Appropriazione indebita: la vicenda
Il Tribunale di Udine, in qualità di giudice dell’esecuzione, aveva revocato la sospensione condizionale della pena concessa a una donna condannata per appropriazione indebita.
La revoca era motivata dal mancato rispetto della prescrizione collegata al beneficio: il versamento, entro dieci mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, della somma di 18.000 euro a titolo di risarcimento alla persona offesa.
La condannata aveva chiesto di essere rimessa in termini, sostenendo di non aver potuto pagare a causa della nascita di un figlio. Il giudice, tuttavia, aveva ritenuto non provato che nel lungo periodo a disposizione la donna si fosse trovata in una condizione economica incolpevole tale da impedirle il pagamento, osservando che la nascita del figlio non era circostanza sufficiente a giustificare l’inadempimento.
Secondo il Tribunale, inoltre, la maggior parte dell’importo da restituire corrispondeva proprio alla somma di cui l’imputata si era appropriata con modalità truffaldine.
Il ricorso in Cassazione
La difesa ha impugnato l’ordinanza sostenendo che il giudice avesse errato nel non considerare la gravidanza e la nascita del figlio come fattori che incidono sulla funzionalità personale, sui costi familiari e sulla capacità lavorativa. La ricorrente ha inoltre sottolineato di essere madre di tre figli minori conviventi, evidenziando la legittimità e ragionevolezza della richiesta di rimessione in termini.
La decisione della Cassazione
La prima sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 30363/2025, ha dichiarato inammissibile il ricorso, ribadendo principi consolidati in materia di sospensione condizionale subordinata al risarcimento del danno.
Secondo la Corte, «è onere dell’imputato fornire al giudice le prove da cui emergano elementi specifici e concreti che consentano, attraverso un motivato apprezzamento delle condizioni economiche dell’interessato, di valutare la capacità del medesimo di soddisfare la condizione imposta».
Nel caso esaminato, la donna «si è limitata ad asserire di essersi trovata in difficoltà economiche a causa della nascita di un figlio», senza produrre elementi concreti sulle sue fonti di reddito né dimostrare l’effettiva incapacità di adempiere, «anche in forma rateale».
La Corte ha inoltre osservato che la ricorrente non ha fornito alcuna spiegazione specifica circa l’omessa restituzione della somma di cui si era appropriata, che costituiva parte rilevante dell’importo dovuto e che, in quanto illecitamente percepita, non poteva essere condizionata dalle difficoltà economiche sopravvenute.
Il ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di 3.000 euro alla Cassa delle ammende.