Licenziato il dipendente scortese con i clienti Licenziato il dipendente scortese con il cliente anziano se per la modalità della condotta non è possibile proseguire il rapporto
Licenziamento del dipendente per condotta col cliente
Licenziato il dipendente scortese con i clienti, che invece di chiedere scusa prosegue il diverbio con toni sempre più accesi. Questa la decisione della Corte di Cassazione contenuta nell’ordinanza n. 26440/2024, che nel respingere il ricorso del dipendente gli contesta di non aver sollevato critiche specifiche alla decisione della Corte di appello. L’art. 2119 c.c. che contempla il licenziamento per giusta guisa contempla la clausola generale in base alla quale “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” di lavoro.
Dipendente scortese con un cliente anziano
Una società licenzia un suo dipendente. Costui impugna il licenziamento disciplinare e il giudice di primo grado accoglie le sue richieste. In sede di appello però la Corte accoglie il reclamo della S.R.L. La datrice contesta all’addetto al banco macelleria di essersi rivolto in maniera sgarbata, scurrile e volgare a un cliente di una certa età. La condotta è grave perché il dipendente, invece di chiedere scusa, ha proseguito il diverbio con toni accessi sempre crescenti, dando vita uno spettacolo indecoroso e preoccupante.
Per la datrice il lavoratore ha violato l’art. 215 del c.c.n.l, che punisce le gravi violazioni degli obblighi previsti dall’art. 210, tra i quali è presente quello di “usare modi cortesi con pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri.” La società datrice nel licenziare il dipendente tiene conto anche di altre violazioni disciplinari, dalle quali emerge disprezzo delle regole. È evidente che una condotta simile non consente alla datrice di proseguire il rapporto.
Insussistenza dei motivi che impediscono di proseguire il rapporto
Il dipendente ricorre in Cassazione sollevando 5 motivi di doglianza. Con il primo contesta l’inattendibilità del cliente perché costui ha omesso di riportare la frase esatta che lo stesso gli ha rivolto. Nel secondo sottolinea l’età di soli 67 anni del cliente e l’atteggiamento tutt’altro che remissivo dello stesso. Nel terzo critica la rilevanza dei gesti che gli sono stati contestati, come lo spostamento della bilancia e il tentativo di colpire il cliente in pieno viso con uno schiaffo. Con il quarto dimostra il proprio disappunto sulle affermazioni della datrice relative alle precedenti condotte che avrebbe tenuto sul posto di lavoro. Con il quinto infine si oppone all’affermata violazione delle norme del c.c.n.l riportate dalla datrice. La Corte d’appello non ha preso della dovuta considerazione i profili oggettivi e soggettivi dei fatti, ossia l’intenzionalità, la condotta arrogante della controparte e l’assenza di altri clienti al momento dei fatti. Tali elementi, valutati nel loro complesso, denotano in particolare la scarsa offensività della condotta per l’immagine della datrice.
Giusta causa di licenziamento
La Cassazione decide di trattare congiuntamente tutti i motivi del ricorso per valutare la sussistenza dei fatti, l’integrazione della giusta causa del recesso e la proporzionalità della sanzione irrogata.
La Suprema Corte, alla luce di quanto emerso nei precedenti gradi di merito, rigetta il ricorso del dipendente. Per prima cosa gli Ermellini precisano di non aver il potere di riesaminare la vicenda processuale nel merito. Essi possono solo verificare la correttezza delle argomentazioni del giudice dal punto di vista logico e giuridico. La Cassazione non rileva poi alcuna violazione delle norme sull’onere probatorio. Per quanto riguarda invece la rilevanza della condotta del dipendente dal punto di vista disciplinare la suprema corte ricorda di aver affermato in diverse occasioni che la giusta causa di licenziamento sussiste quando il fatto commesso non permette la prosecuzione del rapporto in base alla valutazione del giudice di merito, che nel compiere questa operazione deve rispettare anche clausole generali come quella contenuta nell’art. 2119 c.c, che fa riferimento alla “causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.”
Tale critica però non è sempre consentita. La Cassazione può sindacare l’attività integrazione del precetto contenuto dall’art. 2119 cc se la censura è generica, come nel caso di specie. Il ricorrente infatti non identifica nel ricorso i parametri integrativi della clausola contenuta nell’art. 2119 c.c, che la corte d’appello avrebbe violato. Lo stesso si limita solo a sollecitare una rivisitazione dei fatti e a ribadire l’inesistenza di una giusta causa di licenziamento.
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