Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi
La scriminante di cui all’art. 384 c.p. è applicabile anche quando la situazione di pericolo per la libertà e l’onore, suoi o di un suo congiunto, sia stata volontariamente prodotta dal soggetto autore del reato di falsa testimonianza, in virtù del principio immanente al sistema “nemo tenetur se detergere” (causa di non punibilità).
Pertanto, non è punibile, ai sensi dell’art. 384 c.p., il testimone che, per evitare una possibile incriminazione per calunnia, confermi in giudizio le dichiarazioni accusatorie precedentemente rese, anche se false. – Cass. pen., sez. VI, 15 aprile 2025, n. 14843.
Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la possibilità di applicare la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, c.p., al testimone che, nel corso del processo, confermi le precedenti dichiarazioni accusatorie al fine di sottrarsi al pericolo di incriminazione per il reato di calunnia già commesso.
Per una migliore comprensione della questione, appare opportuno premettere la ricostruzione dei fatti.
In sintesi, un soggetto aveva sporto denuncia nei confronti di due persone per violazione di domicilio e interferenze nella vita privata, indicando il ricorrente quale testimone. Quest’ultimo, nel corso delle sommarie informazioni testimoniali, aveva confermato le accuse. A seguito di tali dichiarazioni, i due denunciati avevano querelato il testimone per calunnia.
Durante il processo penale a carico dei due soggetti, il ricorrente – pur avvisato della facoltà di non rispondere in quanto indagato per calunnia – confermava la medesima versione dei fatti. Il procedimento si concludeva con l’assoluzione degli imputati e la trasmissione degli atti al PM per procedere nei confronti del ricorrente per falsa testimonianza.
Nel processo instaurato a suo carico, il giudice di primo grado applicava la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 2, c.p., rilevando che, essendo stato avvisato della facoltà di non rispondere, il teste non era tenuto a deporre su fatti concernenti la propria responsabilità penale.
Di contrario avviso la Corte d’Appello, che escludeva l’applicabilità dell’esimente, osservando che il ricorrente – pur libero di non rispondere – avendo scelto di testimoniare, era vincolato all’obbligo di dire la verità.
Avverso tale decisione, l’imputato ricorreva in Cassazione, eccependo la violazione di legge per errata qualificazione giuridica della sua posizione (non di testimone assistito) e per l’ingiustificata esclusione della scriminante. Egli sosteneva di essersi limitato a reiterare le dichiarazioni precedenti per evitare la condanna per calunnia, richiamando il principio “nemo tenetur se detegere”.
La Suprema Corte, nella decisione in commento, ha accolto il ricorso, annullando senza rinvio la sentenza d’appello.
In via preliminare, i giudici di legittimità hanno chiarito che l’imputato non era un testimone assistito nel processo a carico degli autori del reato ai danni del denunciante, ma un testimone ordinario, vertendo la sua chiamata a testimoniare su un fatto storico diverso da quello del reato per cui si procedeva nei suoi confronti.
La qualifica di testimone assistito, con conseguente avviso della facoltà di non rispondere, era stata erroneamente attribuita dal Tribunale, inficiando tutto l’impianto giuridico della valutazione della sua deposizione.
In tale veste di testimone ordinario, l’imputato era tenuto per legge a deporre e a dire la verità rispetto ai fatti che sono stati oggetto della denuncia di violazione di domicilio e di illecita interferenza della vita privata. Pertanto, non poteva trovare applicazione la causa di non punibilità prevista dall’articolo 384, comma 2 c.p. poichè questa si riferisce esclusivamente ai casi in cui il dichiarante non ha l’obbligo di rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rendere testimonianza.
Invero, la Corte ha specificato che il comma 1 della causa di non punibilità in esame si riferisce ai casi in cui il dichiarante non ha facoltà di astenersi e che sarebbe altrimenti costretto ad autoaccusarsi. Mentre il comma 2 si riferisce ai casi del testimone prossimo congiunto dell’imputato o, più in generale, di coloro che non avrebbero dovuto essere assunti come testimoni o che, avendo la facoltà di non rispondere, non siano stati avvertiti di detta facoltà prima di rispondere.
Tuttavia, la Corte ha ritenuto che, pur esclusa l’applicazione del secondo comma dell’art. 384 c.p., il comportamento dell’imputato rientrava nell’ambito della causa di non punibilità prevista dal comma 1 dello stesso articolo, poiché la sua condotta processuale era finalizzata a sottrarsi alla responsabilità penale per una precedente calunnia.
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno valorizzato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 384, comma 1, c.p. è applicabile, in virtù del principio “nemo tenetur se detegere”, anche quando la situazione di pericolo per la libertà e l’onore sia stata autoindotta.
In tale ottica, la falsa testimonianza resa dal ricorrente è stata dunque ritenuta scriminata, in quanto funzionale a evitare una condanna per calunnia.