Parcheggio non pagato: non è valido il verbale dell’agente ATM Per la Cassazione, gli ispettori dell'azienda di trasporto pubblico non hanno il potere di accertare le violazioni del Cds nell'intero territorio comunale

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ToggleCon l’ordinanza n. 22476/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che le sanzioni tributarie hanno natura personale e, in caso di decesso del contribuente, non possono essere trasmesse agli eredi.
Una volta documentata la morte del soggetto destinatario della sanzione, viene meno la materia del contendere.
Il caso riguardava un contribuente che deteneva investimenti non dichiarati all’estero. Dalla documentazione acquisita risultavano sanzioni calcolate in misura pari a 246.806 euro per l’anno 2008 e a 216.840 euro per l’anno 2009.
Nel corso del procedimento il contribuente è deceduto (22 giugno 2024) e la questione è giunta in Cassazione.
La Corte ha richiamato l’articolo 8 del decreto legislativo n. 472/1997, che sancisce l’intrasmissibilità agli eredi delle sanzioni tributarie. Tale previsione discende dal principio di responsabilità personale, già contenuto nell’articolo 2 dello stesso decreto.
In altre parole, la sanzione riguarda esclusivamente la condotta dell’autore della violazione e non può gravare sui suoi successori.
Secondo la Cassazione, il credito dell’erario derivante da violazioni tributarie riferibili a persone fisiche si estingue con la morte dell’autore.
Pertanto, una volta accertato il decesso, l’Amministrazione finanziaria non può più pretendere il pagamento e il giudizio deve dichiararsi estinto.
I giudici hanno inoltre chiarito che non vi è luogo a provvedere sulle spese di giudizio. Richiamando l’orientamento già espresso in materia di sanzioni amministrative (Cass. n. 29577/2021), la Corte ha precisato che la morte del destinatario rende superfluo l’esame dei motivi di ricorso e impedisce l’applicazione del criterio della “soccombenza virtuale”.
Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Davide Venturi
Un contratto di locazione può essere dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa ove ispirato a finalità distrattive. – Cass., sez. I, ord. 9 aprile 2025, n. 9357.
Nell’ordinanza in esame la Suprema Corte ha specificato che in linea di principio, in assenza di una norma che vieti in via generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, un contratto lesivo dei diritti e delle pretese satisfattorie dei creditori non è di per sé illecito. Ne deriva che non può essere dichiarato nullo per illiceità della causa, né per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alle parti (se il contratto è stipulato con finalità vietata dall’ordinamento perché contraria norma imperativa, all’ordine pubblico o al buon costume), in quanto l’ordinamento appresta, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione di inefficacia.
Qualora però, oltre al pregiudizio dei creditori, un contratto violi anche una norma imperativa penale, l’atto negoziale è nullo ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.
Trattasi delle ipotesi c.d. di reato-contratto (come la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione, il commercio di prodotti con segni falsi, il trasferimento di un bene in pagamento di un debito usurario) ove il contratto collide così gravemente con interessi di indole generale da assurgere di per sé alla qualificazione di reato.
Allo stesso modo, anche gli atti attraverso cui la società, poi assoggettata a procedura concorsuale, abbia determinato il trasferimento in favore di terzi di beni propri, così distraendoli alla soddisfazione della massa dei creditori, risultano assoggettati alla sanzione di nullità in quanto compiuti in violazione di norme incriminatrici, in materia di bancarotta (oggi liquidazione coatta amministrativa), norme altresì applicabili anche all’amministrazione straordinaria di una grande impresa dichiarata insolvente a norma dell’art. 95, comma 1 del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270.
Ciò rende evidente che l’area delle norme inderogabili la cui violazione può determinare la nullità del contratto è più ampia e non comporta di far riferimento al solo contenuto del contratto medesimo, ma ricomprende anche tutte quelle norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni, oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto.
Tuttavia, se al momento della dichiarazione giudiziale di insolvenza non sussiste più alcun pericolo concreto di per le ragioni dei creditori, essendosi posto effettivo rimedio agli atti distrattivi precedentemente compiuti (la c.d. bancarotta “riparata”), non sussisterebbe più l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, con la conseguenza che è da escludersi la nullità dei contratti in essere.
Ebbene, un contratto di locazione, dedotto a sostegno della domanda di ammissione al passivo del credito dell’imposta di registro sostenuta, non può essere considerato nullo poiché elemento concorrente alle operazioni distrattive volte a depauperare parte del patrimonio societario (la cui integrità è il bene giuridico tutelato dal precetto penale quale norma imperativa di riferimento) se dall’operazione distrattiva compiutamente realizzata per effetto di precedenti delibere assembleari ormai definitive non risulti il collegamento funzionale del contratto di locazione medesimo con le operazioni societarie distrattive stesse di cessione degli immobili sociali al creditore che vanta il credito stesso. Per la Suprema Corte, il collegamento, invero, può risultare da dati fattuali quali la misura abnorme dei canoni pattuiti, altrimenti il contratto è valido.
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ToggleUn ex marito aveva impugnato la decisione della Corte d’appello, chiedendo la riduzione dell’assegno divorzile da 1.500 a 250 euro mensili.
Secondo il ricorrente, la ex moglie – beneficiaria dell’assegno – non aveva rispettato l’obbligo di contribuire alle spese straordinarie del figlio nella misura del 30%. Inoltre, egli sosteneva di aver sostenuto di tasca propria ulteriori spese “voluttuarie” a favore del figlio, elemento che, a suo avviso, avrebbe dovuto incidere sul diritto della donna a percepire l’assegno.
La Cassazione, con la sentenza n. 19670/2025, ha respinto questo motivo di ricorso, precisando che:
le spese straordinarie rappresentano obblighi autonomi, distinti dal diritto all’assegno divorzile;
l’eventuale inadempimento della madre può essere fatto valere come violazione del provvedimento di divorzio, ma non comporta automaticamente la riduzione o la perdita dell’assegno;
le spese ulteriori sostenute volontariamente dal padre per il figlio sono irrilevanti rispetto alla posizione giuridica della madre.
La Corte ha però accolto gran parte delle doglianze dell’ex marito (sei motivi su otto), evidenziando che i giudici di merito avevano applicato in maniera errata il principio di non contestazione.
Il giudice di primo grado e quello di appello avevano ritenuto che il ricorrente non avesse specificamente contestato i presupposti perequativi e compensativi dell’assegno divorzile, considerandoli così non contestati.
La Cassazione ha invece rilevato che l’uomo aveva sempre messo in discussione la parte perequativa dell’assegno, sottolineando che entrambi i coniugi avevano lavorato a tempo pieno durante il matrimonio, senza scelte condivise che avessero penalizzato la moglie nella carriera.
La Suprema Corte ha ribadito che l’assegno divorzile ha una duplice funzione:
assistenziale, a favore del coniuge economicamente più debole;
perequativo-compensativa, che richiede un’attenta verifica delle scelte di vita condivise durante il matrimonio e dei sacrifici eventualmente sostenuti da uno dei coniugi.
Se, come nel caso esaminato, entrambi hanno mantenuto un’attività lavorativa stabile e autonoma, non può essere riconosciuta una funzione perequativa automatica.
L’ex marito aveva anche contestato la presunta inattività della ex moglie nel migliorare la propria condizione economica.
La Cassazione ha respinto tale motivo, osservando che la donna aveva sempre esercitato la professione di infermiera a tempo pieno, circostanza che escludeva qualsiasi addebito di inerzia o scarsa diligenza.
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ToggleLa Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 27641/2025, ha confermato la condanna di una donna per violazione della legge sul diritto d’autore (art. 171, comma 1, lett. a), legge n. 633/1941).
L’imputata era stata riconosciuta responsabile della riproduzione e della commercializzazione di 21 cubi di Rubik e oltre 63.000 stickers raffiguranti personaggi Disney.
La difesa aveva sostenuto che, a seguito della decisione della Corte di giustizia europea che aveva escluso la registrazione del marchio tridimensionale del cubo, non vi fosse più alcuna tutela.
La Suprema Corte ha respinto l’argomento difensivo, chiarendo che l’impossibilità di registrare il marchio non incide sulla protezione accordata dal diritto d’autore.
Il cubo di Rubik è qualificabile come opera dell’ingegno ai sensi della legge n. 633/1941, la quale tutela la creatività e lo sfruttamento economico delle opere, indipendentemente da formalità legate a marchi o brevetti.
Il Collegio ha richiamato precedenti giurisprudenziali in materia, come:
Cass. n. 45735/2016 (magliette con personaggi animati);
Cass. n. 17218/2011 (portacellulari con immagini di cartoni animati).
La Cassazione ha giudicato “inconferente” il richiamo della difesa all’annullamento del marchio da parte della Corte Ue.
In linea con questo orientamento, anche il Tribunale Ue (sentenza 9 luglio 2025, C-1170/23, Spin Master v. EUIPO) e il Tribunale di Venezia (ordinanza 30 aprile 2025) hanno riconosciuto che il cubo può essere tutelato come opera di design industriale.
Oltre al cubo di Rubik, la sentenza affronta la questione della riproduzione di stickers raffiguranti personaggi Disney. La Corte ha ritenuto provata la violazione sulla base della testimonianza degli operanti, evidenziando come la riproduzione fosse fedele e idonea a integrare il reato.
La Cassazione ha infine respinto la richiesta di proscioglimento per particolare tenuità del fatto. Il numero considerevole dei prodotti sequestrati è stato ritenuto sufficiente per escludere tale possibilità.
La sentenza n. 27641/2025 ribadisce un principio fondamentale: la tutela penale del diritto d’autore non dipende dalla registrazione di un marchio o da un brevetto, ma dalla qualificazione dell’opera come frutto della creatività intellettuale.
Il cubo di Rubik, pur privo di marchio tridimensionale registrabile, resta dunque protetto come opera dell’ingegno.
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ToggleSecondo la Corte di cassazione, con la sentenza n. 25348/2025, integra il reato di autoriciclaggio anche la condotta consistente nel versamento in banca di somme di denaro provenienti da reato, senza necessità di ulteriori operazioni complesse.
Alla base della decisione vi è la considerazione che, essendo il denaro un bene fungibile, il solo deposito presso un istituto bancario determina automaticamente una sostituzione del denaro illecito con quello “pulito”, poiché l’istituto ha l’obbligo di restituire al cliente non le stesse banconote, ma un equivalente economico (tantundem).
Nel caso esaminato, l’imputato – condannato a 3 anni di reclusione e 7mila euro di multa – aveva sostenuto la tracciabilità delle operazioni bancarie (tra cui acquisto titoli, trasferimenti tra conti e operazioni immobiliari), ritenendo che l’assenza di un mutamento della titolarità formale escludesse l’intento dissimulatorio.
La Suprema Corte ha respinto questa tesi, affermando che non è necessario un occultamento totale: basta qualsiasi attività concretamente idonea anche solo ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, indipendentemente dalla tracciabilità apparente delle operazioni.
Le “plurime e articolate” operazioni effettuate dall’imputato sono state considerate dalla Corte indicative di un disegno strategico volto alla reimmissione dei proventi illeciti nel circuito economico. Acquisti di titoli azionari, trasferimenti tra conti deposito e impieghi immobiliari rappresentano una trasformazione progressiva della somma iniziale, con effetti dissimulatori evidenti.
La Cassazione ha ricordato che è irrilevante la mancanza di dispersione del denaro e la persistenza della stessa intestazione dei conti: ciò che rileva è la difficoltà concreta nell’identificare l’origine del denaro, elemento che distingue il godimento personale (non punibile) da una condotta penalmente rilevante.
La Corte ha fatto riferimento anche alla formulazione estensiva dell’art. 648-ter.1 c.p., che include attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Il concetto di “attività speculativa”, volutamente non tipizzato dal legislatore, ricomprende ogni operazione economica svolta per trarne un profitto, anche se apparentemente lecita, ma che in realtà consente l’infiltrazione di capitali illeciti nell’economia legale.
Si tratta quindi di azioni che, pur formalmente lecite, alterano il mercato e mascherano la provenienza del denaro, rendendolo apparentemente legittimo.
La Cassazione ha precisato che l’unica circostanza in cui non si configura autoriciclaggio è quella in cui l’autore utilizzi direttamente il profitto del reato presupposto per un consumo personale o un uso che non comporti ostacoli alla tracciabilità.
Nel caso contrario, anche il semplice impiego in operazioni che ostacolano, anche solo parzialmente, l’individuazione della fonte illecita integra il reato.
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ToggleIl sistema processuale penale italiano prevede diversi strumenti per contestare le decisioni del giudice. Tra questi, spicca il ricorso immediato in Cassazione, noto anche come ricorso “per saltum”. Questo strumento consente a una parte di impugnare direttamente una sentenza di primo grado davanti alla Corte di Cassazione, saltando il tradizionale giudizio di appello. La giurisprudenza richiede però l’accordo di tutte le parti.
La norma che disciplina il ricorso per saltum nei processi penali è l’articolo 569 c.p.p, che così dispone:
“1. La parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente ricorso per cassazione.
2. Se la sentenza è appellata da una delle altre parti, si applica la disposizione dell’articolo 580. Tale disposizione non si applica se, entro quindici giorni dalla notificazione del ricorso, le parti che hanno proposto appello dichiarano tutte di rinunciarvi per proporre direttamente ricorso per cassazione. In tale caso, l’appello si converte in ricorso e le parti devono presentare entro quindici giorni dalla dichiarazione suddetta nuovi motivi, se l’atto di appello non aveva i requisiti per valere come ricorso.
3. La disposizione del comma 1 non si applica nei casi previsti dall’articolo 606 comma 1 lettere d) ed e). In tali casi, il ricorso eventualmente proposto si converte in appello.
4. Fuori dei casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado, la corte di cassazione, quando pronuncia l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata a norma del comma 1, dispone che gli atti siano trasmessi al giudice competente per l’appello.”
Dalla lettura dell’articolo 569 c.p.p emerge che chi ha il diritto di appellare una sentenza di primo grado può presentare, in via alternativa, il ricorso immediato per Cassazione. Questa opzione si applica però solo alle sentenze che normalmente sarebbero appellabili. Le sentenze inappellabili, infatti, si possono impugnare solo con il ricorso ordinario per Cassazione.
Il ricorso per saltum non può però pregiudicare i diritti delle altre parti a un processo su tre gradi. Difatti se una parte propone ricorso immediato in Cassazione e le altre parti appellano la medesima sentenza, il ricorso”per saltum” si trasforma in appello. Questa conversione avviene secondo l’articolo 580 c.p.p.
Alle altre parti però non può essere negato il diritto di riflettere sulla convenienza del ricorso “per saltum”. Se, entro quindici giorni dalla notifica del ricorso, tutte le parti che hanno proposto appello dichiarano di voler rinunciare, l’appello si converte in ricorso. In questo caso però le parti devono presentare nuovi motivi entro quindici giorni dalla dichiarazione, se l’atto di appello iniziale non rispettava i requisiti necessari per valere come un ricorso in Cassazione.
Il ricorso “per saltum” però non è sempre possibile. Esso non si può utilizzare se i motivi di impugnazione riguardano:
In queste situazioni, il ricorso “per saltum” eventualmente proposto si trasforma in appello.
La Cassazione può accogliere il ricorso o rigettarlo.
Quando lo accoglie è regola che disponga l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice dell’appello, fuori dai casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado.
Se invece la Cassazione rigetta il ricorso, la sentenza di primo grado impugnata viene confermata.
Il ricorso “per saltum” offre il vantaggio di far risparmiare tempo e ridurre i costi.
Tuttavia, presenta anche degli svantaggi. Le parti perdono l’opportunità di presentare nuovi argomenti o prove in un eventuale secondo grado di giudizio.
Da precisare infine che il ricorso “per saltum” si ammette generalmente solo per motivi di diritto. Si può contestare cioè la corretta applicazione delle norme, mentre non si può ricorrere per questioni relative all’acquisizione o alla valutazione delle prove.
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ToggleL’amministratore di condominio ha il dovere di garantire la copertura assicurativa dell’edificio, provvedendo al pagamento dell’assicurazione in modo puntuale. La mancata corresponsione dell’importo dovuto comporta la sospensione della polizza e può determinare la responsabilità personale dell’amministratore per i danni subiti dal condominio.
La Corte di Appello di Ancona, con sentenza n. 1001 del 29 luglio 2025, ha ribadito che non è sufficiente invocare la mancanza di fondi: l’amministratore deve dimostrare di aver sollecitato concretamente i condòmini al versamento delle quote necessarie.
Una donna, recandosi in uno studio situato all’interno di un condominio, cadeva sulle scale interne, prive di corrimano e di sistemi antiscivolo. Dopo l’infortunio, avviava una richiesta di indennizzo alla compagnia assicurativa indicata dall’amministratore.
La compagnia rifiutava il pagamento, evidenziando che il premio non era stato saldato e che la copertura era sospesa. Il condominio, citato in giudizio, respingeva ogni responsabilità, attribuendo l’accaduto alla disattenzione della donna e chiedendo la chiamata in causa dell’amministratore per grave inadempimento.
L’amministratore sosteneva di non aver potuto pagare il premio per assenza di fondi, imputando tale situazione alla morosità di alcuni condòmini. Tentava inoltre di rivalersi su due polizze personali, che però risultavano intestate a lui come persona fisica e non alla società amministratrice, risultando così irrilevanti.
Il Tribunale di primo grado respingeva la domanda della danneggiata, ritenendola esclusivamente responsabile. La Corte d’Appello, invece, riformava la decisione:
riconosceva un concorso di colpa (60% alla donna ai sensi dell’art. 1227 c.c., 40% al condominio ex art. 2051 c.c.);
condannava l’amministratore a risarcire il condominio per il mancato pagamento del premio, ritenuto un grave inadempimento contrattuale.
La Corte ha sottolineato che l’amministratore non può giustificarsi con generiche affermazioni di mancanza di liquidità. È necessario dimostrare di aver intrapreso tutte le iniziative idonee a reperire le somme, compresi solleciti scritti e azioni nei confronti dei morosi. Nel caso esaminato, era stata rinvenuta solo una diffida a un singolo condòmino, senza alcun riferimento alla necessità di coprire il premio assicurativo.
Questo orientamento è coerente con la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 2831/2021), che afferma la responsabilità dell’amministratore quando la scopertura assicurativa derivi dall’omesso pagamento dei premi.
Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Davide Venturi
L’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori. – Cass., sez. II, ord. 18 aprile 2025, n. 10231 (vizi dell’opera).
L’appaltatore, per essere esonerato da ogni responsabilità, in virtù del disposto dell’art. 2697 c.c. in relazione agli artt. 1667 e 1669 c.c., deve dimostrare di aver agito come un mero esecutore privo di libertà decisionale; pertanto, non spetta al committente provare di aver impartito istruzioni in modo sufficiente ed esatto.
In particolare, secondo giurisprudenza consolidata, l’appaltatore ha l’onere di dimostrare di aver segnalato le eventuali carenze e gli errori nel progetto e nelle indicazioni ricevute dal committente (nel caso di specie l’esecuzione di fondazioni senza un preliminare progetto geotecnico e senza la preventiva richiesta di un collaudatore di opere strutturali) e di aver eseguito comunque l’intervento poiché la committenza deteneva un rigido potere di direzione e controllo dell’attività.
In altri termini, posto che l’appaltatore – professionista o imprenditore – ha l’obbligo di realizzare l’opera oggetto del contratto nel rispetto della diligenza qualificata di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., ovverosia a “regola d’arte”, quindi con l’osservanza dei criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, previo rilievo e correzione di eventuali errori, qualora egli esegua i lavori senza manifestare dissenso alcuno, magari anche garantendo la bontà dell’esecuzione dell’opera commissionatagli, egli è, di fatto, responsabile dei danni occorsi a terzi a titolo di responsabilità contrattuale derivante dalla propria obbligazione di risultato, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori.
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TogglePrima di procedere all’analisi dell’errore di fatto e l’errore di diritto è necessario premettere che in diritto civile, l’errore è un vizio del consenso che può provocare l’annullamento del contratto. In questo modo il soggetto che ha espresso la volontà “viziata” viene tutelato. Lo prevede l’articolo 1427 del Codice civile. In base a questa norma infatti il contraente che ha dato il consenso per errore, può chiedere l’annullamento del contratto.
Esistono due tipi di errore: l’errore vizio e l’errore ostativo.
Sebbene i due tipi di errore abbiano origini diverse, la legge li tratta allo stesso modo, stabilendo che entrambi possano portare all’annullamento del contratto, sempre che siano essenziali e riconoscibili.
A prescindere dalla sua natura, infatti, affinché l’errore possa provocare l’annullamento del contratto, deve essere essenziale e riconoscibile dall’altra parte, come stabilito dall’articolo 1428 del Codice Civile.
L’errore vizio si distingue a sua volta in errore di fatto ed errore di diritto.
L’errore di fatto si ha quando la falsa rappresentazione della realtà riguarda una circostanza materiale o concreta. L’articolo 1429 del Codice Civile elenca i casi in cui un errore di fatto è considerato essenziale, ossia quando lo stesso ricade:
L’errore di diritto invece si ha quando la falsa rappresentazione riguarda una norma giuridica. L’errore di diritto può essere causa di annullamento del contratto solo quando è stata la ragione unica o principale del consenso. Ciò significa che la parte non avrebbe stipulato il contratto se avesse avuto una corretta conoscenza della norma.
Un aspetto importante della disciplina dell’errore è la possibilità di conservare il contratto rettificato, anche in presenza di un errore. L’articolo 1432 del Codice Civile stabilisce infatti che la parte in errore non possa chiedere l’annullamento del contratto se, prima che le derivi un pregiudizio, l’altra parte si offre di eseguirlo in modo conforme a ciò che la parte in errore intendeva stipulare. Questa disposizione mira a salvaguardare il contratto, in linea con il principio di conservazione del contratto, e di tutela della buona fede contrattuale.
La Corte di Cassazione ha affrontato il tema dell’errore come vizio del consenso in ambito contrattuale in numerosissime sentenze. Vediamone alcune.
Cassazione n. 2622/2021: per poter annullare un contratto, l’errore deve aver viziato la formazione della volontà del contraente. L’onere della prova di tale vizio spetta a chi lo deduce.
Cassazione n. 20321/2019: riguarda l’errore nella determinazione del canone di locazione per un immobile non abitativo. Per contestare il pagamento è necessario agire per l’annullamento del contratto, dimostrando che l’errore ha viziato il consenso fin dall’inizio.
Cassazione n. 27916/2017: se le parti hanno stipulato un contratto di compravendita ignorando che il terreno non fosse edificabile, si rientra nell’ errore di fatto e il contratto può essere annullato.
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Con l’ordinanza n. 15881/2025, la Corte di Cassazione ha confermato la sanzione di 10mila euro inflitta a una società digitale per invio illecito di comunicazioni promozionali. L’azienda, titolare di un sito di comparazione, aveva iscritto automaticamente i propri utenti a una newsletter periodica, senza aver raccolto un consenso esplicito ai sensi dell’art. 23 del Codice Privacy (d.lgs. 196/2003).
Il titolare del trattamento può inviare email promozionali senza nuovo consenso solo se le coordinate email sono state acquisite in fase di vendita diretta di prodotti o servizi propri, e l’interessato non si sia opposto. Tuttavia, nel caso di specie, l’utente si era solo registrato alla piattaforma, senza acquistare alcun servizio. Inoltre, il sito operava come aggregatore di offerte di terzi, non come venditore diretto.
Secondo la Suprema Corte, l’uso dell’indirizzo email in questi casi richiede sempre il consenso preventivo e specifico dell’utente. Il mancato rispetto di tale obbligo costituisce un trattamento illecito dei dati personali, sanzionabile dal Garante Privacy anche in assenza di danno concreto.
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ToggleLa mancanza del certificato di abitabilità al momento del rogito non configura automaticamente un danno risarcibile per l’acquirente, se il venditore provvede successivamente alla regolarizzazione. A ribadirlo è la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 19923/2025, che conferma l’orientamento consolidato in materia.
La vicenda trae origine da un contratto di compravendita immobiliare stipulato nel 2013, in cui l’acquirente aveva scoperto solo in un momento successivo che l’immobile non era munito del certificato di abitabilità. Nel 2016, la stessa aveva promosso azione giudiziaria chiedendo la riduzione del prezzo e il risarcimento di danni patrimoniali e non patrimoniali.
Il Tribunale ha ritenuto la domanda improcedibile per decorso dei termini, ma la Corte d’appello, pur dichiarandola procedibile, ha rigettato la richiesta nel merito, riconoscendo che il certificato era stato rilasciato nel 2014, quindi in epoca successiva ma utile a sanare il vizio originario.
La Corte di cassazione ha condiviso il giudizio dei giudici di merito, escludendo la configurabilità della vendita di aliud pro alio, cioè la consegna di un bene diverso da quello pattuito. «La sanatoria dell’originaria irregolarità – si legge nell’ordinanza – ha escluso la sussistenza del danno da non commerciabilità del bene», non rilevando la sola mancanza formale del certificato al momento della vendita, in assenza di difetti sostanziali o ostacoli permanenti alla commerciabilità.
La semplice assenza del certificato non comporta automaticamente un danno. La Corte ricorda che il danno, per essere risarcibile, deve essere allegato e dimostrato nel concreto: ad esempio, una perdita di valore del bene, spese necessarie per sanare la situazione o difficoltà nel rivendere l’immobile.
Nel caso concreto, nessuna prova in tal senso è stata fornita dall’attrice, che ha quindi visto respingere definitivamente le proprie pretese.
La Cassazione ribadisce un principio ormai consolidato: l’agibilità è sì un elemento essenziale ai fini della commerciabilità dell’immobile, ma la sua assenza non è sufficiente a integrare un inadempimento del venditore, se è possibile la regolarizzazione successiva e se l’acquirente non dimostra un concreto pregiudizio subito.
Il diritto alla pausa è un diritto che il nostro ordinamento riconosce al lavoratore dipendente quando la giornata lavorativa supera le sei ore. Questa sospensione dall’attività lavorativa è necessaria per recuperare le energie, consumare un eventuale pasto e interrompere la ripetitività del lavoro.
L’articolo 8 del decreto legislativo n. 66/2023 (attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro) dispone che qualora la giornata lavorativa preveda più di 6 ore di attività, il dipendente ha diritto a un intervallo di pausa per il recupero delle energie fisiche e psichiche, per la consumazione di un eventuale pasto e per attenuare la monotonia delle mansioni.
Le specifiche riguardo alla durata e alle modalità di fruizione della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva. Qualora non sia presente una specifica disciplina collettiva, il lavoratore ha comunque diritto a una pausa di almeno 10 minuti. Questa pausa deve essere concessa tra l’inizio e la fine del turno giornaliero, tenendo conto delle esigenze tecniche del processo produttivo.
In linea generale, e salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, i periodi di pausa non sono considerati ore di lavoro retribuite e non concorrono al superamento dei limiti massimi di durata dell’orario di lavoro.
Questa disposizione si rifà a normative storiche in materia di orario di lavoro e riposi.
L’articolo 5 del Regio decreto n. 1955/1923 prevede infatti che le interruzioni di almeno 10 minuti e non più di due ore, durante le quali non viene richiesta alcuna prestazione al dipendente non vengono calcolate come lavoro effettivo. Di conseguenza, non sono retribuite e non rientrano nel calcolo dell’orario massimo, salvo particolari eccezioni.
Parimenti l’articolo 4 del Regio decreto n. 1956/2023 prevede che le pause intermedie che si prendono durante la giornata lavorativa non sono considerate lavoro effettivo. Di conseguenza, non vengono calcolate nel limite massimo di ore di lavoro giornaliere stabilito dalla legge.
Diversi aspetti applicativi del diritto alla pausa lavorativa sono stati specificati anche dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione.
Cassazione n. 21878/2025: il diritto alla pausa viene riconosciuto solo se il lavoratore può dimostrare che la pausa stessa è strettamente connessa o collegata alla sua prestazione lavorativa.Inoltre, per poter usufruire di questo diritto, la pausa deve essere eterodiretta, ovvero deve essere gestita e controllata dal datore di lavoro, e il lavoratore non deve averne la completa autonomia per quanto riguarda la sua durata.
Cassazione n. 20249/2025: la continua inosservanza dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 può causare un danno da usura psicofisica al lavoratore. Questo danno può essere riconosciuto anche senza una prova diretta, purché si basi su presunzioni fondate.
Cassazione n. 12504/2025: la pausa non può essere negata o limitata dal datore di lavoro, in quanto è un elemento fondamentale per la salute e il benessere del lavoratore.Il datore di lavoro può intervenire e limitare la pausa solo in due casi: se la durata supera il tempo stabilito dal contratto collettivo o dal regolamento aziendale, in mancanza di queste disposizioni, se la pausa supera i 10 minuti. In conclusione, il datore di lavoro può vietare la pausa solo se questa eccede i limiti di tempo previsti.
Cassazione n. 8707/2025: legittimo il licenziamento dell’incaricato della raccolta porta a porta dei rifiuti. La motivazione è stata la violazione dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003, che riguarda le pause intermedie. Nello specifico, il lavoratore aveva effettuato soste frequenti e prolungate in bar durante l’orario di servizio, superando i limiti di tempo previsti per le pause.
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