), sia con il principio di tutela della famiglia (art. 31 Cost.), che impone al legislatore di favorire – e non ostacolare – le esigenze familiari anche quando esse comportano scelte abitative differenti.

separazione carriere giudici

Separazione delle carriere: cosa prevede la riforma Il disegno di legge sulla riforma della Giustizia sulla divisione delle carriere della magistratura requirente e giudicante ha ricevuto il secondo ok del Senato e ora va alla Camera

Separazione delle carriere: ok del Senato

Il disegno di legge sulla separazione delle carriere, disegno di legge costituzionale di riforma contiene le “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”.

Il testo ha iniziato il suo articolato iter in Parlamento e ha ricevuto la prima approvazione della Camera  il 16 gennaio 2025.

L’iter

Il testo della riforma della separazione delle carriere, come reso noto dal ministero della Giustizia, il 26 marzo 2025  ha ricevuto poi il parere non ostativo della Commissione Giustizia del Senato ed è stato trasmesso alla commissione Affari costituzionali, per il prosieguo dell’esame.

L’esame del testo è stato ripreso dal Senato dove il 1° luglio è stato approvato l’articolo che interviene sulla formulazione del comma 10 dell’articolo 87 della Costituzione. La modifica prevede che il Presidente della Repubblica presieda sia il CSM giudicante che requirente, non più l’unico CSM previsto dalla formulazione originaria del comma 10 art. 87 Costituzione. Nella stessa giornata è iniziato anche l’esame dell’articolo 2 che modifica l’art. 102 della Costituzione. Larticolo 2, che modifica l’art. 102 della Costituzione, è stato approvato invece il 3 luglio 2025. Martedì 15 luglio 2025 invece è stato approvato l’articolo 3, che introduce due CSM, uno per la magistratura requirente e l’altro per quella giudicante. Prevista la composizione dei due organismi con membri estratti a sorte.

Il 16 luglio l’aula di palazzo Madama, infine, ha approvato senza modifiche tutti gli 8 articoli del Ddl e il 22 luglio 2025 c’è stato il secondo via libera con 106 voti favorevoli, 61 contrari e 11 astensioni.

Il testo tornerà alla Camera per il terzo step e successivamente di nuovo a palazzo Madama.

Cosa prevede la riforma

Il testo, composto da otto articoli, interviene infatti sugli articoli 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110 della Costituzione, disponendo la separazione delle carriere dei magistrati, introducendo un sistema di sorteggio per la componente laica del CSM e istituendo l’Alta Corte per giudicare gli errori dei magistrati.

L’approvazione del testo da parte del Senato potrebbe slittare alla seconda settimana di luglio 2025.

Separazione delle carriere

Il primo punto della riforma, che la magistratura non ha accolto con favore, dispone la separazione delle carriere. La modifica prevede che i magistrati requirenti non possano passare al ruolo della magistratura giudicante e viceversa.

Indipendenza della magistratura requirente

La separazione delle carriere mira anche a garantire la piena indipendenza della magistratura requirente da qualsiasi tipo di influenza e di interferenza da parte del Governo e da parte di altri poteri, al pari della magistratura giudicante.

Due CSM

La riforma interviene anche sulla composizione del Consiglio Superiore della Magistratura. Il CSM  verrà diviso in due sezioni, una dedicata ai magistrati requirenti e una ai magistrati giudicanti, presiedute entrambe dal Presidente della Repubblica.

Nomina della componente laica del CSM

La componente laica del CMS, costituita attualmente dai membri eletti dal Parlamento, verrà nominata per sorteggio, sempre con la finalità di garantire la piena indipendenza e imparzialità del Consiglio Superiore della Magistratura.

Istituita l’Alta Corte

Per giudicare gli illeciti disciplinari dei magistrati viene istituita l’Alta Corte, che si va a sostituire in questo modo al Consiglio Superiore della Magistratura.

Compliance nella PA

La compliance nella Pubblica Amministrazione Compliance nella Pubblica Amministrazione: cos'è, a cosa serve, principio di legalità e controlli, riferimenti normativi

Cos’è la compliance

La compliance è quell’attività complessa che individua e riferisce in merito alla presenza del rischio di sanzioni e del peggioramento della reputazione a causa del mancato rispetto di leggi e regolamenti, ma anche di codici di condotta e buone pratiche.

Compliance e Pubblica Amministrazione

Parlare di compliance in relazione alla Pubblica Amministrazione potrebbe sembrare un contro senso. Del resto, l’attività della PA dovrebbe essere sempre essere conforme alla legge. La realtà però è ben diversa. Le PA sono soggette, al pari dei privati, a rischi che derivano dall’ applicazione delle norme che ne regolano l’attività.

Per questo il concetto di “compliance”, inteso come la conformità a norme, regole, standard, codici di condotta e principi etici, ha assunto negli ultimi anni un ruolo sempre più centrale nel funzionamento della Pubblica Amministrazione (PA) italiana. Non più limitata alla mera osservanza formale della legge, la compliance nella PA si configura oggi come un approccio proattivo volto a prevenire illeciti, ottimizzare i processi, migliorare l’efficienza e rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Il principio di legalità

La compliance si può tradurre con il termine “conformità”, concetto che a sua volta evoca il principio di legalità sancito dall’articolo 97 della Costituzione, a cui deve uniformarsi l’attività della Pubblica Amministrazione.

La norma su questo punto è molto chiara:

“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

Appare subito evidente la stretta correlazione tra legge e pubblica amministrazione. Del resto il principio di legalità è finalizzato anche al perseguimento dei principi di buon andamento e imparzialità.

Controlli e valutazione

Proprio per assicurare il rispetto del buona andamento nel corso degli anni sono stati introdotti sempre maggiori controlli orientati inizialmente alla verifica del rispetto della legittimità degli atti, per passare poi a un controllo finalizzato alla valutazione del rapporto intercorrente tra costi e risultati (controllo di gestione) e a quello tra obiettivi e risultati (controllo strategico).

Ad oggi i controlli preventivi sono superati, quelli successivi però presentano lo svantaggio di non impedire condotte illegittime. La compliance ha il pregio di prevenire le irregolarità grazie alla progettazione e alla verifica di procedure interne adeguate.

Compliance nella PA: normativa di riferimento

La compliance nella PA italiana trova il suo fondamento in un corpus normativo complesso e stratificato, che ha visto negli ultimi anni interventi significativi. I pilastri principali includono:

  • Legge 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. Legge Anticorruzione): rappresenta la normativa cardine in materia di prevenzione della corruzione e promozione dell’integrità nella PA. Sebbene datata, la Legge 190/2012 continua a essere il riferimento principale per le strategie di compliance anticorruzione.
  • Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (c.d. Decreto Trasparenza): ha riordinato la disciplina sugli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. La trasparenza è riconosciuta come un livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili, ponendo le basi per una “amministrazione aperta” e controllabile dai cittadini.
  • Decreto Legislativo 8 aprile 2013, n. 39 (Inconferibilità e Incompatibilità): disciplina le cause di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico. Contribuisce a prevenire situazioni di conflitto di interessi e a garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa.
  • Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR – General Data Protection Regulation): il GDPR ha imposto standard elevati per la protezione dei dati personali, con un impatto significativo sui processi interni della PA che trattano informazioni sensibili. La compliance al GDPR richiede un’attenta valutazione dei rischi, la nomina di un Data Protection Officer (DPO) e l’adozione di misure tecniche e organizzative adeguate.
  • Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36): ha introdotto importanti novità in materia di appalti e concessioni. La compliance in quest’ambito è cruciale per prevenire fenomeni corruttivi, garantire la libera concorrenza e assicurare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche. La semplificazione e la digitalizzazione dei processi di gara, pur mirando a snellire le procedure, richiedono al contempo un rafforzamento dei controlli e della trasparenza.
  • Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR) e normativa correlata: l’attuazione del PNRR ha comportato l’introduzione di specifiche disposizioni volte a garantire la regolarità, l’efficienza e la trasparenza nella gestione dei fondi europei. La compliance ai requisiti del PNRR è fondamentale per l’accesso e l’utilizzo delle risorse, con un forte accento sulla rendicontazione e sul monitoraggio.
  • Normativa sulla transizione digitale e l’innovazione tecnologica: Le direttive e i provvedimenti volti alla digitalizzazione della PA (ad esempio, il Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD) impongono nuove sfide in termini di compliance, legate alla sicurezza informatica, all’interoperabilità dei sistemi e all’accessibilità dei servizi digitali.

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cambio nome condominio

Cambio nome condominio: serve l’unanimità Il Tribunale di Catanzaro chiarisce che per modificare denominazione e codice fiscale del condominio serve il consenso unanime dei condòmini

Modifica denominazione condominiale con l’unanimità

Cambio nome condominio: cambiare la denominazione e il codice fiscale di un condominio non è un atto amministrativo ordinario. Secondo la sentenza n. 1480/2025 del Tribunale di Catanzaro, pubblicata il 7 luglio 2025, una delibera condominiale che dispone tali modifiche senza l’assenso unanime dei condòmini è da considerarsi annullabile.

Il giudice ha evidenziato che, in assenza di uno scioglimento formale dell’ente di gestione, non è possibile sostituire il condominio esistente con uno nuovo semplicemente mutandone il nome o il codice fiscale.

Natura giuridica del condominio e limiti decisionali

Il condominio rappresenta una comunione forzosa dotata di una propria autonomia organizzativa, ma non ha personalità giuridica. È strutturato come un ente gestito dall’assemblea dei condòmini, la quale può adottare decisioni vincolanti per tutti, ma nel rispetto delle norme di legge e del regolamento.

Alcune decisioni – come la modifica del nome del condominio o la richiesta di un nuovo codice fiscalenon sono demandabili alla sola maggioranza, ma richiedono il consenso di tutti i partecipanti, poiché incidono sull’identità stessa dell’ente e possono essere interpretate come una costituzione ex novo di un diverso soggetto gestionale.

Cambio nome condominio: il caso esaminato dal Tribunale

Nel caso portato all’attenzione del Tribunale, una condomina ha impugnato una delibera con cui l’assemblea aveva cambiato denominazione e codice fiscale del condominio. L’operazione era motivata da uno stato di abbandono gestionale, dovuto alla prolungata assenza di un amministratore. Alcuni condòmini avevano quindi proceduto autonomamente a convocare un’assemblea per “rinnovare” la gestione.

Tuttavia, la delibera è stata adottata senza il consenso totalitario, senza indicazione dei millesimi, e con la partecipazione di soggetti privi di legittimazione, tra cui un delegato di persona estranea al condominio. Questi elementi hanno compromesso la validità formale e sostanziale della decisione.

Le motivazioni della decisione

Il Tribunale ha chiarito che modifiche così incisive – come la variazione della denominazione e del codice fiscale – alterano l’identità dell’ente condominiale. Si tratta di un atto che non può essere deliberato a maggioranza, ma che richiede la unanimità dei consensi, essendo assimilabile, di fatto, alla creazione di un nuovo condominio.

L’assenza di scioglimento formale e la mancanza dell’assenso di tutti i condòmini rendono l’atto illegittimo e annullabile, anche se motivato da esigenze pratiche o gestionali.

Allegati

esame avvocato 2025

Esame avvocato 2025: tutto su bando, prove e scadenze Online il bando per l’esame di Stato per avvocato 2025. Scopri requisiti, date, struttura delle prove e modalità di invio delle domande dal 1° ottobre all’11 novembre

Pubblicato il bando per la sessione 2025

Esame avvocato 2025: il Ministero della Giustizia ha ufficializzato il bando per l’esame di abilitazione forense – sessione 2025, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 56 del 18 luglio 2025 (IV Serie Speciale Concorsi ed Esami). Il bando, emanato con decreto ministeriale del 30 giugno 2025, disciplina termini e modalità per accedere alla procedura.
Le domande dovranno essere inoltrate esclusivamente in modalità telematica dal 1° ottobre all’11 novembre 2025.

Le prove d’esame: struttura e calendario

L’esame di Stato si articola in una prova scritta e una prova orale, da svolgersi presso le Corti d’Appello indicate nel bando (tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze, e altre sedi).

Prova scritta

È fissata per l’11 dicembre 2025 e consiste nella redazione di un atto giudiziario su traccia fornita dal Ministero. Il candidato sceglierà la materia tra diritto civile, diritto penale o diritto amministrativo.
Il tempo a disposizione è di sette ore, calcolato a partire dalla dettatura del tema.

Prova orale

Si svolgerà non prima di 30 giorni dalla pubblicazione degli ammessi e si compone di tre fasi:

  1. Discussione di un caso pratico nella materia prescelta (tra civile, penale o amministrativo).

  2. Trattazione di tre quesiti giuridici, di cui almeno uno processuale.

  3. Colloquio su ordinamento forense, diritti e doveri dell’avvocato.

Procedura per l’invio della domanda

Per partecipare all’esame, il candidato deve collegarsi al sito del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it) e accedere alla sezione “Strumenti/Concorsi, esami, assunzioni”. L’autenticazione avverrà tramite SPID di secondo livello, Carta d’Identità Elettronica (CIE) o Carta Nazionale dei Servizi (CNS).

Dopo la registrazione, il sistema guiderà l’utente nella compilazione del modulo, nella selezione della Corte d’Appello e del Consiglio dell’Ordine competente. Dopo il pagamento via PagoPA, si procederà all’invio definitivo della domanda, che verrà confermato da una ricevuta in formato PDF.

Requisiti per l’ammissione all’esame

Possono partecipare i candidati che abbiano completato la pratica forense entro il 10 novembre 2025. È ammessa l’iscrizione anche per chi prevede di concluderla entro quella data, purché lo dichiari formalmente in fase di presentazione della domanda.

Criteri di valutazione

Prova scritta

Ogni componente della commissione può attribuire fino a 10 punti. L’ammissione all’orale avviene con un punteggio minimo di 18 punti.

Prova orale

Anche per il colloquio orale, ogni commissario dispone di 10 punti per ciascuna materia. L’idoneità è riconosciuta ai candidati che ottengano almeno 18 punti per materia.

Misure di supporto per candidati con disabilità e DSA

Il bando prevede agevolazioni specifiche per i candidati con disabilità o disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). Tra le misure previste:

  • strumenti compensativi;

  • tempi aggiuntivi;

  • supporti personalizzati per le prove scritte e orali.

 

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patto di quota lite

Patto di quota lite: la ratio del divieto Il CNF ribadisce che il divieto di patto di quota lite mira a tutelare il cliente e la dignità forense, evitando commistioni nei rapporti professionali

Patto di quota lite: il CNF spiega la ratio

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 25/2025, pubblicata il 20 luglio sul sito del Codice deontologico, ha riaffermato il divieto di patto di quota lite ai sensi di art. 25 co. 2 del CDF e art. 13 commi 3 e 4 L. n. 247/2012. Tale divieto tutela l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, impedendo la commistione tra interessi del legale e risultati della lite. 

La ratio del divieto di patto di quota lite

Secondo la sentenza, la ratio del divieto risiede nella necessità di preservare l’indipendenza dell’avvocato e evitare che il compenso, se collegato all’esito della lite, trasformi il rapporto professionale in un rapporto associativo. In tal caso, l’avvocato parteciperebbe direttamente agli interessi pratici esterni della prestazione, compromettendo la trasparenza e l’imparzialità.  

Impatto sul rapporto cliente‑avvocato

La decisione sottolinea che un equo compenso basato sul valore previsto dell’affare è lecito, ma è vietato un accordo che leghi la remunerazione all’esito pratico della lite. In questo modo si evita la trasformazione del rapporto in una forma di partecipazione economica ai frutti del contenzioso. 

Conferme da giurisprudenza e dottrina

La sentenza n. 25/2025 si inserisce in una consolidata giurisprudenza: Cassazione n. 2169/2016, CNF n. 260/2015, n. 26/2014 e n. 225/2013 avevano già chiarito tale principio. Conferma anche l’orientamento espresso nella recente Cass. n. 23738/2024. 

In sintesi, il CNF riafferma che il divieto di patto di quota lite è necessario per proteggere il rapporto di fiducia tra cliente e avvocato e tutelare la dignità della professione, evitando che il legale diventi partecipe dell’esito economico della lite.

evasione dagli arresti domiciliari

Evasione dagli arresti domiciliari: punibile anche l’indagato La Corte costituzionale chiarisce che l’indagato può essere punito per evasione dagli arresti domiciliari al pari dell’imputato. Legittima l’interpretazione dell’art. 385 c.p., comma 3

Nessuna distinzione tra imputato e indagato

Evasione dagli arresti domiciliari: con la sentenza n. 107 del 2025, depositata in data odierna, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 385, comma 3, c.p., nella parte in cui – secondo il diritto vivente – consente di punire anche l’indagato per il reato di evasione dagli arresti domiciliari, nonostante il testo della norma faccia riferimento esclusivo all’imputato.

Il contesto storico-normativo della disposizione

La Consulta ha ricostruito il contesto normativo in cui fu redatto l’articolo oggetto di censura. Il terzo comma dell’art. 385 c.p. venne sostituito dall’art. 29 della legge n. 532/1982, quando era ancora vigente il codice di procedura penale del 1930. All’epoca, il legislatore utilizzava il termine “imputato” per indicare qualsiasi soggetto indiziato, anche nella fase delle indagini preliminari.

Il concetto moderno di “indagato”, distinto da quello di “imputato”, è stato introdotto soltanto con il nuovo codice di rito entrato in vigore nel 1989.

La continuità interpretativa della norma penale

Secondo la Corte, dunque, il termine “imputato”, così come impiegato nel terzo comma dell’art. 385 c.p., include anche l’indagato, alla luce del significato attribuitogli al momento della redazione della norma.

Non si configura pertanto alcuna violazione del principio di legalità, come dedotto dal giudice rimettente, poiché l’interpretazione estensiva che consente di punire l’indagato per evasione è coerente con la ratio originaria della disposizione e con l’evoluzione del diritto positivo.