Ires

IRES: la guida completa IRES: cos'è, chi deve pagarla e come funziona l'imposta sul reddito delle società

Cos’è l’IRES

L’IRES (Imposta sul Reddito delle Società) è un’imposta proporzionale che colpisce il reddito imponibile prodotto da specifici soggetti giuridici, tra cui le società di capitali. Introdotta in sostituzione dell’IRPEG dal decreto legislativo n. 344/2003, rappresenta una delle principali forme di imposizione diretta nel sistema fiscale italiano.

Normativa di riferimento 

La disciplina dell’IRES è contenuta principalmente nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), approvato con il D.P.R. n. 917/1986 e successivamente modificato dal D.lgs. n. 344/2003. La normativa viene periodicamente aggiornata dalla Legge di Bilancio e da interventi normativi settoriali.

Soggetti passivi

Sono obbligati al pagamento dell’IRES i seguenti soggetti residenti nel territorio dello Stato:

  • Società per azioni (S.p.A.);
  • Società a responsabilità limitata (S.r.l.);
  • Società in accomandita per azioni (S.a.p.A.);
  • Società cooperative;
  • Società di mutua assicurazione;
  • Società europee e società cooperative europee;
  • Enti pubblici e privati, che risiedono in Italia, come i trust, i consorzi gli organismi di investimento collettivo, le organizzazioni no profit;
  • Società ed enti di ogni tipo non residenti in Italia per i redditi prodotti in Italia (art. 73 TUIR).

Chi è esente  dall’imposta

Non sono soggetti all’IRES:

  • le società di persone (S.n.c., S.a.s.), i cui redditi sono imputati ai soci e tassati con l’IRPEF;
  • le imprese individuali;
  • gli enti non commerciali per i redditi non prodotti da attività d’impresa (pur restando soggetti per quelli commerciali);
  • le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), che beneficiano di regimi fiscali agevolati se rispettano i requisiti stabiliti.

Aliquota IRES: quanto si paga

L’IRES è un’imposta proporzionale con aliquota fissa del 24% (art. 77 TUIR). Ciò significa che l’imposta si applica in misura costante sull’utile netto d’esercizio (calcolato sulla base del bilancio e delle rettifiche fiscali previste).

A ciò si può aggiungere l’addizionale IRES del 3,5% per i soggetti operanti in settori strategici e per gli intermediari finanziari.

Calcolo della base imponibile IRES

La base imponibile si determina partendo dall’utile di bilancio, al quale si applicano variazioni in aumento o in diminuzione in base alle regole fiscali. Tra le voci che incidono maggiormente sulla base imponibile troviamo:

  • le deduzioni;
  • gli accantonamenti e i fondi rischi;
  • gli ammortamenti e le svalutazioni;
  • le componenti straordinarie di reddito.

Novità IRES 2025 

La Legge di Bilancio 2025 ha introdotto una Mini IRES con aliquota ridotta al 20%  solo per il 2025. Questa misura transitoria mira a incentivare le imprese, reinvestire gli utili, assumere e coinvolgere i dipendenti.

Per accedere all’aliquota ridotta, le aziende devono soddisfare precise condizioni:

  • accantonamento utili: almeno l’80% degli utili 2024 deve essere destinato a una riserva dedicata;
  • investimenti qualificati: almeno il 30% degli utili accantonati (minimo 24% degli utili 2023) deve essere investito in beni strumentali nuovi (Industria 4.0/5.0), con un importo minimo di 20.000 euro;
  • occupazione: i soggetti obbligati dovranno mantenere la media occupazionale 2022-2024 e aumentare le assunzioni a tempo indeterminato di almeno l’1% rispetto al 2024;
  • esclusione CIG: le imprese che hanno usato la cassa integrazione nel 2024 o 2025 sono escluse, salvo eccezioni.

Il beneficio decade se la riserva IRES viene distribuita entro il 2026 o se i beni agevolati vengono ceduti o portati all’estero entro cinque anni.

IRES: cardine della fiscalità d’impresa

L’IRES rappresenta un pilastro della tassazione sulle società in Italia, volto a garantire equità, proporzionalità e trasparenza nella fiscalità d’impresa. La sua gestione richiede competenze tecniche approfondite, soprattutto in presenza di operazioni straordinarie, rapporti con l’estero o partecipazione a gruppi societari. Un’attenta pianificazione fiscale consente non solo di ottemperare correttamente agli obblighi, ma anche di beneficiare di agevolazioni e deduzioni previste dalla normativa vigente.

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cittadinanza italiana per matrimonio

Cittadinanza italiana per matrimonio Cittadinanza italiana per matrimonio: normativa, chi può chiederla e quali requisiti occorrono, tempi, procedura e rigetto dell'istanza

Cittadinanza italiana per matrimonio: acquisto

L’acquisizione della cittadinanza italiana per matrimonio è una delle modalità previste dalla legge per diventare cittadini italiani. Si tratta di una procedura amministrativa regolata dall’articolo 5 della Legge 5 febbraio 1992, n. 91, che consente al coniuge di un cittadino italiano di ottenere la cittadinanza a determinate condizioni di residenza, convivenza e regolarità giuridica.

Normativa di riferimento

La cittadinanza per matrimonio è disciplinata da:

  • Art. 5 della Legge n. 91/1992 (“Nuove norme sulla cittadinanza”);
  • Regolamento di attuazione DPR n. 572/1993;
  • Modifiche introdotte dal D.L. n. 113/2018 (Decreto Salvini), convertito in L. n. 132/2018;
  • Circolari ministeriali e aggiornamenti disponibili sul sito del Ministero dell’Interno.

Questa forma di acquisizione è facoltativa e subordinata alla presentazione di un’apposita istanza da parte dell’interessato, che deve dimostrare il possesso dei requisiti richiesti.

Chi può richiederla

Può richiedere la cittadinanza italiana per matrimonio:

  • il coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano (anche naturalizzato), se il matrimonio è regolarmente trascritto nei registri di stato civile italiano;
  • il coniuge legalmente residente in Italia o all’estero.

Requisiti per ottenere la cittadinanza italiana per matrimonio

I principali requisiti per presentare l’istanza sono:

  1. Durata del matrimonio:
    • se i coniugi risiedono in Italia, è necessario che siano trascorsi almeno 2 anni dalla celebrazione del matrimonio;
    • se risiedono all’estero, il termine è di 3 anni;
    • questi termini sono dimezzati ( 1 anno o 18 mesi) in presenza di figli nati o adottati dalla coppia.
  1. Residenza legale o iscrizione AIRE:
    • il richiedente deve essere regolarmente residente in Italia.
  1. Validità del matrimonio:
    • il vincolo matrimoniale deve essere ancora in essere al momento del giuramento;
    • non deve essere intervenuta la separazione legale, l’annullamento o il divorzio.
  1. Assenza di condanne penali gravi e di pericoli per la sicurezza della Repubblica.
  2. Conoscenza della lingua italiana
    • A partire dal 4 dicembre 2018, il richiedente deve dimostrare una conoscenza della lingua italiana almeno di livello B1, mediante certificazione rilasciata da enti riconosciuti (es. Università per Stranieri di Perugia o Siena, Dante Alighieri, CILS).

Presentazione dell’istanza

L’istanza deve essere presentata online tramite il portale del Ministero dell’Interno (ALI – https://portaleservizi.dlci.interno.it);

Va corredata da documentazione anagrafica, penale, certificato di conoscenza linguistica, versamento del contributo di 250,00 euro e marca da bollo di 16,00 euro.

Tempi per ottenere la cittadinanza italiana per matrimonio

La normativa prevede che il procedimento si concluda entro 24 mesi, prorogabili fino a 36 mesi nei casi più complessi, come stabilito dall’art. 9-ter della L. 91/1992 per le domande presentate dopo il 21 dicembre del 2020. l conteggio parte dalla data di completa ricezione della documentazione, non da quella di invio della domanda.

Tuttavia, nella prassi, i tempi possono risultare variabili, soprattutto in base alla Prefettura competente, alla completezza dell’istanza e all’eventuale necessità di integrazione documentale.

Fasi della procedura:

  1. presentazione dell’istanza online sul portale ALI;
  2. verifica dei documenti da parte della Prefettura (se residente in Italia) o del Consolato (se all’estero);
  3. istruttoria ministeriale e verifica dei requisiti;
  4. decreto di concessione della cittadinanza;
  5. giuramento di fedeltà alla Repubblica, da effettuare entro 6 mesi dalla notifica del decreto presso il Comune di residenza o l’autorità consolare.

Cause di rigetto della domanda

L’istanza può essere rigettata nei seguenti casi:

  • intervenuta separazione o scioglimento del matrimonio;
  • presenza di condanne penali rilevanti;
  • documentazione incompleta o falsa;
  • mancata conoscenza certificata della lingua italiana;
  • motivi di sicurezza dello Stato (parere negativo dei servizi di intelligence).

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moglie tradita

Risarcimento di 10.000 euro per la moglie tradita Moglie tradita: spetta il risarcimento del danno non patrimoniale di 10.000 euro per le umiliazioni e le mortificazioni

Risarcimento del danno per la moglie tradita

Alla moglie tradita, umiliata e mortificata a causa del tradimento del marito con una allieva della scuola di danza, che gestivano insieme, spetta un risarcimento del danno di 10.000 euro, quantificato in via equitativa. Lo ha deciso il Tribunale di Treviso nella sentenza n. 201/2025.

Moglie tradita: domanda di separazione con addebito

Una donna agisce in giudizio, vantando una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti del suo ex marito. La coppia, sposatasi il 25 agosto 2007, dopo anni di frequentazione, condivideva una passione comune per la danza che li ha portati a fondare insieme una società sportiva di successo. Nel periodo tra settembre e novembre 2011 però, la donna scopre, visionando il cellulare del marito, che questi intratteneva una relazione extraconiugale con un’allieva della loro scuola di ballo. Circostanza ammessa dal marito nel momento in cui la moglie rinviene un biglietto inequivocabile scritto dall’amante. Nonostante le rassicurazioni del marito e il tentativo di salvare il matrimonio, la relazione extraconiugale prosegue anche nei primi mesi del 2012. A questo punto la moglie decide di abbandonare la casa coniugale nell’ottobre 2012 e avviare un giudizio di separazione con addebito.

Richiesta risarcitoria della moglie tradita

La sentenza di separazione, pubblicata il 19 febbraio 2019, riconosce la colpa in capo al marito, ma dichiara inammissibile la domanda risarcitoria in quella sede. La donna si rivolge quindi al Tribunale per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito, proponendo una liquidazione basata sulle tabelle milanesi in tema di danno da perdita del vincolo parentale o di diffamazione, da applicare per analogia.

Nessun risarcimento in assenza di danno

Il marito, costituitosi in causa, contesta la domanda risarcitoria. Per l’uomo la violazione del dovere di fedeltà non è sufficiente a giustificare un risarcimento del danno aquiliano. Occorre piuttosto che la lesione riguardi un diritto costituzionalmente garantito e che l’afflizione superi la soglia della normale tollerabilità. Tali presupposti però non sono ravvisabili nel caso di specie. Le parti hanno infatti alternato periodi di separazione di fatto. La moglie inoltre, già nel 2013, ha instaurato una relazione e una convivenza con un socio finanziatore della sua nuova attività imprenditoriale nel settore della danza. Circostanza questa che escluderebbe la violazione di un diritto alla salute. La moglie ha infatti dimostrato di saper riorganizzare sia la propria vita sentimentale che lavorativa. L’uomo nega inoltre che la sua condotta possa aver violato i diritti soggettivi della moglie come l’onore e la dignità personale, perché la relazione non è stata condotta in modo pubblico o ostentato. Per quanto riguarda il quantum del risarcimento infine, l’uomo ritiene del tutto sproporzionati i parametri scelti dall’attrice e non applicabili per analogia al loro caso.

Risarcimento danni non patrimoniali

Il Tribunale, istruita la causa, si pronuncia in favore della moglie sul diritto al risarcimento.

Il Giudice richiama a tale fine l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità per la quale la violazione del dovere di fedeltà coniugale può dar luogo a risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 c.c. Occorre però che l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto (salute, onore, dignità personale).

Nel caso specifico, il Tribunale ritiene integrati tali presupposti. Il tradimento, peraltro reiterato anche dopo le rassicurazioni dell’uomo di voler interrompere la relazione, si è verificato in un momento in cui la coppia aveva consolidato una solida progettualità, non solo attraverso la società di danza, ma anche con il comune desiderio di avere un figlio, come emerso dalla sentenza separativa.

Moglie tradita, umiliata e mortificata

Il Tribunale evidenzia come le modalità del tradimento abbiano provocato umiliazione e mortificazione alla donna. La relazione extraconiugale è infatti maturata nell’ambiente lavorativo della scuola di danza, con un’allieva verso cui l’uomo mostrava attenzioni particolari, notate dagli altri allievi e che hanno favorito il “vociferare nel corridoio” e il “malevolo pettegolezzo”. Le voci sulla relazione hanno circolato inoltre, non solo tra gli allievi, ma anche tra insegnanti di altre scuole. Un episodio significativo si è poi verificato durante una competizione all’estero. In questa occasione l’uomo è stato sorpreso in atteggiamenti intimi con l’allieva in presenza di altri allievi. Fatto questo che ha alimentato ulteriormente il chiacchiericcio.

Queste condotte, ritenute dal Tribunale superiori alla normale tollerabilità, hanno generato “strepitus”, curiosità e maldicenza di terzi. Questi fatti hanno ferito indubbiamente l’onore, il decoro, la stima professionale, la riservatezza e la privacy della donna, che ha vissuto momenti di depressione, tristezza e umiliazione, con innegabile pregiudizio morale.

Risarcimento del danno di 10.000 euro

Il Tribunale respinge però i parametri risarcitori proposti dall’attrice. Va infatti esclusa l’equiparazione del tradimento alla lesione del vincolo parentale o alla diffamazione a mezzo stampa, data la diversità dei presupposti costitutivi.

Il criterio risarcitorio da adottare è quello equitativo, ai sensi dell’articolo 1226 c.c, tenuto conto che:

  • il discredito subito dalla donna va circoscritto all’ambito lavorativo;
  • la lesione dei diritti soggettivi non le ha impedito di instaurare una nuova relazione sentimentale e di fondare una nuova scuola di danza con il compagno finanziatore;
  • il patimento e la tristezza sono durati circa due mesi.

Alla luce di tutti questi aspetti il Tribunale quantifica in € 10.000,00 il risarcimento dovuto alla moglie tradita.

 

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Allegati

conflitto d'interessi avvocati

Conflitto d’interessi avvocati: il CNF impone limite di 2 anni Il Consiglio Nazionale Forense si esprime sul conflitto d'interessi avvocati, in ordine all'incarico contro il cliente di un collega di studio

Incarico contro il cliente di un collega di studio

Conflitto d’interessi avvocati: con la sentenza n. 375/2024, pubblicata il 21 aprile 2025 sul sito del Codice Deontologico, il Consiglio Nazionale Forense ha ribadito un importante principio in materia di conflitto di interessi e di doveri deontologici tra colleghi di studio legale, delineando con chiarezza il perimetro entro cui è legittima l’assunzione di un incarico professionale contro una parte precedentemente assistita da un collega di studio.

Il principio stabilito dal CNF

La decisione si fonda sul combinato disposto di due disposizioni del Codice Deontologico Forense:

  • Art. 24, comma 4 – “Conflitto di interessi”: l’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando vi è conflitto con l’interesse di una parte precedentemente assistita, anche da un collega con cui collabori stabilmente;

  • Art. 68, comma 1 – “Assunzione di incarichi contro una parte già assistita”: è vietato all’avvocato accettare incarichi contro una parte già assistita, salvo che siano trascorsi almeno due anni dalla cessazione del rapporto professionale.

Secondo il CNF, l’avvocato può assumere un incarico contro un ex cliente del Collega di Studio solo quando siano trascorsi almeno due anni dalla cessazione dell’incarico professionale da parte del collega, sempre che vi sia stata una collaborazione non occasionale tra i due.

Il caso concreto esaminato

Nel caso sottoposto al Consiglio, un avvocato aveva accettato un mandato professionale in un procedimento giudiziale contro una parte precedentemente assistita da un altro avvocato dello stesso studio legale, con il quale intratteneva rapporti professionali stabili e continuativi. Il rapporto tra il collega e l’ex assistito si era concluso da meno di due anni.

Il comportamento è stato qualificato come illecito deontologico, configurando una violazione tanto dell’art. 24 quanto dell’art. 68 cdf, in quanto:

  • il legame tra i due professionisti era qualificabile come collaborazione non occasionale;

  • l’intervallo temporale tra la cessazione dell’assistenza prestata dal collega e il nuovo incarico non raggiungeva il biennio richiesto.

Le motivazioni della decisione

La ratio della pronuncia è fondata sulla necessità di tutelare l’affidamento della parte assistita e di preservare la riservatezza delle informazioni conosciute all’interno del medesimo studio o ambito professionale collaborativo.

Il CNF ha richiamato la funzione essenziale del principio di lealtà e fiducia che caratterizza il mandato tra cliente e avvocato e ha sottolineato come tale fiducia non si esaurisce con la cessazione dell’incarico, ma permane per un tempo sufficiente a impedire abusi o indebiti vantaggi derivanti da informazioni acquisite in ambito professionale.

Inoltre, il Consiglio ha precisato che la previsione del termine biennale mira proprio a “cristallizzare” un limite temporale certo, utile ad evitare ambiguità e condotte che potrebbero compromettere l’etica della professione forense.

integrazione al trattamento minimo

Integrazione al trattamento minimo Integrazione al trattamento minimo: cos’è, a chi spetta e come funziona nel 2025

Integrazione al trattamento minimo: cos’è

L’integrazione al trattamento minimo rappresenta uno strumento fondamentale del sistema previdenziale italiano per garantire una tutela economica minima ai pensionati con assegni particolarmente bassi. È un intervento assistenziale che consente di elevare l’importo della pensione fino a un livello minimo fissato annualmente per legge.

L’integrazione al trattamento minimo consiste, a livello pratico, in una maggiorazione economica riconosciuta ai pensionati che percepiscono una pensione di importo inferiore al cosiddetto “trattamento minimo” previsto annualmente dall’ordinamento.

Il trattamento minimo non è una pensione a sé, ma una soglia economica al di sotto della quale lo Stato interviene integrando l’importo mensile, per garantire un livello essenziale di reddito alle persone in età pensionabile.

Normativa di riferimento

La principale norma di riferimento sull’integrazione al trattamento minimo è la Legge n. 638/1983, che ha introdotto il concetto di trattamento minimo INPS.

Come funziona l’integrazione al minimo

L’INPS provvede a integrare l’importo mensile della pensione, fino a raggiungere il trattamento minimo, se:

  • il reddito del pensionato è inferiore a determinati limiti;
  • la pensione deriva da gestioni obbligatorie (non vale per assegni sociali o pensioni integrative).

Chi ha diritto all’integrazione al minimo

L’integrazione spetta ai pensionati:

  • titolari di una o più pensioni dirette o indirette a carico dell’INPS, dai fondi speciali per gli autonomi e dai fondo esclusivi o sostitutivi dell’AGO;
  • con un reddito personale inferiore al trattamento minimo annuo;
  • che risiedono stabilmente in Italia;

Pensioni escluse dall’integrazione

L’integrazione non è prevista per i titoli di pensioni calcolate interamente con il sistema contributivo, ossia coloro che hanno versato il primo contributo pensionistico dopo il 31.12.1995.

Come si ottiene l’integrazione

L’integrazione al minimo viene riconosciuta d’ufficio dall’INPS, ma:

  • il pensionato deve dichiarare correttamente il proprio reddito (modello RED);
  • l’INPS può richiedere ulteriori documenti o controlli;
  • in caso di omissioni o irregolarità, l’integrazione può essere revocata e si può essere obbligati alla restituzione delle somme percepite indebitamente.

Integrazione trattamento minimo 2025

Per il 2025, la pensione minima, cioè l’importo più basso che si può ricevere, è stata stabilita a 603,40 euro al mese per tredici mensilità. Questa cifra è stata comunicata dall’INPS nella circolare numero 23 del 28 gennaio 2025.

Grazie a un aumento del 2,2% introdotto dalla Legge di Bilancio 2025, la pensione minima salirà a 616,67 euro al mese. Questo incremento è pensato per dare un maggiore sostegno a chi ha le pensioni più basse. È importante però sapere che questo aumento non è automatico per tutti. L’integrazione al minimo, ovvero il raggiungimento di questa cifra più alta, spetta solo a quei pensionati che rispettano specifici requisiti.

Per poter ricevere l’integrazione che porta la pensione al “minimo” stabilito, ci sono dei limiti di reddito da rispettare. Questi limiti cambiano ogni anno e dipendono da alcuni fattori importanti:

  • situazione familiare: i limiti sono diversi a seconda il soggetto sia solo o coniugato;
  • data di erogazione della pensione.

Per il 2025, i valori precisi di questi limiti sono stati aggiornati e comunicati sia dall’INPS nella circolare n. 23/2025, che abbiamo menzionato prima, sia dalla Legge di Bilancio 2025.

 

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permessi premio

Permessi premio: la guida Permessi premio: cosa sono, a cosa servono, chi può chiederli, come funzionano, come fare domanda, concessione, limiti e condizioni

Permessi premio: misure per rieducare detenuto

I permessi premio sono una delle più importanti misure di trattamento penitenziario premiale previste dall’ordinamento italiano, introdotti per incentivare la rieducazione del detenuto e favorire il suo graduale reinserimento nella società, in linea con quanto stabilito dall’art. 27 della Costituzione.

I permessi premio rappresentano infatti uno strumento centrale nel sistema penitenziario italiano, volto a realizzare il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. La loro concessione però, come vedremo, non è automatica, ma subordinata a criteri rigorosi, che richiedono un percorso concreto di responsabilizzazione del detenuto. Per ottenere un permesso è essenziale dimostrare affidabilità, impegno nel trattamento e volontà di reinserimento sociale.

Cosa sono i permessi premio

I permessi premio sono disciplinati dall’art. 30-ter della legge sull’ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354) e consistono nella possibilità per il detenuto di uscire temporaneamente dal carcere per un massimo di 45 giorni all’anno, anche frazionabili, per fare rientro in famiglia, partecipare a eventi significativi o riprendere contatti con il tessuto sociale esterno.

Non si tratta di un diritto automatico, ma di un beneficio che può essere concesso in base a specifici requisiti oggettivi e soggettivi.

A cosa servono i permessi premio

I permessi premio hanno una funzione rieducativa, risocializzante e progressiva, finalizzata a:

  • favorire i legami familiari e affettivi del detenuto;
  • stimolare comportamenti responsabili e collaborativi durante l’esecuzione della pena;
  • valutare in concreto l’idoneità del condannato a vivere in libertà senza recidive;
  • preparare il detenuto alla liberazione anticipata o al passaggio a misure alternative.

Chi può ottenere i permessi premio

I permessi premio non sono concessi a tutti i detenuti indistintamente, ma solo a chi:

  1. è stato condannato all’arresto o alla reclusione per un periodo non superiore a 4 anni anche se congiunta alla pena dell’arresto;
  2. è stato condannato alla pena della reclusione per un periodo duperiuore ai 4 anni , dopo aver espiati almeno 1/4 della pena;
  3. è stato condannato alla pena della reclusione per particolari reati (art. 4 bis commi 1, 1 ter e 1 quater) dopo aver espiato almeno metà della pena e comunque di non oltre 10 anni;
  4. è stato condannato all’ergastolo ma ha già espiato 10 anni;
  5. ha tenuto una condotta regolare e collaborativa nel periodo di detenzione;
  6. partecipa attivamente al percorso trattamentale, mostrando progressi in ambito lavorativo, scolastico o relazionale;
  7. non presenta pericolosità sociale attuale, valutata anche in relazione al tipo di reato commesso;
  8. partecipa al programma di giustizi riparativa.

In presenza di condanne per reati ostativi di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (es. mafia, terrorismo, reati sessuali gravi), il permesso premio può essere concesso solo se il detenuto ha collaborato concretamente con la giustizia.

Chi decide sulla concessione del permesso

La decisione spetta al Magistrato di sorveglianza, su proposta dell’Equipe trattamentale dell’istituto penitenziario, che valuta:

  • le relazioni comportamentali del detenuto;
  • le attività trattamentali seguite (lavoro, formazione, ecc.);
  • gli elementi di pericolosità attuale o futura;
  • l’esistenza di un programma specifico per il permesso (es. visita a familiari, partecipazione a un evento importante, colloqui di lavoro).

Il parere dell’Equipe non è vincolante, ma è elemento rilevante per la decisione finale.

Come funziona un permesso premio

Il permesso premio può essere concesso per una durata massima di 15 giorni consecutivi per volta, entro il limite annuale di 45 giorni complessivi.

Durante il permesso, il detenuto:

  • non è sottoposto a vigilanza diretta, ma deve attenersi scrupolosamente agli obblighi imposti;
  • deve ritornare in istituto alla scadenza del periodo autorizzato, pena la denuncia per evasione;
  • può essere soggetto a controlli esterni da parte delle forze dell’ordine o del personale del carcere.

La concessione del permesso è revocabile in caso di violazione delle condizioni o di comportamenti inappropriati durante il periodo fuori dall’istituto.

Come si fa domanda per il permesso premio

La richiesta può essere presentata direttamente dal detenuto o tramite il proprio difensore. La procedura prevede:

  1. la presentazione di un’istanza scritta motivata, rivolta al Magistrato di sorveglianza;
  2. l’invio della relazione aggiornata dell’Equipe trattamentale;
  3. la presentazione di documentazione che giustifichi il motivo del permesso (inviti, certificati, lettere familiari, ecc.);
  4. l’indicazione di eventuali garanzie esterne (disponibilità alloggio, presenza di familiari, ecc.).

Il magistrato valuta la richiesta e può concedere o rigettare il permesso con provvedimento motivato, eventualmente dopo un’udienza.

Limiti e condizioni

Tra i principali limiti dei permessi premio:

  • reati ostativi: come già detto, richiedono collaborazione con la giustizia per poter accedere al beneficio;
  • rischi di fuga o recidiva: il magistrato valuta attentamente ogni elemento che possa far ritenere il soggetto inaffidabile;
  • assenza di percorso trattamentale: la mancata partecipazione alle attività del carcere è elemento ostativo.

L’obiettivo è garantire che il beneficio sia parte integrante del percorso rieducativo, non un semplice privilegio.

 

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giurista risponde

Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente La condotta provocatoria antecedente al fatto tenuta dalla persona offesa rileva ai fini del consenso e della non sussistenza del reato di violenza sessuale?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di violenza sessuale, il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere al momento del fatto, ma anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale e antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass., sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2381).

Oggetto di scrutinio da parte della Suprema Corte nella sentenza in commento è la rilevanza del comportamento della persona offesa, antecedente al fatto, ai fini della sussistenza del consenso al momento dell’atto sessuale tale da escludere il reato di cui all’art. 609bis c.p.

La Corte di Appello, in totale riforma della sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale, ha assolto l’imputato dal delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609bis c.p. con formula perché il fatto non sussiste, ritenendo sussistere ragionevoli dubbi sul fatto che l’imputato abbia imposto alla parte offesa un approccio sessuale violento, in ragione del presunto consenso da questa prestato. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso in Cassazione da parte del Procuratore Generale e della costituita parte civile. In particolare, il Procuratore Generale ha presentato due motivi di doglianza con i quali ha lamentato rispettivamente con il primo motivo la violazione di legge e vizio di motivazione per mancato ottemperamento degli standard logici e normativi concernenti la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, atteso che l’esito assolutorio a cui è giunta la sentenza d’appello è frutto di una visione parziale e atomistica del compendio istruttorio; con il secondo motivo è stata, invece, denunciata la violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning migliorativo. La parte civile, altresì, ha dedotto con un unico motivo violazione di legge e vizio di motivazione, nonché travisamento del fatto e della prova, considerato che secondo le prospettazioni della accusa privata la sentenza gravata ha proposto una ricostruzione dei fatti e una valutazione delle risultanze processuali in radicale contrasto con il compendio probatorio raccolto in sede dibattimentale, non valorizzando elementi di prova conducenti inequivocabilmente verso una pronuncia di condanna dell’imputato, ponendo, altresì, in dubbio il presunto libero consenso all’atto sessuale espresso dalla persona offesa ritenuto sussistente dai giudici d’appello.

La Suprema Corte, sebbene la difesa dell’imputato abbia chiesto con memoria la dichiarazione di inammissibilità o comunque il rigetto dei due ricorsi, ha ritenuto questi fondati per i motivi di seguito sintetizzati.

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso in ragione della violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning della sentenza di primo grado in senso favorevole all’imputato, posto che la Corte distrettuale non ha adeguatamente enucleato un percorso argomentativo dotato di maggiore persuasività.

Secondariamente, per quanto di maggiore interesse in questa sede, i giudici di legittimità hanno riconfermato il consolidato principio di diritto enucleato in massime precedenti secondo il quale il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere ma deve anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale antecedente condotta provocatoria da parte della persona offesa: anche quando il fatto sia preceduto da effusioni o da provocazioni, tale condotta non può mai implicare una presunzione di consenso agli atti sessuali posti in essere successivamente (Cass. 4 marzo 2022, n. 7873). Pertanto, il momento che deve essere preso in considerazione, ai fini del reato di violenza sessuale, è quello del compimento dell’atto sessuale, in relazione al quale va verificata la sussistenza del consenso dell’atto stesso, non rilevando, nemmeno sul piano causale, il comportamento provocatorio antecedente della vittima. La presenza del consenso non può essere dedotta da circostanze esterne al perimetro del fatto (quale l’essersi la persona offesa fatta riaccompagnare a casa) ovvero desunto dai costumi sessuali della stessa e deve perdurare per tutto il rapporto senza soluzione di continuità (Cass. 5 aprile 2019, n. 15010); la revoca dello stesso intervenuta in itinere può desumersi da fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà.

Nel caso di specie, non è stato possibile desumersi il consenso ad un rapporto sessuale completo dalla pregressa presenza di effusioni tra l’imputato e la persona offesa, la quale si è allontanata sotto la pioggia pur di lasciare l’abitazione dell’imputato.

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata per violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo giudizio da svolgersi secondo i criteri indicati.

 

(*Contributo in tema di “Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

difensori d'ufficio

Difensori d’ufficio: lo Stato paga anche il recupero crediti La Cassazione riconosce il diritto al rimborso delle spese di recupero crediti per i difensori d’ufficio: lo Stato deve coprire anche questi costi

Difensori d’ufficio e costi recupero credito

Difensori d’ufficio: la Cassazione, con ordinanza n. 14179/2025, ha affermato che lo Stato è tenuto a rimborsare anche le spese sostenute dall’avvocato d’ufficio per l’attività di recupero del credito. A condizione che tali spese siano documentate e riconducibili alla procedura avviata per ottenere il pagamento del compenso professionale. Resta invece legittima la compensazione delle spese se la domanda è articolata in più capi e il ricorrente risulti soccombente in uno di questi.

La vicenda

La controversia trae origine dal ricorso di un avvocato avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano che, pur riconoscendo il compenso per l’attività svolta come difensore d’ufficio in un procedimento penale, aveva escluso il rimborso delle spese connesse alla fase di recupero del credito.

Il legale aveva adito il Palazzaccio, censurando la decisione del Tribunale e sostenendo che quest’ultimo avesse erroneamente escluso l’esistenza di spese vive, in quanto l’attività di recupero era stata svolta in proprio e ritenuta priva di oneri fiscali e tributari.

Il principio espresso dalla Cassazione

Accogliendo il primo motivo del ricorso, la seconda sezione civile della S.C. ha ritenuto che il Tribunale si fosse discostato dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il difensore d’ufficio non può essere gravato delle spese necessarie al recupero del proprio credito. Tali costi, infatti, rientrano tra quelli che devono essere rimborsati dall’Erario, poiché connessi all’attività difensiva svolta nell’interesse del soggetto assistito.

Difensori d’ufficio e compensazione delle spese

È stato invece respinto il secondo motivo di ricorso, volto a contestare la compensazione delle spese disposta dal Tribunale. La Corte ha precisato che, nel caso in esame, la domanda era strutturata in due capi distinti. Uno relativo al pagamento del compenso professionale, l’altro al rimborso delle spese sostenute per ottenerne il riconoscimento. Pertanto, avendo il ricorrente ottenuto accoglimento solo parziale, la decisione di compensare le spese è da ritenersi conforme ai principi processuali vigenti. Non in contrasto, dunque, con la pronuncia delle Sezioni unite n. 32061/2022, invocata dal ricorrente.

L’esito del giudizio

Nel merito, la Cassazione ha quindi cassato l’ordinanza impugnata e liquidato in favore del ricorrente la somma di 500 euro a titolo di rimborso per le spese di recupero del credito, condannando al versamento il ministero della Giustizia, confermando, tuttavia, la compensazione delle spese.

Allegati

caso fortuito

Caso fortuito (art. 2051 c.c.) Caso fortuito (art. 2051 c.c.) nella responsabilità da cose in custodia: cos'è, come funziona e come provarlo

Responsabilità cose in custodia art. 2051 c.c

Prima di addentrarci nell’analisi del caso fortuito 2051 c.c è necessario precisare che nel sistema della responsabilità civile, l’art. 2051 del Codice civile disciplina la responsabilità del custode per i danni cagionati da cose in custodia. Si tratta di una forma di responsabilità oggettiva, che non richiede la colpa del custode, ma che può essere esclusa se il danno è causato dal caso fortuito.

Cos’è il caso fortuito 2051 c.c

Il caso fortuito 2051 c.c è un evento imprevedibile e inevitabile, che si verifica per una causa esterna alla cosa in custodia e che interrompe il nesso causale tra la cosa e il danno. Esso rappresenta l’unica causa di esonero dalla responsabilità del custode prevista espressamente dall’art. 2051 c.c.

In altre parole, anche se la cosa è sotto la custodia di un soggetto, quest’ultimo non risponde del danno se dimostra che esso è stato causato da un fattore estraneo alla propria sfera di controllo e gestione. Il caso fortuito può quindi consistere:

  • nel fatto di terzi (es. un danneggiamento doloso o colposo di un estraneo);
  • nella condotta imprevedibile della vittima (c.d. fatto del danneggiato);
  • in eventi naturali eccezionali (come nubifragi improvvisi o terremoti).

Responsabilità oggettiva del custode: una presunzione superabile

La responsabilità da cose in custodia, come stabilito dall’art. 2051 c.c., è presunta: non richiede prova della colpa del custode, ma la dimostrazione che:

  1. il danneggiante aveva la custodia della cosa;
  2. la cosa ha cagionato un danno;
  3. sussiste un nesso causale diretto tra la cosa e il danno.

Tuttavia, tale presunzione può essere superata se il custode riesce a provare il caso fortuito, ovvero a dimostrare che l’evento lesivo è dipeso da una causa a lui non imputabile, impossibile da prevedere e da evitare con la diligenza ordinaria.

Come si prova il caso fortuito 2051 c.c. 

La prova del caso fortuito 2051 c.c. grava sul custode. Egli deve dimostrare:

  • che l’evento che ha causato il danno era imprevedibile ed eccezionale;
  • che non vi era nessun nesso causale diretto tra la cosa e il danno;
  • che ha adottato tutte le misure di custodia idonee a prevenire il danno, ma l’evento si è verificato comunque.

Ad esempio, una caduta su una buca stradale può comportare la responsabilità dell’ente custode della strada. Tuttavia, se la buca si è formata per un evento imprevedibile (es. una rottura improvvisa causata da terzi) e il danno si è verificato prima che il custode potesse ragionevolmente intervenire, si può configurare il caso fortuito. In giurisprudenza, la valutazione avviene caso per caso: è necessario dimostrare che il comportamento diligente del custode non sarebbe comunque riuscito a evitare il danno.

Caso fortuito e fatto del terzo o della vittima

Come accennato sopra, il concetto di caso fortuito 2051 c.c include anche il cosiddetto:

  • fatto del terzo: quando un soggetto estraneo alla custodia interviene in modo autonomo e diretto nel causare il danno;
  • fatto del danneggiato: se la condotta della vittima è anormale, imprevedibile e determinante nella produzione dell’evento lesivo, può interrompere il nesso causale.

Tuttavia, affinché tali fatti abbiano efficacia esimente, devono essere autonomi, imprevedibili e dotati di forza causale esclusiva.

Quando non si configura il caso fortuito 2051 c.c. 

La giurisprudenza ha chiarito che non è sufficiente l’allegazione generica di eventi atmosferici o del comportamento di terzi per configurare il caso fortuito. In particolare:

  • l’omessa manutenzione (es. di scale, marciapiedi, impianti, ecc.) non è scusata dalla sola imprevedibilità del danno;
  • il custode non può invocare il caso fortuito se la cosa era in condizioni di degrado note o prevedibili.

Pertanto, anche eventi apparentemente accidentali possono non integrare il caso fortuito se rientrano nella normale prevedibilità o se derivano da una mancanza di vigilanza e custodia.

Considerazioni conclusive

Il caso fortuito 2051 c.c. costituisce una causa di esclusione della responsabilità oggettiva del custode, ma la sua applicazione è rigorosa e subordinata alla prova di un evento imprevedibile e inevitabile. Per evitare responsabilità, è fondamentale che il custode dimostri di aver adottato tutte le misure idonee alla corretta custodia della cosa e che il danno si sia verificato per cause totalmente estranee alla sua sfera di controllo.

 

Leggi anche: Caso fortuito e condotta del terzo o del danneggiato

aspettativa retribuita

Aspettativa retribuita: cos’è e come si ottiene Aspettativa retribuita: cos'è, normativa, quando spetta, come ottenerla, differenze con l'aspettativa non retribuita e settore pubblico

Aspettativa retribuita: cos’è?

L’aspettativa retribuita è un istituto previsto dall’ordinamento italiano che consente al lavoratore di sospendere temporaneamente la prestazione lavorativa continuando a percepire la retribuzione. Si distingue dall’aspettativa non retribuita proprio perché comporta il mantenimento del diritto al salario durante il periodo di assenza dal lavoro.

Questo strumento si applica in specifiche situazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, e rappresenta un importante mezzo di conciliazione tra esigenze personali o familiari e la continuità del rapporto di lavoro.

Normativa di riferimento

Non esiste una disciplina unitaria dell’aspettativa retribuita nel settore privato: le ipotesi sono tipizzate da singole norme di legge o da contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), che possono prevedere condizioni più favorevoli. Nel settore pubblico, invece, l’istituto è regolato più organicamente dal Testo unico del pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001).

Altri riferimenti normativi generali includono:

  • Legge n. 104/1992 (assistenza a familiari disabili);
  • D.lgs. n. 151/2001 (congedi parentali e maternità/paternità);
  • Legge n. 53/2000 (congedi per formazione o gravi motivi familiari).

Quando spetta: i principali casi

L’aspettativa retribuita non è un diritto generalizzato ma si applica solo in presenza di specifiche condizioni previste dalla legge o dal contratto di lavoro. Ecco i principali casi in cui può essere concessa:

1. Assistenza a familiari con disabilità grave (Legge 104/1992)

Il lavoratore ha diritto a permessi retribuiti pari a 3 giorni al mese, anche frazionabili, per assistere familiari con handicap riconosciuto ai sensi dell’art. 3, comma 3 della legge 104.

2. Congedo parentale o per maternità/paternità

Previsto dal d.lgs. 151/2001, consente ai genitori di assentarsi per assistere i figli nei primi anni di vita, mantenendo il diritto a una indennità INPS in sostituzione del salario.

3. Aspettativa per cariche pubbliche o sindacali

I lavoratori che ricoprono cariche elettive in enti pubblici o sindacati possono ottenere aspettativa retribuita, o in alcuni casi indennizzata dallo Stato o dall’ente di riferimento.

4. Aspettativa per formazione o studio (se prevista dal CCNL)

Alcuni contratti collettivi, in particolare nel settore pubblico o scolastico, prevedono la possibilità di chiedere aspettativa retribuita per partecipare a corsi di aggiornamento o attività formative riconosciute.

Come richiederla

La procedura per la richiesta varia in base alla tipologia di aspettativa e alla disciplina applicabile nel singolo caso. Tuttavia, alcuni passaggi sono comuni:

  1. Presentare domanda scritta al datore di lavoro, specificando la motivazione e il periodo richiesto;
  2. Allegare la documentazione necessaria (es. certificati medici, autorizzazioni INPS, attestati formativi);
  3. Attendere l’approvazione del datore di lavoro, nei casi in cui non si tratti di un diritto automatico (come per i permessi 104 o il congedo parentale).

In genere, per le aspettative regolate da legge, il datore di lavoro non può opporsi se sono rispettate tutte le condizioni previste.

Differenza con l’aspettativa non retribuita

L’aspettativa non retribuita è più ampia e può essere concessa anche per motivi personali, viaggi, studio o esigenze familiari, ma non prevede la corresponsione dello stipendio. In molti casi può essere accordata discrezionalmente dal datore di lavoro o regolata dal contratto collettivo.

L’aspettativa retribuita, invece, è riconosciuta solo in ipotesi tassative, con precise condizioni e finalità che giustificano il mantenimento del trattamento economico.

Aspettativa retribuita nel settore pubblico

Nel pubblico impiego, l’aspettativa retribuita è disciplinata in modo più organico e si applica, tra gli altri casi:

  • per gravi motivi familiari;
  • per attività formative riconosciute;
  • per ricoprire cariche pubbliche elettive.

Il lavoratore mantiene il posto e il trattamento economico, salvo quanto diversamente previsto nei singoli contratti o leggi di settore.

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