cartellino senza prezzo

Cartellino senza prezzo? Scatta la sanzione La Cassazione conferma l'obbligo di esposizione chiara e leggibile del prezzo di vendita nel cartellino

Prezzo non visibile nel cartellino

Cartellino senza prezzo: una griffe della moda è stata sanzionata per aver nascosto i cartellini del prezzo all’interno dei capi esposti. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14826/2025, ha confermato che il prezzo di vendita deve essere sempre chiaramente visibile, a tutela del consumatore. L’informazione deve essere trasparente, accessibile e immediatamente percepibile, anche nei settori di lusso.

Il caso: cartellino senza prezzo

La vicenda trae origine da un verbale redatto dalla Guardia di Finanza, che aveva accertato l’assenza di indicazioni chiare sul prezzo di prodotti in vendita presso una nota boutique. I cartellini erano presenti, ma nascosti all’interno delle tasche dei vestiti o chiusi nelle borse. L’autorità comunale aveva inflitto una sanzione amministrativa da 1.032 euro, poi confermata in sede giudiziaria.

In primo grado, il Giudice di pace di Ferrara aveva accolto l’opposizione della maison, ritenendo sufficiente la presenza del cartellino anche se non visibile esternamente. Ma il Tribunale e poi la Cassazione hanno ribaltato il verdetto.

Visibilità e leggibilità requisiti inscindibili

Secondo la Seconda sezione civile della Corte, il cartellino del prezzo non deve solo esistere, ma anche essere posizionato in modo tale da risultare immediatamente visibile. La Corte ha chiarito che, sebbene “visibilità” e “leggibilità” non siano sinonimi, la chiara leggibilità imposta dall’art. 14 del D.lgs. 114/1998 comporta necessariamente anche una facile visibilità da parte del pubblico.

Un cartellino posto all’interno di un prodotto o nascosto tra le pieghe non risponde a tale requisito, violando così le disposizioni sul commercio al dettaglio.

La regola vale anche per il self-service

Particolare rilievo viene dato dalla Corte alla disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 14, che disciplina la vendita a libero servizio: in questi casi, l’esposizione del prezzo deve garantire una immediata percezione visiva da parte del consumatore. Da ciò discende che, se la visibilità è richiesta anche dove il cliente può manipolare il prodotto, a maggior ragione è necessaria nei casi in cui il contatto fisico con il bene non sia consentito.

Il precedente

La Corte ha richiamato un proprio orientamento consolidato con la sentenza n. 3115/2005, secondo cui un cartellino posto sotto l’oggetto in esposizione è da considerarsi “nascosto”. Anche se il prezzo è tecnicamente leggibile una volta individuato, non soddisfa l’obbligo normativo se non immediatamente visibile e riconducibile al prodotto esposto.

Trasparenza prezzi diritto del consumatore

Il principio espresso dalla Corte si inserisce nel solco della normativa italiana ed europea che mira alla tutela della trasparenza informativa nei rapporti di consumo. Il commerciante non può scegliere discrezionalmente dove collocare il prezzo, soprattutto se tale scelta comporta difficoltà per il cliente nel conoscere il costo del prodotto.

La Corte ha respinto anche l’argomento della maison, secondo cui nel settore moda la visibilità del prezzo sarebbe “non rilevante” rispetto a brand, allestimento e qualità del servizio: la normativa sul commercio non prevede deroghe per il lusso.

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cellulare protetto

Reato rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto Per la Cassazione l'accesso a WhatsApp da un cellulare protetto da password integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico

Rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto

Rubare messaggi da cellulare protetto: con la sentenza n. 19421/2025, la Corte di cassazione ha chiarito che WhatsApp è a tutti gli effetti un sistema informatico protetto. Di conseguenza, accedervi abusivamente, anche solo per estrarre messaggi da utilizzare in giudizio, integra il reato previsto dall’articolo 615-ter del codice penale, punito con la reclusione fino a dieci anni nei casi più gravi.

Il principio assume particolare rilievo in un contesto in cui le chat private vengono spesso utilizzate come prova in ambito familiare, ad esempio nei giudizi di separazione o di addebito.

Il caso: accesso abusivo al telefono dell’ex moglie

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato si era impossessato del telefono cellulare della ex moglie, dispositivo protetto da password, ed era riuscito a estrarre alcuni messaggi WhatsApp scambiati con un’altra persona. Successivamente, aveva consegnato quei messaggi al proprio avvocato, con l’obiettivo di utilizzarli nel giudizio di separazione.

Nonostante la Corte d’appello avesse ridotto la pena inflitta, è stata comunque confermata la responsabilità dell’imputato per i reati di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) e concorso formale di reati (art. 81 c.p.).

La motivazione

Secondo i giudici, la condotta dell’imputato ha violato il “domicilio informatico” della persona offesa, ossia quello spazio digitale tutelato dalla legge come estensione del domicilio fisico (ai sensi dell’art. 14 della Costituzione). Il dispositivo era nella esclusiva disponibilità della donna ed era protetto da password, a conferma della volontà di escludere terzi dall’accesso ai suoi dati personali.

Il reato di cui all’art. 615-ter c.p., introdotto dalla legge 547/1993, punisce chiunque si introduce abusivamente o si mantiene all’interno di un sistema informatico o telematico contro la volontà dell’avente diritto, proteggendo la riservatezza dei dati personali e la sicurezza delle informazioni digitali.

Anche WhatsApp è sistema informatico protetto

La Cassazione ha ritenuto che l’applicazione WhatsApp rientra nella nozione di sistema informatico, poiché combina componenti software, hardware e reti telematiche per consentire lo scambio di messaggi, immagini e video.

Come già chiarito in giurisprudenza in merito alle caselle e-mail, anche uno spazio di memoria protetto da password, come quello di WhatsApp, rappresenta una porzione riservata del sistema informatico, il cui accesso indebito costituisce un illecito penale.

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giurista risponde

Azione diretta del terzo trasportato: presupposti In caso di risarcimento corrisposto al terzo trasportato, a norma dell’art. 141 D.Lgs. 209/2005 ai fini dell’esatta proposizione della successiva azione di rivalsa da parte dell’impresa assicuratrice del vettore è necessaria la corresponsabilità di almeno due veicoli e la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

La liquidazione del danno da parte dell’assicuratore del vettore prescinde da ogni accertamento sulla responsabilità dei conducenti dei mezzi (almeno due) coinvolti nel sinistro, avendo funzione di massima tutela per il trasportato, né potendo consistere il caso fortuito nel fattore umano riferibile all’altro conducente. Inoltre, l’art. 141 cod. ass. può operare anche nelle ipotesi in cui il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, in quanto la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada (Cass., sez. III, ord. 7 febbraio 2025, n. 3118 – Azione diretta del terzo trasportato).

Nel caso di specie, la sez. III, a distanza di pochi anni dalla leading case delle Sezioni Unite, torna nuovamente a statuire in materia di azione diretta promossa (L’azione diretta del terzo trasportato a seguito di sinistro stradale) dal terzo trasportato all’indirizzo impresa assicuratrice, nonché sul successivo diritto di rivalsa di quest’ultima nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile.

La vicenda processuale sottesa alla pronuncia in esergo prende le mosse dalla richiesta di liquidazione del danno avanzata da un soggetto terza trasportata su un motociclo nei confronti della società assicuratrice del veicolo. Dopo aver provveduto all’erogazione delle somme come sopra richieste, l’impresa designata citava in giudizio l’impresa di assicurazione del responsabile civile, al fine di esercitare, a mente dell’art. 141, comma 1 C.d.a, il proprio diritto di rivalsa alla restituzione del quantum corrisposto.

Nel corso dei giudizi di merito la domanda attorea veniva rigettata in ragione della constatata assenza dei presupposti fondanti l’azione giudiziaria, ex art. 141 c.d.a.: la presenza di una corresponsabilità tra almeno due veicoli; la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile.

Atteso il mancato accoglimento, l’impresa soccombente proponeva ricorso per cassazione.

Per quanto d’interesse in questa sede, la difesa eccepiva la nullità della sentenza impugnata, in quanto la motivazione resa non consentiva di appurare le valutazioni di infondatezza dei motivi di gravame e porgeva il fianco ad un giudizio di illogicità nella parte in cui richiedeva – operando tra l’altro un rinvio a pronunce di legittimità (Cass., sez. III, 13 febbraio 2019, n. 4147) – la necessaria corresponsabilità del vettore, al lume di una lettura della nozione di “caso fortuito” comprensiva anche del fattore umano.

La seconda doglianza, invece, lamentava una violazione e falsa applicazione dell’art. 141, comma 4, in quanto la parte motiva della sentenza impugnata ne escludeva l’applicazione nell’ipotesi, come quella oggetto di giudizio, in cui era stata accertata l’inesistenza di un contratto di assicurazione con il responsabile civile, con ciò generando una ingiustificata disparità di trattamento.

Investita del ricorso, la sez. III ha accolto le eccezioni di parte cogliendo, al contempo, l’occasione per sagomare i confini operativi dell’azione diretta prevista dall’art. 141 cit.

Nell’esercitare la propria funzione nomofilattica, i giudici di Piazza Cavour hanno consolidato l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla medesima Corte nella sua più alta composizione (Cass., Sez. Un., 30 novembre 2022, n. 35318), che, superando quello fatto proprio dai giudici di merito, ha precisato che l’art. 141 va letto in maniera unitaria e alla luce della sua ratio. In linea con il designato percorso ermeneutico, l’azione diretta in favore del terzo danneggiato si pone come aggiuntiva rispetto alle altre azioni previste dall’ordinamento e mira ad assicurare una tutela rafforzata, assegnandogli un debitore certo nonché facilmente individuabile e, soprattutto, consentendogli di essere indennizzato senza dover svolgere dispendiose ricerche per stabilire a quale dei conducenti coinvolti, e in quale misura, la responsabilità è addebitabile.

Valorizzando il dato letterale, non residuano margini di incertezza in ordine alla circostanza che il meccanismo designato dall’art. 141 cod. ass. presuppone che nel sinistro siano rimasti coinvolti almeno due veicoli (rectius due imprese assicuratrici), pur non essendo necessario che si sia verificato uno scontro materiale fra gli stessi; quella del vettore provvede ad erogare il risarcimento al trasportato danneggiato, sulla base di un accertamento circoscritto all’esistenza e all’entità del danno causalmente correlato al sinistro, salvo poi rivalersi in tutto o in parte nei confronti della diversa compagnia assicuratrice del responsabile civile, previo accertamento delle responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti.

In pratica, per l’accesso all’azione diretta il trasportato ha l’onere di allegare il coinvolgimento di due conducenti e di due imprese, pena il rischio di una lettura “abrogativa” della norma.

Mutatis mutandis, in caso di coinvolgimento di un unico veicolo, l’azione esperibile è esclusivamente quella prevista dall’art. 144 cod. ass., da esercitarsi nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile.

Quanto alla nozione di caso fortuito, viene nuovamente chiarito che è la stessa disposizione in commento che ne esclude una portata applicativa idonea a ricomprendere il fattore umano riferito all’altro conducente, dovendosi intendere circoscritto alle cause naturali e ai danni causati da condotte umane indipendenti dalla circolazione di altri veicoli.

Per quanto attiene alla seconda doglianza, l’ordinanza ribadisce l’altro principio espresso dalla richiamata sentenza pilota della Cassazione, a tenore del quale laddove il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, nei limiti quantitativi stabiliti dall’art. 283, commi 2 e 4, del D.Lgs. 209/2005.

La bontà di tale asserzione riposerebbe nella stessa espressione “impresa di assicurazione del responsabile civile” di cui all’art. 141, comma 4, c.d.a., nel cui alveo applicativo non può che rientrare anche l’impresa designata dal FGVS, ove il veicolo dello stesso responsabile sia sprovvisto di copertura assicurativa.

In conformità alle conclusioni rassegnate, la Cassazione – discostandosi dalle motivazioni e dai precedenti giurisprudenziali richiamati dai giudici di merito – ha accolto il ricorso di parte e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi evidenziati in massima.

 

(*Contributo in tema di “L’azione diretta del terzo trasportato ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

caso fortuito e rimessione

Caso fortuito e rimessione in termini: la Cassazione chiarisce La Corte di Cassazione definisce i requisiti del caso fortuito ai fini della rimessione in termini nel processo penale

Caso fortuito e rimessione in termini

Con la sentenza n. 18618/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato il tema della rimessione in termini per il ricorso per cassazione, specificando i presupposti giuridici che danno rilievo al caso fortuito nel processo penale.

Il fatto processuale

Nel caso di specie, il difensore dell’imputato aveva presentato istanza di rimessione in termini, adducendo il verificarsi di un evento eccezionale che aveva impedito il rispetto del termine per l’impugnazione. Il legale invocava il caso fortuito, chiedendo alla Corte di riconoscerne la sussistenza e di ritenere ammissibile il ricorso presentato oltre il termine ordinario.

La definizione di caso fortuito secondo la Cassazione

La Suprema Corte, richiamando la propria giurisprudenza consolidata, ha ribadito che il caso fortuito si configura come:

“un’accidentalità che opera come causa non conoscibile, ineliminabile con l’uso delle comuni prudenza e diligenza”.

Per essere rilevante ai fini della rimessione in termini, l’evento deve dunque:

  • essere imprevisto e imprevedibile;

  • avere carattere eccezionale e atipico;

  • manifestarsi in modo improvviso;

  • impedire oggettivamente all’agente di conformare tempestivamente la propria condotta alla situazione determinatasi.

Il principio affermato

In applicazione di tali criteri, la Corte ha rigettato la richiesta di rimessione in termini, ritenendo che l’evento dedotto dal difensore non fosse inquadrabile come caso fortuito in senso tecnico-giuridico. La decisione valorizza il profilo dell’esigibilità del comportamento diligente, sottolineando che il caso fortuito deve determinare un impedimento insormontabile e non semplicemente una difficoltà organizzativa o una negligenza, anche se minima.

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spese straordinarie

Reato non pagare le spese straordinarie per i figli Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare

Violazione obblighi di assistenza familiare

Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570-bis c.p.). La norma incriminatrice non si limita infatti all’assegno, ma include tutti gli “obblighi di natura economica in materia di affido dei figli”. Questo comprende sia le spese per i bisogni ordinari dei figli, ma prevedibili e ricorrenti, che quelle imprevedibili e rilevanti, ma indispensabili per il loro interesse. Queste spese, come l’assegno, sono fondamentali per il mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, garantendo il loro benessere. L’inadempimento quindi, se provato, è penalmente rilevante. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza  n. 19715/2025.

Violazione degli obblighi di assistenza familiare

Un uomo viene condannato alla pena della reclusione di due anni per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 bis c.p. L’imputato non ha infatti adempiuto all’obbligo di corrispondere alla ex moglie l’assegno per il mantenimento dei figli e il 50% delle spese straordinarie.

Mancato pagamento delle spese straordinarie 

Nell’impugnare la sentenza l’imputato con il terzo motivo eccepisce la nullità della sentenza per violazione della legge penale. A suo dire il mancato pagamento delle spese straordinarie non integra il reato di cui è stato ritenuto responsabile. L’articolo 570 bis c.p. non si riferirebbe infatti alla violazione degli obblighi economici diversi da quelli relativi alla separazione dei coniugi e all’affido condiviso dei figli.

Spese straordinarie: principi civilistici

La Cassazione annulla senza rinvio la sentenza perché il reato è prescritto e respinge il terzo motivo relativo alle spese straordinarie. Questo il ragionamento della Corte.

Nel caso specifico, l’imputato è stato chiamato a rispondere del mancato pagamento delle spese straordinarie, pattuite al 50% con i provvedimenti di separazione e divorzio. Trattasi nello specifico di importi significativi, in gran parte legati a spese mediche, sanitarie o scolastiche.

Per la difesa il mancato versamento queste spese non costituisce reato, specialmente nel periodo in cui l’assegno di mantenimento e quello divorzile sono stati regolarmente corrisposti. Questa argomentazione difensiva però per gli Ermellini non è fondata.

Spese straordinarie imprevedibili e imponderabili

La Cassazione ricorda che la giurisprudenza civile ha sottolineato l’importanza delle spese straordinarie, dato che la normativa positiva non le definisce in modo esplicito. La giurisprudenza di legittimità ha inquadrato in particolare le spese straordinarie nel contesto del concorso negli oneri relativi all’educazione, istruzione e mantenimento della prole.

La stessa ha stabilito in particolare che le spese “straordinarie” sono quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità, non rientrano nell’ordinaria gestione della vita dei figli. L’inclusione forfettaria di queste spese nell’assegno di mantenimento potrebbe, infatti, violare i principi di proporzionalità e adeguatezza del mantenimento, a discapito della prole (Cassazione n. 1562/2020).

Ai fini giuridici, è stata operata infatti una distinzione tra:

  • esborsi per bisogni ordinari che consistono nelle spese certe e prevedibili, che integrano l’assegno di mantenimento e sono azionabili in base al titolo originario (es. sentenza), con un calcolo puramente aritmetico;
  • spese imprevedibili e rilevanti che sono invece quelle che, per il loro ammontare e per l’imprevedibilità, richiedono un’autonoma azione di accertamento, rispettando l’adeguatezza alle esigenze del figlio e la proporzionalità del contributo del genitore (Cassazione n. 379/2021).

La Cassazione ricorda inoltre che il genitore collocatario non è obbligato a concordare preventivamente ogni spesa straordinaria, ma solo le “decisioni di maggiore interesse” (art. 337-ter c.c.). Negli altri casi, l’altro genitore è tenuto al rimborso, salvo validi motivi di dissenso (Cassazione n. 15240/2018).

Mancato pagamento spese straordinarie reato

Questi principi civilistici sulle spese straordinarie risultano applicabili anche in sede penale. Pertanto, il reato di cui all’art. 570-bis c.p. è integrato anche dal mancato pagamento delle spese straordinarie, sia quelle certe e prevedibili che integrano l’assegno, sia quelle imprevedibili ma indispensabili per l’interesse dei figli, purché previste da un titolo giudiziario o da un accordo tra i coniugi. L’art. 570-bis c.p. fa riferimento del resto non solo all’assegno, ma in generale agli obblighi di natura economica in materia di affido dei figli, nei quali rientrano anche le spese straordinarie, essenziali per garantire il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli come previsto dall’art. 147 c.c.

 

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giurista risponde

Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente La condotta provocatoria antecedente al fatto tenuta dalla persona offesa rileva ai fini del consenso e della non sussistenza del reato di violenza sessuale?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di violenza sessuale, il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere al momento del fatto, ma anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale e antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass., sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2381).

Oggetto di scrutinio da parte della Suprema Corte nella sentenza in commento è la rilevanza del comportamento della persona offesa, antecedente al fatto, ai fini della sussistenza del consenso al momento dell’atto sessuale tale da escludere il reato di cui all’art. 609bis c.p.

La Corte di Appello, in totale riforma della sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale, ha assolto l’imputato dal delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609bis c.p. con formula perché il fatto non sussiste, ritenendo sussistere ragionevoli dubbi sul fatto che l’imputato abbia imposto alla parte offesa un approccio sessuale violento, in ragione del presunto consenso da questa prestato. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso in Cassazione da parte del Procuratore Generale e della costituita parte civile. In particolare, il Procuratore Generale ha presentato due motivi di doglianza con i quali ha lamentato rispettivamente con il primo motivo la violazione di legge e vizio di motivazione per mancato ottemperamento degli standard logici e normativi concernenti la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, atteso che l’esito assolutorio a cui è giunta la sentenza d’appello è frutto di una visione parziale e atomistica del compendio istruttorio; con il secondo motivo è stata, invece, denunciata la violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning migliorativo. La parte civile, altresì, ha dedotto con un unico motivo violazione di legge e vizio di motivazione, nonché travisamento del fatto e della prova, considerato che secondo le prospettazioni della accusa privata la sentenza gravata ha proposto una ricostruzione dei fatti e una valutazione delle risultanze processuali in radicale contrasto con il compendio probatorio raccolto in sede dibattimentale, non valorizzando elementi di prova conducenti inequivocabilmente verso una pronuncia di condanna dell’imputato, ponendo, altresì, in dubbio il presunto libero consenso all’atto sessuale espresso dalla persona offesa ritenuto sussistente dai giudici d’appello.

La Suprema Corte, sebbene la difesa dell’imputato abbia chiesto con memoria la dichiarazione di inammissibilità o comunque il rigetto dei due ricorsi, ha ritenuto questi fondati per i motivi di seguito sintetizzati.

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso in ragione della violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning della sentenza di primo grado in senso favorevole all’imputato, posto che la Corte distrettuale non ha adeguatamente enucleato un percorso argomentativo dotato di maggiore persuasività.

Secondariamente, per quanto di maggiore interesse in questa sede, i giudici di legittimità hanno riconfermato il consolidato principio di diritto enucleato in massime precedenti secondo il quale il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere ma deve anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale antecedente condotta provocatoria da parte della persona offesa: anche quando il fatto sia preceduto da effusioni o da provocazioni, tale condotta non può mai implicare una presunzione di consenso agli atti sessuali posti in essere successivamente (Cass. 4 marzo 2022, n. 7873). Pertanto, il momento che deve essere preso in considerazione, ai fini del reato di violenza sessuale, è quello del compimento dell’atto sessuale, in relazione al quale va verificata la sussistenza del consenso dell’atto stesso, non rilevando, nemmeno sul piano causale, il comportamento provocatorio antecedente della vittima. La presenza del consenso non può essere dedotta da circostanze esterne al perimetro del fatto (quale l’essersi la persona offesa fatta riaccompagnare a casa) ovvero desunto dai costumi sessuali della stessa e deve perdurare per tutto il rapporto senza soluzione di continuità (Cass. 5 aprile 2019, n. 15010); la revoca dello stesso intervenuta in itinere può desumersi da fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà.

Nel caso di specie, non è stato possibile desumersi il consenso ad un rapporto sessuale completo dalla pregressa presenza di effusioni tra l’imputato e la persona offesa, la quale si è allontanata sotto la pioggia pur di lasciare l’abitazione dell’imputato.

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata per violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo giudizio da svolgersi secondo i criteri indicati.

 

(*Contributo in tema di “Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

difensori d'ufficio

Difensori d’ufficio: lo Stato paga anche il recupero crediti La Cassazione riconosce il diritto al rimborso delle spese di recupero crediti per i difensori d’ufficio: lo Stato deve coprire anche questi costi

Difensori d’ufficio e costi recupero credito

Difensori d’ufficio: la Cassazione, con ordinanza n. 14179/2025, ha affermato che lo Stato è tenuto a rimborsare anche le spese sostenute dall’avvocato d’ufficio per l’attività di recupero del credito. A condizione che tali spese siano documentate e riconducibili alla procedura avviata per ottenere il pagamento del compenso professionale. Resta invece legittima la compensazione delle spese se la domanda è articolata in più capi e il ricorrente risulti soccombente in uno di questi.

La vicenda

La controversia trae origine dal ricorso di un avvocato avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano che, pur riconoscendo il compenso per l’attività svolta come difensore d’ufficio in un procedimento penale, aveva escluso il rimborso delle spese connesse alla fase di recupero del credito.

Il legale aveva adito il Palazzaccio, censurando la decisione del Tribunale e sostenendo che quest’ultimo avesse erroneamente escluso l’esistenza di spese vive, in quanto l’attività di recupero era stata svolta in proprio e ritenuta priva di oneri fiscali e tributari.

Il principio espresso dalla Cassazione

Accogliendo il primo motivo del ricorso, la seconda sezione civile della S.C. ha ritenuto che il Tribunale si fosse discostato dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il difensore d’ufficio non può essere gravato delle spese necessarie al recupero del proprio credito. Tali costi, infatti, rientrano tra quelli che devono essere rimborsati dall’Erario, poiché connessi all’attività difensiva svolta nell’interesse del soggetto assistito.

Difensori d’ufficio e compensazione delle spese

È stato invece respinto il secondo motivo di ricorso, volto a contestare la compensazione delle spese disposta dal Tribunale. La Corte ha precisato che, nel caso in esame, la domanda era strutturata in due capi distinti. Uno relativo al pagamento del compenso professionale, l’altro al rimborso delle spese sostenute per ottenerne il riconoscimento. Pertanto, avendo il ricorrente ottenuto accoglimento solo parziale, la decisione di compensare le spese è da ritenersi conforme ai principi processuali vigenti. Non in contrasto, dunque, con la pronuncia delle Sezioni unite n. 32061/2022, invocata dal ricorrente.

L’esito del giudizio

Nel merito, la Cassazione ha quindi cassato l’ordinanza impugnata e liquidato in favore del ricorrente la somma di 500 euro a titolo di rimborso per le spese di recupero del credito, condannando al versamento il ministero della Giustizia, confermando, tuttavia, la compensazione delle spese.

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guida senza patente

Guida senza patente: multa al genitore che non vigila sul figlio Cassazione: genitore multato (con sanzione da oltre 5mila euro) per omessa vigilanza sul figlio minorenne che guida una moto senza patente

Guida senza patente

Guida senza patente: con l’ordinanza n. 14000/2025, la Seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio chiave in materia di responsabilità genitoriale per illecito amministrativo: quando un minore guida un motociclo senza patente, il genitore può essere sanzionato per culpa in vigilando, a meno che non dimostri di aver fatto tutto quanto possibile per impedire la condotta.

Minorenne alla guida di una moto senza patente

Il caso trae origine da un ricorso proposto da un genitore, destinatario di una sanzione amministrativa da 5.110 euro per la violazione dell’art. 116, commi 15 e 17, del Codice della Strada. Il verbale era stato elevato dalla Polizia Stradale di Lecce, dopo aver accertato che il figlio minorenne aveva condotto una Honda 150 cc pur essendo privo di patente, mai conseguita.

Secondo gli agenti, il genitore, pur non autorizzando esplicitamente il comportamento del figlio, non avrebbe esercitato una vigilanza adeguata, incorrendo così nella responsabilità diretta prevista dall’articolo 2 della legge n. 689/1981.

Il percorso giudiziario

La contestazione è stata inizialmente respinta dal Giudice di Pace di Lecce (sentenza n. 2772/2020) e successivamente confermata dal Tribunale, che ha ribadito come il genitore fosse tenuto a impedire materialmente al minore di mettere in atto la condotta illecita. Non è sufficiente, infatti, una vigilanza astratta o generica: è richiesta una condotta attiva e preventiva, volta ad evitare ogni rischio di infrazione.

Cassazione: responsabilità salvo prova contraria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14000 del 2025, ha confermato integralmente le decisioni di merito, specificando che la responsabilità genitoriale per le sanzioni pecuniarie comminate ai figli minorenni è presunta, personale e diretta, e può essere esclusa solo se si fornisce una prova rigorosa dell’impossibilità di impedire l’evento.

In altre parole, il genitore può evitare la multa solo se dimostra, con elementi concreti, di avere:

  • esercitato un controllo continuo e adeguato sul figlio;

  • adottato tutte le misure ragionevoli per impedirgli l’uso del veicolo;

  • non avuto in alcun modo la possibilità concreta di impedire l’infrazione.

Nel caso di specie, tali requisiti non risultavano soddisfatti, e la multa è stata ritenuta legittima.

Culpa in vigilando

La decisione si fonda su un principio consolidato: in caso di illeciti stradali commessi da minorenni, i genitori rispondono non come meri garanti astratti, ma in quanto obbligati a una vigilanza attiva e continua, soprattutto in situazioni ad alto rischio come l’utilizzo di veicoli a motore. La culpa in vigilando, in ambito amministrativo, comporta dunque una responsabilità autonoma, che può derivare anche da comportamenti omissivi.

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sospensione condizionale della pena

Sospensione condizionale della pena: ok anche con un precedente La Cassazione stabilisce che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l'imputato risulta gravato da un solo precedente penale

Sospensione condizionale della pena

Con la sentenza n. 19426/2025, depositata il 27 maggio 2025, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio di equilibrio tra repressione e rieducazione, stabilendo che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l’imputato risulta gravato da un solo precedente penale iscritto nel casellario giudiziale.

Il caso concreto

Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309 e aveva chiesto la concessione del beneficio della sospensione condizionale, previsto dal codice penale quando la pena inflitta non supera i due anni di reclusione.

Tuttavia, il giudice di merito aveva rigettato la richiesta, sostenendo che l’imputato non poteva beneficiarne in quanto già gravato da precedenti penali. 

Il principio sancito dalla Cassazione

La S.C. osserva che dal certificato del Casellario giudiziale allegato al ricorso e presente nel fascicolo processuale emerge, come evidenziato dal ricorrente, una sola condanna, per reato della stesa indole, a pena sospesa in astratto non ostativa alla concessione una seconda volta del beneficio in oggetto (quattro mesi di reclusione ed euro 600,00 di multa).

Secondo la Cassazione, infatti, la mera esistenza di un precedente penale non esclude automaticamente la possibilità di ottenere la sospensione condizionale della pena, salvo che ricorrano circostanze che rendano inconciliabile la concessione del beneficio con la finalità rieducativa della pena.

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addebito della separazione

Addebito della separazione al marito che disprezza  la moglie Addebito della separazione al marito che quotidianamente e in presenza di terze persone dimostra disprezzo nei confronti della moglie

Marito sprezzante: addebito della separazione

Sull’addebito della separazione al marito della coppia separata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12799/2025 dichiara di condividere le conclusioni dei giudici di merito. Dalle prove emerse nel giudizio di primo e di secondo grado è emerso infatti che la fine del matrimonio è attribuibile solo al marito. Costui, anche in presenza di terzi, ha infatti sempre palesato il proprio disprezzo nei confronti della moglie.

Addebito della separazione: marito autoritario

Il Tribunale di Milano  pronuncia la separazione personale di due coniugi, addebitandola al marito. Il marito appella la decisione, contestando l’addebito a suo carico.

Marito responsabile della fine del matrimonio

La Corte d’Appello di Milano però conferma la decisione di primo grado su questo punto. Per l’autorità giudiziaria la condotta dell’uomo verso la moglie è stata sempre autoritaria e quotidianamente sprezzante. È proprio questo comportamento ad aver compromesso irrimediabilmente l’unione matrimoniale. La testimonianza della cognata ha confermato questa tesi, confermando il continuo disprezzo del marito nei confronti della coniuge. La Corte ha anche evidenziato che il marito ha costretto la figlia e il suo compagno a lasciare un appartamento di sua proprietà dopo un litigio con la moglie. Ragione per la quale la donna ha abbandonato la casa coniugale per trasferirsi altrove. Per la Corte è quindi indubbio che la responsabilità della fine del matrimonio sia da attribuire interamente all’uomo. Il marito però non accetta queste conclusioni e per questo ricorre in Cassazione.

Contestazioni all’addebito della separazione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 151 c.c., la nullità della sentenza per mancata pronuncia su una specifica domanda, l’assenza dei presupposti per l’addebito a suo carico, l’errata lettura e valutazione delle dichiarazioni testimoniali e dei documenti e la mancata pronuncia sulla domanda di addebito formulata nei confronti della moglie.

Omessa pronuncia su addebito separazione alla moglie

Il ricorrente lamenta in particolare che la sentenza avrebbe omesso di pronunciarsi sulla sua domanda di addebito contro la moglie. Detta richiesta tra l’altro, ampiamente argomentata e supportata da documentazione (anche medica), avrebbe offerto una valutazione delle dichiarazioni testimoniali non coerente, ritenendo attendibile, nonostante le contraddizioni, la testimonianza della figlia, rancorosa nei confronti del padre per la questione dell’appartamento. Sottolinea anche l’omessa valutazione di altre testimonianze. Si duole infine della mancata risposta alla sua domanda di addebito, fondata sul rifiuto della moglie di accompagnarlo a un intervento chirurgico, sugli insulti e le invettive a lui rivolte, e sulla violenza fisica perpetrata dalla moglie dopo il suo intervento al cuore.

Abbandono del tetto coniugale della moglie

L’uomo evidenzia inoltre che la moglie aveva appoggiato la figlia nella disputa sull’appartamento, assumendo un contegno offensivo, allontanandolo dal letto coniugale e abbandonandolo a sé stesso. Afferma infine di essere stato vittima di aggressione fisica e verbale da parte della moglie nonostante fosse convalescente da un intervento di bypass coronarico, circostanza che lo aveva costretto a recarsi al Pronto Soccorso.

Provate le continue condotte sprezzanti

La Corte di Cassazione nel pronunciarsi sul motivo incentrato sulla contestazione dell’addebito della separazione, lo dichiara inammissibile. Per gli Ermellini, in relazione all’addebito della separazione a carico della moglie, il ricorrente si è limitato a fornire una diversa valutazione degli esiti istruttori, il che non è sindacabile in sede di legittimità, essendo il giudizio sui fatti riservato al giudice di merito. La denuncia dell’omessa pronuncia sulla domanda di addebito da parte della Corte d’Appello non supera la soglia di ammissibilità. Il ricorrente non ha precisato il contenuto esatto della domanda formulata in primo grado e in appello.

Addebito della separazione: marito unico responsabile

In ogni caso, la Corte d’Appello ha ritenuto la responsabilità esclusiva del marito per la fine dell’unione, rigettando implicitamente la domanda di addebito formulata dal marito. Per questo non si configura vizio di omessa pronuncia. Per il resto, il motivo si risolve in censure di merito, inammissibili in sede di legittimità. Del resto, la valutazione delle prove e l’esame dei documenti sono attività riservate al giudice di merito, le cui conclusioni non sono sindacabili in Cassazione se adeguatamente motivate. La Corte ha ritenuto provate le condotte quotidianamente disprezzanti del marito nei confronti della moglie, sufficienti ad addebitare la separazione, il ricorrente invece ha semplicemente contrapposto una sua diversa valutazione.

 

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