cellulare protetto

Reato rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto Per la Cassazione l'accesso a WhatsApp da un cellulare protetto da password integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico

Rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto

Rubare messaggi da cellulare protetto: con la sentenza n. 19421/2025, la Corte di cassazione ha chiarito che WhatsApp è a tutti gli effetti un sistema informatico protetto. Di conseguenza, accedervi abusivamente, anche solo per estrarre messaggi da utilizzare in giudizio, integra il reato previsto dall’articolo 615-ter del codice penale, punito con la reclusione fino a dieci anni nei casi più gravi.

Il principio assume particolare rilievo in un contesto in cui le chat private vengono spesso utilizzate come prova in ambito familiare, ad esempio nei giudizi di separazione o di addebito.

Il caso: accesso abusivo al telefono dell’ex moglie

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato si era impossessato del telefono cellulare della ex moglie, dispositivo protetto da password, ed era riuscito a estrarre alcuni messaggi WhatsApp scambiati con un’altra persona. Successivamente, aveva consegnato quei messaggi al proprio avvocato, con l’obiettivo di utilizzarli nel giudizio di separazione.

Nonostante la Corte d’appello avesse ridotto la pena inflitta, è stata comunque confermata la responsabilità dell’imputato per i reati di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) e concorso formale di reati (art. 81 c.p.).

La motivazione

Secondo i giudici, la condotta dell’imputato ha violato il “domicilio informatico” della persona offesa, ossia quello spazio digitale tutelato dalla legge come estensione del domicilio fisico (ai sensi dell’art. 14 della Costituzione). Il dispositivo era nella esclusiva disponibilità della donna ed era protetto da password, a conferma della volontà di escludere terzi dall’accesso ai suoi dati personali.

Il reato di cui all’art. 615-ter c.p., introdotto dalla legge 547/1993, punisce chiunque si introduce abusivamente o si mantiene all’interno di un sistema informatico o telematico contro la volontà dell’avente diritto, proteggendo la riservatezza dei dati personali e la sicurezza delle informazioni digitali.

Anche WhatsApp è sistema informatico protetto

La Cassazione ha ritenuto che l’applicazione WhatsApp rientra nella nozione di sistema informatico, poiché combina componenti software, hardware e reti telematiche per consentire lo scambio di messaggi, immagini e video.

Come già chiarito in giurisprudenza in merito alle caselle e-mail, anche uno spazio di memoria protetto da password, come quello di WhatsApp, rappresenta una porzione riservata del sistema informatico, il cui accesso indebito costituisce un illecito penale.

Allegati

comunicazioni tra avvocati

Comunicazioni tra avvocati: vanno trasmesse all’autorità Il CNF chiarisce che le comunicazioni tra colleghi possono essere trasmesse se richieste nell’ambito di indagini penali. Obbligo deontologico cede di fronte all’autorità giudiziaria

Comunicazioni tra avvocati e consegna autorità

Comunicazioni tra avvocati: il Consiglio nazionale forense, con parere n. 23 del 12 maggio 2025, pubblicato il 3 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, ha fornito chiarimenti rilevanti in materia di corrispondenza tra avvocati e obblighi deontologici, rispondendo a un quesito posto dal COA di Benevento. 

Il quesito

La questione riguardava la possibilità di trasmettere le comunicazioni intercorse tra legali, a seguito di una richiesta formale da parte dei Carabinieri, delegati all’attività di indagine, nell’ambito di un procedimento penale avviato per fatti oggetto della predetta corrispondenza.

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, pertanto, chiedeva delucidazioni al CNF.

Deontologia e collaborazione con l’autorità

Secondo il parere del CNF, la presenza di una richiesta esplicita proveniente dall’autorità investigativa, in questo caso i Carabinieri delegati all’indagine su fatti oggetto della corrispondenza, “prevale sull’obbligo deontologico e l’avvocato – anche per sottrarsi a eventuali conseguenze penali della mancata collaborazione – è tenuto a consegnare la corrispondenza”.

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permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti: troppo breve il termine per il reclamo La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il termine di 24 ore per il reclamo contro i permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti

Con la sentenza n. 78/2025, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo il termine di 24 ore previsto per la proposizione del reclamo da parte del detenuto contro il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza nega un permesso, anche nei casi di grave emergenza familiare, come il pericolo imminente di vita di un familiare o convivente.

Il giudizio di legittimità è scaturito da una questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, che ha espresso dubbi circa la compatibilità di tale termine con l’art. 24 della Costituzione, che tutela il diritto di difesa.

Il caso concreto esaminato dalla Corte

Nel procedimento oggetto della pronuncia, un detenuto aveva chiesto un permesso per visitare la sorella affetta da tumore. Il Magistrato di sorveglianza aveva respinto la richiesta e il detenuto aveva presentato reclamo lo stesso giorno della notifica del provvedimento, riservandosi però di motivarlo successivamente.

Solo dopo aver ottenuto la documentazione medica acquisita d’ufficio dal Magistrato, il difensore del detenuto aveva potuto reiterare il reclamo, corredandolo dei motivi. Tuttavia, il termine previsto dall’art. 30-bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) per impugnare il diniego è di sole 24 ore.

Tutela effettiva del diritto di difesa

La Corte costituzionale ha accolto i dubbi di legittimità, osservando che il termine di 24 ore non consente al detenuto né di ottenere adeguata assistenza legale né di accedere alla documentazione necessaria per motivare il reclamo in modo efficace.

Richiamando un precedente orientamento (sentenza n. 113/2020, relativa ai permessi premio), la Corte ha stabilito che il termine debba essere elevato a 15 giorni, in analogia con quanto previsto dall’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario per altri reclami.

Il legislatore può intervenire

Pur fissando in via provvisoria un termine di 15 giorni, la Corte ha sottolineato che resta ferma la facoltà del legislatore di stabilire un termine diverso, purché questo rispetti il diritto alla difesa e sia coerente con la natura urgente del provvedimento.

associazioni riconosciute

Associazioni riconosciute Associazioni riconosciute: cosa sono, quali sono e come si distinguono da quelle non riconosciute

Associazioni riconosciute: cosa sono

Le associazioni riconosciute si costituiscono per perseguire finalità comuni non economiche (culturali, religiose, sportive, benefiche, ecc.), dotandosi della personalità giuridica mediante un iter specifico di riconoscimento. A differenza delle associazioni non riconosciute, queste godono di un’autonomia patrimoniale perfetta, ossia il loro patrimonio è distinto da quello degli associati e degli amministratori.

Normativa di riferimento: artt. 14–35 c.c.

Le associazioni, in generale, sono regolate dal titolo II del libro I del codice civile (artt. 14–35 c.c.). Quelle riconosciute si distinguono in quanto acquisiscono personalità giuridica attraverso un atto formale di riconoscimento da parte dello Stato, sulla base di una valutazione dell’adeguatezza patrimoniale e della conformità dell’atto costitutivo e dello statuto alle norme vigenti.

Il riconoscimento avviene oggi ai sensi del D.P.R. 361/2000 per le persone giuridiche private non appartenenti al Terzo Settore, o tramite il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS) per gli enti iscritti.

Associazioni riconosciute: definizione e requisiti

Una associazione riconosciuta è un ente senza scopo di lucro che:

  • persegue una finalità lecita e di pubblica utilità (ad esempio culturale, educativa, sportiva, religiosa);
  • è dotata di atto costitutivo e statuto conformi alle disposizioni di legge;
  • è riconosciuta dallo Stato o da un ente pubblico competente, tramite l’iscrizione in appositi registri;
  • è in possesso di un patrimonio adeguato al perseguimento delle proprie finalità.

Differenza tra associazioni riconosciute e non riconosciute

Aspetto

Associazione riconosciuta

Associazione non riconosciuta

Personalità giuridica

No

Responsabilità patrimoniale

Limitata al patrimonio

Anche personale (degli amministratori)

Requisiti di costituzione

Atto pubblico + riconoscimento

Atto costitutivo anche privato

Controlli pubblici

Sì, anche su bilanci e statuti

Minori obblighi formali

Capacità giuridica piena

Sì, agisce in nome proprio

Agisce per il tramite di rappresentanti

La differenza principale tra queste due figure consiste nella responsabilità: nelle associazioni non riconosciute, in caso di debiti, possono essere chiamati a rispondere personalmente gli amministratori (art. 38 c.c.), mentre le associazioni riconosciute rispondono solo con il proprio patrimonio.

Come si costituisce un’associazione riconosciuta

Per ottenere il riconoscimento giuridico, è necessario:

  1. redigere un atto costitutivo e uno statuto, in forma pubblica;
  2. presentare richiesta all’autorità competente (Prefettura, Regione, RUNTS);
  3. dimostrare di possedere un patrimonio iniziale adeguato, normalmente non inferiore a 15.000 euro (variabile);
  4. attendere il provvedimento formale di riconoscimento e l’iscrizione nei registri previsti.

Nel caso di associazioni del Terzo Settore, l’iscrizione nel Registro Unico Nazionale (RUNTS) comporta il riconoscimento automatico della personalità giuridica, come stabilito dal D.lgs. n. 117/2017 (Codice del Terzo Settore).

Esempi di associazioni riconosciute

  • Associazioni culturali riconosciute (es. accademie, fondazioni artistiche);
  • Associazioni sportive dilettantistiche;
  • Associazioni di volontariato o promozione sociale;
  • Associazioni dei consumatori;
  • Associazioni per la protezione ambientale.

Giurisprudenza

La giurisprudenza civile ha spesso ribadito la distinzione tra soggettività giuridica e responsabilità patrimoniale, sottolineando come la concessione della personalità giuridica non dipenda dalla sola volontà delle parti, ma da un provvedimento amministrativo formale. Inoltre, è frequente l’intervento della Cassazione nei casi in cui si discute della responsabilità personale degli amministratori di associazioni non riconosciute, specie in caso di obbligazioni contratte in nome dell’ente.

 

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giurista risponde

Azione diretta del terzo trasportato: presupposti In caso di risarcimento corrisposto al terzo trasportato, a norma dell’art. 141 D.Lgs. 209/2005 ai fini dell’esatta proposizione della successiva azione di rivalsa da parte dell’impresa assicuratrice del vettore è necessaria la corresponsabilità di almeno due veicoli e la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

La liquidazione del danno da parte dell’assicuratore del vettore prescinde da ogni accertamento sulla responsabilità dei conducenti dei mezzi (almeno due) coinvolti nel sinistro, avendo funzione di massima tutela per il trasportato, né potendo consistere il caso fortuito nel fattore umano riferibile all’altro conducente. Inoltre, l’art. 141 cod. ass. può operare anche nelle ipotesi in cui il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, in quanto la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada (Cass., sez. III, ord. 7 febbraio 2025, n. 3118 – Azione diretta del terzo trasportato).

Nel caso di specie, la sez. III, a distanza di pochi anni dalla leading case delle Sezioni Unite, torna nuovamente a statuire in materia di azione diretta promossa (L’azione diretta del terzo trasportato a seguito di sinistro stradale) dal terzo trasportato all’indirizzo impresa assicuratrice, nonché sul successivo diritto di rivalsa di quest’ultima nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile.

La vicenda processuale sottesa alla pronuncia in esergo prende le mosse dalla richiesta di liquidazione del danno avanzata da un soggetto terza trasportata su un motociclo nei confronti della società assicuratrice del veicolo. Dopo aver provveduto all’erogazione delle somme come sopra richieste, l’impresa designata citava in giudizio l’impresa di assicurazione del responsabile civile, al fine di esercitare, a mente dell’art. 141, comma 1 C.d.a, il proprio diritto di rivalsa alla restituzione del quantum corrisposto.

Nel corso dei giudizi di merito la domanda attorea veniva rigettata in ragione della constatata assenza dei presupposti fondanti l’azione giudiziaria, ex art. 141 c.d.a.: la presenza di una corresponsabilità tra almeno due veicoli; la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile.

Atteso il mancato accoglimento, l’impresa soccombente proponeva ricorso per cassazione.

Per quanto d’interesse in questa sede, la difesa eccepiva la nullità della sentenza impugnata, in quanto la motivazione resa non consentiva di appurare le valutazioni di infondatezza dei motivi di gravame e porgeva il fianco ad un giudizio di illogicità nella parte in cui richiedeva – operando tra l’altro un rinvio a pronunce di legittimità (Cass., sez. III, 13 febbraio 2019, n. 4147) – la necessaria corresponsabilità del vettore, al lume di una lettura della nozione di “caso fortuito” comprensiva anche del fattore umano.

La seconda doglianza, invece, lamentava una violazione e falsa applicazione dell’art. 141, comma 4, in quanto la parte motiva della sentenza impugnata ne escludeva l’applicazione nell’ipotesi, come quella oggetto di giudizio, in cui era stata accertata l’inesistenza di un contratto di assicurazione con il responsabile civile, con ciò generando una ingiustificata disparità di trattamento.

Investita del ricorso, la sez. III ha accolto le eccezioni di parte cogliendo, al contempo, l’occasione per sagomare i confini operativi dell’azione diretta prevista dall’art. 141 cit.

Nell’esercitare la propria funzione nomofilattica, i giudici di Piazza Cavour hanno consolidato l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla medesima Corte nella sua più alta composizione (Cass., Sez. Un., 30 novembre 2022, n. 35318), che, superando quello fatto proprio dai giudici di merito, ha precisato che l’art. 141 va letto in maniera unitaria e alla luce della sua ratio. In linea con il designato percorso ermeneutico, l’azione diretta in favore del terzo danneggiato si pone come aggiuntiva rispetto alle altre azioni previste dall’ordinamento e mira ad assicurare una tutela rafforzata, assegnandogli un debitore certo nonché facilmente individuabile e, soprattutto, consentendogli di essere indennizzato senza dover svolgere dispendiose ricerche per stabilire a quale dei conducenti coinvolti, e in quale misura, la responsabilità è addebitabile.

Valorizzando il dato letterale, non residuano margini di incertezza in ordine alla circostanza che il meccanismo designato dall’art. 141 cod. ass. presuppone che nel sinistro siano rimasti coinvolti almeno due veicoli (rectius due imprese assicuratrici), pur non essendo necessario che si sia verificato uno scontro materiale fra gli stessi; quella del vettore provvede ad erogare il risarcimento al trasportato danneggiato, sulla base di un accertamento circoscritto all’esistenza e all’entità del danno causalmente correlato al sinistro, salvo poi rivalersi in tutto o in parte nei confronti della diversa compagnia assicuratrice del responsabile civile, previo accertamento delle responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti.

In pratica, per l’accesso all’azione diretta il trasportato ha l’onere di allegare il coinvolgimento di due conducenti e di due imprese, pena il rischio di una lettura “abrogativa” della norma.

Mutatis mutandis, in caso di coinvolgimento di un unico veicolo, l’azione esperibile è esclusivamente quella prevista dall’art. 144 cod. ass., da esercitarsi nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile.

Quanto alla nozione di caso fortuito, viene nuovamente chiarito che è la stessa disposizione in commento che ne esclude una portata applicativa idonea a ricomprendere il fattore umano riferito all’altro conducente, dovendosi intendere circoscritto alle cause naturali e ai danni causati da condotte umane indipendenti dalla circolazione di altri veicoli.

Per quanto attiene alla seconda doglianza, l’ordinanza ribadisce l’altro principio espresso dalla richiamata sentenza pilota della Cassazione, a tenore del quale laddove il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, nei limiti quantitativi stabiliti dall’art. 283, commi 2 e 4, del D.Lgs. 209/2005.

La bontà di tale asserzione riposerebbe nella stessa espressione “impresa di assicurazione del responsabile civile” di cui all’art. 141, comma 4, c.d.a., nel cui alveo applicativo non può che rientrare anche l’impresa designata dal FGVS, ove il veicolo dello stesso responsabile sia sprovvisto di copertura assicurativa.

In conformità alle conclusioni rassegnate, la Cassazione – discostandosi dalle motivazioni e dai precedenti giurisprudenziali richiamati dai giudici di merito – ha accolto il ricorso di parte e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi evidenziati in massima.

 

(*Contributo in tema di “L’azione diretta del terzo trasportato ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

sanzione amministrativa pecuniaria

Sanzione amministrativa pecuniaria Sanzione amministrativa pecuniaria: cos'è, importo, pagamento, normativa e sanzioni accessorie

Cos’è la sanzione amministrativa pecuniaria

La sanzione amministrativa pecuniaria è una misura sanzionatoria di natura non penale, irrogata dalla pubblica amministrazione per la violazione di norme dell’ordinamento giuridico che non integrano reato. Si tratta di uno strumento fondamentale per garantire il rispetto della legalità in ambiti come il diritto amministrativo, commerciale, ambientale, fiscale, tributario e della circolazione stradale.

La sanzione amministrativa pecuniaria consiste nel pagamento di una somma di denaro a favore dello Stato o di un altro ente pubblico, previsto per l’inosservanza di obblighi o divieti previsti da leggi, regolamenti o atti amministrativi.

A differenza delle pene pecuniarie penali (come la multa o l’ammenda), la sanzione amministrativa non comporta conseguenze penali, né è iscritta nel casellario giudiziale. Tuttavia, il mancato pagamento può dare luogo a riscossione coattiva e a sanzioni accessorie.

Sanzione amministrativa pecuniaria: normativa di riferimento

La disciplina generale delle sanzioni amministrative è contenuta nella legge 24 novembre 1981, n. 689, intitolata “Modifiche al sistema penale”. Tale legge ha introdotto il principio della depenalizzazione, convertendo molti illeciti penali in illeciti amministrativi.

Le disposizioni di riferimento sono:

  • Art. 1 – Principio di legalità dell’illecito amministrativo.
  • Art. 10 – Determinazione dell’importo della sanzione
  • Art. 14-27 – Procedimento sanzionatorio (accertamento, notificazione, ricorso, pagamento).
  • Art. 16 – Pagamento in misura ridotta.

A tali norme si affiancano disposizioni settoriali, ad esempio nel Codice della strada (D.lgs. n. 285/1992), nel Codice dell’ambiente (D.lgs. n. 152/2006), nel Codice della privacy (D.lgs. n. 196/2003 e Regolamento UE 2016/679).

Importo della sanzione e criteri di determinazione

L’importo della sanzione amministrativa pecuniaria è stabilito dalla norma che prevede l’illecito e deve rispettare i limiti minimo e massimo indicati. In assenza di specificazioni, il giudice o l’autorità competente applicano la sanzione in base a criteri di proporzionalità, tenendo conto:

  • della gravità della violazione;
  • dell’intenzionalità o colpa dell’autore;
  • della capacità economica del trasgressore;
  • di eventuali circostanze aggravanti o attenuanti.

Il pagamento in misura ridotta, previsto dall’art. 16 della legge n. 689/1981, consente all’autore dell’illecito di estinguere la violazione versando entro 60 giorni dalla notifica una somma pari al  terzo del massimo edittale, se più favorevole una somma pari al doppio minimo edittale.

Tipologie di sanzioni amministrative 

Le sanzioni amministrative possono essere:

  • pecuniarie: sono le più comuni e prevedono il pagamento di una somma di denaro;
  • accessorie: si aggiungono a quella principale e possono consistere:
    • nella sospensione o revoca di autorizzazioni o licenze;
    • nella confisca dei beni (es. nel caso di strumenti usati per commettere l’illecito);
    • nella chiusura temporanea o definitiva dell’attività;
    • nella inibizione temporanea a contrattare con la pubblica amministrazione.

Queste sanzioni accessorie sono particolarmente rilevanti nel diritto ambientale, sanitario e societario.

Pagamento e riscossione della sanzione amministrativa pecuniaria

Il pagamento della sanzione può avvenire:

  • in misura ridotta, nei termini previsti;
  • dopo l’irrogazione dell’ordinanza ingiunzione, qualora il soggetto non adempia o non presenti opposizione.

Il mancato pagamento determina l’avvio della riscossione coattiva da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, mediante cartella esattoriale o ingiunzione fiscale.

In caso di opposizione, il trasgressore può proporre ricorso al giudice di pace o al giudice amministrativo, a seconda della natura della sanzione e dell’autorità che l’ha irrogata.

Sanzioni amministrative pecuniarie nel GDPR e nelle normative europee

Con l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), le sanzioni pecuniarie amministrative in materia di privacy hanno acquisito una rilevanza crescente. Il Garante per la protezione dei dati personali può irrogare sanzioni fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato annuo globale, nei casi più gravi.

Anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), la Consob, l’IVASS e altre autorità indipendenti possono applicare sanzioni amministrative di elevato impatto.

Considerazioni conclusive

La sanzione amministrativa pecuniaria è uno strumento efficace e flessibile per sanzionare comportamenti illeciti non penali, garantendo un equilibrio tra deterrenza e celerità procedurale. La sua applicazione è vincolata a criteri di proporzionalità e legalità, e può comportare, nei casi più gravi, anche sanzioni accessorie di tipo interdittivo o patrimoniale. Conoscere il funzionamento delle sanzioni amministrative è essenziale per cittadini, imprese e professionisti, soprattutto in settori altamente regolamentati come il commercio, la sicurezza, l’ambiente e la privacy.

 

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check-out da remoto

Check out da remoto per le strutture ricettive Check out da remoto per le strutture ricettive, l'identificazione "de visu" contrasta con la riduzione degli adempimenti amministrativi

Check out da remoto per le strutture ricettive

Torna il check out da remoto per le strutture ricettive. La sentenza n. 10210/2025 del TAR Lazio boccia la circolare del Ministero dell’Interno del 18 novembre 2024 che imponeva agli operatori turistici l’identificazione di persona (“de visu”) degli ospiti. La norma, che mirava a prevenire rischi per la sicurezza pubblica, di fatto precludeva le procedure di check-in a distanza. Con questa decisione, si riapre la strada alle modalità di registrazione a distanza.

Check out da remoto: no a identificazione de visu

Un’associazione rappresentativa del settore ricettivo extralberghiero italiano ricorre al TAR del Lazio contro la circolare del Ministero dell’Interno, datata 18 novembre 2024, protocollo 0038138. Il documento impone ai gestori di strutture ricettive l’obbligo di identificare di persona gli ospiti, ritenendo non conformi all’articolo 109 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) le procedure di check-in da remoto, considerate potenzialmente pregiudizievoli per la sicurezza collettiva.

L’associazione solleva diverse doglianze contro la circolare. La più importante da segnalare  però è quella in cui la ricorrente sostiene che la circolare si ponga in conflitto con la riforma del 2011 dell’articolo 109 TULPS, che aveva eliminato l’obbligo per i gestori di raccogliere le generalità degli alloggiati “de visu” e di far firmare le schede agli ospiti. Da tale riforma, l’obbligo si era ridotto al solo accertamento che gli alloggiati fossero muniti di un documento d’identità e alla comunicazione delle generalità alle Questure tramite il portale “Alloggiati web”. Tali obblighi erano stati estesi nel 2018 anche ai locatori di immobili per brevi periodi. La circolare pertanto, con la reintroduzione dell’identificazione “de visu”, aggraverebbe nuovamente gli adempimenti a carico dei gestori, contravvenendo allo spirito della riforma del 2011 che mirava a ridurli. La ricorrente argomenta inoltre che l’identificazione “de visu” non sarebbe idonea a raggiungere l’obiettivo di sicurezza pubblica, poiché non eliminerebbe il rischio che l’alloggiato, dopo l’identificazione, possa cedere le chiavi a un soggetto non identificato.

Identificazione “de visu” in contrasto

Il TAR precisa prima di tutto che la circolare impugnata, non ha un valore meramente interpretativo, ma introduce un “obbligo” concreto e immediatamente lesivo per i gestori. La stessa pertanto è in effetti direttamente impugnabile, non essendo necessario un provvedimento applicativo. Nel merito invece il TAR annulla il provvedimento impugnato.

L’obbligo di identificazione “de visu” si pone in effetti, come affermato dalla ricorrente, in contrasto con la riduzione degli adempimenti amministrativi introdotta dal D.L. n. 201/2011 e dalla modifica dell’articolo 109 TULPS. La circolare, infatti, ha ripristinato un onere che la legge aveva inteso eliminare, ignorando la modifica legislativa. Il TAR ritiene inoltre che l’identificazione “de visu” non sia di per sé in grado di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica. Come evidenziato nel ricorso, essa non impedisce che l’alloggio possa essere successivamente utilizzato da soggetti non identificati. Il Ministero, inoltre, non ha specificato per quale ragione strumenti alternativi (come la verifica da remoto) non sarebbero sufficienti a raggiungere il medesimo obiettivo con minore pregiudizio per i destinatari, in palese violazione del principio di proporzionalità. Per queste e per altre ragioni il TAR ritiene che la circolare sia viziata e quindi la annulla.

 

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Referendum lavoro

Referendum lavoro e cittadinanza 8-9 giugno: la guida Se dovessero passare i 5 quesiti referendari del referendum lavoro e cittadinanza i lavoratori avrebbero più diritti e più tutele. Guida ai referendum dell'8-9 giugno 2025

Referendum lavoro e cittadinanza

Referendum lavoro e cittadinanza: più diritti e tutele garantiti ai lavoratori. Questo promettono i cinque quesiti referendari pubblicati il 31 marzo 2025, in Gazzetta Ufficiale che riguardano il diritto del lavoro e la cittadinanza. I cittadini voteranno l’8 e il 9 giugno 2025.

Come si vota

Le votazioni si svolgeranno domenica 8 giugno dalle 7.00 alle 23.00 e lunedì 9 giugno dalle 7.00 alle 15.00.

Queste le modalità di voto:

  • cittadini residenti: devono recarsi presso il seggio sito nel luogo di residenza portando tessera elettorale e commento di identità;
  • cittadini italiani residenti all’estero: possono votare per corrispondenza dopo aver ricevuto l’apposito plico;
  • cittadini italiani domiciliati temporaneamente all’estero per tre mesi: possono votare per corrispondenza previo invio di apposita dichiarazione al Comune di residenza e avendo cura di indicare il domicilio temporaneo e il consolato di riferimento;
  • cittadini fuori sede: che si trovano in una provincia diversa da quella di residenza possono votare nel comune in cui si trovano se vi hanno acquisto il domicilio da tre mesi (decorrenti dalla data fissata per il referendum). Prima però devono presentare al comune in cui si hanno il domicilio apposita dichiarazione (35 giorni prima delle votazioni), producendo la tessera elettorale, il documento di identità e la certificazione attestante la condizione di fuori sede.

Referendum: funzionamento

Il cittadino elettore che si recherà al seggio riceverà 5 schede, una per ogni quesito. Su ogni scheda il cittadino avrà la possibilità di esprimere la propria preferenza di voto apponendo un X sul si, se desidera abrogare la legge indicata nel quesito, o apponendo una X sul no se desidera non cambiare il quadro normativo.

Il referendum è valido se viene raggiunto il quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto.

Vediamo ora cosa prevedono i quesiti: i primi quattro affrontano il tema del lavoro, il quinto invece riguarda la cittadinanza italiana.

Quesito 1 – Licenziamento illegittimo e reintegra

Il primo quesito propone di abrogare le disposizioni del Jobs Act (D. Lgs. 23/2015), che riguarda le tutele crescenti. Oggi i lavoratori impiegati nella aziende con più di 15 dipendenti che sono stati assunti dopo il 7 marzo 2015 non possono ottenere la reintegra anche se licenziati ingiustamente. Il referendum vuole eliminare questa disparità.

Quesito 2 – Tutele lavoratori piccole imprese

Il secondo quesito mira a rimuovere il tetto massimo delle mensilità di indennizzo per i licenziamenti illegittimi:

  • nelle aziende con meno di 15 dipendenti l’indennizzo massimo è di sei mensilità;
  • nelle imprese con + di 15 dipendenti l’indennizzo è di 10 mensilità se il lavoratore ha 10 anni di anzianità, di 14 mensilità se il lavoratore da più di 20 anni di anzianità.

Anche se un giudice riconosce l’illegittimità del licenziamento, il risarcimento è comunque limitato. La proposta referendaria vuole affidare al giudice la valutazione del risarcimento, caso per caso, secondo criteri di equità.

Quesito 3 – Contratti a termine e precarietà

Il terzo quesito punta a combattere la precarietà. Oggi si può stipulare un contratto a tempo determinato per 12 mesi senza causale. Il referendum vuole reintrodurre l’obbligo di indicare una motivazione per questi contratti, così da favorire l’assunzione stabile e limitare l’uso strumentale del lavoro precario.

Quesito 4 – Sicurezza negli appalti

Il quarto quesito interviene sulla responsabilità in caso di incidenti sul lavoro. Attualmente il committente, l’appaltatore e il subappaltatore non sono responsabili in via solidale in caso di infortunio del lavoratore della ditta appaltatrice o subappaltatrice per danni causati da rischi specifici dell’attività.

L’abrogazione della norma comporterebbe l’estensione della responsabilità per infortuni sul lavoro a tutti i soggetti coinvolti.

Quesito 5 – Cittadinanza

Il quinto quesito propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza richiesto per ottenere la cittadinanza italiana da parte di cittadini stranieri maggiorenni.

 

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Codice dei contratti pubblici

Codice dei contratti pubblici e soglia di anomalia: salva l’invarianza La Consulta ha rigettato le questioni di legittimità sollevate sull'art. 108, comma 12, del nuovo Codice dei contratti pubblici

Codice dei contratti pubblici: l’intervento della Consulta

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 77 del 2025, ha rigettato le questioni di legittimità sollevate sull’art. 108, comma 12, del D.lgs. n. 36/2023 (nuovo Codice dei contratti pubblici), confermando la legittimità della norma che consente l’applicazione del principio di invarianza della soglia di anomalia anche in presenza di inversione procedimentale.

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La questione era stata sollevata nel contesto di un ricorso proposto al TAR Campania in merito a una procedura di gara aggiudicata secondo il criterio del minor prezzo, nella quale era stata utilizzata l’inversione procedimentale, disciplinata dall’art. 107, comma 3, del Codice. In tale modello procedurale, l’analisi delle offerte economiche precede la verifica del possesso dei requisiti da parte degli operatori economici.

Nel caso concreto, l’amministrazione aveva applicato due volte il calcolo della soglia di anomalia: la prima dopo l’apertura delle offerte economiche e, successivamente, in seguito all’esclusione di taluni concorrenti per documentazione irregolare. Secondo i ricorrenti, questa dinamica violerebbe i principi costituzionali di buon andamento, eguaglianza e libertà di iniziativa economica.

La decisione della Consulta

La Corte ha invece ritenuto infondate tali censure. In particolare, ha precisato che il mantenimento della possibilità di ricalcolare la soglia di anomalia fino all’aggiudicazione definitiva, anche in presenza di inversione procedimentale, non lede il principio di buon andamento dell’amministrazione. Al contrario, garantisce che la graduatoria finale si basi solo su offerte presentate da operatori in possesso dei requisiti, evitando che l’aggiudicazione venga congelata su presupposti ormai superati.

Quanto alla presunta violazione degli altri principi costituzionali, la Corte ha ricordato che le stazioni appaltanti devono predisporre meccanismi idonei a salvaguardare la par condicio tra i partecipanti, come ad esempio il sorteggio per la verifica dei requisiti. Inoltre, eventuali comportamenti collusivi sono già sanzionati dalle normative in materia di concorrenza e penale.

In sintesi, la pronuncia conferma che la disciplina attuale, pur ammettendo l’inversione procedimentale, tutela l’efficienza dell’azione amministrativa e la regolarità della gara, attraverso un corretto bilanciamento tra esigenze di rapidità e garanzie di trasparenza e legalità.

incarichi extra-forensi

Avvocati e incarichi extra-forensi: i “paletti” del CNF Il CNF chiarisce che gli incarichi extra-forensi, ad esempio in associazioni culturali, sono compatibili con la professione, purché nel rispetto delle regole deontologiche

Avvocati e incarichi extra-forensi: compatibilità

Incarichi extra-forensi: il Consiglio nazionale forense, con il parere n. 6 del 13 marzo 2025, pubblicato il 26 maggio sul sito dedicato al Codice deontologico, ha chiarito la compatibilità tra l’esercizio della professione forense e lo svolgimento dell’incarico di Segretario di un’associazione non riconosciuta e senza scopo di lucro, operante nei settori della sicurezza, intelligence, cyber e intelligenza artificiale.

Il quesito del COA di Ferrara

Il quesito è stato posto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Ferrara, che ha chiesto se la partecipazione attiva in un’associazione scientifico-culturale, priva di fini commerciali, potesse ritenersi compatibile con l’attività forense. L’associazione oggetto del quesito prevede tra i compiti del Segretario, oltre alle funzioni ordinarie (verbalizzazione, gestione dei libri sociali, archivio e relazioni interne), anche rapporti informativi con soggetti esterni, cura del sito web e organizzazione di eventi coerenti con gli scopi statutari.

Nessuna incompatibilità secondo l’art. 18 l. 247/2012

Il CNF ha risposto positivamente, ritenendo che la situazione descritta non integri una causa di incompatibilità ai sensi dell’art. 18 della legge n. 247/2012, che disciplina le attività non compatibili con l’esercizio della professione forense. In particolare, l’attività indicata può rientrare tra quelle culturali, espressamente escluse dal divieto di incompatibilità dalla lettera a) dell’articolo 18 della legge professionale.

Rispettare comunque i canoni deontologici

Tuttavia, il Consiglio nazionale ha richiamato l’attenzione su un punto fondamentale: anche se l’attività svolta in ambito associativo non è qualificabile come esercizio della professione, l’avvocato è comunque tenuto a rispettare i principi deontologici, evitando condotte che possano configurare pubblicità professionale non conforme o forme di accaparramento di clientela. In altri termini, la partecipazione all’associazione – e le modalità con cui essa viene resa nota – non devono trasformarsi in un mezzo indiretto per promuovere la propria attività professionale in violazione del Codice deontologico.