tetto retributivo

Tetto retributivo nel pubblico impiego: incostituzionale il limite fisso di 240.000 euro La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del tetto retributivo fisso per i dipendenti pubblici. Il limite dovrà tornare a essere parametrato al trattamento del primo presidente della Cassazione

Tetto retributivo nel pubblico impiego

Con la sentenza n. 135 del 2025, la Corte costituzionale ha ribadito che l’introduzione di un tetto retributivo per i dipendenti pubblici non è, in sé, incompatibile con i principi costituzionali. Tuttavia, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge n. 66 del 2014, nella parte in cui prevedeva un limite fisso pari a 240.000 euro lordi annui, invece che rapportarlo al trattamento economico onnicomprensivo spettante al primo presidente della Corte di cassazione.

Il parametro corretto

Il tetto retributivo era stato inizialmente introdotto dal decreto-legge n. 201/2011, come convertito, prevedendo che la soglia massima fosse pari allo stipendio del primo presidente della Corte di cassazione. Con il successivo decreto-legge n. 66/2014, però, tale parametro fu sostituito con una soglia fissa, causando una rilevante decurtazione dei compensi, in particolare per i magistrati.

L’evoluzione normativa e il principio di temporaneità

La norma del 2014, sebbene inizialmente ritenuta compatibile con la Costituzione in quanto misura straordinaria e temporanea, giustificata dal contesto di grave crisi finanziaria, ha perso nel tempo il suo carattere transitorio. Tale perdita di temporaneità ha inciso sulla sua compatibilità costituzionale, anche in considerazione dell’indipendenza della magistratura, tutelata dall’art. 104 della Costituzione.

Conformità ai principi europei e comparati

La pronuncia della Corte costituzionale si inserisce in un contesto più ampio di tutela dei diritti retributivi dei magistrati e dei pubblici dipendenti, in linea con i principi degli ordinamenti costituzionali europei. In particolare, la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 25 febbraio 2025 (grande sezione, cause riunite C-146/23 e C-374/23), ha espresso un orientamento analogo, censurando la riduzione eccessiva e prolungata delle retribuzioni dei magistrati.

Estensione dell’incostituzionalità a tutti i dipendenti pubblici

La Corte ha inoltre sottolineato che l’illegittimità costituzionale della norma ha carattere generale, pertanto deve applicarsi a tutti i dipendenti pubblici, e non solo ai magistrati. Il limite retributivo, quindi, dovrà essere ridefinito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa acquisizione del parere delle Commissioni parlamentari competenti.

Effetti temporali della pronuncia

Trattandosi di una incostituzionalità sopravvenuta, la dichiarazione di illegittimità non avrà effetto retroattivo, ma produrrà effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

fine vita

Fine vita: inammissibili le questioni sull’intervento attivo del terzo La Corte costituzionale dichiara inammissibili le questioni sull’art. 579 c.p. sollevate dal Tribunale di Firenze: manca la motivazione sulla reperibilità dei dispositivi di autosomministrazione

Fine vita, la decisione della Corte costituzionale

Fine vita, la Corte costituzionale, con sentenza n. 132 del 2025, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 579 del codice penale, sollevate dal Tribunale di Firenze in riferimento agli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione. Il giudizio prendeva avvio dal caso di una persona affetta da sclerosi multipla, nelle condizioni previste dalla sentenza n. 242/2019 per accedere al suicidio medicalmente assistito.

Il caso concreto: impossibilità di autosomministrazione

Nel caso esaminato, il soggetto, pur avendo ottenuto la verifica delle condizioni per l’accesso al suicidio assistito, non era in grado di autosomministrare il farmaco a causa della completa perdita dell’uso degli arti e dell’irreperibilità di dispositivi adeguati, come pompe infusionali attivabili con comandi vocali, oculari o orali.

La questione sollevata dal Tribunale di Firenze

Il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), nella parte in cui non esclude la punibilità del terzo che, in presenza delle condizioni per il suicidio medicalmente assistito, esegua materialmente la volontà del malato, impossibilitato all’autosomministrazione per cause fisiche e per l’assenza di strumenti idonei.

La motivazione di inammissibilità

La Corte ha ritenuto inammissibili le questioni, evidenziando che il giudice rimettente non ha adeguatamente motivato circa la reperibilità di dispositivi di autosomministrazione compatibili con lo stato clinico della paziente. L’ordinanza si è limitata a riportare interlocuzioni con l’azienda sanitaria territoriale e ad accogliere il risultato di semplici ricerche di mercato, senza coinvolgere strutture tecnico-scientifiche centrali, come l’Istituto superiore di sanità.

Il ruolo del Servizio sanitario nazionale nel fine vita

Secondo la Corte, se i dispositivi risultassero reperibili in tempi compatibili con lo stato di sofferenza della paziente, questa avrebbe diritto ad avvalersene. La sentenza sottolinea che chi si trovi nelle condizioni previste dalla sentenza n. 242/2019 gode di una situazione giuridica soggettiva tutelata, che comprende l’accompagnamento da parte del Servizio sanitario nazionale.

Un dovere di garanzia per le persone fragili

Il Servizio sanitario nazionale è tenuto a reperire e fornire i dispositivi esistenti per l’autosomministrazione, nonché a garantire il supporto tecnico per il loro utilizzo, nel quadro di un doveroso ruolo di garanzia, specie nei confronti delle persone più fragili.

giurista risponde

Locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale Il comune ha poteri inibitori in materia di locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il comune non ha poteri inibitori in materia di locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale. – Cons. Stato, sez. V, 7 aprile 2025, n. 2928.

In via preliminare, si rileva che la materia del turismo rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni, ferma restando la possibilità di intervento dello Stato nella materia dell’ordinamento civile di sua competenza esclusiva di cui all’art. 117, comma 2, lett. l) Cost., ambito nel quale si colloca la disciplina della libertà contrattuale, rilevante anche con riferimento ai rapporti di locazione turistica e suscettibili di incidere anche sul settore del turismo.

La Sezione evidenzia che l’attività di locazione a fini turistici svolta in forma non imprenditoriale, riconducibile al mero godimento indiretto di beni immobili, non è soggetta alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), di cui all’art. 19 L. 241/1990, ma richiede unicamente una comunicazione di inizio attività (CIA), avente finalità di monitoraggio. Ne consegue che tale attività non può essere assoggettata a poteri prescrittivi o inibitori da parte dell’amministrazione locale.

Dunque, gli immobili destinati alla locazione per finalità turistiche devono essere conformi ai requisiti edilizi e igienico-sanitari previsti dalla normativa primaria e secondaria per le civili abitazioni; tuttavia, l’eventuale difetto di tali requisiti potrà incidere sulla validità o sull’esecuzione del contratto di locazione eventualmente stipulato, ma non legittima l’amministrazione a vietarne la stipula.

 

(*Contributo in tema di “Locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

revoca dimissioni

Revoca delle dimissioni: come annullare la rinuncia al lavoro Hai dato le dimissioni e ci hai ripensato? Scopri come revocare le dimissioni, entro quanto tempo farlo, a chi comunicarlo e quali norme regolano la procedura.

Che cos’è la revoca delle dimissioni

La revoca delle dimissioni è la possibilità riconosciuta al lavoratore di annullare la propria decisione di cessare il rapporto di lavoro, tornando quindi alla condizione originaria. Si tratta di una tutela importante, che consente di rimediare a dimissioni presentate in modo affrettato o in momenti di difficoltà.

Normativa di riferimento

La materia è disciplinata principalmente:

  •  dall’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015, che ha introdotto la procedura telematica obbligatoria per evitare abusi e garantire certezza alla volontà del lavoratore;
  • dalla Circolare Ministero del Lavoro n. 12/2016, che ha chiarito le modalità operative della procedura telematica.

Entro quanto tempo si possono revocare le dimissioni

La legge stabilisce un termine ben preciso: la revoca deve avvenire entro 7 giorni dalla data in cui le dimissioni sono state inviate tramite la procedura telematica.

Questo termine è perentorio: una volta decorso, il recesso diventa definitivo e non potrà più essere ritirato, salvo casi eccezionali (ad esempio dimissioni viziate da dolo o violenza).

Come si revocano le dimissioni

La revoca segue lo stesso iter delle dimissioni: deve essere effettuata esclusivamente online, utilizzando la piattaforma del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Ecco i passaggi principali:

  1. accedere al portale Cliclavoro con SPID, CIE o CNS;
  2. compilare il modulo telematico di revoca delle dimissioni;
  3. confermare e inviare la revoca.
  4. il sistema genera un documento con data e protocollo che certifica l’operazione.

Revoca delle dimissioni: a chi si comunica

La revoca telematica viene trasmessa automaticamente:

  • al datore di lavoro, che riceve notifica ufficiale;
  • alla Ispettorato territoriale del lavoro competente.

Non è quindi necessario inviare ulteriori comunicazioni cartacee o via PEC, salvo casi particolari previsti dal contratto collettivo o accordi aziendali.

Cosa succede dopo la revoca delle dimissioni

Se la revoca è presentata nei termini e in modo corretto, le dimissioni perdono efficacia e il rapporto di lavoro prosegue senza interruzioni. Il datore di lavoro non può opporsi, poiché si tratta di un diritto del lavoratore previsto dalla legge.

Attenzione: se sono già stati presi accordi per l’uscita anticipata o pagato il preavviso sostitutivo, sarà necessario regolare eventuali aspetti economici.

Consigli utili

  • Verifica sempre la data di invio delle dimissioni: i 7 giorni decorrono da quel momento.
  • Utilizza il modulo di revoca ufficiale disponibile sul sito del Ministero del Lavoro;
  • Conserva la ricevuta di avvenuta revoca come prova.
  • In caso di dubbi o problemi, è consigliabile rivolgersi a un consulente del lavoro o al sindacato di categoria.

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aliquote di rendimento

Aliquote di rendimento AAliquote di rendimento: cosa sono, normativa di riferimento, come funzionano, esempio di calcolo e a cosa servono

Cosa sono le aliquote di rendimento

Le aliquote di rendimento sono uno degli elementi chiave per il calcolo della pensione retributiva nel sistema previdenziale italiano. Anche se il metodo retributivo è ormai superato dalla riforma Dini del 1995, le aliquote restano ancora oggi rilevanti per chi ha maturato anzianità contributiva prima del 1996 o in alcune gestioni speciali.

Le aliquote di rendimento sono percentuali fisse utilizzate per calcolare la quota di pensione spettante con il metodo retributivo, cioè sulla base delle ultime retribuzioni percepite e non dei contributi effettivamente versati.

In pratica, a ogni anno di contributi versati fino al 1995 (o fino al 2011 per i “salvaguardati”) corrisponde una determinata aliquota, che va applicata alla retribuzione pensionabile per determinare l’importo della pensione annua lorda.

Le aliquote possono variare in base:

  • alla gestione previdenziale (Fondo lavoratori dipendenti, ex Inpdap, CPDEL, CPI, ecc.);
  • al tipo di rapporto di lavoro (dipendente pubblico, privato, dirigente);
  • alla data di iscrizione al sistema previdenziale;
  • al numero di anni di contribuzione complessivi.

Normativa di riferimento

Le aliquote di rendimento sono disciplinate da una serie di norme stratificate nel tempo. Tra le principali fonti normative si segnalano:

  • Legge n. 153/1969, che contiene la “Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale”;
  • Legge n. 335/1995 (Riforma Dini), che ha avviato il passaggio al sistema contributivo;
  • D.lgs. n. 503/1992, che ha rimodulato l’aliquota annua e i periodi di riferimento;
  • Legge n. 214/2011 (Riforma Fornero), che ha previsto il passaggio definitivo al sistema contributivo dal 2012;
  • Regolamenti specifici per le gestioni ex INPDAP (CPDEL, CPI, CPS, CPUG).

Come funzionano le aliquote di rendimento

Il meccanismo è semplice: per ogni anno di anzianità contributiva maturata prima del 1996 (o entro il 2011 per chi ha diritto al sistema misto), si applica una percentuale di rendimento alla retribuzione pensionabile.

Formula di base:

Quota retributiva annua = Retribuzione pensionabile x Aliquota annua x Anni di contribuzione

Esempio:

  • Retribuzione pensionabile: € 30.000
  • Aliquota annua: 2%
  • Anni di contributi: 40

Pensione annua: 30.000 x 2% x 40 = € 24.000 (80% della retribuzione lorda)

Attenzione: esistono dei limiti massimi all’aliquota cumulata (in genere non oltre l’80% della retribuzione), salvo deroghe specifiche per alcune categorie di lavoratori del pubblico impiego.

Metodo retributivo, contributivo e misto 

Le aliquote di rendimento si applicano solo alle quote calcolate col sistema retributivo, ovvero:

  • Metodo retributivo puro: riservato a chi aveva almeno 18 anni di contributi al 31/12/1995 (non più vigente per i nuovi pensionati);
  • Metodo misto: per chi aveva meno di 18 anni al 31/12/1995. La pensione è calcolata:
    • con il metodo retributivo fino al 31/12/1995;
    • con il metodo contributivo dal 1° gennaio 1996 in avanti.

Dal 2012, tutti i lavoratori sono soggetti al sistema contributivo per le anzianità maturate successivamente.

Rilevanza delle aliquote di rendimento

Le aliquote di rendimento sono utilizzate anche per:

  • calcolare i riscatti di laurea, servizio militare o periodi non coperti da contribuzione, per chi opta per il metodo retributivo;
  • effettuare simulazioni pensionistiche (es. con il servizio INPS “Pensami”);
  • determinare la convenienza tra sistema retributivo, contributivo o misto in caso di opzioni di calcolo.

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reati ostativi

Pene sostitutive escluse per i reati ostativi La Consulta conferma la legittimità dell’esclusione dei condannati per reati ostativi dalle pene sostitutive, ma richiama il dovere costituzionale di garantire condizioni carcerarie rispettose della dignità e della rieducazione

Reati ostativi: legittima l’esclusione dalle pene sostitutive

Con la sentenza n. 139 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’articolo 59 della legge n. 689/1981, come modificata dalla riforma Cartabia. La norma preclude l’applicazione delle pene sostitutive alla detenzione per i soggetti condannati per i cosiddetti reati ostativi, ovvero quelli elencati all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario.

La discrezionalità del legislatore e i limiti della riforma

Secondo la Corte, rientra nella discrezionalità del legislatore decidere quali reati escludere dalle misure alternative alla detenzione, purché la scelta rispetti i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Non è quindi irragionevole, né costituzionalmente censurabile, escludere in via generale l’applicazione delle pene sostitutive per reati di maggiore gravità e allarme sociale, come quelli oggetto dei giudizi da cui è nata la questione: violenza sessuale e pornografia minorile.

La riforma Cartabia e la coerenza con la legge delega

La sentenza chiarisce che il decreto legislativo attuativo della riforma non ha violato i criteri stabiliti dalla legge delega, che prevedeva espressamente il coordinamento con le preclusioni già previste dall’ordinamento penitenziario. Il legislatore ha dunque rispettato il mandato ricevuto dal Parlamento.

Nessuna violazione dell’eguaglianza

La disparità di trattamento denunciata dai rimettenti – tra condannati per reati ostativi e non ostativi – è stata esclusa. Per la Consulta, non si tratta di una discriminazione, poiché la gravità del reato può giustificare un trattamento differenziato in fase esecutiva, anche in relazione all’accesso alle misure alternative al carcere.

La pena resta strumento di rieducazione, ma non solo

Il principio della funzione rieducativa della pena, sancito dall’art. 27, comma 3, della Costituzione, non esclude che essa possa rispondere anche a finalità di prevenzione generale e speciale. Pertanto, l’esecuzione della pena detentiva può risultare legittima anche nei confronti di soggetti non più considerati pericolosi, se ciò risponde a esigenze di tutela sociale.

Il carcere deve restare conforme ai principi costituzionali

La Corte ha tuttavia ribadito che la detenzione deve svolgersi nel rispetto della dignità umana e in condizioni tali da favorire comunque il percorso rieducativo del condannato, indipendentemente dalla tipologia di reato. La compatibilità tra esecuzione penale e diritti fondamentali deve essere sempre garantita, anche in presenza di reati particolarmente gravi.

La riforma penale è un passo avanti, ma graduale

Pur legittimando le scelte del legislatore, la Corte costituzionale ha riconosciuto che l’ampliamento del catalogo delle pene sostitutive introdotto dalla riforma Cartabia costituisce un importante progresso nel rispetto dei principi costituzionali. Le pene alternative – come il lavoro di pubblica utilità, la semilibertà o la detenzione domiciliare – sono più funzionali alla rieducazione del condannato rispetto alla detenzione tradizionale.

Tuttavia, l’estensione dell’accesso a tali misure deve avvenire in modo graduale, partendo dai reati meno gravi e lasciando ai margini quelli che il legislatore considera, con giudizio non arbitrario, maggiormente offensivi.

Il problema strutturale del sistema penitenziario

In conclusione, la Corte ha espresso preoccupazione per lo stato delle carceri italiane, ricordando che il sovraffollamento ostacola gravemente l’attuazione della finalità rieducativa della pena e mina il rispetto dei minimi standard di umanità. L’effettiva conformità dell’esecuzione penale ai principi costituzionali dipende anche dalle condizioni materiali e organizzative del sistema penitenziario.

Spese per cornicioni

Condominio: spese per cornicioni escluse dal riparto del terrazzo La Corte d’appello di Genova chiarisce che le spese per cornicioni e ponteggi non rientrano nel regime di riparto dell’art. 1126 c.c., ma si applica il criterio generale dei millesimi

Cornicioni e ponteggi fuori dal riparto ex art. 1126 c.c.

Spese per cornicioni: la Corte d’appello di Genova, con la sentenza n. 927/2025, ha escluso l’applicazione dell’articolo 1126 del Codice civile alle spese sostenute per il rifacimento di cornicioni aggettanti e ponteggi, precisando che tali elementi non costituiscono parte del lastrico solare ma beni comuni da ripartirsi secondo il criterio generale dei millesimi di proprietà, ai sensi dell’art. 1123 c.c. 

Il contenzioso: terrazzo ad uso esclusivo e spese contestate

Il caso nasce dalla contestazione, da parte di un condomino, della delibera condominiale con cui erano state approvate le spese per il rifacimento del lastrico solare ad uso esclusivo. Il condomino riteneva errato il criterio di riparto utilizzato per il cornicione e i ponteggi, ritenendo che anche queste spese dovessero seguire il regime speciale previsto dall’articolo 1126 c.c.: un terzo a carico dell’utente esclusivo, due terzi a carico degli altri condòmini.

Il condominio, invece, aveva applicato tale criterio solo al lastrico, ritenendo che cornicione e ponteggi non fossero strutturalmente o funzionalmente connessi alla copertura e quindi soggetti al criterio ordinario dell’art. 1123 c.c. 

Il giudizio di primo grado

Il tribunale ha dato ragione all’attore, annullando la delibera. Ha considerato che tutti gli interventi – terrazzo, cornicione e ponteggi – fossero funzionalmente collegati e dovessero quindi essere ricondotti unitariamente al regime di cui all’art. 1126 c.c., trattandosi di un’unica operazione di manutenzione straordinaria su una superficie ad uso esclusivo.

La decisione della Corte d’appello: criteri da distinguere

La Corte di Appello di Genova, investita dell’impugnazione, ha parzialmente riformato la sentenza. Ha riconosciuto che il cornicione aggettante è un elemento architettonico autonomo con funzione decorativa e protettiva delle facciate, qualificabile come parte comune ex art. 1117 c.c..

Di conseguenza, anche i ponteggi necessari per il suo rifacimento non possono essere ricondotti alla funzione di copertura del terrazzo, né considerati accessori a quest’ultimo in senso stretto. Pertanto, per entrambi gli interventi si applica il criterio proporzionale di cui all’art. 1123 c.c.

Ponteggi: uso misto non modifica la regola

Il fatto che i ponteggi possano aver agevolato anche i lavori sul terrazzo non è sufficiente per modificarne il regime di riparto. L’uso promiscuo non li trasforma in elementi funzionali al lastrico: resta prevalente la loro connessione diretta al rifacimento del cornicione, che ha una natura diversa rispetto al terrazzo.

Riparto differenziato in base alla funzione

Secondo la Corte, non è corretto applicare automaticamente l’art. 1126 c.c. a tutte le opere contestuali al rifacimento di una terrazza. È necessario valutare la funzione specifica di ogni elemento, distinguendo quelli strutturalmente o funzionalmente connessi alla copertura (che rientrano nel riparto speciale) da quelli comuni e autonomi, per i quali resta fermo il criterio generale dei millesimi di proprietà.

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Spese processuali

Spese processuali: niente compensazione se la giurisprudenza è chiara La Cassazione ribadisce: non si possono compensare le spese processuali se l’incertezza giurisprudenziale è già stata risolta da tempo. Accolto il ricorso di un cittadino contro la Regione Lazio

Stop alla compensazione automatica delle spese

Spese processuali: con l’ordinanza n. 21421/2025, la Corte di Cassazione ha chiarito che non può essere giustificata la compensazione delle spese di lite se al momento dell’introduzione del giudizio la questione giuridica era stata definitivamente risolta dalla giurisprudenza, in particolare dalle Sezioni Unite.

Il caso

Il giudizio trae origine da una controversia tra un cittadino e la Regione Lazio in materia di tasse automobilistiche, per importi superiori a 4.000 euro. Il contribuente aveva ottenuto l’annullamento dell’estratto di ruolo davanti alla Commissione tributaria provinciale (C.T.P.) di Roma, ma le spese processuali erano state compensate.

Tale decisione è stata confermata anche dalla Commissione tributaria regionale, che ha giustificato la compensazione sulla base dell’art. 15 del d.lgs. n. 546/1992, ritenendo sussistenti “gravi ed eccezionali ragioni” derivanti dall’oscillante orientamento giurisprudenziale e dalla successiva modifica legislativa dell’art. 3-bis del d.l. n. 146/2021.

Il ricorso e la posizione della Cassazione

Il contribuente ha impugnato la decisione ritenendo infondata l’argomentazione sull’incertezza giurisprudenziale, poiché già tre anni prima dell’inizio del giudizio era intervenuta una sentenza delle Sezioni Unite (n. 20425/2017) che aveva risolto definitivamente la questione.

La Sezione tributaria della Cassazione, richiamando anche il precedente n. 6901/2025, ha accolto il ricorso. Ha ritenuto erroneo il richiamo all’incertezza interpretativa, affermando che essa può giustificare la compensazione solo se esistente al momento dell’introduzione della causa.

Nessuna compensazione per incertezze superate

Secondo la Suprema Corte, non è legittimo richiamare un orientamento oscillante quando la giurisprudenza si è già consolidata, e in particolare quando una sentenza delle Sezioni Unite ha chiarito la questione in modo definitivo.

In tal caso, l’interpretazione della C.T.R., che ha ritenuto sussistente una causa eccezionale di compensazione, viola l’art. 15 del d.lgs. 546/1992, in quanto non si può derogare al principio di soccombenza sulla base di un’incertezza che non esiste più al momento della lite.

Novità legislative non rilevanti ai fini della compensazione

La Corte ha infine escluso che l’introduzione di norme sopravvenute, come l’art. 3-bis del d.l. 146/2021, possa costituire fondamento per la compensazione. Una modifica legislativa posteriore alla causa, infatti, non incide sulla valutazione della condotta processuale delle parti, né può essere considerata incertezza giurisprudenziale, trattandosi di volontà del legislatore e non del giudice.

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bonus continuità docenti

Bonus continuità docenti Bonus continuità docenti: cos’è a chi è destinato, requisiti di accesso, importo e criteri di ripartizione delle risorse stanziate

Cos’è il bonus continuità docenti

Il “Bonus continuità docenti” è un incentivo economico, introdotto dal Decreto Ministeriale n. 242/2024, destinato agli insegnanti di ruolo in Italia.

Il decreto attua uno degli obiettivi del PNRR, che prevede “la valorizzazione del personale docente che presta servizio in zone caratterizzate da rischio di spopolamento e da valori degli indicatori di status sociale, economico e culturale e di dispersione scolastica.”

L’obiettivo della misura infatti è quello di premiare i docenti che assicurano stabilità e continuità didattica nella stessa scuola, riconoscendo il valore di un legame duraturo con l’istituto, cruciale per la crescita e il benessere degli studenti, specialmente quelli con esigenze particolari.

Bonus continuità docenti: requisiti di accesso

Per ottenere il bonus i docenti devono soddisfare requisiti specifici:

  • aver prestato servizio nella stessa scuola per almeno tre anni consecutivi (dal 2021/2022 al 2023/2024) senza aver richiesto trasferimenti o assegnazioni temporanee;
  • aver accumulato un minimo di 480 giorni di servizio complessivi presso lo stesso istituto nel triennio considerato. Sono inclusi anche i docenti rientrati nell’istituto di riferimento dopo un trasferimento temporaneo per mancata assegnazione di posto.

Importo e ripartizione del fondo

L’importo del bonus, da 200 a 500 euro, varia a seconda della scuola, in quanto il fondo totale stanziato per il 2023 è di 30 milioni di euro e viene ripartito in base a criteri come l’Indice ESCs (status socio-economico-culturale), il tasso di dispersione scolastica, la presenza di alunni stranieri e il turnover del personale docente.

Le scuole con maggiori difficoltà o instabilità ricevono una quota maggiore. Solo gli istituti che hanno raggiunto un punteggio minimo di 47 punti nella valutazione annuale del Ministero dell’Istruzione e del Merito hanno diritto a partecipare.

L’importo specifico per ciascun istituto è consultabile tramite un allegato ufficiale.

La distribuzione definitiva del bonus ai singoli docenti è poi definita tramite contrattazione d’istituto, che coinvolge il personale scolastico e i sindacati.

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stalking

Stalking: se il reato connesso diventa a querela, cambia la procedibilità La Corte costituzionale dichiara illegittima la norma che manteneva d’ufficio gli atti persecutori connessi a un danneggiamento divenuto procedibile a querela

Stalking e riforma Cartabia: torna la procedibilità a querela

Con la sentenza n. 123/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima una norma contenuta nel decreto “correttivo” della riforma Cartabia, nella parte in cui impediva che la modifica del regime di procedibilità del reato di danneggiamento si riflettesse su quello degli atti persecutori a esso connessi.

Danneggiamento e stalking con remissione della querela

Il caso oggetto del giudizio prende avvio da un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona, nel quale un imputato era accusato di atti persecutori (minacce e insulti reiterati) e, in aggiunta, del danneggiamento dell’auto della persona offesa – nello specifico, la rottura dei tergicristalli.

In origine, il danneggiamento su cose esposte alla pubblica fede era procedibile d’ufficio, rendendo tale anche il reato connesso di stalking. Tuttavia, la persona offesa aveva presentato e poi rimesso la querela, ma il giudice non poteva dichiarare l’estinzione del reato a causa della norma sopravvenuta che manteneva gli atti persecutori procedibili d’ufficio anche dopo la riforma.

La riforma Cartabia e il correttivo del 2024

Nel 2024, il decreto correttivo alla riforma Cartabia ha modificato la procedibilità del danneggiamento su cose esposte alla pubblica fede, rendendolo procedibile a querela. Tuttavia, una norma inserita nel decreto stabiliva che tale modifica non si estendesse ai delitti connessi, come gli atti persecutori, che continuavano a rimanere procedibili d’ufficio.

La violazione del principio di retroattività favorevole

La Corte costituzionale ha ritenuto che questa norma rappresenti una deroga ingiustificata al principio di retroattività della legge penale più favorevole, tutelato dall’art. 3 della Costituzione e riconosciuto a livello di diritto internazionale dei diritti umani.

In mancanza della deroga, ha spiegato la Corte, la modifica del regime del reato connesso avrebbe comportato il ritorno alla procedibilità a querela anche per lo stalking, come previsto dalla regola generale.

Incostituzionale la norma che cristallizza il regime d’ufficio

Secondo la Consulta, mancano valide ragioni giustificative per escludere la retroattività favorevole in questo caso. La norma impugnata è quindi costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede la procedibilità d’ufficio per gli atti persecutori connessi al danneggiamento, nonostante la sopravvenuta querelabilità di quest’ultimo.