assicurazione Inail studi associati

Studi associati senza obbligo di assicurazione Inail La Cassazione ribadisce che gli studi professionali associati non hanno l'obbligo di assicurarsi all'Inail

Studi associati e assicurazione Inail

Nessun obbligo di assicurarsi con l’Inail per gli studi professionali associati. A ribadirlo è la sezione lavoro della Cassazione, con l’ordinanza n. 4473/2024, respingendo il ricorso dell’Istituto.

Nella vicenda, la Corte d’appello di Brescia confermava la pronuncia di primo grado che aveva escluso la sussistenza dell’obbligo assicurativo presso l’INAIL in capo ai professionisti associati in uno studio, richiamando, a fondamento del proprio decisum, i principi fissati dalla Cassazione (cfr. n. 15971/2017) e argomentando la Corte Cost. n. 25/2016.

L’Inail adiva quindi piazza Cavour lamentando che la corte di merito avesse ritenuto erroneamente che non “sussistessero i presupposti per l’obbligatorietà dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in considerazione del carattere associativo e non societario del vincolo sussistente tra i professionisti”. Ad avviso dell’istituto, infatti, le caratteristiche concrete dello studio rendevano “lo stesso un soggetto giuridico autonomo assimilabile, per i meccanismi operativi, ad una vera e propria
società; ricorrerebbero, perciò, le indicazioni provenienti da Cass. nn. 12095 del 2006 e 13278 del 2007, secondo le quali a parità di esposizione a rischio deve corrispondere parità di tutela assicurativa, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto in base al quale è prestata l’attività lavorativa”.

La decisione della Cassazione

Per la S.C., tuttavia, il motivo è infondato. La Corte richiama, quindi, il consolidato principio per cui, in tema di assicurazione contro gli infortuni e el malattie professionali “non sussiste l’obbligo assicurativo nei confronti dei componenti di studio in quanto la tendenza ordinamentale espansiva di tale obbligo può operare, sul piano soggettivo, solo nel rispetto e nell’ambito delle norme vigenti, le quali in alcun luogo (D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 1, 4 e 9) contemplano l’assoggettamento delle associazioni professionali all’obbligo in questione (così come non lo contemplano per li mero libero professionista)”.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

Allegati

art. 39 TULPS

Art. 39 Tulps: divieto di detenzione armi In base all’art. 39 Tulps, il prefetto può vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi a soggetti che siano ritenuti capaci di abusarne

Divieto di detenere armi: i poteri del prefetto

L’art. 39 Tulps (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza) prevede la facoltà, per il prefetto, di vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi alle persone che in precedenza avevano ottenuto il relativo permesso, ma che, secondo una valutazione attuale, siano ritenute capaci di abusarne.

Per comprendere appieno la portata della norma, è opportuno comprendere quali siano le condizioni alle quali un cittadino possa essere autorizzato alla detenzione di armi. A questo scopo, nella presente guida analizzeremo brevemente la normativa di settore e i chiarimenti forniti dalla giurisprudenza.

Detenzione armi e munizioni, cosa dice la legge

Si è detto che il prefetto può negare la detenzione di armi a soggetti che erano in precedenza stati autorizzati a tanto. Il riferimento principale è a quanto previsto dall’art. 38 Tulps, che espressamente dispone che chiunque detiene armi, munizioni od esplosivi, deve farne denuncia alle autorità di pubblica sicurezza entro 72 ore dall’acquisizione della loro materiale disponibilità.

Tale denuncia, inoltre, deve essere ripetuta ogni qual volta il possessore dell’arma ne cambi il luogo di custodia. Tutto questo trova giustificazione nel fatto che le autorità di pubblica sicurezza devono essere sempre messe in condizione di conoscere l’esistenza di un’arma e il luogo esatto in cui la stessa si trovi, con la dovuta tempestività.

Ebbene, in questo quadro si staglia il potere del prefetto di cui all’art. 39 Tulps. In base a tale valutazione, il prefetto esprime un giudizio prognostico, cioè una mera previsione, in base al quale egli ritiene che il soggetto che detiene l’arma possa essere capace di abusarne e pertanto gli vieta di detenere l’arma (o le munizioni, o il materiale esplodente).

Divieto generale di detenere un’arma

Una recente sentenza del Consiglio di Stato ci consente di delineare meglio i presupposti e i contorni del divieto in parola (Cons. St., sent. n. 7404/2022).

Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, infatti, “il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare. (…) La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire”.

In altre parole, la sentenza in oggetto ci fa capire che l’art. 38 Tulps, in realtà, rappresenta le condizioni che permettono di fare un’eccezione alla regola (concedendo la detenzione dell’arma al cittadino), laddove l’art. 39 Tulps e il potere prefettizio da esso previsto non fanno altro che ripristinare l’operatività della regola generale del divieto di detenzione delle armi, in presenza di condizioni che facciano suppore il pericolo di abuso delle armi da parte del detentore.

Il porto d’armi, come anche chiarito dalla risalente pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 440/1993) “non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse”.

In tutto questo, il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza per tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi ed è da considerarsi “di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi” (v. sent. cit.).

Art. 39 Tulps: confisca dell’arma

La disciplina del divieto prefettizio di detenzione dell’arma si completa con la previsione in base alla quale, con il provvedimento di divieto, il prefetto assegna all’interessato un termine di 150 giorni per l’eventuale cessione a terzi dei materiali di cui al medesimo comma. In altre parole, l’ordinamento concede al detentore destinatario del provvedimento di divieto da parte del prefetto di decidere in ordine alla destinazione dell’arma. In mancanza di cessione entro il termine indicato, si procede alla confisca dell’arma.

Va segnalato, infine, che, nei casi di urgenza, l’art. 39 Tulps dispone che gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza devono provvedere all’immediato ritiro cautelare dell’arma, dandone immediata comunicazione al prefetto.

mediatore immobiliare

Mediatore immobiliare non iscritto L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria e, in caso di reiterazione, può portare a sanzioni penali

Esercizio abusivo dell’attività di mediatore

L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito dalla legge con una consistente sanzione amministrativa pecuniaria, e in caso di reiterazione della violazione, può portare all’applicazione di sanzioni di carattere penale, come vedremo in questa breve guida.

Come noto, l’attività del mediatore consiste nel mettere in contatto due parti affinché queste concludano un affare. La figura del mediatore è disciplinata dalla legge, in particolare, per quanto riguarda i requisiti che il soggetto che voglia svolgere tale attività deve possedere e gli adempimenti che portano all’iscrizione nei registri tenuti dalle Camere di Commercio (CCIAA).

Il mediatore immobiliare non iscritto in tali registri è passibile delle sanzioni cui si accennava più sopra, e che adesso analizzeremo più nel dettaglio.

Mediatore immobiliare requisiti e iscrizione alle CCIAA

In base all’art. 2 della legge n. 39 del 1989, per svolgere l’attività di mediatore occorre possedere una serie di requisiti, attinenti in particolare al possesso del diploma, alla formazione professionale e all’assenza di cause ostative quali il fallimento o la condanna per alcuni determinati reati.

In origine, il possesso di tali requisiti era il presupposto per l’iscrizione nel ruolo dei mediatori (più precisamente, “degli agenti di affari in mediazione”) tenuto dalle CCIAA. Oggi tale ruolo è stato soppresso, per espressa disposizione del d.lgs. 59 del 2010.

Tale decreto dispone, attualmente, che l’attività di mediatore può esercitarsi a seguito di presentazione alla Camera di Commercio competente di una semplice segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), accompagnata da apposita certificazione (o autocertificazione) che dimostri il possesso dei requisiti sopra citati.

Questi ultimi danno diritto, oggi, all’iscrizione del mediatore nel registro delle imprese, se l’attività è svolta in forma di impresa, oppure nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA), se si tratta di persona fisica. In entrambi casi, l’iscrizione è subordinata al controllo sui requisiti da parte della CCIAA.

Le sanzioni per il mediatore immobiliare non iscritto

Alle Camere di Commercio è demandata la vigilanza sull’attività dei mediatori, con potere di erogare sanzioni disciplinari in caso di violazione degli obblighi e doveri connessi con l’esercizio di tale attività.

Inoltre, la Camera di Commercio ha il potere di punire l’esercizio abusivo dell’attività posta in essere dal mediatore immobiliare non iscritto nei registri, irrogando il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal primo comma dell’art. 8 della legge n. 39/1989 sopra citata, sanzione che consiste nel pagamento di una somma da € 7.500 a € 15.000.

Inoltre, il mediatore immobiliare abusivo non ha diritto ad alcuna provvigione: pertanto, egli è tenuto alla restituzione in favore delle parti della provvigione eventualmente già percepita.

Ma le conseguenze per l’esercizio abusivo della mediazione non finiscono qui, perché, come anticipato, vi possono essere anche delle sanzioni di carattere penale.

Infatti, in caso di reiterazione della condotta di mediazione abusiva, e quindi dopo la seconda sanzione amministrativa erogata dalla Camera di Commercio, quest’ultima è tenuta ad inoltrare apposita denuncia all’ Autorità Giudiziaria competente, per consentire l’applicazione della relativa sanzione penale.

Il secondo comma dell’art. 8 della l. 39/1989, infatti, prevede che, in tal caso, si applicano le sanzioni previste dall’articolo 348 del codice penale e dall’articolo 2231 del codice civile.

Tali norme prevedono, rispettivamente, quanto segue: l’art. 348 c.p. punisce l’esercizio abusivo di una professione con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

L’art. 2231 c.c., invece, sanziona sul piano civilistico l’esercizio di un’attività professionale in mancanza d’iscrizione, prevedendo che la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà il diritto di agire in giudizio per ottenere il pagamento del compenso.

lavoro part-time

Lavoro part-time: la discriminazione penalizza le donne In tema di discriminazione del lavoro a tempo parziale, la Cassazione non condivide l’interpretazione secondo cui vi sia automatismo tra riduzione orario di lavoro e dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche

Impiego part-time e progressione di carriera

Nella causa promossa da una lavoratrice part- time è stato esaminato l’impatto del lavoro con orario ridotto rispetto a possibili progressioni di carriera. In particolare, l’impiegata aveva lamentato che, essendo ella all’epoca della selezione interna, impiegata con un contratto part-time, nella valutazione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione economica le era stato attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi con pari anzianità ma impiegati a tempo pieno.

La circostanza sopra rappresentata, a detta della ricorrente, l’aveva sfavorita rispetto al collega controinteressato che l’impiegata aveva intimano nel contenzioso in esame.

Avverso la decisione del Giudice di secondo grado, la parte datoriale aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La discriminazione del lavoro a tempo parziale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. Cass-4313-2024, ha rigettato il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La Suprema Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha affrontato il tema della discriminazione del lavoro a tempo parziale.

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha ritenuto di non condividere “l’affermazione della ricorrente secondo cui la ridotta valutazione di tale tipo di lavoro nel computo dell’anzianità di servizio rilevante ai fini della progressione economica sarebbe imposta dallo stesso art. 4 del d.lgs. n. 61 del 2000”. Invero, ha proseguito la Corte “quella disposizione riguarda soltanto la retribuzione del lavoratore a tempo parziale, che ovviamente non può essere uguale, ma deve essere proporzionata, a quella a tempo pieno” e non anche l’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Poste le suddette premesse, la Corte ha dunque espressamente affermato che nessun automatismo può esservi tra la riduzione dell’orario lavorativo e la riduzione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Pertanto ciò che occorre verificare è se “in base alle circostanze del caso concreto (…), il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non rappresenti, piuttosto, una discriminazione in danno del lavoratore a tempo parziale”.

La discriminazione indiretta di genere

La Corte d’appello aveva altresì accolto la contestazione della lavoratrice che aveva messo in rilievo come la suddetta discriminazione connessa al lavoro part-time andava essenzialmente a ledere le donne, così determinando una discriminazione indiretta di genere.

Anche tale aspetto ha formato oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto la censura non fondata. Posta l’infondatezza del motivo di ricorso, la Corte ha comunque dedicato una parte della propria decisione al fenomeno della discriminazione indiretta di genere nella vicenda in esame.

Nel caso sottoposto al vaglio di legittimità, il Giudice di merito, svolta una valutazione statistica in ordine all’elevato numero di donne impiegate presso la parte datoriale e alla maggiore frequenza tra le stesse della scelta del tempo parziale rispetto ai colleghi uomini, aveva concluso che “svalutare il part-time ai fini delle progressioni economiche orizzontali (..) significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini”. Invero, la preponderante scelta da parte delle donne del lavoro a tempo parziale è da ritenersi connessa, secondo il giudice, al “notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impiego in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.

 

 

Allegati

circonvenzione di incapace

Circonvenzione di incapace e prova del reato Nel reato di circonvenzione di incapace la prova deve vertere sull’attività di induzione ai danni della persona offesa, approfittando della sua debolezza psicologica

Il reato di circonvenzione di incapace

Il reato di circonvenzione di incapace è disciplinato dall’art. 643 del codice penale, che punisce chiunque abusa dell’inesperienza di un minore o della debolezza psichica di un soggetto per indurlo a compiere un atto, per questi dannoso, al fine di procurarsi (o procurare a qualcun altro) un profitto.

In questa breve guida analizzeremo presupposti ed elementi del reato e, in particolare, quale sia in tema di circonvenzione di incapace la prova da raggiungere per considerare integrato il reato.

Art. 643 c.p. cosa si intende per deficienza psichica

È importante evidenziare, innanzitutto, che lo stato psichico della persona offesa non deve necessariamente integrare una malattia, né aver precedentemente comportato l’interdizione o inabilitazione della stessa. È sufficiente che la debolezza psichica ponga quest’ultima in condizioni tali da subire l’abuso o la pressione da parte del soggetto agente.

Al riguardo, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che, perché si abbia circonvenzione di incapace, non occorre che la vittima versi in stato di incapacità di intendere e di volere, ma è sufficiente un’alterazione dello stato psichico che ne affievolisca le capacità critiche (Cass. pen., sent. n. 480/2024).

La minorazione psichica, quindi, si sostanzia in una “compromissione del potere di critica ed indebolimento di quello volitivo, tale da rendere possibile l’altrui opera di suggestione” (Cass., sent. n. 24192/2010).

A titolo di esempio, quindi, si può pensare alle diminuite capacità di discernimento di una persona anziana nei confronti di un soggetto che intenda raggirarla per ottenere un vantaggio, solitamente patrimoniale.

L’induzione e l’abuso nella circonvenzione di incapace

Quanto agli elementi oggettivi del reato, la circonvenzione di incapace prevede un’attività di induzione, da parte del soggetto agente, a compiere un atto per sé (o per altri) dannoso. La Suprema Corte ha chiarito che integra induzione “un’apprezzabile attività di pressione morale e di persuasione”.

L’abuso, invece, trova origine nella consapevolezza dello stato di debolezza della persona offesa e si sostanzia in un’attività che sfrutti tale vulnerabilità per ottenere un profitto.

Circonvenzione di incapace e prova: Cassazione

Quanto alla prova della circonvenzione di incapace, il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il convincimento del giudice circa la prova dell’attività di induzione, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 643 c.p., “ben può essere fondato su elementi indiretti e indiziari, cioè risultare da elementi precisi e concordanti come la natura degli atti compiuti e il pregiudizio da essi derivante” (v., da ultimo, Cass. Pen., sent. n. 14863/2023).

In tema di circonvenzione di incapace e prova della debolezza psichica, inoltre, la citata sentenza della Suprema Corte n. 480/2024, ha evidenziato che tale condizione può essere desunta, ad esempio, dalle conclusioni di una consulenza tecnica sulla persona offesa che evidenzi che la stessa versa in una condizione di fragilità psichica tale da rendere possibile l’intervento suggestivo di un terzo (si pensi ad un anziano che, rimasto solo, riponga eccessiva fiducia in una persona che in realtà lo accudisce per trarne un profitto, inducendolo a compiere atti di diminuzione del proprio patrimonio).

La prova della circonvenzione di incapace, pertanto, ben può tendere alla dimostrazione, da un lato,  della minorazione psichica (che, si ribadisce, non deve necessariamente integrare uno stato patologico, ma anche soltanto consistere nella compromissione delle capacità di valutazione critica da parte della persona offesa); dall’altro lato, dell’attività di induzione e di abuso, come sopra meglio specificate, da parte del soggetto agente, oltre alla prova del danno cagionato alla persona offesa e del profitto ottenuto dall’agente.

In conclusione, va ricordato che l’art. 643 c.p. prevede, una volta che sia raggiunta per la circonvenzione di incapace la prova del reato, la pena della reclusione da due a sei anni e del pagamento di una multa da euro 206 a euro 2.065.

compensi domiciliatario

L’avvocato ha l’obbligo di pagare i compensi al domiciliatario Il CNF ribadisce che l’avvocato che ha incaricato un collega di esercitare le funzioni di rappresentanza ed assistenza ha l’obbligo di retribuirlo a norma dell’art. 30 del Codice deontologico

Procedimento disciplinare

Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio Nazionale Forense, dallo stesso deciso con sentenza n. 234/2023 (sotto allegata), era stato avviato un procedimento disciplinare a carico di un avvocato su esposto di un collega che, avendo ricevuto dal primo due incarichi professionali per due procedure esecutive presso terzi, aveva lamentato il mancato pagamento delle proprie competenze.

In particolare, l’avvocato ritenuto inadempiente era stato tratto a giudizio dinanzi al CDD di L’Aquila per rispondere del seguente capo d’incolpazione: “violazioni dell’art. 43 del Codice Deontologico approvato il 31 gennaio 2014 perché pur avendo conferito (…) l’incarico di rappresentanza ed assistenza nel procedimento di pignoramento presso terzi incardinato presso il Tribunale di Monza, ometteva di corrispondere alla stessa il compenso dovuto”.

All’esito dell’istruttoria, il CDD di l’Aquila aveva ritenuto integrata la responsabilità disciplinare dell’incolpato ed applicato la sanzione della censura a carico dello stesso.

Avverso tale decisione, l’avvocato aveva proposto ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.

Obbligo di corrispondere il compenso al domiciliatario

Il CNF, con la sopracitata decisione, ha ritenuto integrata la responsabilità dell’incolpato, confermando gli esito del Consiglio distrettuale di disciplina.

Il Consiglio è poi passato all’esame della giurisprudenza domestica formatasi sul punto, la quale è costante nel ritenere che “L’avvocato che abbia scelto o incaricato direttamente altro collega di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza, ha l’obbligo di provvedere a retribuirlo, ove non adempia il cliente ex art. 43 ncdf, già art. 30 cdf”.

Sulla scorta di tali premesse, il CNF ha rigettato il ricorso proposto dall’avvocato e ha disatteso la richiesta di attenuazione della sanzione applicata a carico dello stesso, posto che il comportamento dell’avvocato non può apparire in alcun modo giustificato, considerando anche i “molteplici solleciti rimasti inevasi e del decorso di ben tre anni dall’apertura del procedimento disciplinare nonostante il solo dichiarato intento di adempiere”.

usucapione buona fede

Usucapione e buona fede Per aversi usucapione la buona fede è richiesta solo nelle c.d. forme speciali, mentre l’usucapione ordinaria esige solo il possesso e il decorso di un certo periodo di tempo

L’usucapione come modo di acquisto della proprietà

L’usucapione è un particolare modo di acquisto della proprietà a titolo originario (cioè, indipendente dal diritto del precedente titolare), che, nella sua configurazione ordinaria, ha come elementi costitutivi il possesso e il decorso di un determinato periodo di tempo.

Il codice civile individua anche altre ipotesi di usucapione, cosiddette abbreviate o speciali, che esigono la sussistenza di due ulteriori elementi: la buona fede del possessore e l’esistenza di un titolo idoneo al trasferimento del diritto di proprietà.

Perché si verifichi l’usucapione la buona fede non è pertanto sempre indispensabile. In questa breve guida proponiamo un esame delle varie ipotesi in cui il possesso di un bene, unitamente ad altri elementi, determina l’acquisto della proprietà.

Usucapione di buona fede e ordinaria

La principale ipotesi ordinaria di usucapione è quella prevista dall’art. 1158 c.c., secondo cui la proprietà su beni immobili si acquista con il possesso ventennale del bene. Come si vede, in questo caso la buona fede non è un elemento richiesto perché si verifichi l’acquisto della proprietà.

Sempre riguardo ai beni immobili, l’art. 1159 c.c. descrive le condizioni per l’usucapione abbreviata. Rimane indispensabile il possesso del bene, ma i termini sono abbreviati a dieci anni, se sussistono anche i seguenti ulteriori elementi: l’acquisto in buona fede da un soggetto diverso dal proprietario, in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà che sia stato trascritto nei registri immobiliari.

La trascrizione, diversamente da quanto accade di solito, ha in questo caso valenza costitutiva ai fini dell’esistenza del diritto: i dieci anni necessari all’usucapione di buona fede iniziano a decorrere, infatti, proprio dalla trascrizione del titolo.

L’usucapione di beni mobili

Sotto diversi aspetti, l’usucapione di buona fede ha molti punti in comune con la disciplina prevista dall’art. 1153 con riferimento ai beni mobili, con la differenza che in quest’ultimo caso per l’acquisto a non domino non è richiesto il decorso di un certo periodo di tempo (in ciò si integra la c.d. regola “possesso vale titolo”, che non vale per i beni immobili, universalità di mobili e mobili registrati, per i quali è prevista solo l’usucapione).

Ancora diversa è l’usucapione di beni mobili, disciplinata dall’art. 1161 c.c., secondo cui, anche quando manchi un titolo idoneo a trasferire la proprietà, il possesso del bene può comportare l’acquisto della proprietà se fu acquistato in buona fede e sia continuato per dieci anni.

In mancanza di buona fede al momento dell’acquisto del possesso, l’usucapione del bene mobile si acquista con il possesso continuato per venti anni.

Giova ricordare che, per aversi buona fede, è necessario che l’accipiente ignori che il bene non appartiene al soggetto da cui ha (rectius: suppone di aver) acquistato il bene.

Altri casi di usucapione con buona fede

Analoga distinzione tra usucapione ordinaria e usucapione di buona fede è individuata dall’art. 1159-bis con riferimento ai fondi rustici con annessi fabbricati (in tal caso il periodo di tempo richiesto è, rispettivamente, di quindici e di cinque anni).

L’usucapione di universalità di mobili si compie parimenti in venti anni, mentre in via abbreviata sono sufficienti dieci anni se c’è buona fede (art. 1160; in tali casi, come noto, non è prevista la trascrizione del titolo).

L’art. 1162, infine, disciplina l’acquisto per usucapione dei beni mobili registrati (navi, automobili, etc.), che si compie in soli tre anni dalla trascrizione del titolo, se vi è buona fede, altrimenti in dieci anni se sussiste il solo possesso ma manca il titolo o la buona fede.

 

 

costituzione fondo speciale

Delibera condominiale nulla senza costituzione del fondo speciale Per la Cassazione, la delibera per lavori straordinari non preceduta da quella sulla costituzione del fondo speciale è nulla e il vizio può essere rilevato d’ufficio dal giudice

Delibera lavori straordinari: il fatto

Nella vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte, un condomino si opponeva alla richiesta di pagamento di oneri condominiali straordinari a mezzo decreto ingiuntivo sostenendo la nullità della delibera di approvazione dei lavori straordinari per non aver il condominio precedentemente deliberato la costituzione obbligatoria del fondo speciale di cui all’art. 1135 co. 1 n. 4 c.c.

Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda attorea e annullava il decreto ingiuntivo opposto.

Costituzione del fondo speciale

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9388/2023 rigetta il ricorso del Condominio ritenendo necessaria per la validità della delibera di approvazione dei lavori straordinari la preventiva approvazione del fondo speciale di cui all’art. 1135 co. 1 n. 4 c.c. 

Infatti, la delibera impugnata non indicava nè la costituzione del fondo speciale per l’intera somma nè che il contratto di appalto prevedeva il pagamento graduale in relazione allo stato di avanzamento dei lavori e che il fondo era stato costituito in relazione ai singoli pagamenti.

Essendo la disposizione posta a presidio dell’interesse collettivo al corretto funzionamento della gestione del condominio nonché all’interesse del singolo condomino ad evitare il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, la delibera assunta a maggioranza non può decidere di non provvedere alla costituzione del fondo o di modificare le modalità di costituzione previste dalla legge. Neppure nel caso in cui l’appaltatore vi consente in quanto una simile decisione sarebbe pregiudizievole per tutti i condomini e per le esigenze della gestione condominiale pertanto gli Ermellini hanno così ritenuto concludendo che una simile delibera è da ritenersi completamente nulla.

Per tale motivo il previo allestimento del fondo speciale si pone come una condizione di validità della stessa delibera di approvazione delle opere.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione

Il “decisum” della Suprema Corte va correlato all’altra recente sentenza in materia di opposizione a D.I. la cui importanza è il presupposto dell’attuale decisione. Infatti, la Corte di Cassazione a SS.UU. con sentenza del 14 aprile 2021  n. 9839 ha statuito che:

“Nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via d’azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione, ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c., nel termine perentorio ivi previsto, e non in via di eccezione; ne consegue l’inammissibilità, rilevabile d’ufficio, dell’eccezione con la quale l’opponente deduca solo l’annullabilità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione senza chiedere una pronuncia di annullamento.”

diritto di accesso ai documenti condominiali

Diritto di accesso ai documenti condominiali e abuso del diritto Il tribunale di Napoli Nord si sofferma sul diritto di accesso ai documenti condominiali e l'abuso del diritto

Diritto di accesso ai documenti condominiali

La legge n. 220/2012 ha introdotto il nuovo art. 1130-bis c.c., il quale espressamente prevede che i condomini e i titolari di diritti reali o di godimento sulle unità immobiliari possono prendere visione dei documenti giustificativi di spesa in ogni tempo ed estrarne copia a proprie spese. Per converso, sussiste l’obbligo dell’amministratore di tenuta delle scritture e dei documenti giustificativi per dieci anni dalla relativa registrazione.

Tale norma, per quanto concerne il diritto di accesso alla documentazione condominiale, deve necessariamente essere letta in combinato disposto con il secondo comma dell’art. 1129 c.c. che obbliga l’amministratore, all’atto dell’accettazione della nomina e ad ogni rinnovo dell’incarico, a comunicare:

  • i propri dati anagrafici e professionali;
  • il codice fiscale o, se si tratta di società, anche la sede legale e la denominazione;
  • il locale ove si trovano i registri obbligatori (anagrafe, contabilità, verbali, nomina/revoca);
  • da ultimo, per quel che concerne maggiormente il caso in commento, “i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta all’amministratore, può prendere gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia da lui firmata”.

Una prima considerazione che deve essere necessariamente effettuata attiene alle modalità di accesso agli atti da parte dei condomini. Come affermato a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, il potere di controllo, pur riconosciuto dalla legge ai partecipanti al Condominio, non deve mai risolversi in un intralcio all’amministrazione né porsi in contrasto con il principio di correttezza ex art. 1175 c.c. (Cass. n. 12579/2017).

Immobile in comodato: il caso in commento

Nella fattispecie concreta in questione, un proprietario di un immobile in condominio richiedeva a più riprese all’amministratore copia degli ultimi tre rendiconti approvati nonché di conoscere le quote ordinarie dovute, in quanto il predetto immobile era concesso in comodato alla moglie, nell’interesse del figlio minore (cd. “casa familiare”).

Sebbene le predette richieste, inviate dapprima personalmente e di poi a mezzo legale di fiducia, venivano regolarmente ricevute dall’amministratore a mezzo raccomandata a.r., questi non forniva alcun riscontro.

Il condomino, dunque, si vedeva costretto a ricorrere al Tribunale competente per territorio incardinando ricorso ex art. 702-bis c.p.c. (cd. “obbligo di fare” ora abrogato con la riforma Cartabia)) per vedere soddisfatte le sue ragioni.

Con l’ordinanza in commento (del 21 luglio 2020), nell’accogliere la domanda attorea, il Tribunale di Napoli Nord pone riferimento alle norme in tema di mandato. Come si legge in motivazione: la L. n. 220/2012 ha ormai chiarito che l’amministratore è legato al Condominio da un particolare rapporto di mandato e che, dunque, stante anche il dato legislativo, nei rapporti tra l’amministratore ed i condomini si applicano le norme in tema di mandato, in quanto compatibili. Tra queste, assume rilievo l‘art. 1713 c.c. relativa all’obbligo gravante sul mandatario di rendere al mandante il conto della gestione. Da tale obbligo deriva, dunque, il diritto dei condomini a prendere visione della documentazione condominiale, nelle forme e con i limiti di cui al precedente paragrafo e a condizione che il diritto di accesso non comporti oneri per il condominio.

L’abuso del diritto

È chiaro che, in caso di continue e reiterate richieste “meramente esplorative” da parte del condomino, il contegno assunto sfocerebbe nella figura del cd. abuso di diritto. Tale istituto, a differenza di altri sistemi codicistici europei, non è espressamente disciplinato mediante una previsione generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo. Vi sono, viceversa, solo specifiche disposizioni in cui sanzionato l’abuso con riferimento all’esercizio di determinate posizioni soggettive. La principale, e forse la maggiormente nota agli operatori del settore condominiale, di queste fattispecie è sicuramente quella del “divieto di atti emulativi” di cui all’art. 833 c.c.

Sul piano processuale, poi, l’abuso del diritto si traduce in abuso del processo per le ipotesi in cui una parte agisca senza utilizzare la normale diligenza in maniera “temeraria”. Tale fattispecie è sanzionata dall’art. 96 c.p.c. in tema di condanna alle spese processuali.

Gli elementi costitutivi dell’abuso sono, dunque essenzialmente tre (Cass. n. 20106/2009):

  • la titolarità di un diritto soggettivo (quello del condomino ex artt. 1129 c.c. e 1130-bis c.c.), con possibilità di utilizzo secondo diverse modalità;
  • l’esercizio concreto del diritto in modo solo formalmente rispettoso della cornice attributiva, ma, tuttavia, censurabile rispetto a un criterio di valutazione giuridico e/o extragiuridico;
  • la verificazione, a causa di tale modalità di utilizzo, di una sproporzione tra il beneficio del titolare del diritto (il condomino) ed il sacrificio cui è costretta “la controparte” (l’attività professionale dell’amministratore);
  • secondo parte della dottrina, sarebbe necessario anche l’elemento soggettivo del cd. animus nocendi, tipico degli atti emulativi.

Diritto innegabile, dunque, in capo al condomino, quello di accesso alla documentazione del Condominio, ma da esercitarsi entro ben determinati limiti.

 

conflitto di interessi avvocato

Conflitto di interessi avvocato: basta il dubbio per far scattare l’illecito Il CNF chiarisce che l'assoluta terzietà dell'avvocato deve sussistere al di sopra di ogni dubbio

Conflitto di interessi avvocato

“Affinché possa dirsi rispettato il canone deontologico posto dall’art. 24 cdf (già art. 37 codice previgente) non solo deve essere chiara la terzietà dell’avvocato, ma è altresì necessario che in alcun modo possano esservi situazioni o atteggiamenti tali da far intendere diversamente. La suddetta norma, invero, tutela la condizione astratta di imparzialità e di indipendenza dell’avvocato – e quindi anche la sola apparenza del conflitto – per il significato anche sociale che essa incorpora e trasmette alla collettività, alla luce dell’id quod plerumque accidit, sulla scorta di un giudizio convenzionale parametrato sul comportamento dell’uomo medio, avuto riguardo a tutte le circostanze e peculiarità del caso concreto, tra cui la natura del precedente e successivo incarico”. E’ il principio affermato dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 241-2023 pubblicata sul sito del Codice deontologico l’8 febbraio 2024.

La vicenda

Nella vicenda, un legale all’esito del procedimento disciplinare veniva sospeso dalla professione per due mesi per aver violato vari canoni deontologici, tra cui l’aver agito in conflitto di interessi, per essersi costituita in giudizio avverso una propria ex assistita.

L’avvocato adisce il Consiglio Nazionale Forense dolendosi della responsabilità disciplinare e della eccessività della sanzione.

La decisione

Per il CNF, tuttavia, le censure sono infondate. “Correttamente il CDD di Messina ha ritenuto che l’art. 24 del Codice Deontologico è a tutela della terzietà dell’avvocato, che non solo deve sussistere, ma è necessario che non ricorrano circostanze tali da porla in dubbio” afferma preliminarmente il consiglio.

“La norma si riferisce quindi anche alla sola apparenza del conflitto degli interessi. Trattasi di un illecito di pericolo volto a garantire l’assoluta terzietà dell’avvocato al di sopra di ogni dubbio, come specificato nella decisione impugnata che opportunamente fa espresso riferimento a precedenti sentenze di questo consiglio (sentenza 12 luglio 2016 n. 186; 16 luglio 2019 n.60)” aggiunge il CNF ritenendo che le valutazioni logiche giuridiche della decisione impugnata “appaiano ben motivate ed in particolare appare corretta la considerazione che l’incolpata si sia costituita nel giudizio promosso dall’avvocato [BBB] nei confronti di una propria ex assistita, tutelando gli interessi di quest’ultima contestando le richieste formulate dal legale, integra la violazione dell’articolo 24 del Codice vigente, sotto il profilo della lealtà e della correttezza, dato che ciò ha rappresentato un nocumento almeno potenziale agli interessi della controparte”.

Nulla di fatto, infine, neanche sul fronte dell’eccessiva severità della sanzione irrogata”, che il CNF reputa equilibrata rigettando in toto il ricorso.

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