Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini
L’analisi relativa alla ricorrenza del dolo nel tentato omicidio non deve necessariamente approdare alla ricostruzione di un dolo specifico di tipo intenzionale, posto che il tentativo punibile è tale anche in presenza di dolo diretto di tipo alternativo, ferma restando la ritenuta incompatibilità tra tentativo punibile e dolo eventuale (Cass., sez. I, 5 giugno 2024, n. 34379).
Il caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione permette di ribadire i caratteri principali dell’istituto del tentativo soffermandosi sulla compatibilità con il dolo alternativo.
Il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame confermando l’ordinanza con la quale il Giudice per le Indagini Preliminari aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di uno degli imputati in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56 e 575 c.p.
Veniva proposto ricorso per Cassazione contestando sia la ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e, dunque, l’adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere, che la qualificazione giuridica dei fatti posti in essere per insussistenza del c.d. animus necandi.
La Suprema Corte, nella decisione in esame, respingendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato il consolidato principio espresso in tema di ordinanza “de libertate” del tribunale del riesame secondo cui «è ravvisabile il vizio di omessa motivazione quando dal provvedimento, considerato nella sua interezza, non risultino le ragioni del convincimento del giudice su punti rilevanti per il giudizio e non anche quando i motivi per il superamento delle tesi difensive su una determinata questione siano per implicito desumibili dalle argomentazioni adottate» (così Cass., sez. III, 16 aprile 2020, n. 15980).
Osserva, la Corte, che nel caso de quo la motivazione del provvedimento risulta coerente e adeguata, fondandosi su una valutazione complessiva di tutti gli elementi allo stato emersi.
Allo stesso modo, infondate sono state ritenute le censure relative alla qualificazione giuridica attribuita ai fatti realizzati dall’agente.
Il Supremo Collegio ha poi ricordato come nel delitto tentato – fattispecie caratterizzata dalla punibilità di atti che, per definizione, non hanno raggiunto lo scopo perseguito dall’agente e tipizzato dal legislatore nella norma incriminatrice di parte speciale – si pone il duplice problema di individuare sia l’idoneità e l’univocità in fatto degli atti (da valutarsi ex ante e in concreto, secondo la prospettiva dell’agente) che la reale intenzione perseguita dall’autore del fatto.
L’istituto del tentativo nei delitti richiede la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che soggettivo, costituendo autonoma fattispecie rispetto al reato consumato (ex multis Cass., sez. II, 14 novembre 2014, n. 6337).
L’elemento soggettivo, ad eccezione del dolo eventuale pacificamente ritenuto incompatibile con il tentativo, è identico a quello previsto per il reato che il soggetto agente si propone di compiere. L’elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti: l’idoneità degli atti, l’univocità degli atti e il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento.
Il delitto tentato si colloca fra la semplice ideazione o l’accordo – non punibile – ed il delitto consumato ed è, pertanto, necessario stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera ideazione, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, deve essere ugualmente punibile.
E ciò in quanto il fondamento giuridico di tale istituto viene ravvisato nella esposizione a pericolo, o nella mancata neutralizzazione di un pericolo, per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
Alla luce di questo inquadramento devono essere valutati gli elementi essenziali della direzione non equivoca degli atti e della loro idoneità necessari anche ad accertare l’intenzione perseguita dall’autore e, quindi, la sussistenza dell’elemento psicologico (così Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).
Il concetto di idoneità degli atti prescinde dalla mancata realizzazione dell’evento e attiene alla possibilità che questo aveva di realizzarsi.
In tal caso, dunque, il criterio cui fare riferimento, non è costituito dalla probabilità, più o meno concreta, che l’evento si verifichi ma dalla possibilità che ciò avvenga.
Ciò in quanto le eventuali difficoltà concrete che il soggetto agente dovesse trovare non rilevano per la sussistenza o meno del tentativo ma, anzi, ne costituiscono l’essenza, nel senso che ogni evento ha una maggiore o minore probabilità di verificarsi e che, proprio laddove non si dovesse verificare, saremo in presenza di un delitto tentato piuttosto che consumato.
Invero, solo qualora l’evento non sia accaduto e questo non aveva alcuna possibilità di accadere può ritenersi che il tentativo non sussista, a nulla rilevando se la realizzazione o meno dell’evento stesso fosse, allorché la condotta è stata posta in atto, più o meno probabile, anche solo per incapacità dell’agente o per mere difficoltà oggettive (Cass., sez. I, 17 ottobre 2019, n. 870).
Ulteriore e imprescindibile caratteristica della condotta nel delitto tentato è rappresentata dalla univocità degli atti.
L’idoneità degli atti, infatti, in sé e per sé considerata, non è da sola sufficiente ai fini della rilevanza penale della condotta, in quanto un atto, ontologicamente, può apparire ovvero essere potenzialmente idoneo a conseguire una pluralità di risultati, per cui solo la sua univoca direzione a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente si pone in linea con il principio di offensività del fatto.
Sotto tale profilo, pertanto, la direzione non equivoca non indica un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza della condotta che, non escludendo che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, impone che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, l’intenzione ovvero il fine perseguito dall’agente ( ex multis Cass., sez. I, 7 gennaio 2010, n. 9411).
Ai fini della rilevanza penale e della punibilità del tentativo la Corte ricorda come gli atti non possono essere in astratto distinti e classificati in atti preparatori e atti esecutivi, discrimine da ritenersi generico e superato, poiché quello che rileva è l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso, nonché la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta.
Ciò in quanto per la configurabilità del tentativo assumono rilievo non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quelli che, pur classificabili come preparatori, siano in qualche modo tipici, siano cioè corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata e, di conseguenza, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi così affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo ( cfr. Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).
Il requisito dell’univocità, infatti, prescindendo da ogni classificazione degli atti, deve essere accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di identificare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo.
Passando all’elemento soggettivo, la verifica dello stesso appare particolarmente delicata, data la mancata verificazione dell’evento; pertanto, la riconoscibilità di un tentativo punibile impone la logica e coerente individuazione di ‘segni esteriori’ della condotta che, in rapporto alle circostanze del caso concreto, siano idonei, attraverso una catena inferenziale solida, di dedurre la presenza del necessario elemento psicologico.
Invero, come altresì espresso dalla Cass., Sez. Un., 24 aprile 2024, n. 38343, il dolo è un fenomeno interiore – costituito dalla rappresentazione e dalla volontà della condotta e di determinare l’evento preso di mira – che si ricostruisce necessariamente in via indiziaria, attraverso la valorizzazione di indicatori fattuali capaci di sostenere l’opzione ricostruttiva di sussistenza e di qualificazione dello stesso.
Fatta questa premessa, nel caso del tentato omicidio, non è necessario dimostrare un dolo specifico di tipo intenzionale, poiché il tentativo punibile può sussistere anche con un dolo diretto di tipo alternativo, rimanendo incompatibile solamente con il dolo eventuale.
Secondo un principio consolidato dalla giurisprudenza si possono individuare differenti gradi di intensità della volontà dolosa, con accettazione dell’evento che varia in base alla percezione della sua probabilità di accadere.
Il dolo si configura come diretto nel caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, quando l’autore non si limita ad accettarlo come conseguenza accessoria ma di fatto lo vuole con un’intensità maggiore, mentre, viene qualificato come dolo eventuale quando l’evento è previsto come altamente probabile ma non necessario.
In questa prospettiva interpretativa, per riconoscere il dolo diretto di omicidio non è richiesta la previsione e la volontà esplicita di provocare la morte come unica e certa conseguenza, ma è sufficiente che essa sia prevista e voluta come altamente probabile nell’ambito di una dinamica lesiva che includa anche, in via cumulativa e alternativa, l’evento di lesioni (da ultimo ex multis, Cass., sez. I, 13 ottobre 2022, n. 4773; Cass., sez. I, 30 marzo 2022, n. 29611).
Il cosiddetto dolo alternativo, che contempla un secondo evento altamente probabile accanto al primo, viene considerato, dunque, come dolo diretto in quanto anche il secondo è previsto come scopo della condotta e non è per tale ragione meramente accettato come conseguenza accessoria o ulteriore (così Cass., sez. I, 30 marzo 2023, n. 33435).
Pertanto, la distinzione tra dolo diretto di tipo alternativo e dolo eventuale richiede un’analisi attenta delle manifestazioni esteriori, considerando indicatori significativi dell’intenzione dell’agente come, a titolo di esempio, nel tentato omicidio, la potenzialità dell’azione lesiva, desumibile dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata, nonché dalle modalità dello stesso atto lesivo (così Cass., sez. I, 5 aprile 2022, n. 24173).
Nel caso di specie, secondo la Corte, il Tribunale del riesame si è correttamente conformato ai criteri indicati.
Invero, il giudice del riesame ha evidenziato come il ricorrente abbia utilizzato un coltello dall’elevata potenzialità e che con questo ha attinto la vittima sul fianco, provocando una lesione tale da porre in pericolo la vita della vittima.
Con specifico riferimento alle modalità dell’azione poi, ha dato atto dell’idoneità del mezzo, dell’univocità dell’azione e della natura dell’elemento psicologico quale dolo alternativo. Quanto a quest’ultimo, il Tribunale ha correttamente fatto riferimento alla zona, l’addome, che il ricorrente ha deliberatamente e consapevolmente attinto, così rappresentandosi come altamente probabile e quindi volendo, anche in via cumulativa o alternativa, l’evento morte.
Contributo in tema di “Dolo alternativo e delitto tentato”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica