redditometro sospeso

Redditometro sospeso Il Mef ha emanato atto di indirizzo formalizzando la sospensione del decreto recante “Determinazione sintetica del reddito complessivo delle persone fisiche” sul cd redditometro

Il decreto del MEF sul redditometro

Come spiegato nel nostro articolo Torna il redditometro era stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale n. 116 del 20 maggio, il decreto 7 maggio del Ministero dell’Economia e delle Finanze, recante “Determinazione sintetica del reddito complessivo delle persone fisiche”, applicabile ai redditi per gli anni d’imposta a decorrere dal 2016.

Decreto sospeso: atto di indirizzo del Mef

La Presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, ha dichiarato tuttavia che “Nessun Grande Fratello fiscale sarà mai introdotto da questo governo”. Lo strumento del redditometro è, invero, da sempre molto contestato in quanto ritenuto, tra l’altro, potenzialmente lesivo della privacy dei cittadini.

La decisione del Governo giunge dopo che erano stati sentiti l’ISTAT e le associazioni maggiormente rappresentative dei consumatori per gli aspetti riguardanti la metodica di ricostruzione, nonché dopo che era stato acquisito il parere del Garante della protezione dei dati personali.

È stato in particolare riferito che il testo normativo sarà sospeso fino alla sua revisione.

La decisione è stata formalizzata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con atto di indirizzo, ove è stato disposto che l’avvio delle attività applicative, conseguenti all’emanazione del decreto ministeriale 7 maggio 2024, è differito, considerata l’opportunità di preventivamente modificare il contenuto normativo dell’art. 38 DPR 600/1973 “al fine di rendere più esplicita la sottointesa volontà di concentrare il ricorso all’applicazione dell’istituto della determinazione sintetica del reddito fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva ai casi nei quali il contribuente ometta di dichiarare i propri redditi, a fronte del superamento di soglie di spesa da determinare”.

Che cos’è il redditometro

Il decreto in esame avrebbe introdotto nuove regole per “riattivare” lo strumento, già in passato utilizzato dall’Agenzia delle Entrate, volto alla comparazione delle spese di un contribuente con il suo reddito dichiarato, al fine di individuare (e successivamente accertare) eventuali evasioni fiscali da parte dello stesso nel caso di incoerenza tra i due valori.

In particolare, come spiegato nel precedente contributo, lo strumento del redditometro rappresenta una misura che, sulla base di indici e coefficienti, è in grado di misurare la capacità di spesa di una persona fisica, consentendo al fisco di quantificare, in modo induttivo, i redditi del contribuente.

Cosa prevedeva il “decreto sospeso”

Per completezza, di seguito si riportano alcuni aspetti che erano stati introdotti nel sopracitato decreto.

In particolare, l’art. 2 precisava che le spese “si considerano sostenute dalla persona fisica cui risultano riferibili sulla base dei dati disponibili o delle informazioni presenti in Anagrafe tributaria. Si considerano, inoltre, sostenute dal contribuente, le spese effettuate dal coniuge e dai familiari fiscalmente a carico”. Al contrario, non si considerano sostenute dalla persona fisica “le spese per i beni e servizi se gli stessi sono relativi esclusivamente ed effettivamente all’attività di impresa o all’esercizio di arti e professioni”.

L’art. 3 del decreto stabiliva invece quali erano gli elementi sulla base dei quali l’Agenzia delle entrate avrebbe determinato il reddito complessivo accertabile del contribuente, quali, a titolo esemplificativo: le spese sostenute dal contribuente come risultanti dal Sistema informativo dell’anagrafe tributaria; l’ammontare della spesa per i beni e servizi considerati essenziali per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile per una famiglia corrispondente alla tipologia di nucleo familiare di appartenenza; gli incrementi patrimoniali del contribuente imputabile al periodo d’imposta di riferimento.

Infine, l’art. 4 del decreto ammetteva la possibilità per il contribuente di dimostrare “a) che il finanziamento delle spese è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nel periodo d’imposta, ovvero con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile, ovvero da parte di soggetti diversi dal contribuente; b) che le spese attribuite hanno un diverso ammontare; c) che la quota del risparmio utilizzata per consumi ed investimenti si è formata nel corso di anni precedenti”.

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deposito telematico audio video

Processo telematico: non è pronto per audio e video Il CNF chiarisce che al momento il deposito di files audio e video è ammesso solo su supporto CD/DVD in Cancelleria

No al deposito telematico di audio e video

Con il parere n. 17 del 19 aprile 2024, pubblicato il 9 maggio sul sito del Codice deontologico, il CNF precisa che, in attesa delle nuove specifiche tecniche del processo telematico, non è possibile effettuare il deposito diretto dei files in formato audio e video.

Diversi Tribunali risolvono il problema ammettendo il deposito in cancelleria di questi file su supporti CD/DVD.

Deposito file audio e video nel processo telematico: il quesito

Il C.O.A di Biella si rivolge al C.N.F per chiedere un parere sul deposito di files audio e video nel processo telematico.

La domanda è volta ad accertare se esita un sistema per produrre files audio e video nel processo telematico, che possano essere fruiti dal Giudice e, in caso di risposta negativa, se sia corretta la richiesta da parte degli Uffici Giudiziari di produrre i file audio e video su unità esterne come le USB solo in “copia forense” o se sia altrettanto valida la produzione su supporto USB di questi files, riservando la produzione della copia forense alle sole ipotesi in cui possa sorgere una contestazione.

Poiché la modalità di produzione dei files su supporto esterno è una diretta conseguenza dell’impossibilità di provvedere al deposito telematico, il COA chiede se è condivisibile applicare a questa fattispecie l’esenzione dal pagamento dei diritti di copia, in base a quanto previsto dall’articolo 40 commi 1 quater e quinques del DPR 115/2002.

Consentito il deposito in cancelleria di file audio e video

Il CNF ricorda che la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia di recente ha posto in consultazione la nuova versione delle specifiche tecniche che si riferiscono ai documenti informatici e che sono richiamate nell’articolo 34 del decreto del Ministro della Giustizia n. 44/2011.

Il comma 3 di questa norma dispone infatti che “Fino all’emanazione delle nuove specifiche tecniche, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le specifiche tecniche vigenti, già adottate dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia.” 

Al momento pertanto, nel rispetto delle regole vigenti, non è possibile depositare telematicamente files audio e video. 

Parte della giurisprudenza ammette il deposito in cancelleria di files audio e video solo se contenuti in un supporto informatico esterno come i CDROM, corredato da una nota di deposito in cui è necessario specificare la tipologia di files contenuti in detto supporto e il motivo per il quale si procede al deposito nelle forme “tradizionali”.

L’utilizzo delle chiavette USB è sconsigliato per i costi maggiori, per i problemi legati all’integrità dei files e perché la data di retention degli USB è di 10 anni mentre quella dei CDROM /DVD è di 30 anni.

In alcuni Tribunali, per prassi, è previsto il deposito telematico di files audio e video in formato ZIP o RAR, accompagnato dall’obbligo di dare atto del contestuale deposito dei file in formato CD/DVD in cancelleria.

In questo modo si evita che il giudice e le parti non abbiano il programma specifico per l’apertura di del file pdf, utilizzato come contenitore di contenuti audio e video.

La soluzione adottata scongiura in questo modo anche il problema legato al pagamento dei costi di copia.

telefonata figli carcere

Telefonate ai figli: niente stretta per i reati ostativi La Corte Costituzionale ha ritenuto irragionevole la stretta sulle telefonate ai figli minori a carico dei condannati per reati di criminalità organizzata che abbiano accesso ai benefici

Telefonate figli e regime restrittivo

“Se un detenuto è stato condannato per un reato compreso nell’elenco dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ma ha in concreto accesso a tutti i benefici penitenziari, è irragionevole sottoporlo a un regime più restrittivo rispetto a quello ordinario solo per quanto riguarda le telefonate con i propri figli minori”. E’ quanto ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 85-2024, con la quale ha ritenuto fondata una questione sottopostale da un magistrato di sorveglianza di Padova.

Condanna per reati ostativi

La Corte ha ricordato che chi è condannato per uno dei reati elencati nel primo comma dell’art. 4-bis (i cosiddetti “reati ostativi”) è ordinariamente escluso dai benefici penitenziari, in forza della generale presunzione per cui i collegamenti con l’organizzazione criminale non vengono meno con l’ingresso in carcere del condannato, con conseguente persistere della sua pericolosità sociale.

Questi detenuti hanno accesso ai benefici, di regola, soltanto quando collaborino con la giustizia, perché proprio la loro collaborazione costituisce “una sorta di prova legale della rottura del vincolo associativo rispetto al singolo detenuto, che a sua volta segnala l’inizio del suo percorso rieducativo”.

Ammissione benefici penitenziari

Tuttavia, come chiarito da sentenze recenti della stessa Consulta, “la presunzione di persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata deve sempre poter essere vinta da una prova contraria, valutabile caso per caso dal tribunale di sorveglianza”. E in effetti la legge prevede oggi varie ipotesi in cui i condannati per reati “ostativi” possono in concreto essere ammessi ai benefici penitenziari, pur in mancanza di una loro collaborazione con la giustizia.

Tra queste ipotesi c’è quella di chi – come il detenuto oggetto del procedimento principale, che sta scontando una condanna a trent’anni di reclusione – abbia accesso ai benefici perché la sua collaborazione è stata ritenuta impossibile, e non risultino elementi che attestino un suo collegamento attuale con la criminalità organizzata. Nel caso concreto, il detenuto aveva in effetti già goduto di permessi premio, concessi sulla base dei suoi progressi nel trattamento rieducativo attestati dall’amministrazione penitenziaria. Inoltre, in forza della normativa speciale adottata durante il periodo della pandemia, aveva fruito di una telefonata al giorno con i propri familiari, come tutti gli altri detenuti.

La decisione della Consulta

A questo punto la Corte ha ritenuto irragionevole sottoporre in queste situazioni il condannato – ammesso ai benefici in quanto ritenuto non più socialmente pericoloso – a una disciplina più sfavorevole rispetto a quella applicabile alla generalità dei detenuti. In proposito, la Corte ha osservato che ogni disciplina – come l’art. 4-bis – che, a parità di pena inflitta, deroga in senso peggiorativo al regime penitenziario ordinario “può trovare legittimazione sul piano costituzionale – al cospetto della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – soltanto in quanto sia necessaria e proporzionata rispetto al contenimento di una speciale pericolosità sociale del condannato”; e non invece “in chiave di ulteriore punizione in ragione della speciale gravità del reato commesso. È, infatti, la misura della pena che nel nostro ordinamento deve riflettere la gravità del reato, non già la severità del regime sanzionatorio”.

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giurista risponde

Danneggiamento e tentata rapina impropria Tra i reati di danneggiamento e tentata rapina impropria è configurabile il concorso di reati o l’assorbimento ex art. 84 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano

 

Nell’ipotesi di alterazione, deterioramento o distruzione del luogo di custodia di un bene seguito da violenza alla persona vi è concorso e non assorbimento ex art. 84 c.p. tra il reato di danneggiamento e quello di tentata rapina impropria e ciò perché l’unica ipotesi di furto assorbita nella fattispecie di cui all’art. 628 cod. pen. è quella semplice e non anche quella aggravata ex art. 625, n. 2, c.p. – Cass., sez. II, 10 gennaio 2024, n. 5887.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare il rapporto giuridico tra i reati di danneggiamento e tentata rapina impropria.

In primo e secondo grado era stata disposta condanna nei confronti dell’imputato per i delitti di tentata rapina impropria e danneggiamento per aver egli cercato di impossessarsi dei beni della persona offesa senza riuscirvi per fatti indipendenti dalla propria volontà, e per aver infranto il deflettore dell’autovettura rendendolo inservibile.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, sollevando, tra gli altri motivi, il mancato riconoscimento del concorso apparente di norme tra le ipotesi di rapina impropria e danneggiamento. In particolare, si eccepiva che l’ipotesi di cui all’art. 635 c.p. dovesse ritenersi assorbita ex art. 15 c.p. nella fattispecie di tentata rapina impropria e che fosse applicabile il principio del ne bis in idem sostanziale.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha ricordato quanto stabilito da Cass. pen., Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1235, secondo cui, con riferimento al concorso di norme penali che regolano la stessa materia, si definisce norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale presentando uno o più requisiti suoi propri, che hanno funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo di quella generale.

In tal modo le Sezioni Unite ritenevano di escludere criteri diversi da quello di specialità per la risoluzione di problematiche di questa tipologia (così anche Cass. pen., Sez. Un., 23 febbraio 2017, n. 20664 e Cass. pen., Sez. Un., 15 luglio 2021, n. 38402).

Nel caso di specie, con riferimento al rapporto tra i reati di danneggiamento e tentata rapina impropria, si è osservato come la fattispecie di «rapina, essendo costituita dalle condotte di impossessamento del bene altrui e dalla violenza in danno della vittima, non contiene tutti gli elementi costitutivi l’ipotesi del danneggiamento che attiene invece alla alterazione della natura funzionale del bene e alla distruzione dello stesso. L’elemento del danno alla cosa, peraltro nel caso in esame anche diversa da quella oggetto di apprensione, non è elemento costitutivo della rapina così che tra gli artt. 628 e 635 c.p. non sussiste rapporto di specialità».

La Corte costituzionale, inoltre, si era pronunciata in merito al rapporto tra concorso apparente di norme e concorso di reati, ritenendo che per poter applicare il criterio della specialità è necessario che tra le fattispecie in confronto vi siano elementi fondamentali comuni, ma che una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra (Corte cost. 31 maggio 2016, n. 200).

Tale Corte, inoltre, ha ritenuto non doversi applicare il divieto del bis in idem per la sola ragione che i diversi reati concorrano formalmente, in quanto commessi con una sola azione o omissione. Essa ha, pertanto, richiamato quanto stabilito da Cass. pen., Sez. Un., 28 giugno 2005, n. 34655, secondo cui l’identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del ne bis in idem, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Tuttavia, in casi come quello in oggetto, è stato osservato che gli eventi appaiono diversi poiché uno consiste nell’alterazione definitiva di un bene e l’altro nell’apprensione di un oggetto di valore.

La Corte di Cassazione, infine, si è proposta di valutare se il reato di rapina impropria che costituisce un reato complesso, essendo integrato delle fattispecie di furto e percosse, possa assorbire il reato di danneggiamento.

Essa ha osservato, preliminarmente, che l’ipotesi di furto aggravato dalla violenza sulle cose costituisce un’ipotesi di reato complesso in quanto il danneggiamento è considerato circostanza aggravante del furto, nel quale delitto è assorbito. Il reato di rapina, invece, è integrato dalla consumazione del solo reato di furto semplice e della violenza alla persona ma non anche da quello di furto aggravato. Nell’ipotesi di danneggiamento seguito da rapina, la contestazione di cui all’art. 628 c.p. non assorbe quella di cui all’art. 635 c.p. e ciò in quanto l’ipotesi di furto assorbita ex art. 84 c.p. è solo quella semplice e non anche quella aggravata dalla violenza sulle cose ex art. 625, n. 2 c.p.

È stato chiarito, infatti, che per ammettere la configurabilità del reato complesso di cui all’art. 84 c.p. i fatti non devono avere solo qualche elemento in comune, bensì uno deve convergere nell’altro «tanto da perdere la sua autonomia e diventare elemento costitutivo o circostanza aggravante dell’altro».

Sia sul piano oggettivo, invece, che su quello soggettivo, i due reati in esame differiscono.

Sul piano oggettivo, infatti, il danneggiamento è caratterizzato dal deteriorare, distruggere o alterare il bene e la rapina, invece, dall’apprensione della cosa con violenza o minaccia.

Sul piano soggettivo, inoltre, il danneggiamento è caratterizzato dalla volontà di arrecare nocumento all’oggetto mentre la rapina dall’impossessamento del bene altrui con il fine di trarne profitto.

Per tali motivi, la Cassazione ha ritenuto escludere la sussistenza di un rapporto di assorbimento ex art. 84 c.p. tra i due reati suddetti, considerando sussistere, invero, un concorso tra gli stessi.

*Contributo in tema di “Danneggiamento e tentata rapina impropria”, a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

registro contabilità condominiale

Il registro di contabilità In cosa consiste il registro di contabilità condominiale, il suo carattere essenziale e le conseguenze in caso sia mancante secondo le norme codicistiche e la giurisprudenza

Cos’è il registro di contabilità

Il registro di contabilità è uno degli elementi che il codice ritiene imprescindibili per la redazione di un corretto rendiconto consuntivo di gestione.

Tra le attribuzioni dell’amministratore di cui all’art. 1130 c.c., il n. 7) prevede espressamente l’obbligo di tenuta, anche in modalità informatizzate, del registro di contabilità.

All’interno del predetto registro devono essere annotati, in ordine cronologico, entro trenta giorni da quello dell’effettuazione, i singoli movimenti in entrata ed in uscita.

Tra gli elementi di cui si compone il rendiconto condominiale, questo registro è spesso trascurato. La prassi, sovente, mostra che esso non viene quasi mai allegato dagli amministratori e – talvolta – nemmeno redatto.

Carattere essenziale

Un’interpretazione strettamente letterale delle norme codicistiche, invece, ne delinea il carattere essenziale per i condomini e per l’amministratore.

Viene in rilievo, in primo luogo, l’art. 1130bis c.c., nella parte in cui prevede che il registro in questione sia uno dei componenti del rendiconto condominiale assieme al riepilogo finanziario ed alla nota sintetica esplicativa della gestione che indichi anche tutti i rapporti in corso e le questioni pendenti.

Tale disposizione deve necessariamente leggersi in combinato disposto con il primo periodo della stessa norma, onde comprenderne pienamente la ratio.

Quando il legislatore riformista, infatti, espressamente prevede che “il rendiconto condominiale contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve” stabilisce che gli stessi devono essere espressi in modo tale da consentirne l’integrale verifica.

Ed infatti, come abbiamo visto, è proprio nella chiarezza ed intelligibilità della rendicontazione che si rinviene il risultato perseguito dalla riforma, volto a consentire ai condomini-proprietari di esprimere in assemblea un voto “cosciente e meditato”.

Mancanza del registro di contabilità: conseguenze

Da ciò ne deriva che anche il registro di contabilità deve essere considerato uno degli elementi la cui mancanza, violando i predetti principi di chiarezza ed intelligibilità del rendiconto, vizia lo stesso in modo da rendere invalida la relativa delibera di approvazione.

Tutto quanto sopra è stato confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. VI/II n. 33038 del 20 dicembre 2018) in forza della quale il registro di contabilità, il riepilogo finanziario e la nota sintetica esplicativa della gestione, rivestono i caratteri di elementi essenziali (a pena di annullabilità) del rendiconto ai sensi dell’art.1130bis c.c.

La presenza dei suddetti elementi all’interno del rendiconto da presentarsi con cadenza annuale, a cura dell’amministrazione, alla compagine condominiale, ha come obiettivo quello di consentire l’espletamento del diritto, sussistente in capo ai condomini, “all’informazione ed alla verifica del rendiconto” fornendo una conoscenza dei reali elementi contabili del bilancio condominiale. Ove il rendiconto non sia composto anche da tali elementi necessari ed i condomini non risultino informati sulla reale situazione patrimoniale del condominio relativamente alle entrate, alle spese ed ai fondi disponibili, ne deriva l’annullabilità della deliberazione assembleare di approvazione.

concorso magistrato 2024

Concorso 400 magistrati: riaperti i termini In Gazzetta Ufficiale il decreto del ministero che riapre i termini per la presentazione delle domande per il concorso a 400 posti di magistrato ordinario. C'è tempo fino all'1 giugno

Bando 400 magistrati 2024, riapertura termini

E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, 4ª serie speciale – Concorsi ed esami – n. 42 del 24 maggio 2024, il decreto del 21 maggio 2024 che dispone la riapertura dei termini per la presentazione delle domande per il concorso a 400 posti di magistrato ordinario, bandito con provvedimento dell’8 aprile 2024.

Domande entro l’1 giugno

Gli interessati, dunque, potranno presentare la loro istanza dalle ore 12:00 di oggi 24 maggio 2024 alle ore 12:00 dell’1 giugno 2024. 

Elenco candidati idonei e prove concorso 2022

Inoltre, rende noto via Arenula che, con riferimento al concorso per magistrato a 400 posti, bandito con provvedimento del 18 ottobre 2022, di cui è stato pubblicato il numero e l’elenco dei candidati idonei, è stato pubblicato l’elenco delle Corti d’appello secondo l’ordine di estrazione per le prove orali, che avranno inizio il 1° luglio 2024. Si parte dalla Corte d’appello di Bologna.

regole accesso magistratura

Magistrati: le nuove regole su accesso, test e valutazioni Riforma ordinamento giudiziario e collocamento fuori ruolo dei magistrati: cosa prevedono i decreti attuativi pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 6 aprile 2024

Riforma ordinamento giudiziario: i due decreti attuativi

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 6 aprile 2024 sono stati pubblicati i decreti legislativi n. 44/2024 e n. 45/2024, che attuano la legge delega n. 71/2022, che aveva conferito le deleghe al Governo per riformare l’ordinamento giudiziario e per riordinare la disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati.

Alla luce di questi due testi attuativi analizziamo quali sono le novità più importanti destinate ad avere un maggiore impatto sull’accesso in magistratura e sulla carriera dei magistrati.

Scuola Superiore magistratura: corsi e costi

Il decreto dispone che i corsi di preparazione presso la Scuola superiore siano riservati a laureati in possesso di determinati requisiti e che stanno svolgendo o abbiano svolto il tirocinio presso l’ufficio per il processo o altre strutture. I corsi sono tenuti nelle materie oggetto della prova scritta da docenti di elevata competenza e professionalità. Nel determinare il costo per la frequentazione della Scuola a carico dell’aspirante magistrato si tiene conto delle condizioni reddituali del soggetto e del suo nucleo familiare.

Accesso in magistratura: il test psico-attitudinale

La prova scritta prevede tre elaborati in diritto, civile penale e amministrativo anche alla luce dei principi della Costituzione e dell’Unione Europea. Il diritto commerciale è sostituito dal diritto commerciale e della crisi e dell’insolvenza e il diritto comunitario è sostituito dal diritto dell’Unione Europea.

Dal 2026 i candidati dovranno sostenere un colloquio psico-attitudinale, nel corso del quale saranno sottoposti a test individuati dal CSM nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria. Il colloquio sarà diretto dal presidente della seduta con il supporto di un esperto psicologo.

Fascicolo personale del magistrato

Viene istituito il fascicolo per la valutazione del magistrato, da tenere in modalità informatica. Nel fascicolo sono inseriti annualmente i provvedimenti tabellari organizzativi o quelli che individuano compiti e attività giudiziarie ed extra-giudiziarie del magistrato e i programmi annuali di gestione.

Il fascicolo contiene anche dati statistici comparati relativi al lavoro svolto dal magistrato, gli atti e i provvedimenti redatti, i verbali delle udienze a cui ha partecipato e i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati scelti a campione dal CSM al termine di ogni anno. Nel fascicolo sono inseriti anche i provvedimenti o gli atti prodotti dal magistrato nel numero individuato dal CSM, le relazioni di ispezione, gli atti con i quali è stata promossa l’azione disciplinare, i rapporti dei capi dell’ufficio a cui appartiene il magistrato e gli elementi ulteriori individuati dal CSM. Al fascicolo possono accedere i dirigenti dell’ufficio, il magistrato stesso e i componenti dei consigli giudiziari.

Valutazione della professionalità

Tutti i magistrati, ogni quattro anni a partire dalla nomina, sono sottoposti alla valutazione della professionalità. La valutazione della professionalità interessa la capacità, la laboriosità, la diligenza e l’impegno del magistrato ed è effettuata in base a parametri oggettivi indicati dal CSM.

La capacità riguarda la preparazione giuridica e il livello di aggiornamento.

La laboriosità si riferisce invece alla produttività, ossia al numero e alla qualità degli affari trattati.

La diligenza tiene conto dell’assiduità e della puntualità del magistrato riferita alla presenza del magistrato alle udienze nei giorni stabiliti, ma anche al rispetto dei termini per la redazione e il deposito di provvedimenti

L’impegno viene valutato in base alla disponibilità del magistrato nel sostituire colleghi assenti e frequentare corsi di aggiornamento presso la Scuola superiore della magistratura.

Il CSM disciplina gli elementi in base ai quali consigli giudiziari devono esprimere le valutazioni dei magistrati al fine di garantire omogeneità di giudizio. 

Il procedimento di valutazione

La valutazione della professionalità avviene alla scadenza del periodo di quattro anni. Il consiglio giudiziario acquisisce il fascicolo personale relativo alla valutazione della professionalità e ulteriori informazioni disponibili presso il CSM e il Ministero della Giustizia.

La valutazione riguarda anche la relazione del magistrato sul lavoro svolto e tutta una serie di documenti indicati specificamente dal decreto.

Sulla base di tutte le informazioni acquisite il consiglio giudiziario formula un parere motivato da trasmettere al CSM. Entro 10 giorni dalla notifica del parere il magistrato può comunicare al CSM le proprie osservazioni e chiedere di essere ascoltato personalmente. Prima di questa audizione però il magistrato deve essere informato della possibilità di prendere visione degli atti del procedimento e di estrarne copia. Il CSM procede alla valutazione della professionalità sulla base del parere espresso dal consiglio giudiziario, tenendo conto della documentazione acquisita. Qualora il CSM ritenga di recepire il parere del consiglio giudiziario contenente la valutazione positiva può limitarsi a richiamarne il contenuto senza motivare ulteriormente.

Valutazione della professionalità: esiti possibili

Il giudizio finale sulla professionalità può essere positivo, non positivo o negativo.

Il giudizio positivo può essere discreto, buono, ottimo.

Il giudizio non positivo prevede una nuova valutazione della professionalità del magistrato da parte del CSM dopo un anno e dopo aver acquisito un nuovo parere del consiglio giudiziario.

In caso di giudizio negativo il magistrato viene sottoposto a una nuova valutazione di professionalità dopo due anni. Il CSM può disporre che lo stesso partecipi a uno o più corsi di riqualificazione professionale per colmare le carenze riscontrate e può assegnarlo a una funzione diversa nella stessa sede o escluderlo, fino alla valutazione successiva, dall’accesso a incarichi direttivi semi direttivi o funzioni specifiche. La valutazione negativa comporta la perdita del diritto all’aumento periodico dello stipendio per due anni.

Collocamento fuori ruolo magistrati

Il secondo decreto attuativo n. 45/2024  riordina la normativa del collocamento fuori ruolo dei magistrati. Esso dispone che i magistrati, dopo il collocamento fuori ruolo, possano svolgere gli incarichi presso enti pubblici o pubbliche amministrazioni a condizione che questo non comprometta l’integrale svolgimento ordinario del lavoro giudiziario.  Devono essere svolti con collocamento fuori ruolo gli incarichi di direttore dell’ufficio di gabinetto e capo di segreteria di un ministero.

Il magistrato non può essere collocato fuori ruolo se:

  • sono decorsi meno di 10 anni di esercizio effettivo delle funzioni proprie della magistratura;
  • sono decorsi meno di tre anni dal rientro in ruolo dopo un incarico svolto fuori ruolo per un periodo superiore a cinque anni.

Il collocamento fuori ruolo viene autorizzato quando l’incarico da conferire al magistrato risponde a un interesse dell’amministrazione di appartenenza. Non può tuttavia essere collocato fuori ruolo il magistrato che presti servizio in una sede con un rilevante indice di scopertura dell’organico.

Il collocamento fuori ruolo può essere disposto solo dopo aver acquisito il consenso scritto del magistrato, che lo può revocare fino al momento in cui non abbia avuto inizio l’esercizio effettivo delle funzioni presso l’amministrazione o istituzione richiedente.

Il decreto stabilisce infine che dal 1 gennaio 2026 i magistrati possano essere collegati fuori ruolo nel rispetto di determinati limiti numerici:

  • 80 unità per i magistrati ordinari;
  • 25 unità per i magistrati amministrativi;
  • 25 unità per i magistrati contabili.

L’articolo 14 del dlgs n. 45/2024 precisa infine che la normativa sul collocamento fuori ruolo dei magistrati non si applica ai membri del Governo e a coloro che ricoprano cariche elettive.

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giurista risponde

Casellario informatico ANAC e termine annuale di efficacia Allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione nel casellario informatico ANAC può trasferirsi in diversa sezione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, le iscrizioni pregiudizievoli possono avere una durata massima di un anno e, al termine dello stesso, sono intrasferibili in diversa sezione. – Cons. Stato, sez. V, 29 gennaio 2024, n. 881.

Preliminarmente per casellario ANAC si intende il casellario informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, attualmente disciplinato ai sensi dell’art. 222, comma 10, D.Lgs. 36/2023.

Nel casellario sono annotate le notizie, le informazioni e i dati relativi agli operatori economici con riferimento alle iscrizioni previste dall’art. 94, D.Lgs. 36/2023 relativamente alle false dichiarazioni o alla falsa documentazione presentata nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti ovvero ai fini del rilascio dell’attestazione di qualificazione.

La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato attiene alla durata delle iscrizioni pregiudizievoli nel casellario ANAC. La vicenda si è svolta nel contesto normativo previgente, l’originaria iscrizione nel casellario ANAC veniva disposta in forza del potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione e disciplinato dalle previsioni del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio. In tale regolamento si prevedeva che l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione delle procedure di gara e degli affidamenti in subappalto fosse disposta per la durata massima di un anno, decorso il quale l’iscrizione perde efficacia. Nel caso in esame, al termine dell’anno di durata massima, l’iscrizione veniva spostata in altra area del casellario per un periodo di tempo indefinito.

I giudici di Palazzo Spada enunciano che la decisione dell’ANAC di non cancellare ma di spostare l’impresa in una diversa sezione del casellario informatico allo scadere del termine annuale, dopo aver accertato la falsità di una dichiarazione, deve ritenersi illegittima perché non supportata da uno specifico riferimento di legge e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia ex art. 38, comma 1, lett. h), D.Lgs. 163/2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango regolamentare.

Il Consiglio di Stato ha chiarito che la norma ha natura speciale, poiché si riferisce “non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole ipotesi di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, peraltro ove rese con dolo o colpa grave”. In quanto norma speciale, è destinata a prevalere – circoscrivendone l’ambito di applicazione – su eventuali disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle fonti del diritto”.

*Contributo in tema di “Casellario informatico ANAC e termine annuale di efficacia”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

Tempo tuta: quando è pagato Per la Cassazione, il tempo tuta per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro non deve essere retribuito se non c’è l’obbligo di indossare indumenti specifici da lavoro

Retribuzione tempo tuta

Il tema del “tempo tuta” riguarda la retribuzione del tempo impiegato dai lavoratori per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro. Questo argomento è stato oggetto di numerosi dibattiti e sentenze.

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 13639-2024 ha fornito un importante chiarimento, stabilendo come non sia prevista alcuna retribuzione per il tempo di vestizione e svestizione quando i lavoratori non sono obbligati a indossare specifici indumenti di lavoro. Stessa conclusione per i dispositivi di protezione nel caso in cui l’uso dei DPI sia facoltativo e avvenga dopo aver timbrato il cartellino. Tale tempo rientra infatti nell’orario di lavoro, per cui non è necessario il riconoscimento di una retribuzione aggiuntiva.

Retribuzione tempo di vestizione non dovuta

La vicenda giunge in Cassazione dopo che la Corte d’appello di Bologna, modificando la decisione di primo grado, ha respinto le richieste di due lavoratori che chiedevano il riconoscimento del “tempo-tuta” come orario di lavoro per venti minuti a turno dal febbraio 2014 al luglio 2019.

La Corte ha concluso che, in assenza di un obbligo imposto dal datore di lavoro riguardo al tempo, modo e luogo della vestizione e svestizione, non esiste un diritto alla retribuzione per quel tempo. I lavoratori possono indossare gli abiti da lavoro a casa o negli appositi spogliatoi aziendali, senza alcun obbligo specifico.

La Corte ha sottolineato che i lavoratori erano liberi di indossare abiti personali e portare a casa gli indumenti da lavoro per lavarli, confermando l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda. Per i DPI specifici, come guanti e mascherine, conservati in armadietti aziendali e utilizzati solo dopo aver timbrato il cartellino, non si poneva il problema della retribuzione aggiuntiva, poiché erano accessibili solo durante l’orario di lavoro.

Niente retribuzione tempo di vestizione senza obbligo

I lavoratori hanno fatto ricorso alla Cassazione, contestando la violazione di diverse normative come il Decreto legislativo.  66/2003, la Direttiva Europea 2003/88 e l’articolo 2094 del Codice Civile, sostenendo che le operazioni di vestizione e svestizione dovessero essere incluse nell’orario di lavoro.

La Cassazione però ha confermato la sentenza d’appello, ribadendo che l’assenza di un obbligo di indossare abiti da lavoro forniti dall’azienda esclude la necessità di retribuire il tempo dedicato a queste operazioni.

Nella motivazione dell’ordinanza, richiamando lo storico della lite, la Cassazione riporta che “tutti i lavoratori  non avevano, e non hanno, alcun obbligo di indossare gli abiti da lavoro (il cui utilizzo resta facoltativo) non sussistendo alcun obbligo imposto da di indossare gli indumenti da lavoro forniti.” Questo conferma l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda.

Per quanto riguarda invece i DPI utilizzati durante l’orario di lavoro, il problema della retribuibilità non si pone, in quanto l’accesso a essi avveniva solo dopo aver timbrato il cartellino, ossia durante l’orario di lavoro. In sintesi, le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’appello di Bologna confermano che l’assenza di un obbligo di vestizione imposto dal datore di lavoro esclude il diritto alla retribuzione per il tempo necessario a indossare e togliere la “tuta” da lavoro.

Allegati

linee guida pma

Procreazione medicalmente assistita (PMA): le linee guida Pubblicate in Gazzetta Ufficiale le linee guida sulle tecniche e sulle procedure di procreazione mediamente assistita

Linee guide PMA 2024

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 107/2024 sono state pubblicate le nuove linee guida sulla legge numero 40/2004 che disciplina la procreazione medicalmente assistita.

Le linee guida contenute nel decreto del Ministero della Salute del 20 marzo 2024 vanno a sostituire quelle emanate nel 2015, stante la necessità di innovare la materia e superare certi limiti, che negli anni sono stati rimossi dai numerosi interventi della Consulta. Nella premessa al decreto vengono infatti menzionate le seguenti pronunce della Corte costituzionale: n. 161 del 24 maggio 2023; n. 84 del 22 marzo 2016; n. 229 del 21 ottobre 2015; n. 96 del 14 maggio 2015; n. 162 del 9 aprile 2014; n. 151 del 1° aprile 2009.

A chi si rivolgono le linee guida

Le linee guida 2024 dettano le regole sulle procedure e sulle tecniche della procreazione medicalmente assistita e sono vincolanti per tutte le strutture autorizzate a svolgere questa pratica medica. Fanno parte integrante delle presenti linee guida anche le indicazioni su procedure e tecniche previste dalla legge numero 40/2004.

Oggetto linee guida PMA

Le linee guide si occupano di diversi aspetti della procreazione mediatamente assistita.

  • Ricorso alle tecniche di PMA solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause di infertilità o sterilità.
  • Gradualità nell’uso delle tecniche per evitare interventi più invasivi, sia tecnicamente che psicologicamente.
  • Consenso informato necessario per sottoporsi alle tecniche.
  • Accertamento dei requisiti per le coppie che richiedono l’accesso alle tecniche.
  • Sperimentazione sugli embrioni aggiornate in base alle sentenze della Corte Costituzionale, inclusa la sentenza n. 229/2015.
  • Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni posti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 151/2009.
  • Tecniche di PMA di tipo eterologo modificate dalla sentenza n. 162/2014, relative alle tecniche con donazione di gameti.
  • PMA per coppie fertili con malattie genetiche dopo la sentenza n. 96/2015.
  • Abolizione del reato di selezione degli embrioni come da sentenza n. 229/2015.
  • Preservazione della fertilità da patologie o terapie che possono compromettere la funzionalità delle gonadi.

Principi di applicazione delle tecniche

Le linee guida definiscono “infertile” la coppia che non riesce a concepire dopo un anno di rapporti sessuali non protetti, mentre “è sterile” l’individuo che presenta una condizione fisica permanente che impedisce il concepimento. Questi termini sono usati come sinonimi all’interno del documento.

Secondo l’art. 4 della legge n. 40/2004, il ricorso alle tecniche di PMA è circoscritto ai casi documentati di sterilità o infertilità inspiegate e accertate. Le tecniche devono essere applicate con gradualità per minimizzare l’invasività e devono basarsi  sul consenso informato.

Il ricorso alle tecniche di PMA è stato ampliato, ora possono accedervi anche le coppie che hanno crioconservato gameti o tessuto gonadico per preservare la fertilità, alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili e alle coppie sierodiscordanti con rischio di infezioni (HIV, HBV, HCV).

Indicazioni procedurali

Il medico ha l’obbligo di verificare  i requisiti previsti dalla legge n. 40/2004 raccogliendo l’autocertificazione dello stato di matrimonio o convivenza della coppia.

Chi richiede un trattamento di PMA deve effettuare gli esami preconcezionali previsti per donna, uomo e coppia, come stabilito dal decreto del 12 gennaio 2017.

Per lo screening delle patologie infettive in tecniche di PMA omologa o con donazione di gameti, si fa riferimento al decreto n. 131 del 23 agosto 2019.

Le coppie positive per HIV, HBV o HCV che desiderano la fecondazione in vitro devono considerare le implicazioni delle loro condizioni sui potenziali figli.

Registrazione e mantenimento dei dati

Ogni coppia deve avere una scheda clinica con i dati anagrafici, anamnestici, clinici, genetici, infettivologici, la diagnosi, il trattamento, le tecniche anestesiologiche, i nominativi degli operatori, il decorso clinico, eventuali complicanze e l’esito del trattamento.

La scheda di laboratorio invece deve contenere i dati anagrafici e le informazioni coerenti con la sezione E/2 dell’Accordo Stato-regioni 2012 e la direttiva 2006/17/CE modificata dal decreto n. 131 del 2019.

Entrambe le schede devono essere conservate dal centro. Una relazione conclusiva, clinica e biologica, destinata al medico curante e all’utente deve includere la procedura eseguita, il monitoraggio endocrino/ecografico, i dati di laboratorio, i farmaci usati durante il prelievo ovocitario, i risultati ottenuti e indicazioni terapeutiche post-procedura.  

PMA: le novità in sintesi

Tirando le fila, le linee guida 2024 hanno introdotto importanti e diversi elementi di novità rispetto a quelle del 2015. Vediamo i più importanti:

  • Le coppie dovranno sostenere il costo di un canone annuo per poter conservare gli embrioni che non vengono utilizzati.
  • Le coppie portatrici di patologie genetiche potranno decidere di non impiantare gli embrioni che presentino dei difetti genetici.
  • La donna potrà chiedere di procedere all’impianto dell’embrione anche se il rapporto con il partner è venuto meno o lo stesso è defunto.
  • Stop inoltre alla revoca del consenso alla P.M.A, presa la decisione non si torna indietro.

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