procura speciale

Procura speciale all’avvocato: deve emergere la volontà di patteggiare La Cassazione chiarisce che la procura speciale all'avvocato anche se ampia non prova automaticamente la volontà dell'imputato di patteggiare

Procura speciale avvocato e patteggiamento

La seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 6214/2025, ha chiarito che la procura speciale conferita al difensore non prova automaticamente la volontà dell’imputato di patteggiare.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, il GIP applicava la pena concordata a un imputato, per come proposta dal suo difensore, nel corso delle indagini preliminari. L’imputato, in udienza rendeva dichiarazioni spontanee, sostenendo di non aver prestato il proprio consenso consapevole. Essendo agli arresti domiciliari e non avendo avuto colloqui diretti col difensore, l’uomo dichiarava di non aver mai condiviso l’intenzione di patteggiare.

Il giudice riteneva che la sua dichiarazione non fosse rilevante. L’imputato adiva il Palazzaccio, deducendo che la volontà di accedere al patteggiamento, formulata dal primo avvocato, il cui mandato era stato revocato, era viziata.

La natura personalissima dell’assenso al patteggiamento

Per Gli Ermellini, il ricorso è fondato.

La Corte ha ribadito che, pur essendo l’accordo non ritrattabile una volta concluso, la volontà di patteggiare è un “atto personalissimo”. Al punto che, “nel caso di contestuale presenza in udienza del difensore e dell’imputato che manifestino volontà
diverse circa l’accesso al rito, si è ritenuto che debba prevalere la volontà di quest’ultimo”.

La rilevanza della volontà dell’imputato risulta anche dalla scelta del legislatore di prevedere che, “nell’ipotesi in cui la richiesta di applicazione di pena sia stata avanzata esclusivamente dal procuratore speciale con atto scritto o all’udienza in assenza dell’imputato, il giudice, per accertare la volontarietà della richiesta o del consenso, può disporre la comparizione dell’imputato (art. 446, comma 5, c.p.p.)”.

La decisione

Nel caso in esame, la richiesta di patteggiamento risulta essere stata effettuata
nel corso delle indagini preliminari dal difensore munito di una procura speciale,
strutturata in modo “aspecifico”. La stessa, infatti, era riferita in generale «ad ogni stato e grado del procedimento, compreso quello davanti agli organi di sorveglianza».
Tali caratteristiche, scrivono i giudici, “rendono l’atto non sufficientemente chiaro in ordine al suo valore di ‘delega’ al difensore per definire il processo con il patteggiamento”. E, dunque “per consentire di ritenere che la volontà del ricorrente fosse proprio quella di volere accedere a tale rito alternativo”.
In conclusione, la S.C. ritiene che la struttura della procura, che non risulta specificamente ed esclusivamente diretta a consentire al difensore di concludere il procedimento con l’accesso al rito ex artt. 444 e ss. c.p.p., unitamente alle dichiarazioni rese dal ricorrente, indichino che lo stesso non sia stato posto nelle condizioni di scegliere consapevolmente il rito alternativo.
La sentenza impugnata, pertanto, è annullata senza rinvio.

 

Leggi gli altri articoli di diritto penale

Allegati

giurista risponde

Falsa testimonianza e timore di subire lesioni La falsa testimonianza determinata dall’altrui minaccia di un danno grave all’incolumità del deponente è scriminata per la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 384 c.p. o, in subordine, dello stato di necessità?

Quesito con risposta a cura di Leonarda di Fonte e Francesco Trimboli

 

In tema di falsa testimonianza, il timore di subire conseguenze pregiudizievoli per la propria vita o incolumità a causa della deposizione non integra la scriminante di cui all’art. 384 c.p, ma potrebbe al più configurare la causa di giustificazione dello stato di necessità, purché siano accertate in concreto dal giudice di merito le condizioni richieste dall’art. 54 c.p. (Cass., sez. VI, 10 dicembre 2024, n. 45261).

Nel caso specifico i Giudici di legittimità sono stati chiamati a decidere sulla configurabilità della scriminante ai sensi dell’art. 384 c.p. e, alternativamente, dello stato di necessità in caso di falsa deposizione indotta dal pericolo di subire ritorsioni sulla propria persona dall’organizzazione criminale di tipo mafioso di cui era membro il destinatario delle dichiarazioni testimoniali.

La fase dibattimentale del giudizio di primo grado era stata omessa, in quanto l’imputato ha chiesto l’ammissione al giudizio abbreviato all’esito del quale era stata pronunciata dal G.u.p sentenza di condanna per il delitto a lui ascritto di falsa testimonianza.

In secondo grado la sentenza di condanna è stata riformata dalla Corte d’appello, la quale ha assolto il reo con la formula “il fatto non costituisce reato”, in quanto l’antigiuridicità era esclusa dalla sussistenza dell’esimente ai sensi dell’art. 384 c.p.

Contro la sentenza di condanna della Corte territoriale il Procuratore generale della Corte medesima ha proposto ricorso per cassazione per due motivi di violazione di legge.

In particolare, il P.G. ha censurato la ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 384 c.p, in quanto nel caso di specie il timore di subire un pregiudizio era ipotetico e supposto e concerneva l’incolumità personale, ossia un bene giuridico differente dalla libertà o dall’onore indicati dalla norma.

Inoltre, ha contestato alla Corte d’appello l’accertamento del difetto dell’elemento psicologico del dolo in capo al reo.

La sesta Sezione della Corte di cassazione con la decisione in questione ha accolto il ricorso e, conseguentemente, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio degli atti ad altra sezione territoriale per un nuovo giudizio sul punto.

Innanzitutto, i giudici di legittimità hanno ribadito quanto enunciato in una loro recente sentenza Cass. pen., sez. VI, 20 giugno 2024, n. 27411, secondo cui la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. dev’essere esclusa quando il teste rende la falsa testimonianza per il timore di un nocumento successivo alla vita o all’incolumità propria, circostanza nella quale piuttosto può configurarsi lo stato di necessità.

I Giudici di legittimità, quindi, si sono soffermati sul requisito dell’attualità del pericolo di cui all’art. 54 c.p., il quale sussiste quando, durante la condotta criminosa del reo, ci sia la ragionevole minaccia di una causa prossima e imminente del danno accertata alla luce di una serie di circostanze concrete, tra cui circostanze di tempo e di luogo, tipo di danno temuto e la sua possibile prevenzione (così anche Cass., sez. I, 2 giugno 1988, n. 4903).

Tra l’altro, lo stato di necessità può ricorrere anche quando è determinato dall’altrui minaccia ai sensi dell’art. 54, comma 3 c.p., in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità, con il richiamo di un precedente arresto Cass. pen., sez. III, 2 febbraio 2022, n. 15654, specifica che il pericolo attuale di un danno grave alla persona non dev’essere necessariamente imminente, ma può essere altresì “perdurante”, per cui il pregiudizio minacciato può verificarsi anche in un prossimo futuro

Infine, la scriminante de qua può essere riconosciuta anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59, comma 4 c.p. quando il soggetto agente dimostra, alla luce di dati di fatto concreti e prodotti in giudizio, che la sussistenza dell’attualità o inevitabilità del pericolo sia stata da lui erroneamente supposta senza colpa (così anche Cass. pen., sez. VI, 11 giugno 2024, n. 30592; Cass. pen., sez. VI, 16 ottobre 2019, n. 2241).

Ciò premesso, la Corte conclude con l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio della decisione nel merito alla Corte d’appello, in quanto in base alla motivazione della decisione censurata dal P.G. non è stato possibile accertare la sussistenza o meno dei requisiti richiesti dall’art. 54 c.p. per lo stato di necessità (ancorché anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59 c.p.) diretta a detergere l’antigiuridicità della falsa testimonianza perpetrata dall’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Falsa testimonianza”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

contributo unificato

Contributo unificato: si paga solo sulle cartelle esattoriali La Cassazione ha chiarito che il contributo unificato nel giudizio tributario va versato solo sugli atti effettivamente impugnati

Contributo unificato: i chiarimenti della Cassazione

La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 6769/2025, ha chiarito che il contributo unificato nel giudizio tributario deve essere versato esclusivamente sugli atti effettivamente impugnati. Se il contribuente contesta solo le cartelle esattoriali, il pagamento del contributo non può estendersi all’intimazione di pagamento, anche se il giudice ne fa riferimento nella sentenza.

Il caso: il contribuente e l’impugnazione delle cartelle

Un contribuente, ricevuta la notificazione di intimazione di pagamento, aveva impugnato le tre cartelle esattoriali presupposte riportate nell’atto, senza contestare l’intimazione ad esse collegata.

Tuttavia, l’ufficio riteneva che il contributo unificato dovesse essere versato anche per l’intimazione di pagamento, non espressamente impugnata ma alla quale la CTP aveva operato riferimento nella sua decisione.

La questione finiva innanzi alla CTR del Lazio che riteneva fondata la tesi dell’ufficio, riformava la decisione della CTP e affermava la validità dell’atto di irrogazione delle sanzioni, compensando tra le parti le spese di lite.
Il contribuente adiva quindi il Palazzaccio, lamentando la “carenza, illogicità, erroneità e contraddittorietà della motivazione” della decisione adottata dalla CTR, perché, a suo dire, “non è dovuto il pagamento del contributo unificato in relazione ad atto non impugnato, e pertanto è illegittima l’irrogazione di sanzioni per non aver versato un contributo non dovuto”.

Il principio di diritto della Cassazione

La Cassazione ha ribaltato la decisione della CTR, accogliendo il ricorso del contribuente.

La Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto, secondo cui “ai fini del
pagamento del contributo unificato nel giudizio tributario, non ogni atto cui il giudice operi riferimento nella sua pronuncia diviene, per ciò solo, un atto impugnato; pertanto qualora li contribuente, ricevuta la notificazione di una intimazione di pagamento relativa a tre cartelle esattoriali, abbia proposto impugnazione esclusivamente avverso queste ultime, solo in relazione ad esse dovrà versare il contributo unificato, anche se il giudice, nella sua
decisione, abbia proposto valutazioni anche in ordine all’intimazione di pagamento”.
Pertanto, il ricorso è accolto e l’atto irrogativo delle sanzioni annullato.

Allegati

giurista risponde

Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici In materia di beni demaniali gravati da usi civici spetta al Comune il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Deve ritenersi che al Comune spetta il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata di tali beni (Cass., Sez. Un., 14 ottobre 2024, n. 26598). 

I Giudici evidenziano che, in materia di demanio e patrimonio e, più nel dettaglio, di beni gravati da usi civici, deve ritenersi che al Comune spetti il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata da tali beni, la quale succede all’ente locale e subentra nei rapporti da questo già instaurati.

Le Sezioni Unite hanno rilevato che: “Già la L. 1766/1927, quanto all’individuazione del soggetto cui affidare la rappresentanza degli interessi della collettività, nonché l’amministrazione dei beni interessati da uso civico, optò a favore del Comune, in quanto individuato come ente particolarmente vicino ai fruitori del diritto. Ancorché, secondo la prevalente opinione della giurisprudenza, la proprietà dei beni resti in capo alla collettività dei cittadini (trattandosi di un’entità che di norma preesiste alla stessa istituzione dell’ente locale), la citata legge, accanto ai Comuni ha altresì previsto, nel caso in cui i diritti di uso civico siano riferibili agli abitanti di una frazione, e non all’intero territorio comunale, che vengano costituite le amministrazioni separate, le quali, pur senza acquisire una personalità giuridica (nella legge statale), sono munite di una soggettività giuridica, in quanto centro di imputazione degli interessi della collettività installata nella frazione”.

Nello specifico caso esaminato, l’istituzione dell’amministrazione separata avvenuta solo successivamente all’entrata in vigore della legge della provincia di Trento 6/2005, ha comportato la legittima amministrazione e gestione da parte del Comune, in vista della tutela degli interessi degli abitanti della frazione.

 

(*Contributo in tema di “Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

furto in abitazione

Furto in abitazione: no alla tenuità del fatto Per la Cassazione, il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Furto in abitazione

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10410/2025, ha stabilito che il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis c.p.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltagirone ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di un uomo in ordine al reato di furto ni abitazione di un paio di scarpe Nike, nuove, del valore di euro 100,00.
Contro tale sentenza, ricorreva in Cassazione il procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, deducendo mancare le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della citata disposizione normativa con riferimento ai limiti di pena che ne consentono la specifica forma di proscioglimento.

Art. 131-bis c.p.: ambito applicativo

Per gli Ermellini, l’impugnazione è fondata.
“La sentenza impugnata nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato in applicazione della disposizione di cui all’art.131 bis, c.p., per il reato di cui all’art.624 bis c.p. – osservano infatti – ha interpretato erroneamente la citata disposizione normativa in relazione ai limiti di pena che individuano il novero dei reati per i quali è consentita la specifica forma di proscioglimento”.
Il nuovo istituto, introdotto dal D.Lgs. 28/2015, “configura un’ipotesi in cui sussiste un fatto tipico costituente reato, ma questo per scelta legislativa non è ritenuto punibile in presenza di determinati requisiti e al fine di soddisfare i principi di proporzione ed economia processuale”.

L’art. 131-bis c.p.

L’art. 131 bis c.p. comma 1 dispone che: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
L’ambito applicativo dell’istituto è, dunque, individuato, osservano ancora dal Palazzaccio, “utilizzando una tecnica già ampiamente collaudata dal legislatore, quella di individuare dei limiti edittali di pena e, nello specifico, vengono indicati i reati per i quali il legislatore ha previsto inizialmente il limite massimo di pena detentiva non superiore ad anni cinque e successivamente il limite della pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”.

La decisione

Nel caso di specie, trattandosi di reato di furto in abitazione, lo stesso, previsto dall’art.624 bis cod. pen., “fuoriesce dall’ambito dei limiti edittali previsti dall’art. 131 bis cod. pen., in quanto il limite massimo di pena detentiva (sei anni) non poteva superare i cinque anni e, successivamente, secondo la nuova formulazione, il limite minimo di pena detentiva (tre anni), non poteva superare i due anni, previsti dalla citata disposizione normativa”.
Ne consegue, decidono i giudici, l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art.131 bis cod. pen, per violazione di legge sia nella nuova che nella vecchia formulazione della norma.

Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catania.

Allegati

licenziamento legittimo

Licenziamento legittimo per il dipendente che discrimina la collega Licenziamento legittimo quello irrogato al dipendente che offende ripetutamente e discrimina la collega per il suo orientamento sessuale

Licenziamento legittimo condotta discriminatoria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025, conferma il licenziamento legittimo del  dipendente disposto per motivi disciplinari, perché ritenuto responsabile di aver offeso reiteratamente l’orientamento sessuale di una collega.

Offese reiterate di contenuto sessista rivolte alla collega

Un dipendente si rivolge a una collega con frasi disonorevoli e immorali, lesive della sua dignità. Il comportamento, reiterato e aggravato dalla presenza di altri colleghi, ha portato all’espulsione del lavoratore dall’azienda. Il dipendente però ha impugnato il provvedimento davanti all’autorità giudiziaria.

In primo grado, il Tribunale respinge l’impugnazione del lavoratore. La Corte d’Appello invece dichiara illegittimo il licenziamento, ritenendolo una misura sproporzionata, ma risolve comunque  il rapporto di lavoro, condannando l’azienda a pagare 20 mensilità di retribuzione. La società presenta ricorso incidentale in Cassazione, la quale accoglie il primo motivo, rinviando il caso alla Corte d’Appello per riesaminare la sussistenza della giusta causa di licenziamento. In sede di riassunzione, la Corte d’Appello rigetta il reclamo del lavoratore, confermando la legittimità della sanzione disciplinare.

Moleste le offese discriminatorie

I comportamenti offensivi e discriminatori legati all’orientamento sessuale di un collega integrano infatti una forma di molestia. La valutazione si basa sul contenuto oggettivo della condotta e sulla percezione soggettiva della vittima. Non occorre dimostrare lintenzione di arrecare danno da parte dell’autore. In questo caso, il lavoratore ha violato l’articolo 45, punto 6, del DPR 148/1931, che sancisce l’obbligo di mantenere una condotta rispettosa e decorosa nei confronti dei colleghi. Le frasi pronunciate sono state considerate disonorevoli, immorali e discriminatorie, immeritevoli di pubblica stima.

La Cassazione non può rivalutare il merito

La Cassazione respinge quindi i motivi sollevati dal lavoratore nei confronti della sentenza della Corte d’Appello, pronunciatasi in sede di rinvio. I giudici hanno ritenuto inammissibili tali argomentazioni,  perché finalizzate a ottenere una diversa valutazione dei fatti. La Suprema Corte  conferma quindi l’importanza del rispetto della dignità dei colleghi e della tutela contro le discriminazioni sessuali, elemento fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati al licenziamento 

Allegati

pensione di reversibilità

Pensione di reversibilità: va valutato anche l’assegno di divorzio Pensione di reversibilità: l’assegno di divorzio è un elemento di valutazione e deve rispondere alla sua finalità solidaristica

Pensione di reversibilità e assegno di divorzio

La Cassazione nell’ordinanza n. 5839/2025 precisa che la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato non è vincolata all’importo dell’assegno divorzile. Quest’ultimo però deve essere considerato tra gli elementi di valutazione, senza automatismi, per garantire la finalità solidaristica della pensione.

Concorso tra ex coniuge e seconda moglie

Una vedova, titolare di una pensione di 500 euro mensili, agisce in giudizio per ottenere il riconoscimento della reversibilità nella misura dell’80% del trattamento pensionistico spettante all’ex marito defunto. Il matrimonio, contratto nel maggio del 1975 è cessato nell’ottobre del 2014. Alla stessa spetterebbe quindi un importo superiore a quello riconosciuto alla seconda moglie, il cui matrimonio è durato solo 5 anni. La donna ritiene inoltre che la reversibilità a lei spettante debba coincidere almeno con la misura dell’assegno di divorzio pari a 315,00 euro mensili.

Importo pensione di reversibilità

L’INPS nel costituirsi in giudizio precisa che l’importo della pensione di reversibilità, pari al 60% dell’importo della pensione del defunto, è di 1.905,79 euro e che dopo la morte del marito la pensione di reversibilità è stata erogata solo alla vedova superstite.

La seconda moglie in giudizio chiede invece il riconoscimento della pensione di reversibilità nella misura non inferiore all’80% di quello spettante al marito defunto.

Il giudice di primo grado però riconosce il 70% della pensione del de cuius alla ex moglie e il restante 30% alla seconda moglie. Quest’ultima ricorre in appello, ma la Corte respinge il ricorso, la donna decide così di ricorrere in Cassazione.

Nell’unico motivo la stessa lamenta di non avere ricevuto una quota di pensione di reversibilità sufficiente a soddisfare le esigenze di vita più elementari mentre la ex moglie, al contrario, ha ricevuto una quota di pensione del tutto sproporzionata rispetto all’assegno di divorzio. A fronte infatti di un assegno divorzile di 357,00 euro mensili alla ex moglie è stata riconosciuta una pensione di 1200 euro mensili.

L’assegno di divorzio incide sul calcolo

La Cassazione accoglie il ricorso nei limiti indicati nella motivazione nella quale enuncia il principio giuridico da applicare quando si deve riconoscere all’ex coniuge la pensione di reversibilità.

Per la Cassazione nel determinare la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, della legge numero 898 del 1970, è importante sottolineare che tale quota non deve necessariamente coincidere con l’importo dell’assegno divorzile, né quest’ultimo rappresenta un limite massimo invalicabile. Tuttavia, in linea con un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’entità dell’assegno divorzile deve essere considerata tra gli elementi di valutazione, senza che ciò implichi un automatismo. L’obiettivo è garantire che l’attribuzione della quota di pensione risponda alla finalità solidaristica dell’istituto, che si traduce nel sostenere economicamente coloro che hanno subito la perdita del supporto finanziario fornito in vita dal lavoratore defunto.

 

Leggi anche gli altri articoli che si occupano dello stesso argomento

Allegati

guida in stato di ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza per l’incidente nel viale del condominio Aggravante incidente stradale guida in stato di ebbrezza: applicabile anche se il teatro del sinistro è un vialetto condominiale

Guida in stato di ebbrezza:  aggravante confermata

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10000/2025 ha riconosciuto l’aggravante di aver cagionato un incidente stradale anche il fatto si è verificato in  un’area privata. Tale aggravante, relativa al reato di guida in stato di ebbrezza è stata riconosciuta quindi anche se il sinistro è avvenuto in un vialetto condominiale. La decisione conferma in questo modo l’applicabilità del Codice della Strada anche in aree private destinate all’uso pubblico, al fine di tutelare la sicurezza della circolazione e la salute dei cittadini.

Sinistro nel vialetto condominiale

Un giovane risulta positivo all’etilometro, dopo aver perso il controllo del veicolo mentre imboccava un vialetto pedonale in un parcheggio condominiale. Lo stesso ha urtato un’auto in sosta, un lampione e poi le mura esterne di un edificio condominiale. L’imputato ha quindi contestato l’aggravante, sostenendo che l’incidente era avvenuto in un’area privata e delimitata, non accessibile al pubblico.

Aggravante incidente stradale: rileva l’uso pubblico

La Cassazione però respinge la tesi della difesa, affermando che l’area condominiale era liberamente accessibile, come accertato dai verbali di polizia. Ha ribadito inoltre che le norme del Codice della Strada si applicano in qualsiasi contesto di uso pubblico della viabilità, compresi i vialetti condominiali aperti al transito di veicoli motorizzati. La Corte ha quindi stabilito che l’aggravante per incidente stradale si applica anche in aree private, purché destinate alla circolazione di un numero indeterminato di veicoli e persone. Non è necessario che siano coinvolti terzi o altri veicoli, ma è sufficiente che l’evento interrompa la normale circolazione e crei pericolo per la collettività.

Aggravante incidente stradale e danneggiamenti

La Cassazione del resto rileva come i giudici di merito abbiano confermato l’illecita condotta di guida in stato di ebbrezza, riscontrata visivamente dagli agenti di polizia e confermata dall’etilometro, che ha rilevato un tasso alcolemico elevato (2,16-2,04 g/l). L’imputato, proprio perché in tali condizioni, ha danneggiato due auto in sosta, un lampione e un muro condominiale.

Il ricorso pertanto è inammissibile e l’imputato deve essere condannato  al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro a favore della cassa delle ammende.

 

Leggi anche Guida in stato di ebbrezza: tolleranza zero

Allegati

danno parentale

Danno parentale: il vincolo di sangue non è imprescindibile Danno parentale: per il riconoscimento non rileva il legame di sangue ma la dedizione e l'assistenza morale e materiale

Danno parentale al padre vicario

Per il riconoscimento del danno parentale previsto per la perdita del congiunto il legame di sangue non è un elemento imprescindibile di valutazione. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza. n. 5984/2025, riconoscendo il danno parentale da perdita al compagno di una madre che ha perso la figlia di 4 anni in un incidente stradale. L’uomo merita di essere risarcito perché ha svolto il ruolo di padre vicario nei confronti della bambina, provvedendo a tutte le sue necessità nella sua breve vita.

Danno parentale da perdita del congiunto al compagno

Una donna e il compagno fanno causa ai responsabili della morte della figlia della sola donna conseguente a un sinistro stradale. Nella domanda chiedono la condanna in solido di tutti i responsabili al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

In giudizio uno dei convenuti rende noto l’avvenuto pagamento in favore della madre della somma di 270.000,00 euro. La CTU medico legale riconosce però alla madre il massimo risarcimento previsto dalle tabelle di Roma per il danno parentale. Il Giudice di primo grado rigetta la richiesta risarcitoria avanzata dal compagno della donna finalizzata a ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale. La Corte d’Appello tuttavia ribalta la decisione e dispone in suo favore il risarcimento. L’uomo ha svolto infatti il ruolo di padre sostituto del padre biologico, eclissatosi completamente dalla vita, seppur breve, della figlia. La sentenza viene impugnata in Cassazione e nel terzo motivo si contesta “la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale disposta in favore del compagno della madre, per la morte della figlia di quest’ultima, in assenza di convivenza e della prova della effettiva assunzione, da parte dell’istante, del “ruolo morale e materiale di genitore”.

Cassazione: rilevano dedizione e assistenza

Per la Cassazione però il motivo è inammissibile perché si basa su una critica all’idoneità e alla sufficienza delle prove acquisite, cercando una rivalutazione del materiale probatorio. Compito questo che non spetta al giudice di legittimità. L’obiettivo del motivo consiste nell’ottenere una nuova valutazione delle prove. La Corte d’Appello ha fornito una motivazione ragionevole e coerente dal punto di vista giuridico. La stessa ha infatti accertato, sulla base delle prove raccolte, che il ricorrente aveva assunto un ruolo di “padre vicario” nei confronti della vittima, una bambina deceduta in un incidente. Il padre biologico era assente dalla vita della bambina, e il ricorrente ha fornito dedizione e assistenza morale e materiale per oltre tre anni, su un totale di quattro anni di vita della minore. Il ricorrente pertanto ha subito, senza alcun dubbio, un danno da perdita del rapporto parentale.

La decisione della Corte si basa sul principio giurisprudenziale secondo cui la convivenza non è sufficiente a dimostrare il danno parentale. È necessario provare piuttosto la dedizione e l’assistenza morale e materiale fornite, come nel caso in esame. Il vincolo di sangue quindi non è essenziale per il riconoscimento del danno parentale; ciò che conta è l’esistenza di una relazione affettiva stabile e duratura, indipendentemente dalla consanguineità.

 

Leggi gli altri articoli dedicati allo stesso argomento

Allegati

getto pericoloso di cose

Il getto pericoloso di cose Il  getto pericoloso di cose: analisi del reato 674 c.p., elementi, pena, procedibilità e giurisprudenza di rilievo

Cos’è il reato di getto pericoloso di cose?

Il getto pericoloso di cose previsto e punito dall’art. 674 c.p. è un reato che si verifica quando una persona getta oggetti, materiali o altre cose in un luogo pubblico o in una situazione in cui essi potrebbero provocare danni a cose o persone. In altre parole, il soggetto compie un atto in grado di creare un pericolo concreto per la sicurezza delle persone, senza la necessità di un danno effettivo. L’elemento fondamentale di questo reato è la pericolosità dell’atto compiuto.

L’art. 674 c.p.

Secondo l’art. 674 del Codice Penale, il reato si configura quando: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206.” 

L’elemento oggettivo del reato

L’elemento oggettivo del reato consiste nell’atto materiale di gettare o versare cose in luoghi pubblici, come strade, piazze o luoghi frequentati da pubblico. La pericolosità dell’atto si riferisce alla possibilità che l’oggetto gettato possa provocare un danno o un pericolo, anche senza che si verifichi un danno concreto o immediato.

Il codice penale non specifica esattamente che tipo di oggetto debba essere gettato, ma il concetto di “cose” è ampio e include qualsiasi tipo di materiale che possa rappresentare un pericolo. Gli oggetti potrebbero essere materiali contundenti, rottami, attrezzi, o anche rifiuti che possano scivolare o creare ostacoli per chi transita in quel luogo.

Inoltre, l’atto deve avvenire in un luogo di pubblico transito. Questo implica che l’atto sia posto in essere in un contesto che coinvolge il pubblico, come una strada, una piazza o un altro luogo frequentato da persone.

L’elemento soggettivo del reato

L’elemento soggettivo si riferisce all’intenzione del soggetto nel compiere il reato. In questo caso, non è necessario che l’autore dell’atto abbia l’intenzione di causare un danno diretto o che voglia fare del male a qualcuno. L’intento che interessa è quello di creare una situazione di pericolo, anche se non necessariamente il danno si concretizzerà.

La colpa (ossia la negligenza o imprudenza) è un elemento che può entrare in gioco nel reato di getto pericoloso di cose. Infatti, il soggetto potrebbe non avere l’intenzione di danneggiare direttamente qualcuno ma, a causa della sua condotta, mette comunque in pericolo la sicurezza altrui.

Le pena per il reato di getto pericoloso di cose

L’art. 674 del codice penale prevede una pena di reclusione da tre mesi a un anno per chi compie l’atto di getto pericoloso di cose. La pena prevista l’arresto fino a un mese e l’ammenda fino a 206,00 euro.

È importante notare che la pena può essere aumentata nei casi in cui il pericolo si concretizzi in un danno effettivo, ma la legge punisce comunque la condotta pericolosa, anche se non c’è danno. Questo aspetto tutela l’incolumità pubblica e scoraggia comportamenti che possano generare pericoli per i cittadini.

La procedibilità del reato

Il reato di getto pericoloso di cose è procedibile d’ufficio, il che significa che non è necessario che la vittima presenti una denuncia per avviare un’azione legale. Le autorità competenti (forze dell’ordine o la pubblica accusa) possono avviare il procedimento penale anche senza una denuncia da parte di chi ha subito il pericolo.

Questa caratteristica è rilevante perché l’ordinamento penale vuole tutelare la sicurezza pubblica senza dover aspettare che un danno si verifichi. Di fatto, la legge punisce già l’atto pericoloso, non l’eventuale danno che ne deriva.

Giurisprudenza sul getto pericoloso di cose

La giurisprudenza italiana ha trattato numerosi casi riguardanti il reato di getto pericoloso di cose.

Cassazione n. 19605/2024: la contravvenzione prevista dall’art. 674 c.p. non si applica se l’azione causa esclusivamente danni o disturbo a oggetti, senza coinvolgere direttamente le persone.

Cassazione n. 44458/2015: va condannato all’ammenda il condomino del piano superiore per aver ripetutamente gettato dal proprio balcone bottiglie di plastica e altri rifiuti, sporcando il cortile condominiale al piano terra. Secondo la terza sezione penale, tale condotta, oltre a essere incivile, integra il reato di getto pericoloso di cose previsto dall’art. 674 c.p., poiché idonea a imbrattare e arrecare disturbo agli altri condomini.

Cassazione n. 15956/2014: chi, innaffiando i propri fiori, fa cadere acqua (specialmente se mista a terriccio) sul balcone o il davanzale sottostante può essere multato ai sensi dell’art. 674 del Codice Penale per getto pericoloso di cose. Questa norma punisce chiunque getti o versi, in un luogo di pubblico transito o in un’area privata altrui, cose atte a imbrattare o molestare persone.

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto penale