certificato di abitabilità

Il certificato di abitabilità   Certificato di abitabilità: definizione, evoluzione normativa dell'istituto fino alla segnalazione certificata di agibilità

Certificato di abitabilità: cos’è

Il certificato di abitabilità fino agli anni ’90, veniva rilasciato se l’immobile era salubre dal punto di vista igienico sanitario. L’articolo 221 del Regio Decreto n. 1265/1934 subordinava a questo documento infatti l’uso residenziale degli edifici.

Alle Unità Sanitarie Locali spettava il compito di verificare le condizioni igienico-sanitarie delle abitazioni.

Certificato di abitabilità: evoluzione normativa

Con il d.P.R. n. 425/1994, la disciplina dell’abitabilità e quella dell’agibilità si uniscono.

Il certificato di abitabilità attestante la salubrità dell’immobile non basta più per la legalità d’uso. Il decreto richiede anche il certificato di collaudo e la dichiarazione di conformità del direttore dei lavori.

Il d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) muta poi il nome certificato di abitabilità in

certificato di agibilità, rendendolo un titolo unico per tutte le destinazioni d’uso, che viene rilasciato in presenza della sicurezza statica, salubrità, risparmio energetico, accessibilità e conformità urbanistica dell’immobile.

Da certificato di abitabilità, a quello di agibilità fino alla SCA

Nel 2013 si verifica un’importante fusione normativa. Nasce la Segnalazione Certificata di Agibilità (SCA), un documento cruciale per l’uso legittimo di ogni immobile. Questo documento unisce infatti i concetti di “abitabilità” e “agibilità”, cancellando la distinzione tra usi residenziali e non residenziali.

L’obiettivo primario della SCA consiste nell’attestare la conformità di un edificio o unità immobiliare a standard elevati. Tali standard includono condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico e adeguata installazione degli impianti.

La SCA inoltre verifica la conformità dell’opera al progetto originale e, dove richiesto, il rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale. In sintesi, garantisce che ogni immobile rispetti rigorosi requisiti normativi.

Le recenti modifiche del decreto “Salva Casa” (d.l. 69/2024) hanno semplificato ulteriormente il processo. Hanno escluso la nuova agibilità per lavori interni non alteranti, hanno ammesso l’agibilità parziale per singole unità autonome e hanno eliminato la sanzione pecuniaria per la mancata agibilità, sebbene rimangano conseguenze civili e urbanistiche.

SCA: quando è obbligatoria

Il Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380-2001) stabilisce le linee guida generali per la presentazione della SCA. Le normative regionali e comunali possono poi implementare queste direttive. La SCA è necessaria per le nuove costruzioni e per le ricostruzioni totali o parziali. Si richiede anche per sopraelevazioni e interventi su edifici esistenti.

Queste opere però devono potenzialmente influire sulle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità o risparmio energetico. Perfino le sanatorie, che regolarizzano interventi abusivi rientranti in queste categorie, richiedono la presentazione della SCA. Le amministrazioni locali definiscono poi specifici interventi soggetti a questa dichiarazione.

Chi la presenta

Possono presentare la SCA il titolare del permesso di costruire, il soggetto che ha presentato la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA), i loro successori e gli aventi causa.

Nella pratica, un professionista abilitato, come un ingegnere, geometra, architetto o perito edile, solitamente deposita la SCA.

Come si presenta

Il deposito avviene presso lo Sportello Edilizia e Urbanistica entro 15 giorni dalla comunicazione di fine lavori. Alcuni comuni permettono di indicare la fine lavori direttamente nella SCA. Il Comune può anche disporre che vengano eseguite delle ispezioni, tramite la ASL, entro 180 giorni dal deposito per verificare i requisiti.

Validità della SCA

La SCA non ha una durata, quindi non scade e non necessita di essere rinnovata. Tuttavia, è necessaria una nuova segnalazione se intervengono modifiche. Queste modifiche per devono influenzare la sicurezza, l’igiene, la salubrità o il risparmio energetico dell’immobile.

Mancata presentazione: sanzioni

Il Decreto SCIA 2 (D.Lgs. n. 222/2016) ha abolito il rilascio del certificato da parte del Comune.

Ora, la SCA è un’autocertificazione presentata dal proprietario o dal costruttore.

La mancata presentazione comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da 77 a 464 euro.

Leggi anche: Agevolazione prima casa anche per l’immobile inagibile

codice di condotta influencer

Codice di condotta influencer approvato da Agcom  Codice di condotta influencer: Agcom ne annuncia l'approvazione, per garantire trasparenza e tutela dei diritti dei soggetti fragili

Codice di condotta influencer Agcom

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni segna un passo importante nell’evoluzione del panorama digitale, approvando in via definitiva il Codice di Condotta per gli influencer e le relative Linee Guida.

Un percorso partecipativo, che ha coinvolto associazioni di categoria, consumatori, esperti di pubblicità e professionisti del settore e che ha portato alla definizione di regole chiare, mirate a tutelare la professione dei content creator e gli utenti.

Lo ha annunciato la stessa Autorità con un comunicato stampa del 24 luglio 2025 

La consultazione pubblica

Il processo che ha portato a questo Codice di Condotta ha avuto inizio con una consultazione pubblica per perseguire i seguenti obiettivi:

  • coinvolgere il pubblico al fine di definire un quadro normativo condiviso, abbassando anche le soglie per gli influencer rilevanti;
  • equiparare le regole per gli influencer a quelle del settore radiotelevisivo;
  • creare un registro;
  • identificare gli influencer;
  • tutelare i diritti fondamentali soprattutto di minori e soggetti vulnerabili;
  • stabilire divieti su danni a minori e manipolazione della fiducia;
  • promuovere la trasparenza nell’uso di filtri e nella riconoscibilità della pubblicità.

Codice di Condotta influencer: applicazione

Le nuove regole si applicheranno agli influencer “rilevanti”, che superano cioè i 500.000 follower od ottengono un milione di visualizzazioni almeno su una piattaforma.

Questi professionisti, ora assimilati alle emittenti televisive per responsabilità editoriale, dovranno iscriversi a un elenco ufficiale AGCOM entro sei mesi dalla pubblicazione del Codice.

Le regole stabilite impongono trasparenza, riconoscibilità e responsabilità. Gli influencer dovranno garantire la correttezza e l’imparzialità dell’informazione, rispettare la dignità umana, contrastare i discorsi d’odio e tutelare i minori e il diritto d’autore.

Particolare enfasi è posta sulla trasparenza delle comunicazioni commerciali, con un richiamo diretto al “Digital Chart” dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP).

Sanzioni per chi viola le regole

Il mancato rispetto delle disposizioni del Codice comporterà sanzioni significative.

Sono previste multe fino a 250.000 euro, che possono raggiungere i 600.000 euro in caso di violazioni relative alla tutela dei minori.

AGCOM da parte sua si impegna a garantire l’applicazione delle misure previste tramite sistemi di monitoraggio e verifica.

Leggi anche questi due articoli dedicati agli influencer:

carceri e detenuti

Carceri e detenuti: le misure approvate dal Governo Carceri e detenuti: novità in arrivo per istituti penitenziari, detenzione domiciliare, liberazione anticipata e uffici giudiziari

Governo: nuove misure per carceri e detenuti

Cambiano le regole per carceri e detenuti. Il Consiglio dei Ministri nella giornata di martedì 22 luglio 2025 ha comunicato l’approvazione di una serie di misure finalizzate a ottimizzare l’amministrazione della giustizia, contrastare il sovraffollamento carcerario e offrire percorsi di riabilitazione ai detenuti.

Queste iniziative dimostrano l’impegno del governo per una giustizia più moderna, un sistema carcerario più umano e maggiori opportunità di recupero per i detenuti.

Leggi il Comunicato stampa ufficiale 

Carceri e detenuti: cambia la detenzione domiciliare

Un disegno di legge prevede l’introduzione di un nuovo regime di detenzione domiciliare per i condannati che hanno problemi di dipendenze da droga o alcol. Chi deve scontare una pena detentiva fino a otto anni, o quattro anni per reati di maggiore pericolosità sociale, potrà chiedere di essere ammesso a una struttura terapeutica autorizzata, seguendo un programma socio-riabilitativo residenziale.

Questo beneficio, concedibile una sola volta, richiede la valutazione di una Commissione che accerti la dipendenza e la sua correlazione con il reato.

Il responsabile della struttura informerà le autorità sull’andamento del programma, e la detenzione domiciliare potrà essere revocata in caso di insuccesso o comportamento incompatibile.

Se il programma viene completato con successo, si potrà disporre la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova per il reinserimento sociale.

Liberazione anticipata: modifiche procedurali

Parallelamente, un decreto del Presidente della Repubblica modifica le procedure per la liberazione anticipata, rendendole più rapide e rigorose tramite l’informatizzazione dei fascicoli dei detenuti. Si prevede inoltre un aumento dei colloqui telefonici settimanali e mensili con i familiari per mantenere i legami personali.

Edilizia penitenziaria: lavori per creare più posti

Il Programma di edilizia penitenziaria 2025-2027 prevede invece 60 interventi strutturali per recuperare sezioni esistenti e creare nuovi posti detentivi. La finalità è di aggiungere circa 9.700 posti totali, migliorando così le strutture e contrastando il sovraffollamento.

Carceri e detenuti: distribuzione migliore degli uffici giudiziari

Infine, un disegno di legge sulle circoscrizioni giudiziarie mira a distribuire più efficientemente gli uffici giudiziari sul territorio, istituendo il nuovo tribunale di Bassano del Grappa e ripristinando altri tribunali e sezioni distaccate per bilanciare prossimità della giustizia e funzionalità del sistema.

Leggi anche gli altri articoli dedicati al tema delle carceri 

espressioni offensive

Espressioni offensive dell’avvocato: verità, continenza e pertinenza Espressioni offensive dell'avvocato: guida all'illecito disciplinare punito dall'art. 52 Codice deontologico forense

Espressioni offensive: art. 52 Codice Deontologico

In base all’articolo 52 del Codice deontologico forense l’avvocato ha il dovere di evitare espressioni offensive o sconvenienti sia negli scritti depositati in giudizio sia durante lo svolgimento della sua attività professionale. Tale divieto vale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi. L’uso di un linguaggio offensivo è sempre una condotta disciplinarmente rilevante, anche se l’avvocato agisce per ritorsione, a seguito di una provocazione o in risposta a offese subite. La reciprocità non giustifica l’illecito.

La violazione di questo divieto comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

Il limite della continenza

L’avvocato nell’esercizio della sua attività difensiva può quindi esercitare legittimamente il diritto di critica, fornendo giudizi e valutazioni in relazione a un evento. Tale diritto però deve essere esercitato entro precisi limiti oggettivi, tra i quali rileva senza dubbio la correttezza del linguaggio che si utilizza. La continenza espressiva richiede infatti che la critica si manifesti in un dissenso motivato e rispettoso, anche se si basa su un’interpretazione soggettiva. Sebbene il linguaggio possa essere forte o “provocatore”, deve sempre rispettare il limite della continenza formale. Ciò significa che la critica è lecita solo se non si traduce in attacchi personali, insulti od offese gratuite che colpiscono la dignità morale e professionale del soggetto criticato.

Il limite della pertinenza

Questo limite dispone che affinché espressioni ingiuriose possano essere considerate lecite nell’esercizio del diritto di difesa, è necessario che siano strettamente pertinenti all’oggetto della controversia e che siano funzionali alla tutela degli interessi della parte assistita.

Il limite della verità

Il limite della verità in relazione all’utilizzo delle espressioni sconvenienti od offensive nell’esercizio della difesa è un tema assai delicato. Il CNF in diverse sentenze ha chiarito tuttavia che se l’espressione utilizzata è offensiva e lesiva della dignità poco importa che i fatti denunciati con l’uso di un linguaggio colorito, siano veri.

Espressioni offensive: illecito disciplinare se dirette alla persona 

L’art. 52 del Codice deontologico è norma di indubbio rilievo perché impone limiti precisi all’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva. La giurisprudenza del Consiglio nazionale Forense (CNF) nel corso degli anni si è preoccupata però di chiarirne in modo più approfondito il contenuto.

Nella sentenza n. 159/2012 il CNF ha precisato che l’uso di un linguaggio forte, persino crudo, è lecito quando la discussione in tribunale si mantiene su un piano oggettivo, affrontando le questioni processuali e le tesi contrapposte. Al contrario, il comportamento diventa illecito e sanzionabile nel momento in cui la discussione trascende sul piano personale, ledendo il decoro e la dignità professionale degli altri.

Lo stesso concetto si riviene nella sentenza del CNF n. 122/2012, la quale chiarisce che il diritto dell’avvocato di dissentire dalle tesi avversarie, anche con un linguaggio forte e aspro per evidenziarne l’infondatezza giuridica, deve essere riconosciuto. Tuttavia, questo diritto si esaurisce quando le espressioni utilizzate non si limitano a criticare la tesi, ma si trasformano in un giudizio di valore sulle qualità personali, morali o professionali della controparte, sia essa l’avvocato o il cliente. L’uso di un lessico volgare non è mai tollerato, in quanto porta la discussione su un piano personale e soggettivo, tradendo la funzione difensiva.

Diritto di difesa: si supera il limite se si ingiuria la controparte

Interessante anche quanto sancito dalla sentenza del CNF n. 23/2025, che citando la precedente pronuncia n. 120/2017, afferma che nel bilanciamento tra il diritto di difesa e il decoro/onore della controparte, il primo ha la precedenza. Di conseguenza, un avvocato non commette un illecito disciplinare se usa espressioni forti negli atti per esporre le proprie tesi difensive e per fare valutazioni pertinenti alla controversia, anche se queste possono sembrare disdicevoli. Tuttavia, il limite viene superato se le espressioni offensive sono gratuite, ovvero non collegate alla strategia difensiva e hanno l’unico scopo di ingiuriare.

Nella motivazione di questa sentenza il CNF, nel richiamare la sentenza n. 74/2020 ha modo di chiarire anche che il limite all’uso di un linguaggio forte da parte di un avvocato si definisce in base alla natura della disputa. Finché la discussione rimane oggettiva, concentrandosi sulle questioni processuali e sulle tesi legali, è tollerato un linguaggio anche aspro.

Tuttavia, quando il confronto scivola sul piano personale e soggettivo, attaccando la persona dell’avversario piuttosto che le sue argomentazioni, si configura una violazione dell’articolo 52 del codice deontologico e si rende necessaria l’applicazione di una sanzione disciplinare a tutela del decoro professionale.

Espressioni offensive: decoro anche nella vita privata

L’avvocato comunque ha il dovere di mantenere un comportamento dignitoso e decoroso non solo nell’esercizio della sua attività professionale, ma in ogni situazione, anche nella vita privata. Deve sempre astenersi dall’usare espressioni offensive o sconvenienti. La valutazione su cosa costituisca un illecito deve essere fatta caso per caso, tenendo conto del contesto in cui le espressioni vengono pronunciate.

 

Leggi anche: Sospeso l’avvocato che chiama “parassiti” le controparti

carta per i nuovi nati

Bonus nuovi nati: cos’è e a chi spetta Il bonus per i nuovi nati è destinato alle famiglie che devono affrontare le prime spese per neonati e figli adottivi

Bonus per i nuovi nati

La legge di bilancio 2025 ha introdotto un bonus per i nuovi nati, una nuova misura di sostegno dedicato alle famiglie, con obiettivo primario di incentivare la natalità e alleggerire il peso economico derivante dall’arrivo di un bambino.

Il bonus per i nuovi nati consiste in un importo di 1.000 euro, erogato una tantum, spettante alle famiglie con un ISEE inferiore a 40.000 euro.

La circolare INPS n. 76 del 14 aprile 2025 definisce i requisiti di accesso, le modalità di presentazione delle domande e il regime fiscale della misura.

Bonus per i nuovi nati: come funziona

Il bonus nuovi nati consiste in un importo, che verrà erogato una tantum e che potrà essere utilizzato per l’acquisto di beni e servizi destinati al neonato.

La misura spetta per ogni figlio nato o adottato dopo il 1° gennaio 2025.

Il Bonus non concorre alla formazione del reddito imponibile.

A chi spetta il Bonus per i nuovi nati

Il bonus viene erogato a chi è in possesso dei seguenti requisiti soggettivi e reddituali:

  1. Cittadini italiani, cittadini UE e familiari dei suddetti cittadini, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente;
  2. Cittadini di Stati non UE:
  • Titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; di permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi; di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare in Italia per un periodo superiore a sei mesi.
  • In applicazione della normativa UE e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, possono accedere al bonus anche cittadini extracomunitari in possesso di permessi di soggiorno di durata non inferiore a un anno, anche se non espressamente indicati nella legge di Bilancio 2025.
  1. Soggetti equiparati ai cittadini italiani: come apolidi, rifugiati politici e titolari di protezione internazionale.
  2. Cittadini del Regno Unito: sono equiparati ai cittadini UE se residenti in Italia entro il 31 dicembre 2020. La verifica della residenza a tale data avviene tramite l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) o altri archivi anagrafici. In tal caso, non sono richiesti ulteriori titoli di soggiorno. Per i cittadini del Regno Unito residenti in Italia successivamente al 31 dicembre 2020, si applicano le disposizioni previste per i cittadini extracomunitari in materia di documenti di soggiorno.

Requisiti per l’accesso al Bonus:

  • Residenza: il genitore richiedente deve essere residente in Italia al momento della presentazione della domanda e tale requisito deve sussistere dalla data dell’evento (nascita, adozione, affido preadottivo).
  • ISEE: è necessario un Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) del nucleo familiare in cui è presente il figlio per il quale si chiede il contributo, non superiore a 40.000 euro annui. Nel calcolo dell’ISEE minorenni viene neutralizzato l’importo dell’Assegno unico e universale (AUU) erogato ai componenti del nucleo familiare.
  • Data di nascita, adozione o affido preadottivo: il figlio deve essere nato o adottato a partire dal 1° gennaio 2025. Per le adozioni, il contributo può essere richiesto solo per figli minorenni. In caso di affido preadottivo, si considera la data di ingresso del minore nel nucleo familiare su ordinanza del Tribunale per i minorenni. Per le adozioni internazionali, fa fede la data di trascrizione del provvedimento nei registri dello stato civile. In fase di prima attuazione, per i minori adottati a partire dal 1° gennaio 2025 con provvedimento di affido preadottivo antecedente a tale data, è possibile richiedere il bonus con riferimento alla data della sentenza di adozione.

Come richiedere il bonus

Il Bonus nuovi nati 2025 si richiede tramite apposita domanda, presentabile da uno dei genitori (o dal genitore convivente in caso di non convivenza).

Per genitori incapaci o minorenni, la domanda è inoltrata dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore, verificando i requisiti del genitore del neonato.

Termine domanda esteso a 120 giorni

Il termine per presentare la domanda (che originariamente andava presentata entro 60 giorni dall’evento di nascita, adozione, affido), a pena di decadenza, è stato esteso dall’INPS, con il messaggio n. 2345/2025, a 120 giorni dalla data dell’evento. Inoltre, per gli eventi verificatisi dal 1° gennaio al 24 maggio 2025, per i quali non è stata presentata la domanda entro il termine di 60 giorni, è possibile presentarla entro 60 giorni dalla data di pubblicazione del messaggio Inps (ossia dal 24 luglio).

Ai fini dell’istanza, è necessario possedere un ISEE minorenni valido o aver presentato la DSU per il suo calcolo.

Come inoltrare la domanda

La domanda si inoltra (giià a partire dal 17 aprile scorso) tramite il portale INPS (SPID, CIE, CNS, eIDAS), l’app INPS mobile, il Contact Center INPS o gli istituti di patronato.

All’atto della domanda va indicata la modalità di pagamento (accredito su conto IBAN o bonifico domiciliato), con possibilità di utilizzare IBAN già registrati presso l’INPS o indicarne uno nuovo.

L’erogazione avviene in ordine cronologico di ricezione delle domande accolte, nei limiti dei fondi disponibili.

 

Leggi anche: Legge bilancio 2025

malati oncologici

Malati oncologici: cosa prevede la legge salva lavoro Malati oncologici: in vigore dal 9 agosto la legge che prevede misure salva lavoro come congedi e permessi per sottoporsi a visite, cure ed esami strumentali

Malati oncologici: tutele salva lavoro dal 2026

E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, per entrare in vigore dal 9 agosto, la legge n. 106/2025, approvata definitivamente dal Senato l’8 luglio scorso, contenente misure finalizzate a garantire la cura e la contestuale conservazione del posto di lavoro dei malati oncologici o affetti da malattie invalidanti o croniche.

L’articolo 4 del testo prevede un’autorizzazione di spesa in favore dell’INPS per gli anni 2026 e 2027 per mettere in atto le misure previste. Il testo, composto di soli 5 articoli, prevede fondamentalmente il diritto del lavoratore di richiedere un congedo fino a 24 mesi e permessi di lavoro per sottoporsi alle cure e agli esami medici necessari.

Vediamo più in dettaglio cosa prevede il testo.

Malati oncologici: congedo fino a 24 mesi

I lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato, che sono affetti da malattie oncologiche, invalidanti o croniche (anche rare) con un grado di invalidità uguale o superiore al 74%, possono richiedere un congedo non retribuito fino a 24 mesi, continuativo o frazionato. Durante questo periodo, il dipendente mantiene il posto di lavoro, ma non può svolgere altre attività lavorative.

Il congedo è compatibile con altri benefici e decorre dopo l’esaurimento di eventuali altri periodi di assenza giustificata. Non è computato nell’anzianità di servizio né ai fini previdenziali, ma è possibile riscattarlo versando i relativi contributi. Sono fatte salve condizioni più favorevoli previste dai contratti collettivi.

Al termine del congedo, i dipendenti hanno diritto di accesso prioritario al lavoro agile, se compatibile con la mansione.

La certificazione della malattia è rilasciata dal medico curante o specialista di struttura pubblica o accreditata.

I lavoratori autonomi con le stesse patologie invece possono sospendere l’attività per un periodo massimo di 300 giorni all’anno.

Permessi retribuiti per visite ed esami

Il testo prevede anche il diritto a dieci ore aggiuntive di permesso annuale retribuito. Queste ore sono dedicate a visite, esami e cure frequenti, previa prescrizione medica.

Lo stesso diritto è esteso ai dipendenti con un figlio minorenne affetto dalle medesime patologie. L’indennità per queste ore è calcolata come per le terapie salvavita. Nel settore privato, l’indennità è anticipata dal datore di lavoro e poi recuperata. Nel pubblico, le amministrazioni gestiscono la sostituzione del personale.

Premi di laurea in memoria dei malati oncologici

Dal 2026, il Ministero dell’Università e della Ricerca istituirà un fondo di 2 milioni di euro annui per premi di laurea. Questi premi saranno intitolati a pazienti oncologici e destinati a studenti meritevoli laureati in medicina e chirurgia, scienze biologiche, biotecnologie, farmacia, chimica e tecnologie farmaceutiche, o laureati nelle professioni sanitarie. Un decreto ministeriale definirà i requisiti, i parametri di merito e le modalità di erogazione dei premi da parte delle università.

 

Leggi anche questo articolo correlato Malattie oncologiche, diritti e tutele: la guida INPS

prestazioni ambulatoriali

Prestazioni ambulatoriali: incostituzionale la legge che anticipa le tariffe LEA La Corte costituzionale ha annullato la norma pugliese che anticipava l’efficacia del decreto tariffe per le prestazioni ambulatoriali e protesiche, violando il coordinamento della finanza pubblica

Tariffe sanitarie, la Regione Puglia ha violato i limiti

Prestazioni ambulatoriali: con la sentenza n. 122 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 26 della legge regionale n. 28/2024 della Puglia, che aveva anticipato sul proprio territorio l’efficacia del decreto interministeriale del 23 giugno 2023, contenente le nuove tariffe per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e protesica previste nei Livelli essenziali di assistenza (LEA).

La posizione del Governo: violato l’art. 117 Cost.

Il ricorso del Governo si è fondato sul contrasto con l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza sul coordinamento della finanza pubblica.
La norma pugliese è stata accusata di aver aggirato il procedimento statale di definizione e attuazione dei LEA, stabilendo unilateralmente livelli di assistenza e spesa non autorizzati, in violazione del programma di rientro sanitario cui la Regione è soggetta.

Il ruolo del decreto tariffe e del procedimento statale

La Consulta ha ricostruito il percorso di approvazione delle tariffe sanitarie, definito nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2017 e attuato con il decreto interministeriale del 25 novembre 2024.
Secondo la Corte, la Regione Puglia ha anticipato illegittimamente l’efficacia del decreto del 23 giugno 2023, eludendo il meccanismo previsto dall’art. 8-sexies del d.lgs. n. 502/1992, che rientra tra i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

Perché il procedimento non può essere aggirato

Il procedimento delineato dalla legge statale per la determinazione delle tariffe mira a garantire un equilibrio tra diritto alla salute e sostenibilità finanziaria.
Qualsiasi intervento regionale che incida sull’efficacia o sull’applicabilità di questi atti statali, ha precisato la Corte, deve rispettare il medesimo iter procedurale e derivare dallo stesso livello di potere.

Le altre censure assorbite, ma lo Stato deve fare la sua parte

Pur accogliendo il ricorso, la Corte ha tenuto a precisare che anche lo Stato è tenuto ad agire con tempestività nell’attuazione e aggiornamento dei LEA.
Un aggiornamento non puntuale delle prestazioni sanitarie essenziali, infatti, pregiudica il diritto alla salute, che deve essere garantito su base nazionale e in modo uniforme, alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche e tecnologiche.

Rispetto delle competenze e collaborazione leale

La decisione riafferma il principio secondo cui le Regioni non possono alterare l’equilibrio tra competenze statali e autonomie territoriali, soprattutto in materie delicate come la sanità pubblica.
Al tempo stesso, la Corte invita lo Stato a non ritardare l’aggiornamento dei LEA, perché solo un’azione coerente e collaborativa tra istituzioni può assicurare eguaglianza e tutela effettiva dei diritti fondamentali.

omessa fatturazione avvocato

Omessa fatturazione avvocato: violate lealtà e dignità forense Il CNF sancisce che l’omessa fatturazione è illecito deontologico perché lede l’immagine dell’avvocatura e viola i doveri di solidarietà e correttezza fiscale

L’obbligo di fatturazione come dovere deontologico

Omessa fatturazione avvocato: con la sentenza n. 453/2024, pubblicata il 26 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, il Consiglio Nazionale Forense si è espresso in modo netto sull’omessa fatturazione da parte dell’avvocato, qualificandola come condotta disciplinarmente rilevante.

La decisione richiama gli artt. 16 e 29 del Codice Deontologico Forense, che impongono l’obbligo di adempiere correttamente agli obblighi fiscali e previdenziali.

Secondo il CNF, la fatturazione non è solo un adempimento civilistico e fiscale, ma rappresenta anche un preciso dovere deontologico, strettamente connesso alla lealtà e alla trasparenza dell’attività professionale.

Violazione del principio di solidarietà fiscale

La sentenza evidenzia che l’omessa emissione della fattura costituisce violazione del principio di solidarietà, in quanto l’adempimento fiscale è funzionale alla giusta redistribuzione degli oneri pubblici.

L’avvocato, in quanto professionista iscritto all’albo, è tenuto a operare in conformità ai valori della correttezza fiscale e della trasparenza. La violazione di questi obblighi compromette la fiducia della collettività e danneggia l’immagine dell’intera categoria forense.

L’immagine della professione e la responsabilità disciplinare

Il CNF ha sottolineato che il rispetto dei doveri tributari costituisce un canone generale dell’agire professionale, volto a tutelare l’affidamento dei cittadini nella figura dell’avvocato come professionista leale e corretto.

La condotta omissiva non si esaurisce in una mera infrazione tributaria, ma assume rilevanza deontologica autonoma, poiché contrasta con il dovere di dignità e decoro sancito dal Codice Deontologico.

La ratio della decisione

Il Consiglio ha affermato che: “Il dovere di lealtà e correttezza fiscale nell’esercizio della professione è un canone generale dell’agire di ogni avvocato, che mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato stesso quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività.”

La corretta fatturazione è quindi una manifestazione concreta di quei valori di legalità, trasparenza e solidarietà che caratterizzano la funzione difensiva.

revoca dell'amministratore

Revoca amministratore di condominio solo con gravi irregolarità accertate Il Tribunale di Pescara conferma: l’amministratore condominiale può essere revocato solo in caso di gravi violazioni documentate e dannose per il condominio

Revoca amministratore di condominio solo per motivi seri

Revocato amministratore: non bastano disaccordi, sospetti o ritardi lievi per ottenere la revoca giudiziale dell’amministratore di condominio. È quanto afferma il Tribunale di Pescara con un decreto camerale pubblicato il 26 giugno 2025, che richiama un principio consolidato: l’intervento del giudice in ambito condominiale deve essere eccezionale e motivato da irregolarità gravi, specifiche e dimostrabili, tali da compromettere la corretta amministrazione e danneggiare l’interesse collettivo.

Il caso

Il procedimento è stato avviato da un gruppo di condòmini che avevano invocato la revoca ex art. 1129 c.c. per una serie di presunte irregolarità attribuite all’amministratore. Tra le accuse: ritardi nelle convocazioni, mancata esecuzione di delibere, difficoltà nell’accesso alla documentazione, irregolarità fiscali, scarsa trasparenza nella comunicazione su procedimenti legali e altro ancora. Tuttavia, nessuna delle doglianze è risultata fondata o tale da giustificare l’intervento giudiziario.

Assemblee convocate nei termini legali

Il tribunale ha chiarito che, sebbene talvolta non rispettati i tempi regolamentari interni, i ritardi non hanno superato il limite di 180 giorni stabilito dall’art. 1130, n. 10 c.c. e non hanno inciso sul diritto dei condòmini ad esercitare un controllo effettivo sulla gestione. Dunque, non si configurano come gravi irregolarità.

Nessuna inosservanza delle delibere

In relazione al mancato adeguamento delle tabelle millesimali, è stato evidenziato che il tema non era stato formalmente posto all’attenzione dell’amministratore e che l’interessato aveva avviato in autonomia un tentativo di mediazione, poi abbandonato. Questo ha portato il giudice a escludere un interesse reale e concreto sulla questione.

Trasparenza documentale confermata

Quanto al presunto diniego di accesso agli atti condominiali, il tribunale ha accertato che l’amministratore aveva risposto alle richieste del ricorrente, garantendo la consultazione dei documenti. Le accuse di opacità sono state quindi rigettate per assenza di riscontri oggettivi.

Contestazioni generiche e prive di rilevanza

Altre lamentele, come l’utilizzo di diserbanti maleodoranti o la gestione dell’impianto di videosorveglianza, sono state considerate generiche o non supportate da prova, quindi del tutto inidonee a fondare un provvedimento di revoca.

Revoca dell’amministratore è misura residuale e proporzionata

Nelle motivazioni, il tribunale ha richiamato anche precedenti della Corte di cassazione (tra cui Cass. n. 10844/2020 e n. 1405/2007), che qualificano la revoca giudiziale dell’amministratore come strumento eccezionale, attivabile solo in presenza di violazioni gravi e dannose. Errori formali, divergenze interpretative o incomprensioni non bastano a giustificare l’interruzione forzosa dell’incarico.

Equilibrio tra controllo e funzionalità amministrativa

Infine, la decisione sottolinea un ulteriore principio: l’attività gestionale dell’amministratore non può essere paralizzata da richieste pretestuose o vessatorie. Il diritto dei condòmini all’informazione e al controllo deve essere esercitato in modo proporzionato e responsabile, senza trasformarsi in un ostacolo sistematico all’efficienza amministrativa.

Rito camerale

Rito camerale civile Rito camerale: cos’è, competenza, contenuto del ricorso, ruolo del giudice, decreto motivato,  reclamabilità, efficacia, modifica e revoca

Rito camerale: cos’è

Il rito camerale o in camera di consiglio, è un procedimento snello e informale, spesso utilizzato per questioni che richiedono una decisione rapida o riguardano lo stato delle persone, la famiglia o la gestione di patrimoni.  In alcuni casi, nel procedimento è coinvolto anche il Pubblico Ministero, in altri il giudice, prima di decidere, deve acquisire il parere di altri organi.

Normativa di riferimento

Il rito camerale o procedimento in camera di consiglio è disciplinato dagli articoli 737 – 742 bis c.p.c, norma di chiusura che individua negli articoli che la procedono, la disciplina di carattere generale applicabile ai procedimenti in camera di consiglio.

Rito camerale: competenza

Per quanto riguarda la competenza, nel rito camerale è necessario verificare di volta in volta la materia specifica e il territorio. Se il giudice competente per territorio non è espressamente indicato, per regola generale è necessario riferirsi al giudice del luogo di domicilio o residenza della persona nel cui interesse viene emesso il provvedimento, se questa informazione manca si prende come riferimento la residenza del ricorrente. Di solito, la competenza spetta al Tribunale ordinario o al Tribunale per i minorenni, ma esistono anche casi in cui la decisione è demandata al Giudice di Pace o al Presidente del Tribunale.

Avvio del rito camerale con ricorso

Generalmente, un procedimento in camera di consiglio si avvia su ricorso di soggetti specifici indicati dalla legge, o da chiunque sia direttamente o indirettamente interessato dagli effetti del provvedimento. Ci sono però eccezioni importanti: in alcuni casi specifici è il giudice stesso a promuovere il procedimento d’ufficio.

Contenuto del ricorso

Il ricorso, che rappresenta la domanda iniziale, deve esporre in modo sintetico, ma chiaro i fatti e le ragioni della richiesta. Una volta depositato presso la cancelleria del giudice competente, il ricorso va notificato solo se coinvolge gli interessi di soggetti diversi dal ricorrente.

Giudice del rito camerale: ruolo e funzioni

Nel rito camerale, non c’è un giudice istruttore, ma un giudice relatore, che ha il compito di istruire la causa, potendo anche ascoltare gli interessati. Sulla gestione delle prove e degli elementi istruttori, ci sono diverse interpretazioni: alcuni ritengono che il giudice relatore sia l’unico delegato al compimento dei mezzi istruttori, mentre altri sostengono che sia l’intero collegio (il gruppo di giudici) a dover decidere e assumere le prove, con il relatore che si limita a esporre la questione.

Decreto motivato: il reclamo

Il procedimento camerale si conclude solitamente con un decreto motivato.

I decreti possono essere contestati tramite reclamo al Tribunale in composizione collegiale, che a sua volta decide in camera di consiglio. Se il decreto è del Tribunale di primo grado in camera di consiglio, il reclamo deve essere proposto alla Corte d’Appello.

Soggetti legittimati a proporre reclamo

I soggetti legittimati a proporre reclamo sono le parti coinvolte nel giudizio di primo grado, chiunque subisca un pregiudizio diretto o indiretto dal provvedimento e il Pubblico Ministero. Non può invece proporre reclamo chi ha ottenuto un provvedimento conforme alla propria richiesta.

Termini per il reclamo

Il termine perentorio per presentare il ricorso di reclamo è di dieci giorni. Questo termine decorre dalla comunicazione del decreto da parte della cancelleria se il provvedimento riguarda una sola parte, o dalla notifica se coinvolge più parti.

Efficacia del decreto

Il decreto che viene emesso alla fine del rito camerale diventa efficace quando:

  • scadono i termini per il reclamo e questo non è stato presentato;
  • il reclamo viene rigettato o dichiarato inammissibile;
  • le parti accettano il provvedimento.

In situazioni di urgenza, il giudice che ha emesso il decreto può attribuirgli un’efficacia immediata. Il giudice chiamato a decidere sul reclamo, invece, può sospendere l’efficacia del decreto impugnato.

Decreto: modifica e revoca

Una caratteristica fondamentale dei decreti camerali è la loro modificabilità e revocabilità in ogni tempo, anche dopo che sono diventati efficaci. Questo significa che non acquisiscono mai la stabilità di un giudicato, il che permette di adattare il provvedimento a nuove circostanze. Tuttavia, un provvedimento negativo non può essere revocato, ma l’istanza può essere riproposta.

La richiesta di revoca o modifica si presenta tramite ricorso al giudice che ha emesso il decreto, da parte di tutti i soggetti che avrebbero potuto avviare il procedimento iniziale, inclusi quelli che non vi hanno partecipato.

Se il decreto non è stato impugnato, la competenza per la revoca è del giudice di primo grado; se invece è stato emesso in sede di reclamo, la competenza è del giudice di secondo grado. I decreti emessi d’ufficio dal giudice possono essere revocati o modificati anche d’ufficio.

Sono fatti salvi tuttavia i diritti acquisiti dai terzi in virtù di accordi precedenti alla modifica o alla revoca del decreto.

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto civile