Gratuito patrocinio stranieri anche senza codice fiscale italiano La Cassazione chiarisce che per l'ammissione al beneficio presentata da cittadino straniero non è necessario il codice fiscale italiano

Gratuito patrocinio stranieri

Ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio per uno straniero non è necessario munirsi di un codice fiscale italiano. Il chiarimento arriva dalla quarta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 30047-2024) che ha accolto il ricorso di un cittadino rumeno contro l’ordinanza del tribunale di Roma che aveva rigettato l’opposizione avverso il diniego dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in quanto l’uomo non aveva indicato nella relativa istanza il codice fiscale italiano ma quello di cui era titolare nello stato di residenza (Romania) e la propria residenza all’estero.

A dire del tribunale, infatti, il cittadino rumeno avrebbe dovuto, in quanto cittadino dell’Unione Europea, richiedere il codice fiscale ad un ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate. Precisava, inoltre, il giudice che l’ordinanza della Corte Costituzionale n.144 del 2004, invocata dal ricorrente regolava il caso di stranieri presenti irregolarmente nel territorio dello Stato ovvero il caso in cui, per ragioni oggettive, l’interessato non possa provvedere alla indicazione del codice fiscale.

Il ricorso

Avverso il suddetto provvedimento l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione denunciando violazione della legge penale, in relazione all’art. 79 del DPR n. 115/2002, come interpretato dalla decisione della Corte Costituzionale n.144 del 2004, secondo cui il cittadino straniero non residente nel territorio italiano può presentare l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato allegando il proprio domicilio all’estero. Le conclusioni assunte dal Tribunale con l’ordinanza impugnata erano contrarie, quindi, ai principi fondamentali posti a tutela del diritto di difesa, richiamato dalla Consulta nella decisione citata.

Gratuito patrocinio e codice fiscale

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

L’art. 79 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), premettono i giudici, prevede, “a pena di inammissibilità della domanda di ammissione al patrocinio dei non abbienti, l’indicazione del codice fiscale. In sede di disciplina dei casi in cui è obbligatoria l’indicazione del codice fiscale, il testo dell’art. 6, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 605 (Disposizioni relative all’anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti), prevede espressamente che «l’obbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con la sola indicazione dei dati di cui all’art. 4» – dello stesso d.P.R. – «con l’eccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale all’estero.). Il citato art. 4, primo comma, lettera a), del d.P.R. n. 605 del 1973 richiede, ai fini dell’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche, esclusivamente i seguenti dati: cognome, nome, luogo e data di nascita, sesso e domicilio fiscale”.
Il ricorrente ha dedotto che, al momento del deposito dell’istanza, era presente da soli 40 giorni sul territorio italiano e che dunque, al momento della presentazione della richiesta di ammissione del patrocinio a spese dello Stato, non aveva la titolarità di un codice fiscale italiano, ma del codice fiscale del paese di residenza ( la Romania), che aveva indicato nel ricorso unitamente al proprio domicilio nello stato di residenza.
Per cui, alla stregua della normativa sopra indicata, chiariscono dalla S.C., “agli effetti dell’ammissibilità dell’istanza diretta ad ottenere il beneficio in questione, nulla appare escludere la possibilità che lo straniero non residente ni Italia, pure se residente in un paese UE, in luogo dell’indicazione del codice fiscale, fornisca i dati di cui all’art. 4 citato, oltre al proprio domicilio all’estero. Dalle norme in questione, infatti, non si ricava alcun onere, per il cittadino straniero non residente, di munirsi di un codice fiscale italiano al fine di avanzare la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, fermo restando l’obbligo, di cui all’art 76 del DPR 115 del 2002, di allegazione alla istanza del reddito prodotto come risultante dalla ultima dichiarazione presentata nel paese di residenza”.

La sentenza della Corte Costituzionale

Né la lettura della ordinanza n.144 del 2004 della Corte Costituzionale, rincarano da piazza Cavour, “porta alle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma. In quella sede – infatti – il giudice delle leggi, decidendo sulla legittimità costituzionale dell’art. 79 DPR 115/ 2002 se interpretato nel senso di richiedere, a pena di inammissibilità, anche per il cittadino extracomunitario li codice fiscale, ha rilevato che la lettura congiunta dell’art. 6 e dell’art. 4 del DPR n. 605 del 1973 consentiva di ritenere sufficiente, per il cittadino straniero irregolare, la sola indicazione del domicilio nel paese estero”. Dall’ordinanza citata non si ricava però, come si ritiene nel provvedimento impugnato, che il presupposto di applicazione dell’art. 4 DPR n. 605 del 2002 sia il fatto che l’istante si trovi nella impossibilità di richiedere la titolarità del codice fiscale italiano.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al Presidente del Tribunale di Roma per nuovo esame.

 

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patente a crediti decreto

Patente a crediti: pronto il decreto attuativo Il Ministero del Lavoro ha annunciato che il decreto attuativo sulla patente a crediti per gli infortuni sul lavoro è in arrivo, pronta la bozza del testo 

Patente a crediti: decreto attuativo in arrivo

Il decreto attuativo della patente a crediti, come previsto dalla legge n. 56/2024, è ormai pronto. Lo ha annunciato il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali con un comunicato pubblicato sul sito il 23 luglio 2024.

Il testo, in versione bozza, presentato alle parti sociali in un incontro del 10 luglio 2024, ha preso in considerazione le osservazioni delle varie associazioni sindacali e dei datori di lavoro partecipanti al tavolo.

Il decreto contiene le indicazioni necessarie per presentare la domanda, il contenuto della patente, il meccanismo di attribuzione, l’incremento e il recupero dei crediti e il meccanismo di sospensione cautelare previsto quando si verificano gli infortuni sul lavoro più gravi.

Patente a crediti dal 1° ottobre 2024

Il decreto attuativo, dopo che avrà ricevuto la firma del Ministro Marina Calderone, sarà pronto per la partenza, prevista per il 1° ottobre 2024 e consentirà anche di avviare i lavori per la creazione del portale dell’Ispettorato del Lavoro, che gestirà la patente a crediti.

Il meccanismo della patente a crediti, che riguarderà inizialmente il settore edile, sarà estesa probabilmente anche ad altri settori. In attesa della pubblicazione del testo definitivo e ufficiale del decreto, vediamo quali sono le principali novità che emergono dalla bozza.

Destinatari della patente a crediti

La patente “a punti” o “a crediti” riguarda, per il momento, le imprese e i lavoratori autonomi dei cantieri mobili e temporanei, con l’obiettivo di realizzare un “Sistema di Qualificazione” per chi opera nel settore delle costruzioni.

Esclusi dalla misura i soggetti in possesso della attestazione SOA almeno di III categoria e coloro che si limitano a effettuare mere forniture o prestazioni professionali.

Come fare domanda per la patente a crediti

La richiesta per conseguire la patente potrà essere presentata dalle imprese e dai lavoratori autonomi, nelle persone del legale rappresentante o del delegato (professionisti compresi) in modalità telematica dal portale che sarà gestito dall’Ispettorato del lavoro.

Nella fase iniziale il richiedente potrà limitarsi ad auto-certificare il possesso dei requisiti richiesti. Gli operatori stranieri stabiliti in un paese UE diverso dall’Italia devono presentare invece un’autocertificazione che attesta il possesso di un documento equivalente del paese di origine, in mancanza devono fare domanda nelle stesse modalità previste per gli operatori italiani.

Informazioni sul portale INL

Sarà il portale dell’INL a fornire le seguenti informazioni relative alla patente a crediti:

  • dati anagrafici del richiedente e del titolare della patente;
  • numero della patente e data di rilascio;
  • punteggio riconosciuto al momento del rilascio;
  • punteggio aggiornato;
  • provvedimenti di sospensione o decurtazione.

Queste informazioni saranno nella disponibilità del titolare della patente, del committente, delle pubbliche amministrazioni, degli organismi paritetici, del cantiere, di coloro che si occupano della sicurezza nella fase della progettazione e della attuazione e dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori.

Crediti base, incremento e decurtazione

Ogni patente non potrà avere più di 100 crediti, così ripartiti:

  • 30 punti sono attribuiti quando viene rilasciata la patente;
  • 30 punti ulteriori come punteggio massimo dipendono dalla storicità dell’operatore economico;
  • 40 punti ulteriori invece, sempre come punteggio massimo, possono essere attribuiti se:
  • vengono effettuati investimenti o percorsi di formazione in materia di prevenzione degli infortuni;
  • vengono adottati sistemi di gestione per la sicurezza sul posto di lavoro;
  • vengono adottati dispositivi di protezione e soluzioni tecnologiche avanzate sulla base di protocolli di intesa o dopo un minimo di due visite del medico competente.

I crediti persi possono essere recuperati attuando uno o più investimenti diretti a prevenire gli infortuni sul lavoro, che devono ricevere il parere positivo di una commissione composta dai rappresentanti dell’Ispettorato del Lavoro e dell’INAIL.

Sospensione in via cautelare della patente

L’Ispettorato del Lavoro può disporre la sospensione della patente a crediti fino a un massimo di 12 mesi se si verifica un infortunio imputabile almeno alla colpa grave del datore di lavoro e da cui sia derivata la morte o l’inabilità temporanea di uno o più lavoratori dipendenti.

Contro il provvedimento di sospensione è possibile fare ricorso (art. 14 comma 14 del decreto legislativo n. 81/2008)

Fusione e incorporazione dell’impresa

L’impresa che dovesse sorgere a seguito di una trasformazione, una fusione o un’incorporazione diventa titolare del punteggio accreditato alla società trasformata o incorporata alla data in cui dette operazioni hanno effetto. In caso di fusione invece, alla nuova società, viene attribuito il punteggio della società che possiede il numero più elevato di crediti.

 

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giurista risponde

Assegno divorzile e incentivo all’esodo L’assegno divorzile può essere riferito anche all’incentivo all’esodo, oltre che al trattamento di fine rapporto (ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970)?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

La quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1979, al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è pertanto ricompresa l’indennità di incentivo all’esodo con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro. – Cass., Sez. Un., 7 marzo 2024, n. 6229.

La vicenda è quella di due ex coniugi, uno dei quali si è visto riconosciuto il diritto all’assegno di divorzio ex art. 5, comma 6, L. 898/1970, mentre l’altro aveva conseguito somme a titolo di indennità di fine rapporto (a cui si riferisce l’art. 12bis della legge citata) e di incentivo all’esodo. Più nello specifico, il giudizio di primo grado fra le due parti si era concluso nel senso del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, il cui importo è stato però determinato tenendo conto del solo trattamento di fine rapporto. La pronuncia veniva confermata in appello, con un discostamento da un precedente di legittimità favorevole a riferire il menzionato art. 12bis anche all’incentivo all’esodo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171). Si è quindi ricorso in Cassazione, con successiva rimessione alle Sezioni Unite.

È opportuno, preliminarmente, prendere le mosse dall’analisi del dato normativo. L’art. 12bis, L. 898/1970 stabilisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e se titolare dell’assegno di cui all’art. 5 della medesima, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, anche se maturata dopo la sentenza. Tale indennità è pari al 40% dell’indennità riferibile agli anni di coincidenza fra rapporto di lavoro e matrimonio.

L’incentivo all’esodo, invece, è la prestazione cui è tenuto il datore di lavoro a fronte della disponibilità del lavoratore ad addivenire allo scioglimento anticipato del rapporto di prestazione d’opera, oggetto di accordo negoziale.

Si evidenzia l’esistenza di un contrasto, relativo alla natura dell’incentivo all’esodo e, in conseguenza, della riferibilità ad esso dell’art. 12bis (testualmente riferito solo all’indennità di fine rapporto).

Per un primo orientamento, infatti, la menzionata norma sarebbe riferita a ogni indennità di natura retributiva, comunque ricollegabile all’apporto fattuale indiretto del coniuge percettore dell’assegno divorzile, e derivante dalla risoluzione del rapporto di lavoro svolto in costanza di matrimonio. Le somme erogate a tale titolo costituirebbero reddito da lavoro dipendente, in quanto finalizzate a sollecitare e remunerare una vera e propria controprestazione, consistente nel consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata. A sostegno di tale soluzione si evidenzia altresì la parificazione, da parte del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (artt. 17 e 19, D.P.R. 917/1986), delle discipline del trattamento di fine rapporto e dell’incentivo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171).

Per un secondo orientamento, invece, l’art. 12bis farebbe riferimento all’indennità menzionata ed unicamente ad essa. Sarebbe riferito, più nello specifico, all’indennità – comunque denominata – che maturi alla cessazione del rapporto di lavoro e che sia determinata in proporzione alla durata dello stesso e all’entità della retribuzione corrisposta (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294).

L’indennità di fine rapporto non è più determinata in base all’ultima retribuzione del prestatore, ma sui compensi tempo per tempo erogatigli e periodicamente rivalutati: in sintesi, si tratta di un compenso ancorato allo sviluppo economico della carriera, e gli è comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita (per tutte: Cass. 8 gennaio 2016, n. 164 e Cass. 14 maggio 2013, n. 11479). Tenendo presente ciò, si rende ben evidente la ratio dell’art. 12bis, L. 898/1970, che ha le stesse finalità – assistenziale e perequativo-compensativa – dell’assegno divorzile: in base al principio di solidarietà, si riconosce un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, deve tener conto non solo del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Si deve, cioè, far sì di appianare la condizione di squilibrio riconducibile al sacrificio di aspettative professionali e reddituali, conseguente all’assunzione di un ruolo all’interno della famiglia. La ratio solidaristica e assistenziale dell’art. 12bis viene evidenziata, peraltro, anche nei relativi lavori parlamentari, ed altresì dalla Consulta (Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 24). Si attua una partecipazione, posticipata, che realizza non solo una funzione assistenziale, ma anche una compensativa, ovvero è rapportata al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (Cass. 30 dicembre 2005, n. 28278).

L’automatismo percentuale di cui all’art. 12bis, rilevano le Sezioni Unite in commento, si giustifica solo in base alla condivisione della medesima ratio dell’assegno divorzile. D’altronde, ciò a cui si partecipa in base all’art. 12bis è una porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente, che diviene esigibile al momento della cessazione del rapporto: si tratta, quindi, di un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che si è sacrificato. È quindi assai significativo, in tal senso, il riferimento agli anni in cui il rapporto è coinciso con il matrimonio (art. 12bis, comma 2).

Tale digressione è necessaria giacché, evidenziata la ratio dell’art. 12bis, si pone il problema del se esso si riferisca unicamente all’indennità di fine rapporto, o abbia oggetto più ampio. Invero, non si ha perfetta coincidenza con l’art. 2120 c.c. (che riguarda il trattamento di fine rapporto), e da ciò viene evinto un campo di applicazione dell’art. 12bis che è più ampio. La parziale coincidenza lessicale, osserva però la Suprema Corte, deve far propendere per l’interpretazione per cui l’art. 12bis non si riferisce a tutte le prestazioni a cui il lavoratore ha diritto in dipendenza della cessazione del contratto, ma solo a quelle che condividono la logica del trattamento di fine rapporto. L’art. 12bis, cioè, si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e sono determinate proporzionalmente alla sua durata e all’entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309). È, questo, il criterio discretivo fra ciò che il coniuge beneficiario dell’assegno divorzile può e non può esigere ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970.

Ciò posto, è evidentemente estranea all’indicata nozione di indennità di fine rapporto anche l’indennità di incentivo all’esodo. Tale indennità, infatti, non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sottoforma di assegno divorzile (Cass.17 aprile 1997, n. 3294). Tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, e quindi non ricorre l’esigenza di assicurare (in chiave assistenziale e perequativo-compensativa) una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio: si è, piuttosto, innanzi a un’attribuzione patrimoniale che discende da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.

Non vengono ritenuti dirimenti, inoltre, gli argomenti basati sul Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cui si è accennato (Cass. 12 luglio 2067, n. 14171): la Suprema Corte, infatti, ritiene che il regime fiscale dell’indennità non interferisca con la qualificazione civilistica della stessa.

Le Sezioni Unite, per ciò, concludono nel senso della non spettanza al coniuge divorziato della quota del 40% dell’indennità in questione, nei termini riportati in massima.

*Contributo in tema di “Assegno divorzile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

vietato usare femminile ddl

Vietato usare il “femminile”: ddl ritirato Il ddl sui nomi femminili del leghista Potenti che prevedeva anche multe fino a 5mila euro in caso di violazioni è stato ritirato

DDL sui nomi femminili: ritirato

Il  disegno di legge sui nomi femminili proposto in data 11 luglio 2024 dal senatore leghista Manfredi Potenti è stato ritirato.  Lo si evince alla pagina del Senato dedicata all’atto n. 1191 che riporta espressamente la dicitura: “ritirato 22 luglio 2024”.

Il senatore con questo disegno di legge intitolato “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere” avrebbe voluto vietare per legge l’utilizzo dei nomi al femminile di alcune professioni dagli atti pubblici.

Per il proponente l’utilizzo del femminile nei documenti ufficiali sarebbe irrispettoso verso le istituzioni per cui è “necessario un intervento normativo che implichi un contenimento della creatività nelluso della lingua italiana nei documenti delle istituzioni”.

Preservare la PA da deformazioni letterali

Come previsto dall’articolo 1 del testo l’obiettivo della proposta di legge è quello di “preservare la pubblica amministrazione dalle deformazioni letterali derivanti dalla necessità di affermare la parità di genere nei testi pubblici”.

Per il ddl occorre “preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come “Sindaco”, “Prefetto”, “Questore”, “Avvocato” dai tentativi simbolici di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.

Vietato usare il “femminile”

Il divieto di utilizzo del femminile era previsto espressamente dall’articolo 3 della proposta di legge che così disponeva: “divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovra esteso o a qualsiasi sperimentazione linguistica. È ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi senza neutro e senza alcuna connotazione sessista.”

Nello specifico il disegno di legge avrebbe voluto vietare l’utilizzo negli atti pubblici del “genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, e dagli incarichi individuati dati aventi forza di legge”.

Fino a 5.000 euro di multa in caso di violazione

In caso di inadempimento, l’articolo 5 del testo avrebbe previsto multe salate “la violazione degli obblighi di cui la presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1000 a 5000 euro”.  

Il parere dell’Accademia della Crusca

Il Professor Paolo d’Achille, Presidente dell’Accademia della Crusca, nel commentare il disegno di legge del Senatore Manfredi Potenti ricorda che da un punto di vista puramente tecnico qualunque nome declinato al maschile può essere volto al femminile e che non sempre è possibile il contrario.

In una risposta del 2023 riferita all’individuazione di regole finalizzate allo sviluppo di un linguaggio giuridico di tipo inclusivo, il professor d’Achille aveva precisato di usare la lingua italiana nel rispetto della parità di genere, ricordando la correttezza dell’uso del genere femminile per i titoli professionali che si riferiscono alle donne.

 

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morte imputato sentenza inesistente

Morte imputato: sentenza inesistente La Cassazione rammenta che la morte dell'imputato prima della conclusione del grado processuale rende la sentenza inesistente anche se il giudice non è a conoscenza dell'evento

Morte dell’imputato

La morte dell’imputato intervenuta prima della decisione rende la sentenza inesistente anche laddove il giudice non è a conoscenza dell’evento. Giudice che, ad ogni modo, ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato stesso. Così la quarta sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 27827-2024 decidendo una vicenda in cui l’imputato decedeva nelle more del ricorso.

Inesistenza giuridica della sentenza

Va premesso, anticipano gli Ermellini, che “secondo il diritto vivente la morte dell’imputato intervenuta prima della decisione, determina l’inesistenza giuridica della sentenza per essere estinto il reato per morte dell’imputato e che il giudice penale ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato, quale presupposto essenziale del processo” (cfr., tra le altre, SS.UU. n. 12602/2015, n. 25995/2019).

Inoltre, “la tardiva conoscenza dell’evento morte, verificatasi nel corso del processo, può esser considerata errore di fatto paragonabile a quello materiale, soggetto dunque al procedimento di correzione, anche nei gradi successivi del giudizio, in quanto la mancanza del soggetto nei cui confronti si esercita l’azione penale determina l’inesistenza giuridica della sentenza, per essere estinto il reato per morte dell’imputato”.

Obbligo permanente del giudice

Il giudice penale, peraltro, proseguono dal Palazzaccio, “ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato, quale presupposto essenziale del processo – ma – tale obbligo non può tradursi in una costante attività di indagine e, con riferimento al giudizio di legittimità, l’art. 625 bis, comma terzo, del codice di procedura penale prevede che l’errore materiale disciplinato dal comma primo può essere rilevato anche d’ufficio dalla Corte di cassazione in ogni momento, con la conseguenza che l’ipotesi in questione – proprio per l’inesistenza giuridica della sentenza che essa determina – prescinde dalle condizioni di legittimazione disciplinate dall’art. 625 bis, comma secondo, che parifica, quanto ad iniziativa, quella del Procuratore Generale a quella del condannato che, nella specie, è inesistente (cfr. Cass. n. 7632/2017).

Procedimento di correzione ex art. 625 comma 3 c.p.p.

Nel caso di specie, risulta che il decesso dell’imputato è avvenuto prima che la sentenza venisse deliberata. Per cui, “l’errore, effettivamente esistente, è rilevabile d’ufficio con il procedimento di correzione di cui all’art. 625 bis comma 3 cod. proc. pen.” e, pertanto, si impone l’annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per morte dell’imputato.

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liceo made in Italy

Il liceo del Made in Italy prende forma Approvato dal Governo lo schema di regolamento per il piano studi del liceo del made in Italy in partenza dall'anno scolastico 2024-2025

Liceo del Made in Italy: cos’è

Il liceo del made in Italy è stato istituito dall’articolo 18 della legge 27 dicembre 2023, n. 206 a partire dall’anno scolastico 2024/2025.

Come si legge nel sito dedicato, il nuovo liceo “offre un percorso formativo completo integrando scienze economiche e giuridiche con le scienze matematiche, fisiche e naturali”.

Attraverso questo nuovo percorso liceale, “gli studenti possono esplorare gli scenari storici, geografici e culturali per comprendere le peculiarità del tessuto produttivo italiano e l’evoluzione sociale e industriale del Paese. Il percorso formativo permette di acquisire competenze specifiche per la gestione d’impresa, sulle strategie di mercato e sui processi produttivi e organizzativi, preparando gli studenti alle sfide imprenditoriali. Combinando teoria e pratica, offre un approccio educativo multidisciplinare con sbocchi professionali in tutti i settori di eccellenza del Made in Italy”.

La norma istitutiva sopracitata, al comma 2, stabilisce che, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, venga emanato uno specifico regolamento, attraverso il quale si provveda alla definizione del quadro orario degli insegnamenti e degli specifici risultati di apprendimento.

Il regolamento

Lo schema di regolamento concernente la definizione del quadro orario degli insegnamenti e degli specifici risultati di apprendimento del percorso liceale del “Made in Italy”, integrativo del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 89, è stato approvato in esame preliminare dal Governo il 22 luglio 2024.

Nel testo che ha ricevuto il primo sì dell’esecutivo sono previste più discipline e laboratori ad hoc, ma anche più ore trascorse in azienda (nell’ambito dei percorsi di alternanza scuola-lavoro). Nel quadro degli insegnamenti molta attenzione sarà puntata sul diritto del made in Italy e sull’arte.

In via transitoria è stata prevista la possibilità di costituire le classi prime del percorso liceale del made in Italy su richiesta delle istituzioni scolastiche che erogano l’opzione economico-sociale del percorso del liceo delle scienze umane.

La commissione tecnica

Al fine di procedere alla stesura del citato regolamento, è stata costituita una Commissione tecnica composta da esperti che ha operato per la definizione del quadro orario degli insegnamenti e degli specifici risultati di apprendimento in armonia con le indicazioni fornite dalla legge 206/2023.
cessione quinto tassi

Cessione del quinto: aggiornati i tassi L'Inps ha comunicato i nuovi tassi di interesse per la cessione del quinto delle pensioni per il terzo trimestre 2024

Cessione del quinto

Con il messaggio n. 2614/2024, l’Inps ha comunicato i nuovi tassi di interesse per il terzo trimestre 2024, a seguito della pubblicazione del decreto n. 62375/2024 del Mef.

Il decreto, infatti, ha indicato i tassi effettivi globali medi (TEGM) praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari, determinati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura, come modificata dal decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, rilevati dalla Banca d’Italia e in vigore per il periodo 1° luglio 2024 – 30 settembre 2024.

Tassi cessione del quinto luglio-settembre 2024

Per quanto sopra, per i prestiti da estinguersi dietro cessione del quinto dello stipendio e della pensione, il valore dei tassi da applicarsi nel suddetto periodo 1° luglio 2024 – 30 settembre 2024 è quello della seguente tabella pubblicata dall’istituto:

Classi d’importo in euro Tassi medi Tassi soglia usura
Fino a 15.000 13,68 21,1000
Oltre i 15.000 9,97 16,4625

Conseguentemente, spiega l’Inps, “i tassi soglia TAEG da utilizzare per i prestiti estinguibili con cessione del quinto della pensione concessi da banche e intermediari finanziari in regime di convenzionamento ai pensionati” variano come segue:

TASSI SOGLIA PER CLASSI DI ETÁ DEL PENSIONATO E CLASSE D’IMPORTO DEL PRESTITO (TAEG)  
 
  Classe di importo del prestito  
Classi di età* Fino a 15.000 euro Oltre i 15.000 euro  
Fino a 59 anni 9,92 8,08  
60-64 10,72 8,88  
65-69 11,52 9,68  
70-74 12,22 10,38  
75-79 13,02 11,18  
Oltre 79 anni 21,1000 16,4625  

Blocco tassi

La procedura dedicata alla gestione del processo – denominata “Quote Quinto” – precisa l’istituto, “effettua un controllo ‘bloccante’ sui nuovi tassi applicati”.

Tale funzione inibisce, pertanto, la notifica telematica, da parte delle banche/intermediari finanziari, dei piani di cessione del quinto della pensione qualora i tassi applicati risultino superiori a quelli convenzionali.

Decorrenza modifiche

Infine, comunica l’Inps, le modifiche indicate “sono operative con decorrenza 1° luglio 2024”.

 

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giurista risponde

Crisi rapporto coniugale e caratteri dei crediti I crediti afferenti agli assegni che traggono origine dalla crisi del rapporto coniugale possiedono tutti indistintamente i caratteri della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità propri dei crediti alimentari?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Cass. S.U. 8 novembre 2022, n. 32914.

Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si pronuncia sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, nel caso in cui una successiva decisione giudiziale modifichi le condizioni economiche già stabilite da una pregressa pronuncia.

Il ricorso è stato promosso avverso la decisione con cui la Corte d’Appello di Roma, nell’accogliere il ricorso incidentale promosso dall’ex marito, aveva condannato la moglie alla restituzione delle somme ricevute a titolo di assegno di mantenimento in esecuzione dei provvedimenti provvisori adottati in sede di procedimento ex art. 710 c.p.c.

In particolare, con il quinto motivo di ricorso viene evidenziata la natura alimentare dell’assegno in questione, da cui deriverebbe l’irripetibilità delle somme previamente versate.

La Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ricostruito il panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento, hanno respinto il suddetto motivo di ricorso, confermando la condanna della ricorrente alla ripetizione in favore dell’ex coniuge delle somme percepite a titolo di mantenimento in virtù di provvedimenti provvisori del presidente del tribunale.

Dopo aver ricostruito i caratteri e le diverse funzioni dell’assegno di mantenimento in sede di separazione e di quello divorzile, i giudici di legittimità si soffermano sulla disciplina degli alimenti, chiarendo che tale obbligazione serve a soddisfare i bisogni essenziali alla persona per condurre una vita dignitosa.

In particolare, ne sono presupposti lo stato di bisogno del richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato.

La Suprema Corte rileva poi come si registri un non pieno “collimare” delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di assegno di mantenimento in favore del coniuge separato o divorziato o in favore dei figli, per effetto di provvedimenti provvisori poi modificati o per effetto di una sentenza di primo grado poi riformata.

Un primo orientamento, infatti, sostiene che la pronuncia, che riveda in diminuzione o escluda l’assegno corrisposto in base al provvedimento presidenziale o a quello del giudice istruttore, non possa disporre per il passato, ma solo per il futuro.

Corollario di tale interpretazione è la non ripetibilità delle maggiori somme corrisposte dal coniuge sulla base di un titolo giudiziale valido ed efficace “ratione temporis”.

Nell’ambito di tale tesi, vi sono state alcune pronunce che hanno specificato che la retroattività della decisione relativa all’assegno di mantenimento può operare solo a favore del beneficiario.

Uno degli argomenti principali a sostegno di tale tesi è il riconoscimento del carattere alimentare delle somme corrisposte dall’ex coniuge a titolo di mantenimento.

Altra parte della giurisprudenza ammette invece la retroattività della sentenza che determina in diminuzione l’assegno, ma la esclude nel caso in cui l’ammontare dell’assegno, successivamente ridotto, sia tale da evidenziarne una funzione sostanzialmente alimentare.

Infine, vi è un’ultima impostazione che, sottolineando le differenze sul piano ontologico tra l’assegno di mantenimento e quello alimentare, esclude che il primo abbia gli stessi caratteri dell’obbligazione alimentare.

Nel comporre il suddetto contrasto interpretativo, le Sezioni Unite svolgono alcune preliminari considerazioni sula supposta natura “para-alimentare” dell’assegno divorzile e di quello stabilito in sede di separazione e, dopo aver evidenziato le differenze strutturali e funzionali sussistenti tra i suddetti assegni e l’obbligazione alimentare, evidenziano che tali assegni hanno in comune con l’obbligo di alimenti la finalità “assistenziale”.

Premesse tali considerazioni, i giudici di legittimità affrontano la questione della ripetibilità delle prestazioni alimentari, rilevando a tal proposito come non vi sia nel nostro ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno alimentare.

Pertanto, non vi sarebbero ostacoli nel ritenere sussistente l’obbligo di restituzione di somme versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme versate in base a un supposto e parzialmente esistente diritto al mantenimento.

Tuttavia, secondo i giudici della Suprema Corte, ragioni equitative e il principio di solidarietà umana e familiare giustificano l’apposizione di un temperamento alla regola della piena ripetibilità.

Si suppone, infatti, che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state utilizzate per far fronte alle essenziali esigenze di vita.

La soluzione interpretativa, affermata con la sentenza in commento, è volta a operare un bilanciamento tra l’esigenza di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza solidaristica di tutela del soggetto debole.

Ne deriva che, ove la sentenza di merito escluda in radice e “ab origine” il diritto al mantenimento, ovvero si addebiti la separazione al coniuge, che nelle more abbia ricevuto l’assegno, opererà l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite ai sensi dell’art. 2033 c.c.

Non sussiste invece il diritto alla ripetizione delle maggiori somme versate, laddove si proceda alla rivalutazione ex tunc delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto ovvero nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale venga ridotto. Tali considerazioni valgono purché l’assegno corrisposto non superi la misura necessaria a una persona media per far fronte alle normali esigenze di vita. Solo in tali casi si può infatti ritenere che la somma ricevuta sia stata consumata dal coniuge più debole nel periodo in cui è stata corrisposta per fini di sostentamento.

La soluzione adottata viene giustificata dalla Corte di Cassazione richiamando la tutela della solidarietà post-familiare sottesa a tutta la disciplina sulla crisi della famiglia.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. I, 28 maggio 2004, n. 10291; Cass. I, 20 marzo 2009, n. 6864
Difformi:      Cass. I, 25 giugno 2004, n. 11863; Cass. I, 12 giugno 2006, n. 13593;
Cass. I, 10 dicembre 2008, n. 28987
rettificazione sesso terzo genere

Rettificazione di sesso: sul “terzo genere” serve legge La Consulta dichiara inammissibili le questioni sul "terzo genere" mentre è irragionevole l'autorizzazione all'intervento chirurgico se la transizione è già compiuta

Rettificazione di sesso e genere non binario

Sulla rettificazione di sesso e il “terzo genere” serve l’intervento del legislatore. Con la sentenza n. 143-2024, la Corte costituzionale ha deciso le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano in materia di rettificazione di attribuzione di sesso.

La Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).

Serve intervento del legislatore

Infatti, «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria».

La sentenza sottolinea al riguardo che la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informa, tra l’altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili).

La Corte rileva tuttavia che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.».

«Tali considerazioni» – conclude la Corte – «unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale».

Autorizzazione al trattamento chirurgico

La Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.

Il giudice delle leggi ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologicocomportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico», la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».

In tali casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 Cost., in quanto «non corrisponde più alla ratio legis».

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omicidio lorena quaranta

Omicidio Lorena Quaranta: sentenza annullata per stress da Covid La Cassazione penale annulla la sentenza di condanna all'ergastolo del fidanzato della vittima. Per i giudici è da valutare "lo stress da lockdown e pandemia" - Il testo della sentenza in pdf

Femminicidio Lorena Quaranta: sentenza annullata

Fa scalpore, ma fa anche discutere e indignare la sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione n. 27115-2024 che riguarda l’omicidio della giovane Lorena Quaranta.

La sentenza della Corte di Assise che ha disposto la condanna all’ergastolo del fidanzato per omicidio volontario aggravato dalla commissione contro una persona legata a lui da una stabile convivenza affettiva, deve essere annullata nella parte in cui nega il riconoscimento delle circostanze attenuanti.

Per la Cassazione i giudici di merito non hanno verificato compiutamente se, dato il contesto “possa ed in quale misura  ascriversi all’imputato di non avere «efficacemente tentato di contrastare» lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica; con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale.” Lo stress che ha colpito l’omicida, come tutti durante il lockdown, potrebbe comportare una riduzione della pena.

Lockdown: marcata concitazione emotiva

Nella sentenza si legge che nei giorni che hanno preceduto l’omicidio, caratterizzati dalle restrizioni imposte dalla pandemia, il fidanzato della Quaranta ha manifestato una forte preoccupazione per l’affezione delle vie respiratorie che aveva colpito la compagna. Dalla fine del mese di marzo il disagio si sarebbe così aggravato che l’uomo, senza preoccuparsi della fidanzata bisognosa di cure, si sarebbe allontanato per recarsi dai suoi familiari, che però lo convincevano a tenere un comportamento più responsabile e a tornare a casa dalla ragazza.

L’arrivo a casa non ha portato nessun beneficio al suo stato emotivo, una vicina ha riferito di averlo visto salire e scendere le scale in modo frenetico. Dopo qualche ora di calma l’omicida tornava ad agitarsi, tanto che alle 4 di notte contattava telefonicamente il padre. Alle 6 del mattino arriva la lite con la compagna, i colpi alla fronte con un oggetto contundente, la mano sulla bocca e sul naso, la stretta al collo e infine l’arresto cardio circolatorio per asfissia della giovane donna. All’episodio segue il tentativo di suicidio dell’uomo, dapprima tramite il taglio dei polsi e poi tramite il getto del phon della vasca in cui si era immerso e che ha comportato l’attivazione del salvavita e infine il contatto delle forze dell’ordine.

Esclusione delle attenuanti

La Cassazione rileva in fatto come la Corte di Assise di Appello non abbia riconosciuto le attenuanti generiche perchè la perizia del CTU ha escluso la presenza di una patologia psichiatrica in grado di inficiare la capacità di intendere e di volere dell’imputato. Per il giudice dell’appello l’imputato, nel compiere l’omicidio, ha agito con determinazione e crudeltà, modalità espressive che non sono ricollegabili allo stato d’ansia in cui versava quando ha commesso l’omicidio e che lo stesso non ha tentato di contrastare.

Motivazione contraddittoria

Preso atto del quadro probatorio emerso nei precedenti gradi di giudizio gli Ermellini ritengono però fondato il motivo di doglianza relativo al diniego delle attenuanti generiche. Le ragioni del rigetto sono il frutto di un percorso argomentativo che per la Corte di Cassazione si caratterizza per aporie e contraddizioni non marginali. Non convincono le conclusioni della Corte dell’impugnazione, per la quale lo “stato d’ansia e di irrequietezza, comunque manifestato dall’imputato nelle ore immediatamente precedenti al delitto, non solo, come ampiamente argomentato, non ha compromesso la sua capacità di intendere e di volere, ma non ha certamente determinato, né giustificato, la furia, l’odio e l’efferatezza rivolti dal contro la povera (che non può escludersi abbiano tratto origine da un movente rimasto inesplorato).”

In un punto della sentenza infatti la Corte di merito, in contraddizione con le suddette conclusioni, afferma di rendersi conto implicitamente del fatto che “lo stato emotivo manifestato dall’imputato nei momenti antecedenti all’omicidio abbia influito concretamente sulla misura della responsabilità penale e sia, pertanto, valutabile positivamente ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche”.

L’angoscia incide sulla responsabilità penale?

L’omicida, a causa del lockdown e della pandemia ha vissuto un disagio sempre crescente, che è sfociato in angoscia, che lo ha portato a un certo punto a rifuggire alle sue responsabilità e a lasciare sola la compagna. Una scelta che probabilmente, secondo la sua visione, era l’unica possibile considerata l’impossibilità di accedere alle strutture sanitarie. Quando poi ha desistito dal suo progetto di fuga per recarsi dai familiari ha vissuto un dissidio interiore, che ha provocato le condotte altalenati successive del pomeriggio, della notte e della mattina dell’omicidio.

I giudici avrebbero omesso pertanto di verificare se, alla luce del contesto, sia possibile escludere che l’imputato non abbia tentato efficacemente di contrastare lo stato di angoscia di cui era preda e che traeva origine dall’emergenza pandemica e se la difficoltà contingente di rimediare a questa angoscia sono in grado di incidere sulla responsabilità penale.

Parola al giudice del rinvio

Da qui l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di assise di appello di Reggio Calabria.

 

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