garante disabili

Garante delle persone con disabilità Pubblicato in Gazzetta ilo decreto legislativo n. 20/2024 che istituisce il Garante delle persone con disabilità, operativo dal 1° gennaio 2025

Garante disabili: chi è e cosa fa

In data 5 marzo 2024, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D-lgs-20-2024 che istituisce il Garante nazionale delle persone con disabilità, in attuazione della delega conferita al governo e dopo l’approvazione in via definitiva del provvedimento da parte del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2024.

L’autorità “Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità” sarà operativa a decorr4ere dal 1° gennaio 2025 ed eserciterà “le funzioni e i compiti ad essa assegnati dal decreto con poteri autonomi di organizzazione, con indipendenza amministrativa e senza vincoli di subordinazione gerarchica.

Il Garante costituisce un’articolazione del sistema nazionale per la promozione e la protezione dei diritti delle persone con disabilita’, in attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18.

Composizione Autorità Garante

Il Garante avrà sede in Roma e sarà un organo collegiale, composto dal presidente e da due componenti, “scelti tra persone di notoria indipendenza e di specifiche e comprovate professionalità, competenze o esperienze nel campo della tutela e della promozione dei diritti umani e in materia di contrasto delle forme di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità”.

Il presidente e i componenti del collegio non possono essere scelti tra persone che rivestono incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano rivestito tali incarichi e cariche nell’anno precedente la nomina e, in ogni caso, non devono essere portatori di interessi in conflitto con le funzioni del Garante.

Per tutta la durata dell’incarico, inoltre, il presidente e i componenti del collegio non possono esercitare, a pena di decadenza, attività professionale, imprenditoriale o di consulenza, non possono svolgere le funzioni di amministratori o dipendenti di enti pubblici o privati, ricoprire uffici pubblici di qualsiasi natura o rivestire cariche elettive, assumere cariche di governo o incarichi all’interno di partiti politici o movimenti politici o in associazioni, organizzazioni, anche sindacali, ordini professionali o comunque organismi che svolgono attività nel campo della disabilità.

Il presidente e i componenti del collegio durano in carica di quattro anni e il loro mandato e’ rinnovabile una sola volta.

Ufficio del Garante

Per lo svolgimento dei propri compiti istituzionali è istituito l’Ufficio del Garante, il cui funzionamento sarà affidato ad un regolamento adottato dal garante stesso, con una dotazione organica costituita da due unità dirigenziali e 20 unità di persone non dirigenziale, in possesso delle competenze e dei requisiti di professionalità necessari in relazione alle funzioni e alle caratteristiche di indipendenza e imparzialità del Garante.

L’assunzione del personale avviene per pubblico concorso.

L’Ufficio del Garante può avvalersi di esperti, fino ad un massimo di otto, di elevata competenza in ambito giuridico, amministrativo, contabile o di comprovata esperienza in materia di disabilità. Gli esperti possono prestare la propria opera professionale a titolo gratuito.

Funzioni e prerogative del Garante

Il Garante esercita moltissime funzioni, tra cui:

  • vigila sul rispetto dei diritti e sulla conformità ai principi stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e dagli altri trattati internazionali dei quali l’Italia è parte in materia di protezione dei diritti delle persone con disabilita’, dalla Costituzione, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti nella medesima materia;
  • contrasta i fenomeni di discriminazione diretta, indiretta o di molestie in ragione della condizione di disabilita’ e del rifiuto dell’accomodamento ragionevole di cui all’articolo 5, comma 2;
  • promuove l’effettivo godimento dei diritti e delle liberta’ fondamentali delle persone con disabilita’, in condizione di eguaglianza con gli altri cittadini, anche impedendo che esse siano vittime di segregazione;
  • riceve le segnalazioni presentate da persone con disabilita’, dai loro familiari, da chi le rappresenta, dalle associazioni e dagli enti legittimati ad agire in difesa delle persone con disabilita’, da singoli cittadini, da pubbliche amministrazioni, nonché dall’Autorità politica delegata in materia di disabilità. Il Garante stabilisce, nei limiti della propria autonomia organizzativa, le procedure e le modalita’ di presentazione delle segnalazioni, anche tramite l’attivazione di un centro di contatto dedicato, assicurandone l’accessibilita’. Il Garante all’esito della valutazione e verifica delle segnalazioni pervenute, previa audizione delle persone con disabilita’ legittimate, esprime con delibera collegiale pareri motivati;
  • svolge verifiche, d’ufficio o a seguito di segnalazione, sull’esistenza di fenomeni discriminatori;
  • formula raccomandazioni e pareri inerenti alle segnalazioni raccolte alle amministrazioni e ai concessionari pubblici interessati, anche in relazione a specifiche situazioni e nei confronti di singoli enti, proponendo o sollecitando, anche attraverso l’autorita’ di settore o di vigilanza, interventi, misure o accomodamenti ragionevoli idonei a superare le criticita’ riscontrate;
  • promuove la cultura del rispetto dei diritti delle persone con disabilita’ attraverso campagne di sensibilizzazione, comunicazione e progetti, iniziative ed azioni positive, in particolare nelle istituzioni scolastiche, in collaborazione con le amministrazioni competenti per materia;
  • agisce e resiste in giudizio a difesa delle proprie prerogative;
  • definisce e diffonde codici e raccolte delle buone pratiche in materia di tutela dei diritti delle persone con disabilita’ nonche’ di modelli di accomodamento ragionevole.

Pareri del Garante

Come dispone l’art. 5 del decreto, il Garante valuta le segnalazioni ricevute e verifica l’esistenza di discriminazioni comportanti lesioni di diritti soggettivi o di interessi legittimi negli ambiti di competenza. All’esito della valutazione e verifica, previa audizione dei soggetti destinatari delle proposte nel rispetto del principio di leale collaborazione, ad eccezione dei casi di urgenza di cui al comma 4, esprime con delibera collegiale pareri motivati.

Nel caso in cui un’amministrazione o un concessionario di pubblico servizio adotti un provvedimento o un atto amministrativo generale in relazione al quale la parte lamenta una violazione dei diritti della persona con disabilita’, una discriminazione o lesione di interessi legittimi, il Garante emette un parere motivato nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate nonche’ una proposta di accomodamento ragionevole, come definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’ e dalla disciplina nazionale, nel rispetto del principio di proporzionalita’ e adeguatezza.

Quando le verifiche hanno ad oggetto il mancato adeguamento a quanto previsto dai piani per l’eliminazione di barriere architettoniche dagli edifici pubblici e aperti al pubblico e da quelli privati che forniscono strutture e servizi aperti o forniti al pubblico, nonche’ l’eliminazione delle barriere sensopercettive e di ogni altra barriera che impedisce alle persone con disabilita’ di potervi accedere in condizione di pari opportunita’ con gli altri cittadini o ne limiti la loro fruizione in modo significativo, il Garante puo’ proporre all’amministrazione competente un cronoprogramma per rimuovere le barriere e vigilare sugli stati di avanzamento.

Nei casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per i diritti delle persone con disabilita’, ove non sia stata promossa azione giudiziaria, il Garante puo’, anche d’ufficio, a seguito di un sommario esame circa la sussistenza di una grave violazione del principio di non discriminazione in danno di una o piu’ persone con disabilita’, proporre l’adozione di misure provvisorie. La proposta e’ trasmessa senza indugio alle pubbliche amministrazioni procedenti.

Trascorsi novanta giorni dal parere motivato, constatata l’inerzia da parte delle amministrazioni e concessionari di pubblici servizi, il Garante puo’ proporre azione ai sensi dell’articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Entro centottanta giorni dall’adozione del provvedimento da parte delle amministrazioni e concessionari di pubblici servizi, sulla base delle proposte o del parere motivato, il Garante puo’ agire per il solo accertamento delle nullita’ previste dalla legge.

milleproroghe 2024

Milleproroghe 2024: le novità per gli avvocati La legge n. 218/2024 che ha convertito il decreto Milleproroghe dispone il rinvio di alcuni termini che interessano gli avvocati e gli aspiranti tali

Legge di conversione Milleproroghe 2024

Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 febbraio 2024 è stata pubblicata la Legge-18-2024 di conversione del decreto legge n. 215 del 30 dicembre 2023, meglio noto come decreto “Milleproroghe”.

Il testo della legge, tra le tante proroghe previste, ne dedica diverse agli avvocati e a coloro che stanno studiando per l’abilitazione alla professione forense.

Le proroghe riguardano la materia di notificazioni per le cause civili, l’esame di abilitazione alla professione forense, l’iscrizione all’Albo degli avvocati Cassazionisti e le impugnazioni nel processo penale. Analizziamo singolarmente le varie proroghe.

Avvocati Cassazionisti 2024 con le vecchie regole

Gli avvocati, per un altro anno, possono iscriversi all’albo degli avvocati Cassazionisti se maturano i requisiti richiesti dalla normativa previgente, ossia il raggiungimento di 12 anni di iscrizione all’albo nel corso del 2024.

Il comma 6 sexies dell’art. 11 del decreto 215/2023 dispone infatti che: “All’articolo 22, comma 4, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, relativo all’iscrizione nell’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, le parole: “undici anni” sono sostituite dalle seguenti: “dodici anni”. 

Esame avvocato fino al 2025 con le vecchie regole

Per i primi 12 anni dall’entrata in vigore della legge contenente la nuova disciplina dell’ordinamento forense (in vigore dal 02 febbraio 2013) ossia fino al 2025, l’esame di abilitazione alla professione forense si svolge, secondo le norme previgenti, sia per quanto riguarda le prove scritte che quelle orali.

Il tutto in base a quanto sancito dal comma 6 quater dell’art. 11 del decreto Milleproroghe“ che così dispone: All’articolo 49, comma 1, della  legge 31 dicembre 2012, n. 247, relativo  alla disciplina  transitoria dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, le parole: “undici anni” sono sostituite dalle  seguenti: “dodici anni”.  

Per quanto riguarda l’esame 2024 la legge di conversione del Milleproroghe contempla la valenza delle regole speciali che sono state applicate alla sessione d’esame del 2023, che prevede lo svolgimento di uno scritto e un orale articolato in 3 fasi (in base a quanto sancito dall’art 4-quater, comma 1, del decreto-legge n. 51/2023 convertito dalla legge n. 87/2023).

Notifiche avvocati giudizio civile

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 11 del decreto Milleproroghe dispone che All‘articolo  4-ter,  comma  1,  del  decreto-legge 10 maggio 2023, n. 51, convertito, con  modificazioni, dalla legge  3 luglio 2023, n. 87,  concernente la sospensione dell’efficacia  di norme in materia di notificazioni eseguite dagli avvocati, le parole: “fino al 31 dicembre 2023” sono sostituite dalle seguenti: “fino  al 31 dicembre 2024”.

Questo significa che sono sospese fino alla fine del 2024 le disposizioni contenute nei commi 2 e 3 dell’art. 3 ter della legge n. 53/1994, che riconoscono agli avvocati di eseguire le notifiche a mezzo pec quando il destinatario ha eletto domicilio digitale o quando è obbligato per legge a munirsi di un domicilio digitale. Qualora poi detta notifica non sia possibile o non si concluda con esito positivo perché il destinatario è un’impresa o un professionista iscritto nell’indice INI-PEC o perché è un soggetto privato o un ente non tenuti ad avere un domicilio digitale, allora la notifica può essere effettuata nelle forme ordinarie.

Giudizi impugnazione processo penale Cartabia

Il nuovo comma 7 dell’art. 11 del Milleproroghe interviene infine sulla formulazione dell’art. 94 comma 2 del decreto legislativo n. 150/2022, ossia la riforma Cartabia del processo penale.

Nello specifico l’attuale formulazione dell’art. 94 contenente le disposizioni transitorie in materia di giudizi di impugnazione prevede che per le impugnazioni proposte fino al 30 giugno 2024 debbano continuare ad applicarsi e disposizioni di cui agli articoli 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 9, e 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.

Slittano in sostanza le novità introdotte dalla riforma Cartabia in materia di impugnazioni del processo penale.

Allegati

istanza di riesame misura cautelare

Istanza di riesame di misura cautelare fac-simile Fac-simile di richiesta di riesame di misura cautelare ex art. 309 c.p.p., con breve rassegna dei possibili motivi a sostegno dell’istanza

Misure cautelari e richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p.

Le misure cautelari possono essere applicate a carico dell’indagato e comportano limitazioni di carattere personale o reale.

In caso di applicazione di misure cautelari, l’imputato o il suo difensore possono ricorrere in appello o presentare istanza di riesame di misura cautelare, per ottenere in tempi brevi (dieci giorni dalla ricezione della richiesta) una pronuncia in merito.

Di seguito vi proponiamo un fac-simile della richiesta di riesame di misura cautelare coercitiva, sulla scorta delle previsioni dell’art. 309 c.p.p., che disciplina compiutamente l’istituto del riesame.

Fac-simile istanza di riesame

Tribunale Penale di …………..

Sezione per il Riesame

Istanza di riesame ex art. 309 c.p.p.

Il sottoscritto Avv. ……………………. del Foro di ………….. con studio in ………………… alla via …………………… n. ………., difensore del sig. ……………….. c.f. ……………………………. nato il …………………. in ………………………. e residente in …………….alla via …………………….n. ………, indagato/imputato nel procedimento penale in epigrafe per i reati previsti dagli artt. ………………………..,  attualmente detenuto presso la casa circondariale di …………………. (o indicare il luogo di permanenza coatta agli arresti domiciliari),

formula istanza di

RIESAME

dell’ordinanza n. ……………, emessa in data …………………… dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di …………………… e notificata (od eseguita) in data ……………………… con la quale è stata applicata nei confronti di …………………….. la misura cautelare ………………………………. (ad es.: della custodia cautelare in carcere).

La presente istanza è formulata in base ai seguenti

MOTIVI

1) …………..

2) …………..

3) …………..

(Tra i motivi che possono giustificare la presentazione dell’istanza di riesame, è possibile indicare, a mero titolo di esempio:

  • l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 c.p.p. primo comma, o la presenza di cause di giustificazione o di non punibilità oppure la sussistenza di una causa di estinzione del reato o di una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata (v. art 273 c.p.p., ultimo comma);
  • l’insussistenza delle esigenze cautelari attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, che a norma dell’art. 274 c.p.p. comma 1, lett. a) devono essere specifiche ed inderogabili, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova e fondate su circostanze di fatto (queste ultime da indicarsi espressamente nel provvedimento, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio);
  • quando non vi sia un concreto ed attuale pericolo di fuga dell’imputato/indagato (art. 274, comma 1, lett. b);
  • quando la misura adottata non sia ritenuta proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata, come disposto dall’art. 275 c.p.p. comma secondo; al riguardo, va ricordato anche che, in base al primo comma di tale articolo, il giudice, nel disporre le misure, deve tenere conto della specifica idoneità di ciascuna misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto e che, in base al comma terzo, la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto se le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate).

Tanto premesso e considerato, l’Avv. ……………………..

CHIEDE

che il Tribunale Penale adito voglia, in accoglimento dei motivi sopraindicati, annullare l’ordinanza n. …………………., emessa in data ……………….. dal G.I.P. presso il Tribunale di ………………….., o, in subordine, riformarla, sostituendo la misura della custodia cautelare in carcere con altra misura cautelare meno afflittiva per l’indagato.

Con espressa riserva di enunciare nuovi motivi ex art. 309 comma 6 c.p.p.

Con osservanza,

Luogo e data

Avv. ……………………………………..

omessa ripetizione di denuncia armi

Omessa ripetizione di denuncia armi All’omessa ripetizione di denuncia di armi in occasione della variazione del luogo di detenzione dell’arma non si applica il termine di 72 ore

Detenzione di un’arma e omessa ripetizione della denuncia

L’omessa ripetizione della denuncia di armi, quando si trasferisce l’arma in un luogo di detenzione diverso da quello originariamente comunicato alla polizia o ai carabinieri, comporta l’applicazione delle sanzioni previste dal Tulps (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, R.D. 773/1931).

Diversamente dalla prima denuncia, che va fatta quando si ha la materiale acquisizione di un’arma, la ripetizione della denuncia va fatta immediatamente, e non nel termine di 72 ore.

Denuncia della detenzione di armi e munizioni

Per comprendere meglio quanto appena esposto, occorre fare riferimento alla normativa che disciplina la detenzione di un’arma (o di munizioni ed esplosivi).

In base all’art. 38 Tulps, primo comma, chiunque viene in possesso di armi, munizioni o materie esplodenti deve farne denuncia all’ufficio locale di pubblica sicurezza o, quando questo manchi, al locale comando dell’Arma dei carabinieri, entro le 72 ore successive alla acquisizione della loro materiale disponibilità (oggi anche per via telematica, con una PEC).

Tale norma è completata dalla disposizione di dettaglio prevista dall’art. 58 del Regolamento di esecuzione del Tulps, che prevede che la denuncia deve contenere indicazioni precise circa le caratteristiche delle armi, delle munizioni e delle materie esplodenti.

In particolare, alle Forze di Polizia deve essere comunicato l’indirizzo del luogo in cui si custodisce l’arma.

Trasferimento di un’arma e ripetizione della denuncia

In base al terzo comma dell’art. 58 Reg. Esec. Tulps, in caso di trasferimento di tale materiale  in una diversa località da quella indicata nella denuncia, il possessore doveva ripetere la denuncia di cui all’art. 38 presso gli uffici di P.S. o dei Carabinieri della località in cui il materiale stesso è stato trasportato.

Questa disposizione aveva fatto insorgere dei dubbi applicativi, in quanto si era diffusa la convinzione che, se la detenzione dell’arma veniva spostata in un luogo che si trovava all’interno della stessa circoscrizione di competenza dell’ufficio che aveva ricevuto la prima denuncia, non fosse necessario procedere alla ripetizione della denuncia.

A tali dubbi aveva risposto  D. Lgs. 204/2010, aggiungendo un ultimo comma all’art. 38 Tulps, secondo cui la denuncia di detenzione deve essere ripresentata ogni qual volta il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso da quello indicato nella precedente denuncia.

Come si vede, la scelta linguistica di utilizzare la parola “luogo”, invece di “località”, ha sciolto ogni dubbio, chiarendo che la ripetizione della denuncia è necessaria in occasione di qualsiasi trasferimento del luogo di detenzione dell’arma.

Omessa ripetizione denuncia armi, le sanzioni previste dal Tulps

L’omessa ripetizione della denuncia di armi, in occasione del mutamento del luogo di detenzione delle stesse, espone, pertanto, il possessore alle sanzioni previste dall’art. 17 Tulps.

In base a tale norma, le violazioni delle disposizioni di qualsiasi norma del Tulps (e quindi anche dell’art. 38, ultimo comma) sono punite con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206 (salvo che per tali violazioni non provveda il codice penale o l’ordinamento non stabilisca una pena od una sanzione amministrativa).

Differenza tra art. 38 Tulps e art. 58 Reg. Esec. Tulps

Se è vero che la novella all’art. 38, sopra esaminata, ha aiutato a chiarire dei dubbi interpretativi, è altrettanto vero che ne ha creati altri.

Infatti, l’ultimo comma di tale articolo fa espresso riferimento solo alle armi: rimarrebbero esclusi dalla disciplina ivi prevista, quindi, le munizioni e gli esplosivi.

Per queste ultime, si può ritenere che la norma di riferimento, in occasione della variazione del luogo di detenzione, sia ancora l’art. 58 del Reg. Esec. Tulps. Di conseguenza, da un lato rimane il dubbio se la ripetizione della denuncia vada eseguita anche in occasione di trasferimento della custodia di munizioni ed esplosivi nell’ambito della circoscrizione di competenza dello stesso ufficio che ha ricevuto la precedente denuncia (ragioni di ordine sistematico, alla luce della novella del 2010, depongono comunque per la necessità della ripetizione della denuncia).

Dall’altro lato, l’eventuale omessa ripetizione della denuncia di munizioni ed esplosivi subirebbe una sanzione diversa da quella prevista per l’omessa ripetizione della denuncia di armi, in quanto la norma cui fare riferimento sarebbe l’art. 221 del Regolamento, che prevede l’arresto fino a due mesi e l’ammenda fino a euro 103.

Omessa ripetizione denuncia armi, non si applica il termine di 72 ore

Tornando alla detenzione di armi, un ultimo dubbio interpretativo relativo alla ripetizione della denuncia riguarda l’applicabilità o meno del termine di 72 ore, previsto espressamente dal primo comma dell’art. 38 per la prima denuncia dell’arma (quella derivante dall’acquisto della materiale disponibilità dell’arma).

Ebbene si ritiene che tale termine non sia applicabile anche alla fattispecie prevista dall’ultimo comma (ripetizione della denuncia per trasferimento dell’arma), poiché sono diversi i presupposti delle due ipotesi.

Nel primo caso (denuncia conseguente all’acquisizione dell’arma), infatti, la denuncia soddisfa l’esigenza che l’autorità di pubblica sicurezza abbia contezza dell’esistenza dell’arma e della sua disponibilità presso un determinato soggetto e un determinato luogo.

Nel caso di ripetizione della denuncia dopo il trasferimento dell’arma, invece, l’esigenza è quella che le pubbliche autorità  possiedano un’informazione aggiornata sul luogo dove si trova l’arma. Pertanto, la ripetizione della denuncia va fatta immediatamente, come sottolineato anche dalla Corte di Cassazione: “configura il reato di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. (in relazione all’art. 17 dello stesso Testo unico) il trasferimento di un’arma da un luogo ad un altro, quand’anche esso sia effettuato nell’ambito della circoscrizione territoriale del medesimo ufficio locale di pubblica sicurezza, senza provvedere a ripetere la denuncia, essendo sempre necessario che la competente autorità abbia in qualsiasi momento certezza del luogo in cui l’arma è detenuta, al fine di effettuare gli eventuali necessari controlli, finalità che sarebbe frustrata se il possessore fosse abilitato agli spostamenti non segnalati dell’arma perché effettuati entro il termine di settantadue ore dal primo movimento (…) Da quanto esposto discende che per la ripetizione della denuncia di detenzione di arma a seguito del trasferimento in un luogo diverso, non si applica il termine di 72 ore, stabilito dall’art. 38, comma 1, T.U.L.P.S.. Benché contemplate nello stesso articolo, le condotte doverose e le conseguenti sanzioni hanno un fondamento del tutto diverso” (Cass. Pen., sent. Sez. I, n. 10310/2020).

tribunale online

Tribunale online: come funziona Attivo dal 1° marzo 2024 il tribunale online. La sperimentazione coinvolge sette sedi: Catania, Catanzaro, L'Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona

Tribunale online dal 1° marzo

Tribunali più smart per una giustizia più vicina ai bisogni dei cittadini. E’ questo l’obiettivo della sperimentazione del progetto “Tribunale online” attivo in sette sedi (Catania, Catanzaro, L’Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona) dal 1° marzo 2024.

L’iniziativa, realizzata dalla Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Dipartimento per la transizione digitale della giustizia, è stata finanziata nell’ambito del Pon Governance 2014-2020, in coerenza con le priorità indicate dal Pnrr.

Caratteristiche

Il portale, fruibile da qualsiasi dispositivo, è costituito da una sezione pubblica accessibile a tutti, di natura informativa, e da una sezione riservata, in cui i cittadini dotati di identità digitale possono depositare autonomamente alcune istanze nei procedimenti di volontaria giurisdizione e monitorarne le fasi.

Il portale Tribunale Online è disponibile all’indirizzo https://smart.giustizia.it/to e raggiungibile dal portale dei Servizi Telematici del Ministero della giustizia https://pst.giustizia.it.

All’interno dell’area pubblica, liberamente accessibile, sono contenute informazioni su iter procedurali, attori, tempi e costi dei servizi, modulistica completa e istruzioni sul deposito presso i Tribunali, oltre a una sezione dedicata alle domande frequenti.

All’interno dell’area riservata, accessibile previa autenticazione tramite SPID, CIE e CNS, è possibile depositare le domande e monitorare tutte le fasi del procedimento.

Procedimenti ammessi

I procedimenti ammessi al deposito telematico attraverso la piattaforma sono: amministrazione di sostegno (art.473-bis.58 c.p.c.); gestione dell’eredità giacente e nomina del curatore (art.782 c.p.c.); richiesta di autorizzazione al compimento di atti di straordinaria amministrazione in favore di minori (art. 320, 374 c.p.c.); autorizzazione al rilascio di passaporto o documento valido per l’espatrio per figli minori (art 3, lett.a) della legge 21 novembre 1967, n. 1185).

La piattaforma è predisposta altresì per la consultazione di molteplici procedimenti nell’ambito della volontaria giurisdizione. Nei casi in cui il procedimento, o il Tribunale di riferimento, non sia tra quelli coinvolti nella sperimentazione, l’utente avrà la possibilità di recepire informazioni utili all’avvio dell’iter per l’atto di interesse, con indicazione e riferimenti dell’ufficio giudiziario di competenza territoriale.

Il deposito per l’utenza non qualificata sarà possibile attraverso la compilazione online con procedura guidata e l’invio della domanda direttamente dalla piattaforma.

Le notifiche cartacee da parte dell’ufficio giudiziario, spedite tramite raccomandata postale, saranno sostituite dalle notifiche di avvenuta consegna visualizzabili nell’area riservata del portale.

La modulistica eterogenea tra uffici giudiziari sarà sostituita da una modulistica standard, disponibile nell’Area pubblica del portale.

giurista risponde

Dolo eventuale e colpa cosciente Qual è il discrimen tra dolo eventuale e colpa cosciente?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

[Il dolo eventuale] ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e, ciononostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre, invece, la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento, ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo. – Cass. IV, 25 luglio 2023, n. 32281.

Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte è chiamata a valutare la correttezza della ricostruzione, effettuata dai giudici di prime e seconde cure, dell’elemento soggettivo del reato ascritto all’imputato.

Nonostante le censure sollevate dall’appellante, che aveva prospettato una ricostruzione del fatto in termini colposi, la Corte d’appello confermava la decisione del giudice di primo grado in merito alla sussistenza del dolo eventuale in capo al prevenuto.

Pertanto, la difesa proponeva ricorso in Cassazione, lamentando l’erronea qualificazione dell’elemento soggettivo, anche sulla base di plurimi travisamenti della prova, da parte della Corte di appello, la quale aveva ricostruito il fatto in termini di lesioni volontarie sorrette dal dolo eventuale, laddove la condotta dell’imputato presentava tutte le connotazioni di una condotta imprudente e, quindi, colposa.

La corte di Cassazione ritiene il ricorso fondato.

Nell’esaminare la questione, i giudici di legittimità richiamano la pronuncia della Cass. pen., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343 (Thyssenkrupp), con cui le Sezioni Unite avevano tracciato il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente.

Nello specifico, si affermava la sussistenza del dolo eventuale ogni qualvolta l’agente si fosse chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e, ciononostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si fosse determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; al contrario, si riteneva integrato l’elemento della colpa cosciente qualora la volontà dell’agente non fosse stata diretta verso l’evento, ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si fosse astenuto dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo.

La complessità dell’accertamento giudiziale del dolo eventuale aveva altresì indotto le Sezioni Unite Thyssenkrupp a enucleare degli indicatori del dolo eventuale, tra cui la formula di Frank, utili per il giudice al fine di ricostruire correttamente l’elemento soggettivo del reato.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che né il Tribunale né i giudici d’appello avessero compiuto una corretta valutazione dell’elemento soggettivo e, dunque, della qualificazione giuridica del fatto, alla luce dei principi espressi dalla Thyssenkrupp.

In particolare, i passaggi motivazionali della sentenza impugnata non consentono di affermare con certezza la sussistenza del dolo eventuale del soggetto imputato.

Infatti, manca l’indicazione, da parte della Corte d’appello, degli elementi fattuali dai quali sia stata desunta la previsione da parte dell’imputato dell’evento realizzatosi, nonché l’accettazione consapevole del rischio correlato alla sua condotta imprudente.

Infatti, è pacifico che, ai fini dell’affermazione della responsabilità a titolo di dolo eventuale, il giudice sia tenuto ad indicare analiticamente, con idonea motivazione, gli elementi sintomatici da cui sia desumibile, sul piano della rappresentazione, la previsione in concreto dell’evento e, sul piano volitivo, l’adesione psicologica (o meno) a esso, quale conseguenza del proprio agire.

Pertanto, la Corte ritiene necessario annullare la sentenza con rinvio per un nuovo giudizio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343;
Cass. pen., sez. V, 23 febbraio 2015, n.23992
giurista risponde

Leasing e reato di appropriazione indebita Il reato di appropriazione indebita può dirsi integrato per effetto della mancata restituzione della cosa nonostante la risoluzione del contratto di leasing per omesso pagamento dei canoni? 

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

In relazione allo schema negoziale del contratto di leasing, la condotta di appropriazione indebita si realizza non già per il solo dato del mancato pagamento dei canoni e dell’eventuale previsione pattizia della risoluzione del contratto, essendo necessario che il debitore venga a conoscenza della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene intimandone la restituzione e che manifesti l’avvenuta interversione del possesso, comportandosi uti dominus non restituendo il bene senza giustificazione. La conoscenza della volontà del creditore, ove sia affidata alla comunicazione attraverso il mezzo dell’invio di intimazioni mediante il servizio postale, può dirsi realizzata esclusivamente solo ove sia data la prova – che grava sulla parte pubblica – della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione. – Cass. pen., sez. II, 12 maggio 2023 n. 34911.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare quali elementi di fatto possano rappresentare la prova dell’effettiva consapevolezza, da parte dell’utilizzatore di un veicolo concesso in leasing, della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene intimandone la restituzione, con conseguente integrazione del dolo del delitto di cui all’art. 646 c.p.

La Corte territoriale aveva condannato il ricorrente per appropriazione indebita, ritenendo che il dolo di tale reato fosse provato dall’invio della raccomandata contenente l’intimazione a restituire il veicolo concesso in leasing, la cui notificazione era avvenuta “per compiuta giacenza” e a cui aveva fatto seguito la mancata restituzione del veicolo senza che l’imputato avesse giustificato l’omesso ritiro del plico.

Questi, dunque, ha proposto ricorso per Cassazione affermando che, in punto di dolo, la condanna fosse viziata da una palese inversione dell’onere probatorio dei fatti costitutivi della responsabilità penale.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha ricordato quanto stabilito da Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2016, n. 25288, secondo cui, ai fini del dolo di appropriazione indebita, è necessario che il debitore venga a conoscenza della volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene intimandone la restituzione e che manifesti l’avvenuta interversione del possesso; inoltre, laddove il creditore invii intimazioni mediante il servizio postale, tale conoscenza può dirsi realizzata esclusivamente solo ove sia data la prova, che grava sulla parte pubblica, della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione.

Peraltro, ove colui che invia la richiesta sia soggetto diverso dall’originario concedente il bene concesso in leasing, il dato del tentativo di consegna di un plico postale inviato da una società che non corrisponde a quella con cui era stato originariamente stipulato il contratto non consente di trarre alcuna inferenza logica sulla consapevolezza del destinatario dell’attinenza di quell’invio al rapporto contrattuale e, in particolare, all’intimazione a restituire il veicolo oggetto del contratto.

Inoltre, non può trovare applicazione in questo contesto alcuna delle presunzioni derivanti dal sistema delle notificazioni mediante il servizio postale, previsto in tema di perfezionamento del procedimento di consegna di atti giudiziari, sistema che non è contemplato per l’invio delle raccomandate ordinarie.

In definitiva, non opera la presunzione di conoscenza stabilita dall’art. 1335 c.c. poiché manca il requisito dell’arrivo dell’atto all’indirizzo del destinatario. Ne discende che manca la prova del necessario presupposto dell’elemento soggettivo del reato e tale carenza non può essere superata affidandosi ad un’inversione dell’onere probatorio non consentita in sede penale, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento della sentenza impugnata.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2016, n. 25282;
Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2016, n. 25288
giurista risponde

Criterio rapporto di causalità In base a quale criterio si verifica l’esistenza del rapporto di causalità? Come si atteggia la responsabilità penale nel caso di successione di garanti nella gestione del rischio e nell’ipotesi di cooperazione multidisciplinare?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

Il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.

Nelle ipotesi di assunzione di posizioni di garanzia e successione di più garanti nella gestione dei pazienti, è pacifico il principio per cui ciascun garante risponde del rispettivo comportamento doveroso omesso. Qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico.

Ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista. – Cass. pen. IV, 27 giugno 2023, n. 34536.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a individuare il criterio di verificazione dell’esistenza del rapporto di causalità, nonché la configurazione della responsabilità penale nel caso di successione di garanti nella gestione del rischio e nell’ipotesi di cooperazione multidisciplinare.

In primo grado, i due imputati sono stati condannati dal Tribunale per omicidio colposo. Infatti, nonostante alla vittima fosse stata diagnosticata un’emorragia cerebrale con “iniziale idrocefalo”, e sebbene il dirigente medico in servizio presso il reparto di neurochirurgia avesse richiesto un’angiografia urgente già il giorno successivo al ricovero, circostanza di cui era informato anche il primario facente funzioni, l’esame angiografico veniva eseguito solo a distanza di tempo, facendo scaturire plurime complicazioni da cui derivava lo stato di coma e, successivamente, il decesso della paziente. Il ritardo nell’esame angiografico derivava dalla circostanza per cui l’ospedale presso cui i due medici prestavano servizio non disponeva di un reparto attrezzato per eseguire lo stesso, e a tal fine sussisteva una convenzione con un ospedale vicino che, tuttavia, non consentiva l’intervento d’urgenza; ciononostante, il Tribunale ravvisava la colpa dei due medici per non essersi attenuti alle linee guida adeguate al caso di specie, che prescrivevano l’esame d’urgenza nonostante le carenze tecniche dell’ospedale. Nonostante la convenzione con l’ospedale vicino non consentisse l’intervento d’urgenza, a giudizio del Tribunale, avrebbe dovuto disporsi il trasferimento della paziente presso una struttura sanitaria in grado di far fronte alla patologia in atto.

La Corte territoriale, invece, ha assolto il dirigente medico in quanto non era stato dimostrato che questi avesse avuto l’affidamento esclusivo della paziente medesima, mentre confermava la condanna del primario f.f., che avrebbe dovuto provvedere tempestivamente al trasferimento della paziente per eseguire l’intervento di embolizzazione.

Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale, ritenendo comunque sussistente la posizione di garanzia in capo al dirigente medico, che dunque sarebbe stato erroneamente assolto, nonché il primario f.f., che, invece, ha negato la propria responsabilità. Questi, in particolare, ha lamentato erronea applicazione dell’art. 40 c.p. relativamente all’asserita efficacia causale della condotta ascrittagli, consistita nella tardiva esecuzione dell’esame angiografico in rapporto all’evento morte, e alla mancata dimostrazione dell’assenza del decorso di fattori causali alternativi. Inoltre, ha lamentato l’esclusiva dipendenza della condanna dalla qualifica apicale rivestita, prescindendo del tutto dalla concreta presa in carico e gestione del paziente, unica circostanza di grado di fondare l’imputazione penale.

La Suprema Corte, rigettando il ricorso del primario, ha ricordato quanto stabilito da Cass. pen., sez. IV, 24 febbraio 2021, n. 16843, secondo cui il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, a sua volta calibrato su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. Nel caso di specie, il mancato tempestivo espletamento dell’intervento di angiografia con embolizzazione si pone come effettivo antecedente causale al complessivo scadimento delle condizioni cliniche della paziente, sino alla morte della stessa.

Il ricorso del Procuratore Generale, invece, viene accolto. La sentenza della Corte d’appello, nel ritenere che il dirigente medico non avesse ricevuto l’incarico di seguire in via esclusiva l’evoluzione della paziente, non si è uniformata al principio di diritto stabilito da Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2019, n. 6405, secondo cui, in caso di successione diacronica di garanti, ognuno risponde del rispettivo comportamento doveroso omesso. Inoltre, in caso di cooperazione multidisciplinare, ogni sanitario è tenuto non solo al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, bensì anche all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, eventualmente ponendo rimedio a errori evidenti e non settoriali (Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2011, n. 46824). Inoltre, non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, in quanto il principio di equivalenza delle cause fa persistere la responsabilità del primo.

Nel caso di specie, ferma restando la responsabilità del primario, il dirigente medico era gravato da una posizione di garanzia nella gestione della paziente, derivante dalla presa in carico della stessa. Poiché questi aveva prescritto un esame che sapeva non eseguibile presso l’ospedale, avrebbe dovuto assicurarsi della effettiva adozione delle necessarie misure perché l’esecuzione dell’angiografia fosse posta in essere, senza fare affidamento sull’operato del primario. Ne deriva l’accoglimento del ricorso del Procuratore Generale e la necessità di nuovo giudizio da parte della Corte territoriale circa la posizione del dirigente medico.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. IV, 24 febbraio 2021, n. 16843;
Cass. pen., sez. IV, 12 maggio 2021, n. 24895;
Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 2019, n. 24372;
Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2019, n. 6405;
Cass. pen., sez. IV, 2 ottobre 2018, n. 1175;
Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2011, n. 46824
giurista risponde

Art. 2 c.p. e metodo mafioso Qual è la portata dell’art. 2 c.p. in relazione alle modifiche del regime di procedibilità disposta dalla L. 4 maggio 2023, n. 60, per i reati aggravati dal “metodo mafioso”?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

Il regime di procedibilità d’ufficio per i reati aggravati dall’art. 416bis.1 c.p., introdotto dalla L. 24 maggio 2023, n. 60, non può produrre effetti sui fatti commessi prima della sua entrata in vigore. – Cass. VI, 8 agosto 2023, n. 34518.

La pronuncia in esame si esprime in merito all’applicabilità dell’art. 2 c.p. in caso di mutamento nel tempo del regime di procedibilità, con particolare riferimento alla procedibilità d’ufficio dei reati aggravati dal “metodo mafioso”, novità introdotta dalla L. 24 maggio 2023, n. 60.

L’art, 1. comma II, della legge in parola, entrata in vigore il 16 luglio 2023 e recante “norme in materia di procedibilità d’ufficio e di arresto in flagranza”, esclude la procedibilità a querela in presenza di determinate aggravanti, tra le quali quella del metodo mafioso, prevista dall’art. 416bis.1 c.p.; l’intervento legislativo è realizzato aggiungendo al citato articolo del codice penale un ultimo comma, ai sensi del quale “per i delitti aggravati dalla circostanza di cui al primo comma si procede sempre d’ufficio”.

Nel caso al vaglio della Suprema Corte, gli imputati avevano proposto ricorso per cassazione deducendo l’improcedibilità per difetto di querela in ordine al reato di cui all’art. 393 c.p., benché aggravato dall’art. 416bis.1 c.p.; la persona offesa, invero, aveva sporto denuncia-querela dopo i tre mesi previsti dalla legge rispetto al fatto e, secondo i ricorrenti, la contestazione dell’aggravante, sia al momento del fatto che in quello della decisione, non incideva sulla procedibilità del reato.

La Cassazione, accogliendo il ricorso e disponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, aderisce all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che risolve positivamente il problema dell’applicabilità dell’art. 2 c.p. in caso di mutamento nel tempo del regime della procedibilità a querela alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, di tale istituto, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità e di punibilità.

Il principio dell’applicazione della norma più favorevole al reo, infatti, opera non soltanto al fine di individuare la norma di diritto sostanziale applicabile al caso concreto, ma anche in ordine al regime della procedibilità che inerisce alla fattispecie, essendo inscindibilmente legata al fatto come qualificato dal diritto.

L’intervento normativo che ha introdotto un regime di maggiore afflittività per chi commette reati aggravati ex art. 416bis.1 c.p. opera con esclusivo riferimento a condotte poste in essere dopo la sua entrata in vigore, sicché la modifica in peius del regime di procedibilità non può produrre effetti su preesistenti situazioni, la cui perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della persona offesa dal reato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 9 gennaio 2020, n. 14987; Cass., sez. II, 17 aprile 2019, n. 21700
giurista risponde

Peculato e truffa aggravata: differenze Quale elemento differenzia il delitto di peculato da quello di truffa aggravata?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

A differenziare le due figure criminose è il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso quale diretta conseguenza dell’inganno; il peculato presuppone il legittimo possesso per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri. – Cass. VI, 4 agosto 2023, n. 34517. 

Nella fattispecie al vaglio della Sesta Sezione, l’imputato aveva indotto in errore curatore e giudice delegato che, secondo la prevista procedura, avevano compiuto in favore dell’agente l’atto di disposizione patrimoniale consistente nella liquidazione dei crediti relativamente simulati insinuati al fallimento.

La Corte d’Appello aveva riconosciuto la sussistenza, nel caso di specie, degli elementi necessari alla realizzazione della fattispecie di cui agli artt. 48 e 314 c.p., e non invece di truffa aggravata, in ragione della qualifica di pubblico ufficiale del giudice delegato e del curatore fallimentare, così come della loro disponibilità del bene oggetto di appropriazione, aderendo all’orientamento di legittimità in base al quale la responsabilità dell’autore mediato ex art. 48 c.p. si configura anche in relazione ai reati c.d. propri, in cui la qualifica del soggetto attivo è presupposto o elemento costitutivo della fattispecie criminosa; alla luce di tale ricostruzione, invero, risponde di peculato anche l’estraneo che, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, si appropri per tramite di questi di una cosa dagli stessi posseduta per ragioni del loro ufficio (Cass. 1 gennaio 1996, n. 4411).

La Suprema Corte, dopo aver ricostruito l’acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale in ordine alla applicabilità della fattispecie induttiva ex art. 48 c.p. al reato di peculato, conclude affermando di non condividere quanto affermato dai giudici del merito.

La Corte d’Appello, invero, aveva aderito al diffuso orientamento giurisprudenziale, secondo cui è configurabile il delitto di peculato, anche a norma dell’art. 48 c..p, quando il denaro o l’altra cosa mobile è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali, ed uno di essi se ne appropria inducendo in errore gli altri, pure se questi ultimi siano i soggetti competenti ad emettere l’atto finale del procedimento; questo principio deriva dal fatto che nelle cd. “procedure complesse”, come ad esempio le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene – che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell’art. 314 c.p. – è frazionata dall’ordinamento giuridico tra più organi, e, quindi, tra più persone fisiche. Secondo tale indirizzo interpretativo, il frazionamento non può ritenersi escludere la configurabilità del delitto di peculato, poiché l’art. 314 c.p. indica come presupposto della condotta illecita «il possesso o comunque la disponibilità» del bene, ma non anche l’esclusività di tale possesso o di tale disponibilità», cosicché il pubblico agente che “co-detiene” la disponibilità giuridica della cosa mobile, anche quando induce in errore gli altri pubblici ufficiali con concorrenza competente sulla stessa, al fine di appropriarsene, abusa comunque della propria già esistente disponibilità in ordine al bene (Cass., 1 febbraio 2018, n. 10762).

Secondo la Cassazione, il principio di diritto ora espresso non pertiene alla fattispecie oggetto del procedimento in esame, in cui il soggetto agente consegue il bene soltanto per la condotta decettiva posta in essere nei confronti degli organi del fallimento. Al soggetto agente, in questo caso, non può ascriversi alcun compossesso giuridico dei beni del fallimento, né diretto né mediato.

A supporto di quanto affermato, la Corte richiama l’orientamento giurisprudenziale a mente del quale è configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p., e non quello di peculato, quando l’atto che in concreto produce l’effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata„ nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l’agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi. La differenza di fondo fra i due illeciti risiede nel fatto che nel delitto di peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta incriminata, mentre nella truffa l’impossessamento della cosa è l’effetto della condotta illecita. È al rapporto tra possesso, da un lato, ed artifizi e raggiri, dall’altro, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata (Cass. 4 aprile 2014, n. 31243).

A differenziare le due figure criminose, pertanto, non rileva tanto la precedenza cronologica o la contestualità della frode rispetto alla condotta appropriativa, bensì il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale dell’agente; il peculato presuppone il legittimo possesso (disponibilità materiale o giuridica), per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri, condotta quest’ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 314 c.p., fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti.

La Suprema Corte conclude sottolineando che il principio affermato dall’orientamento da essa patrocinato, con riferimento alla qualità pubblicistica del soggetto agente, a maggior ragione, trova applicazione quando questi, come nel caso esaminato, è estraneo alla funzione pubblicistica e solo con la frode entra in possesso del bene altrui, di cui ha la disponibilità il pubblico ufficiale in ragione del suo ufficio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 2 marzo 2021, n. 40595; Cass., sez. VI, 4 aprile 2014, n. 31243
Difformi:      Cass. pen., sez.VI, 15 aprile 2013, n. 39039