aggredire il capotreno

Aggredire il capotreno è reato di resistenza a pubblico ufficiale Aggredire il capotreno configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 20125/2025

La qualifica di pubblico ufficiale

Aggredire il capotreno è reato. Con la sentenza n. 20125/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che il capotreno, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, riveste la qualifica di pubblico ufficiale. La decisione trae origine da un episodio in cui un passeggero, giunto il treno a fine corsa, ha rifiutato di scendere e ha aggredito il capotreno e il macchinista con calci e pugni.

La difesa aveva contestato la qualifica di pubblico ufficiale, sostenendo che l’attività svolta dal capotreno – limitata alla verifica del termine della corsa – fosse di natura interna e priva di rilievo pubblicistico. La Suprema Corte ha però escluso tale interpretazione.

Poteri autoritativi anche senza coercizione

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “potere autoritativo” non si esaurisce nelle sole attività coercitive, ma comprende ogni attività che implichi l’esercizio di una potestà pubblica in forma discrezionale. Il soggetto che si trova destinatario di tale potere assume una posizione non paritetica, ovvero non è sullo stesso piano dell’autorità che lo esercita.

In questo contesto, anche se esercitata da personale appartenente a una società per azioni – come Trenitalia S.p.A. – l’attività può essere qualificata come pubblicistica se regolata da norme di diritto pubblico e finalizzata alla tutela di interessi generali, come la sicurezza dei viaggiatori.

La funzione pubblica del capotreno

Nel caso di specie, il capotreno, giunto a fine corsa, ha invitato il passeggero a lasciare il convoglio. L’aggressione è avvenuta in risposta a tale invito. Secondo la Corte, il controllo effettuato in quel momento rientrava pienamente nei compiti di sicurezza e ordine pubblico previsti dal D.P.R. n. 753/1980, che impone ai viaggiatori il rispetto delle disposizioni impartite dal personale ferroviario per la regolarità e sicurezza del servizio.

La normativa affida al personale ferroviario poteri accertativi e certificativi, anche in assenza delle forze dell’ordine, in merito a condotte rilevanti ai fini sanzionatori. Ne consegue che il comportamento del capotreno – diretto a garantire la sicurezza dei passeggeri e la regolare chiusura del servizio – ha natura pubblicistica.

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 337 c.p., ritenendo legittima la qualifica di pubblico ufficiale attribuita al capotreno. È stata dunque respinta la tesi difensiva secondo cui la funzione esercitata sarebbe stata priva di rilievo pubblicistico.

Il ricorso è stato rigettato e l’imputato condannato anche al pagamento delle spese processuali.

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mantenimento dei figli maggiorenni

Mantenimento dei figli maggiorenni: il parziale adempimento è reato La Cassazione chiarisce che l'adempimento parziale dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni è reato

Omesso mantenimento figli maggiorenni reato

Con la sentenza n. 15264/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato un tema di rilievo in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570, comma 2, n. 2, c.p., chiarendo un punto controverso riguardante il mantenimento dei figli maggiorenni.

La Corte ha statuito che l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento non esclude la responsabilità penale, neppure quando i figli beneficiari siano divenuti maggiorenni, salvo che non sia comprovato uno stato di necessità, la cui valutazione, tuttavia, segue criteri diversi rispetto ai casi in cui il mantenuto sia minorenne.

Il fatto

Il procedimento trae origine dalla condanna inflitta a un padre per omesso versamento dell’assegno di mantenimento in favore della figlia, divenuta nel frattempo maggiorenne ma ancora non economicamente autosufficiente, in quanto impegnata in un regolare corso di studi universitari.

L’uomo si era difeso sostenendo di aver eseguito solo versamenti parziali a causa di gravi difficoltà economiche, legate alla perdita del lavoro e alla sopravvenienza di nuovi oneri familiari. Aveva quindi chiesto l’assoluzione per carenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando lo stato di necessità.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Corte ha confermato la condanna e ha affermato un principio di diritto destinato ad orientare futuri giudizi in casi analoghi:

“In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento in favore del figlio maggiorenne non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., anche se la condotta è determinata da difficoltà economiche, salvo che queste integrino un vero e proprio stato di necessità penalmente rilevante.”

In sostanza, non basta addurre genericamente problemi economici per escludere la punibilità, se i versamenti sono stati inferiori a quanto stabilito dal giudice. La Corte distingue chiaramente tra:

  • Figli minorenni, per i quali il giustificato stato di necessità può escludere l’elemento soggettivo del reato, purché provato.
  • Figli maggiorenni non autosufficienti, per i quali il debitore deve dimostrare compiutamente che l’inadempimento era assolutamente inevitabile, non potendo in alcun modo adempiere.

Le motivazioni

La Corte richiama precedenti conformi e ribadisce che il mantenimento è un obbligo legale, non una prestazione facoltativa, e che la maggiore età del figlio non lo fa venir meno, se il beneficiario non ha ancora raggiunto una indipendenza economica. Come precisato in motivazione:

“La responsabilità genitoriale non si esaurisce con il compimento del diciottesimo anno di età, ma persiste in relazione alle condizioni oggettive del figlio. Il debitore non può arbitrariamente ridurre quanto dovuto, né invocare mere difficoltà finanziarie senza dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiere.”

Il parziale adempimento, se volontario e non accompagnato da iniziative giudiziali per la modifica dell’importo (es. ricorso ex art. 710 c.p.c.), non ha effetto scriminante, ma anzi può integrare gli estremi del reato se produce una situazione di effettiva privazione per il figlio.

Figlio maggiorenne e autosufficienza

Un altro passaggio chiave della sentenza riguarda la condizione del figlio:

“L’obbligo di mantenimento permane finché il figlio non abbia raggiunto una effettiva e stabile indipendenza economica. L’onere della prova su tale condizione spetta al genitore obbligato.”

Nel caso concreto, la figlia risultava ancora iscritta all’università, priva di redditi, e residente con la madre. L’uomo, pur lavorando saltuariamente, non aveva dimostrato di trovarsi in stato di indigenza assoluta né aveva attivato strumenti legali per modificare il quantum dovuto.

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scale condominiali

Scale condominiali Scale condominiali: bene comune, normativa civilistica di riferimento e regole per la ripartizione delle spese

Cosa si intende per scale condominiali

Le scale condominiali rappresentano uno degli elementi architettonici essenziali negli edifici condominiali. Oltre alla loro funzione pratica, costituiscono un tipico bene comune e sono disciplinate in modo puntuale dalla normativa civilistica.

Bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Ai sensi dell’art. 1117 del codice civile, le scale rientrano tra le parti comuni dell’edificio, in quanto strumentali all’uso comune. In particolare, l’articolo elenca tra i beni comuni: “… le scale, i vestiboli, gli anditi, i portici e i cortili, nonché i locali per il servizio comune.” Di conseguenza, tutti i condomini – anche quelli che non le utilizzano direttamente – sono comproprietari delle scale, salvo diversa indicazione nel titolo (es. regolamento contrattuale).

Normativa di riferimento: art. 1124 del codice civile

L’art. 1124 c.c. disciplina nello specifico la ripartizione delle spese per la manutenzione e il rifacimento delle scale e degli ascensori, introducendo un criterio misto:

  • 50% delle spese va ripartito in base al valore millesimale dell’unità immobiliare (ex art. 68 disp. att. c.c.);
  • 50% va ripartito in proporzione all’altezza del piano, cioè all’utilizzo potenziale delle scale da parte dei vari condomini.

Questo criterio mira a bilanciare l’interesse patrimoniale (valore dell’unità) con l’utilizzo effettivo del bene comune.

Ripartizione spese scale condominiali

Facciamo un esempio pratico:

  • un condominio ha 5 piani fuori terra;
  • le spese di rifacimento scale ammontano a 10.000 euro.
  • il 50% (5.000 euro) viene ripartito secondo i millesimi di proprietà;
  • il restante 50% (5.000 euro) viene suddiviso in proporzione all’altezza del piano: il piano terra pagherà meno rispetto all’ultimo piano.

Questa formula tiene conto del maggior uso delle scale da parte dei condomini dei piani superiori, che ne fruiscono quotidianamente per accedere alla propria abitazione.

Eccezioni e chiarimenti giurisprudenziali

La Corte di Cassazione ha chiarito più volte che:

  • il diritto di comproprietà delle scale sussiste anche per i proprietari di unità con accesso indipendente (Cassazione n. 4664/2016) salvo diversa previsione nel titolo o nell’atto di acquisto;
  • le modifiche strutturali alle scale richiedono delibera assembleare con maggioranza qualificata (art. 1136 c.c.);
  • l’inserimento di scale interne private da parte di singoli condomini (es. collegamento tra due appartamenti) necessita della Scia (Cassazione n. 41598/2019).

Manutenzione ordinaria e straordinaria delle scale condominiali

Queste le regole da rispettare quando si procede alla manutenzione delle scale condominiali:

  • la manutenzione ordinaria, che consiste nella pulizia, nelle riparazioni minori, e nella illuminazione rientra tra le spese correnti annuali, approvabili con maggioranza semplice;
  • la manutenzione straordinaria, rappresentata invece dal rifacimento dei gradini, dalla sostituzione ringhiere e dalla messa a norma richiede una delibera assembleare con maggioranze ex art. 1136 c.c.

In entrambi i casi si applicano comunque i criteri di  ripartizione previste dall’art. 1124 c.c., salvo accordi differenti.

Regolamento condominiale e deroghe alla legge

Il regolamento di condominio, se di tipo contrattuale (cioè approvato all’unanimità o allegato all’atto di compravendita), può prevedere criteri di ripartizione diversi da quelli previsti dal codice civile. In caso contrario, ossia in presenza dio regole stabilite dal regolamento assembleare, prevale la disciplina legale.

Scale e condominio parziale

In alcune ipotesi, l’edificio può prevedere più vani scala, ciascuno utilizzato da una porzione limitata di condomini. In tal caso:

  • si applica la teoria del condominio parziale (art. 1123, comma 3 c.c.);
  • le spese sono a carico solo dei condomini che traggono utilità dalla scala.

La giurisprudenza conferma che in tali casi è legittima la ripartizione parziale delle spese, senza necessità di costituire un condominio separato.

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dl sicurezza

Dl Sicurezza: legge in vigore Pubblicata in Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 10 giugno la legge di conversione del dl sicurezza: nuovi reati, pene più dure per violenze a pubblici ufficiali, stretta su cannabis light e occupazioni abusive

Legge sicurezza: 14 nuovi reati

E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, per entrare in vigore dal 10 giugno 2025, la legge n. 80/2025 di conversione del dl sicurezza, approvata definitivamente nei giorni scorsi dal Senato, nel testo identico a quello licenziato dalla Camera e originariamente approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 aprile 2025 (ricalcando in buona parte il testo originario del ddl sicurezza su cui c’erano stati anche i rilievi del Colle).

La nuova legge “recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonchè di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” introduce importanti novità normative, tra cui 14 nuove fattispecie di reato e diverse circostanze aggravanti, oltre a toccare temi come occupazioni abusive, ordine pubblico, cannabis light e tutela delle forze dell’ordine.

Nuovi reati contro la sicurezza e il terrorismo

La legge 80 introduce nuove figure criminose, come:

  • Detenzione di materiale con finalità di terrorismo (reclusione da 2 a 6 anni);

  • Diffusione telematica di istruzioni per atti violenti o sabotaggi (nuovo art. 270-quinquies.3 c.p.).

Estensione delle misure antimafia

Le verifiche antimafia si applicano anche alle imprese che aderiscono a contratti di rete. Inoltre, viene limitato il potere del prefetto di sospendere autonomamente alcuni effetti interdittivi per garantire i mezzi di sostentamento ai familiari del destinatario.

Contrasto all’usura e sostegno economico

L’art. 33 prevede il supporto di esperti incaricati per gli operatori economici vittime di usura, beneficiari di mutui agevolati (art. 14, legge n. 108/1996), con l’obiettivo di facilitarne il reinserimento nel circuito economico legale.

Reato di occupazione arbitraria di immobile

Viene istituito il reato specifico di occupazione arbitraria, con possibilità per la polizia giudiziaria di disporre il rilascio immediato dell’immobile, anche senza provvedimento del giudice, in caso di occupazioni illecite.

Maggiori tutele per forze dell’ordine

La legge:

  • Aggrava le pene per lesioni, violenza e resistenza a pubblico ufficiale;

  • Introduce aggravanti per atti commessi contro agenti di polizia giudiziaria o per impedire la realizzazione di infrastrutture (cd. “norma anti no-Tav/no-Ponte”);

  • Prevede l’uso di bodycam e videosorveglianza nei servizi di ordine pubblico e nei luoghi di detenzione;

  • Destina fino a 10.000 euro a copertura delle spese legali per agenti coinvolti in procedimenti penali connessi al servizio.

Nuovo reato di rivolta in carcere e nei Cpr

Si introduce il reato di rivolta in istituto penitenziario o centro per rimpatri (Cpr), con pene:

  • Da 1 a 5 anni per chi partecipa con violenza o minaccia;

  • Fino a 18 anni in caso di morte o lesioni gravi.

Misure contro blocchi stradali e proteste violente

Tra le novità:

  • Reato per chi impedisce la libera circolazione su strade e ferrovie (già illecito amministrativo);

  • Estensione del Daspo urbano per reati commessi in aree sensibili;

  • Aggravanti per reati gravi commessi presso stazioni, metropolitane o convogli;

  • Arresto in flagranza differita per lesioni a pubblici ufficiali durante manifestazioni.

Pene più severe per truffe e accattonaggio

Viene:

  • Inasprita la repressione dell’accattonaggio con impiego di minori;

  • Introdotta una nuova aggravante per truffe agli anziani, punita con reclusione da 2 a 6 anni e multa fino a 3.000 euro.

Stop alla cannabis light

La legge vieta ogni forma di:

  • Commercio, distribuzione, trasporto, invio e consegna delle infiorescenze di canapa, anche se semilavorate, essiccate o triturate;

  • Prodotti derivati (estratti, oli, resine), indipendentemente dal contenuto di THC.

Nuove disposizioni sulla pena per le detenute madri

Si supera il rinvio automatico della pena per le donne incinte o madri, che viene ora valutato caso per caso, soprattutto quando vi sia rischio concreto di reiterazione. Si distingue il trattamento per:

  • Figli fino a 1 anno di età;

  • Figli da 1 a 3 anni, con modalità differenziate nell’esecuzione.

 

Leggi anche: Ddl Sicurezza: dall’UE l’invito a modificare il testo e Cannabis light: il ddl sicurezza la vieta

abusi edilizi

Abusi edilizi: la sola demolizione non estingue il reato La Cassazione ha chiarito che in tema di abusi edilizi la sola demolizione del manufatto abusivo non determina l'estinzione automatica del reato

Abusi edilizi

La demolizione di un manufatto abusivo non determina l’estinzione automatica del reato edilizio, soprattutto se non è preceduta dall’accoglimento di un’istanza di sanatoria o dalla verifica giudiziale dei relativi presupposti. Lo ha chiarito la Cassazione penale con la sentenza n. 20661/2025, accogliendo il ricorso promosso dal Procuratore della Repubblica contro una decisione di non luogo a procedere emessa dal giudice di merito.

Demolizione postuma

Nel caso esaminato, l’imputato aveva proceduto alla rimozione dell’abuso edilizio durante il processo penale, sostenendo che tale comportamento fosse sufficiente per estinguere il reato. Tuttavia, la Corte ha stabilito che la demolizione successiva alla commissione dell’illecito – e in pendenza di giudizio – non può in alcun modo sostituirsi agli strumenti legali previsti per la regolarizzazione, quali il rilascio del permesso in sanatoria o l’accoglimento di un’istanza presentata nei termini.

Area archeologica e reato paesaggistico

Un aspetto centrale della pronuncia riguarda la localizzazione dell’opera abusiva in area soggetta a tutela archeologica, circostanza che impone l’applicazione dell’art. 181 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42/2004). Secondo tale norma, il reato paesaggistico può considerarsi estinto solo se l’intervento di ripristino dello stato dei luoghi è eseguito volontariamente dal responsabile prima dell’emanazione dell’ordine di rimessione in pristino da parte dell’autorità amministrativa competente.

Nel caso in esame, la demolizione è intervenuta successivamente, e dunque non ha prodotto alcun effetto estintivo ai fini penali. La Corte ha pertanto annullato la decisione del giudice di merito che aveva erroneamente ritenuto che l’intervento di rimozione dell’abuso potesse legittimare un esito processuale di tipo liberatorio.

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casellario delle pensioni

Casellario delle pensioni: cos’è e come funziona Cosa c'è da sapere sul Casellario delle pensioni: obblighi per gli enti previdenziali, scadenze, trasmissione dati e gestione IRPEF

Casellario delle pensioni: guida Inps

Il Casellario centrale dei pensionati è un sistema informatizzato, gestito dall’INPS, finalizzato alla raccolta, conservazione e gestione dei dati relativi ai trattamenti pensionistici, siano essi obbligatori, integrativi o complementari. Il servizio consente agli enti erogatori di trasmettere in modo strutturato tutte le informazioni relative a iscrizioni, variazioni e cessazioni, secondo quanto previsto dal D.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1388.

Cos’è il Casellario delle pensioni

Il Casellario è un archivio digitale che centralizza le informazioni sui trattamenti pensionistici percepiti dai cittadini, provenienti da più enti. L’obiettivo è garantire trasparenza e coordinamento tra le diverse gestioni previdenziali, assicurando una corretta applicazione fiscale e contributiva.

Il sistema riguarda tutte le pensioni erogate da enti pubblici e privati, inclusi gli strumenti di previdenza complementare.

A chi si rivolge il Casellario

Il servizio è destinato a una vasta gamma di gestioni previdenziali e assistenziali. In particolare, si rivolge a:

  • Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO) per invalidità, vecchiaia e superstiti dei lavoratori dipendenti;

  • Regimi obbligatori sostitutivi dell’AGO;

  • Enti creditizi esclusi o esonerati dall’AGO;

  • Casse professionali e altri regimi obbligatori per liberi professionisti;

  • Regimi integrativi e complementari riconosciuti;

  • Enti bilaterali che erogano trattamenti pensionistici.

Come funziona: obblighi e tempistiche

Gli enti erogatori devono trasmettere i dati in modalità telematica attraverso le specifiche tecniche fornite dall’INPS. La trasmissione è articolata in due principali scadenze: annuale e trimestrale.

Comunicazione annuale (entro il 28 febbraio)

Entro la fine di febbraio di ogni anno, è obbligatorio comunicare:

  • i trattamenti pensionistici erogati nell’anno precedente;

  • i trattamenti previsti per l’anno in corso.

Questi dati consentono all’INPS di monitorare l’evoluzione delle pensioni e gestire correttamente eventuali cumuli e obblighi fiscali.

Comunicazioni trimestrali

Sono previste ulteriori scadenze, suddivise per trimestre, per comunicare:

  • nuove iscrizioni;

  • cancellazioni;

  • variazioni di importo.

Ecco il calendario dettagliato:

Periodo di riferimento Scadenza invio dati
1° gennaio – 31 marzo 30 aprile
1° aprile – 30 giugno 31 luglio
1° luglio – 30 settembre 31 ottobre
1° ottobre – 31 dicembre 31 gennaio (anno successivo)

Nota: Se non si verificano variazioni, non è necessario trasmettere comunicazioni trimestrali. L’ultima scadenza può coincidere con la trasmissione annuale.

Funzioni del Casellario

Entro giugno di ogni anno, il Casellario centrale, sulla base dei dati ricevuti, svolge funzioni di fondamentale importanza per la gestione fiscale e contributiva dei trattamenti:

  • Individua i pensionati titolari di più trattamenti;

  • Calcola l’aliquota IRPEF da applicare, con relative detrazioni;

  • Comunica agli enti erogatori le informazioni fiscali da adottare;

  • Determina il coefficiente di rivalutazione per i soggetti con cumulo di pensioni, valido dal 1° gennaio dell’anno in corso.

indennità custode giudiziario

Indennità custode giudiziario: alle SS.UU. il termine di decadenza La Cassazione rimette alle Sezioni Unite il nodo del termine di 100 giorni per chiedere l’indennità del custode giudiziario

Indennità custode giudiziario

Indennità custode giudiziario: con l’ordinanza interlocutoria n. 15046/2025, la prima sezione civile della Cassazione ha rimesso alle sezioni unite la seguente questione: se al custode giudiziario debba applicarsi il termine di 100 giorni previsto per gli altri ausiliari del giudice ai sensi dell’art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 115/2002 (Testo unico spese di giustizia).

Il nodo interpretativo nasce da un contrasto giurisprudenziale tra le sezioni civili e penali della stessa Corte, evidenziando la natura trasversale della figura del custode tra processo civile e penale.

Il caso

La vicenda trae origine da una opposizione proposta da un custode giudiziario contro il rigetto, da parte del GIP di Locri, dell’istanza di liquidazione delle indennità relative alla custodia di autoveicoli sequestrati in sede penale.

Il ricorrente lamentava che il termine di decadenza di 100 giorni, previsto dall’art. 71 per gli ausiliari del giudice, non fosse applicabile alla sua posizione, regolata invece dal successivo art. 72 del D.P.R. n. 115/2002, che non contempla alcun termine decadenziale.

Le tesi contrapposte

La Cassazione ha esaminato due orientamenti consolidati ma contrapposti:

  • Orientamento restrittivo (penale): esclude l’applicabilità del termine di decadenza al custode, evidenziando l’assenza di tale previsione nell’art. 72 e la differenza strutturale e funzionale tra custode e altri ausiliari. Il custode, infatti, non contribuisce all’accertamento giudiziale, ma ha un compito materiale di conservazione del bene sottoposto a vincolo.

  • Orientamento estensivo (civile): sostiene l’applicazione del termine anche al custode giudiziario, fondandosi sull’art. 3 del T.U. spese di giustizia, che elenca gli ausiliari del giudice in senso ampio. In tale prospettiva, il custode rientrerebbe tra i soggetti che devono presentare l’istanza di liquidazione entro 100 giorni dal compimento dell’incarico.

Le ragioni del rinvio alle Sezioni Unite

La Corte, pur rilevando l’esistenza di numerose pronunce che equiparano il custode agli ausiliari del giudice, ha riconosciuto la presenza di elementi distintivi che potrebbero giustificare un trattamento differenziato. In particolare, si osserva che:

  • L’attività del custode ha una natura continuativa e spesso si protrae nel tempo;

  • Il compenso del custode è definito come “indennità”, distinta dagli “onorari” previsti per gli altri ausiliari;

  • La disciplina vigente (in particolare l’art. 72) non contiene alcuna disposizione specifica in merito a un termine perentorio di richiesta.

Quale sarà la sorte dell’indennità del custode?

Sarà ora compito delle Sezioni Unite della Cassazione chiarire in modo definitivo se il custode giudiziario debba o meno presentare l’istanza di liquidazione entro il termine di 100 giorni dal termine del proprio incarico.

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giurista risponde

Danno da perdita del rapporto parentale patito dalle figlie Il danno morale patito dalle figlie per perdita della relazione parentale va riconosciuto anche in caso di mancata convivenza con il genitore?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, quest’ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur: in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo. (Cass., sez. III, 16 febbraio 2025, n. 3904  – Danno da perdita del rapporto parentale).

 Nel caso di specie, la Suprema Corte, a distanza di pochi anni da un suo precedente arresto, torna nuovamente a pronunciarsi sul tema del danno da perdita del rapporto parentale, con particolare riguardo all’incidenza che riveste la coabitazione e la vicinanza geografica fra il defunto, quale vittima primaria, e alcuni suoi familiari, come vittime secondarie o di riflesso.

Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di merito, prima, e della Corte di legittimità, in sede di ricorso, concerne l’azione risarcitoria avanzata dagli attori avverso la struttura ospedaliera per il riconoscimento del danno derivante dalla definitiva deprivazione della relazione parentale, in seguito all’uccisione del rispettivo coniuge e padre.

Atteso il rigetto della domanda da parte del giudice di prime cure, veniva adita la Corte d’appello che, in parziale accoglimento del gravame, riconosceva esclusivamente in capo al coniuge il danno da sofferenza per morte del congiunto, rigettando l’analoga domanda delle figlie.

Le ragioni che hanno condotto ad escludere la rilevanza del legame con la vittima ai fini del diritto al risarcimento, riposerebbero nella lontananza dal de cuius e nella mancata allegazione del concreto atteggiarsi della relazione affettiva richiesta per i rapporti tra genitori e figli non conviventi.

Avverso il decisum, i soccombenti ricorrevano per Cassazione eccependo, quale unica doglianza, la violazione ed erronea interpretazione degli artt. 1123 e 2059 c.c., nonché violazione dei precetti costituzionali dedicati alla famiglia, ex art. 29, 30 e 31 Cost.

La Suprema Corte, disattendendo l’assunto confermato in appello, con un’argomentazione più succinta, ma non per questo reticente – tenuto conto dell’evidente rinvio ai precedenti sul punto – si sofferma sul tema del nesso intercorrente tra la cessazione della convivenza e le ricadute in termini probatori ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria.

Il collegio giudicante muove dalla premessa logico-giuridica che l’esistenza di un pregiudizio conseguente dalla perdita del rapporto parentale si presume allorquando il fatto colpisca i membri della c.d. “famiglia nucleare”, ossia quei soggetti legati da un matrimonio o da uno stretto vincolo di parentela.

Da siffatta circostanza ne consegue che l’evento uccisione di uno dei soggetti componenti la cellula minima familiare è idonea ex se a far presumere, a mente dell’art. 2727 c.c., una sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima.

Ma vi è di più.

L’enunciato principio di diritto, sostiene la Corte, non subisce alcuna torsione in ragione del fatto che vittima e superstite non convivessero né che fossero distanti, in quanto ciò non si riflette nella volontà di porre fine al forte, peculiare e duraturo legame affettivo; tuttalpiù, le citate circostanze assumono rilievo ai soli del giudizio di quantificazione del danno sofferto e, comunque, non sarebbero di per sé sole, foriere di un contesto relazionale compromesso.

Sullo sfondo della prospettiva accolta dalla Corte è possibile scrutare gli approdi di quel consolidato orientamento giurisprudenziale che, per un verso, non riconosce al venir meno della coabitazione alcun valore autonomo circa la produzione del danno non patrimoniale, e, per altro, non richiede l’elemento della convivenza fra la vittima primaria e secondaria per riconoscere il risarcimento del danno morale riflesso dall’uccisione di un parente.

Tale solco ermeneutico, prosegue la sentenza, oltre a costituire un caposaldo della granitica e costante giurisprudenza di legittimità, consente, al contempo, di destrutturare agevolmente le argomentazioni poste a fondamento della decisione oggetto del giudizio di legittimità.

Ne deve conseguire, il riconoscimento di un danno morale in capo ai superstiti, anche se non più conviventi con la vittima, nonché l’inversione della prova in capo al convenuto circa l’esistenza di un rapporto di indifferenza e di odio tra i medesimi soggetti.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo e facendo buon governo dei precedenti pronunciamenti, la Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata rinviando, per l’effetto, la causa alla Corte d’Appello.

 

(*Contributo in tema di “Danno da perdita del rapporto parentale ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

lavoro pesante

Il lavoro pesante non è mobbing La Cassazione chiarisce che la mole di lavoro, anche intensa, non costituisce mobbing se rientra nei doveri noti del lavoratore

Mole di lavoro e mobbing

Il lavoro pesante non è mobbing. Con l’ordinanza n. 14890/2025, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che la gravosità delle mansioni assegnate a un lavoratore non integra automaticamente una condotta di mobbing o straining da parte del datore di lavoro, specialmente quando tali compiti rientrano nei doveri tipici della posizione ricoperta e sono noti al prestatore sin dall’instaurazione del rapporto.

Secondo i giudici di legittimità, è legittimo che un superiore imponga un’intensificazione dell’attività lavorativa se ciò è funzionale al perseguimento di obiettivi aziendali prefissati, a condizione che tale condotta non si traduca in atti persecutori, discriminatori o lesivi della dignità personale del dipendente.

Il potere direttivo non è di per sé abusivo

Nel caso esaminato, la Corte ha condiviso le conclusioni dei giudici di merito, che avevano rigettato le accuse di mobbing e straining mosse dal lavoratore. È stato affermato che l’organizzazione del lavoro, incluse le direttive impartite gerarchicamente, rientrava nell’alveo del potere organizzativo e direttivo del datore, esercitato in funzione dell’efficienza aziendale, senza intenti vessatori.

Tale orientamento conferma che il semplice disagio o affaticamento, anche significativo, non è sufficiente a integrare una condotta antigiuridica in assenza di specifici atti ritorsivi o di sistematica emarginazione.

L’onere della prova grava sul lavoratore

La Suprema Corte ha inoltre ribadito un principio cardine in materia di responsabilità datoriale: è il lavoratore che lamenta un danno alla salute a dover fornire la prova del pregiudizio subito, della nocività dell’ambiente di lavoro e del nesso causale tra tali elementi.

Solo al ricorrere di tale presupposto scatta in capo al datore l’obbligo di dimostrare di aver adottato tutte le misure prevenzionistiche idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Nel caso in oggetto, tuttavia, il dipendente si è limitato a dedurre genericamente la sussistenza di un ambiente stressogeno, senza allegare né documentare elementi concreti e specifici a sostegno delle proprie doglianze. Ciò ha comportato il rigetto delle sue istanze in tutte le sedi di giudizio.

Allegati

legge concorrenza 2025

Legge concorrenza 2025: ok del Governo Approvato il disegno di legge annuale per la concorrenza 2025. Focus su servizi pubblici locali, sanità, trasferimento tecnologico e sicurezza dei consumatori

Approvato il ddl concorrenza 2025

Legge concorrenza 2025: il 4 giugno, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente Giorgia Meloni e del Ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, ha dato il via libera al disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2025, previsto dall’articolo 47 della legge n. 99/2009. Il Governo ha chiesto al Parlamento una sollecita calendarizzazione del testo, considerata la sua rilevanza strategica nel contesto degli impegni assunti dall’Italia nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).

L’approvazione di una legge annuale in materia di concorrenza costituisce infatti un passaggio essenziale per l’erogazione dei fondi europei previsti dal Piano.

Tecnologia e innovazione

Tra i punti cardine del disegno di legge, figura l’adozione di misure volte a favorire il trasferimento tecnologico verso le filiere produttive italiane. In particolare, è previsto un atto di indirizzo strategico congiunto del Ministero delle imprese e del Made in Italy e del Ministero dell’università e della ricerca, per promuovere la diffusione delle conoscenze e sostenere la trasformazione tecnologica del sistema industriale.

A tale scopo, la gestione di 250 milioni di euro destinati a progetti di trasferimento tecnologico sarà affidata alla Fondazione Tech e Biomedical, con l’obiettivo di rafforzare le sinergie tra ricerca e impresa.

Servizi pubblici locali

Il testo interviene anche sul fronte dei servizi pubblici locali, con misure specifiche rivolte ai Comuni con oltre 5.000 abitanti. Le norme puntano a migliorare l’efficienza delle gestioni affidate in-house, rafforzando gli strumenti di controllo e verifica da parte delle amministrazioni locali.

Nel settore del trasporto pubblico regionale, si estendono gli obblighi di trasparenza e le procedure di ricognizione delle modalità di gestione degli affidamenti, già previste per i servizi pubblici locali. In caso di inefficienze, saranno applicabili misure correttive analoghe.

Accreditamento sanitario

In ambito sanitario, il disegno di legge introduce nuovi criteri per l’accreditamento delle strutture private, al fine di stimolare una maggiore concorrenza nel settore, in vista della scadenza della proroga attualmente fissata per dicembre 2026.

Questa riforma intende armonizzare l’accesso al sistema sanitario con logiche di efficienza e qualità, promuovendo la competitività tra erogatori pubblici e privati accreditati.

Tutela dei consumatori

Sul versante della sicurezza dei consumatori, il provvedimento prevede nuove sanzioni per l’uso professionale di prodotti cosmetici non conformi alle norme di etichettatura, in particolare quando possano comportare rischi per la salute.

Ulteriori misure riguardano l’impiego di esche e topicidi in spazi pubblici, vietato se pericoloso per animali domestici o persone vulnerabili, come i bambini. L’obiettivo è rafforzare i presidi di sicurezza in ambienti condivisi, contrastando l’uso improprio di sostanze nocive.