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Correzione errore materiale: nessuna condanna alle spese Correzione errore materiale: la natura amministrativa del procedimento non realizza una soccombenza con relativa condanna alle spese
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Correzione errore materiale e condanna spese
Non si può disporre alcuna condanna alle spese al termine di un procedimento volto alla correzione dell’errore materiale presente in una sentenza. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite civili nella sentenza n. 29432/2024. Questo procedimento ha infatti una natura amministrativa, per cui non si può parlare di “soccombenza”; nemmeno quando l’altra parte, partecipa al procedimento e si oppone alla correzione.
Correzione errore materiale: condanna per il soccombente
La vicenda ha inizio perché un soggetto si rivolge al Tribunale per chiedere la correzione di una sentenza ai sensi dell’art. 287 c.p.c. Controparte si oppone all’istanza ritenendo inesistente l’errore lamentato. Il Tribunale dichiara inammissibile l’istanza di correzione presentata dal ricorrente e lo condanna alle spese.
Per il Tribunale quanto dedotto configura un error in iudicando e non un errore materiale. L’istante viene quindi condannato a rimborsare alla controparte le spese del procedimento perché se la parte non ricorrente si costituisce e resiste all’istanza di correzione, al termine del procedimento si realizza una situazione di “soccombenza”.
Natura amministrativa correzione errore materiale
Nell’unico motivo sollevato il ricorrente sostiene la natura non giurisdizionale, ma amministrativa del procedimento di correzione, che si conclude con un provvedimento ordinatorio. La natura del procedimento rende inapplicabile la regola della condanna alle spese a carico del soccombente, situazione che si potrebbe realizzare solo in un procedimento giurisdizionale.
Natura giurisdizionale o amministrativa?
La Cassazione spiega che, secondo una visione minoritaria, pur rimanendo l’inammissibilità di una decisione sulle spese in caso di istanza congiunta o non contestata, è necessario pronunciarla nel caso sorga un contrasto riguardo all’ammissibilità o alla fondatezza dell’istanza di correzione.
A questa interpretazione fa riferimento l’ordinanza di rinvio che alle SU pone il seguente quesito giuridico:“se, in tema di procedimento per la correzione di errori materiali, qualora la parte non ricorrente si costituisca e resista all’istanza di correzione, contrapponendo il proprio interesse a quello della parte ricorrente, si configuri una situazione di soccombenza che obbliga il giudice a decidere sulle spese processuali ai sensi dell’art. 91 cod. proc. civ.”
Secondo il Collegio rimettente “né la struttura camerale né la funzione volontaria del procedimento sono incompatibili con un reale contrasto tra le parti (per cui) nel momento in cui tale contrasto si verifica tramite la costituzione della parte non ricorrente e la sua opposizione all’istanza di correzione, esso deve essere risolto rispettando il principio del contraddittorio, anche in merito alla regolamentazione delle spese processuali”.
Natura amministrativa procedimento: nessuna soccombenza
Per le Sezioni Unite però le “peculiarità dello stesso (procedimento di correzione) impediscono ogni assimilazione non solo ai procedimenti contenziosi ma anche a quelli di volontaria giurisdizione”.
Il procedimento per correggere errori materiali, anche quando viene avviato da una sola parte, non comporta l’affermazione di un diritto verso l’altra parte o altre parti e non sostituisce quanto stabilito nel provvedimento corretto. La funzione di questa procedura è solo quella di “ripristinare la corrispondenza tra l’espressione formale e il contenuto sostanziale del provvedimento già emesso”.
Si tratta solo di correggere errori presenti nella redazione del documento evidenti a prima vista.
In questo senso, la Corte ritiene che sia possibile concordare sulla natura essenzialmente amministrativa del provvedimento conclusivo questo procedimento.
Del resto il giudice, in sede di procedimento di correzione dell’errore materiale, non esercita potestas iudicandi. Di questa si libera quando emette il provvedimento che risulta poi da correggere. Non occorre neppure una nuova procura perché di fatto non si apre una nuova fase processuale. Si verifica infatti solo un incidente nello stesso giudizio, pienamente compatibile col giudicato.
Per la Cassazione deve essere pertanto enunciato questo principio:“Nel procedimento per correggere errori materiali ai sensi degli artt. 287-288 e 391-bis cod. proc. civ., essendo essenzialmente amministrativo e non volto a incidere in caso di conflitto tra le parti sull’assetto d’interessi regolato dal provvedimento da correggere, non si può procedere alla liquidazione delle spese perché non è configurabile alcuna situazione di soccombenza ai sensi dell’art. 91 cod. proc. civ., neppure se chi non richiede opponendosi all’istanza”.
Con questa sentenza le Sezioni Unite hanno unificato così l’orientamento giurisprudenziale su questa materia, superando le divergenze interpretative precedenti.
Leggi anche: Correzione errore materiale
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- Cass-29432-2024 (5 MB)
Notaio non versa le tasse: rispondono anche le parti Se il notaio non versa le tasse della compravendita immobiliare perché si appropria del denaro, i contraenti restano comunque responsabili
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Pagamento tasse rogito: responsabilità contraenti
In relazione a un atto di compravendita immobiliare se il notaio non versa le tasse previste perché se ne appropria, i contraenti restano responsabili. La registrazione telematica degli atti effettuata dal notaio non lo rende soggetto unico responsabile del versamento delle imposte previste. Lo ha ribadito la Cassazione nell’ordinanza n. 26800/2024.
L’Agenzia chiede i soldi alla contraente
Una s.r.l a socio unico presenta ricorso per Cassazione contro una sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, che ha respinto l’appello della società, confermando la decisione di rigetto dell’impugnazione contro l’avviso di liquidazione emesso dall’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima ha infatti richiesto il pagamento dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale in relazione a un atto di compravendita immobiliare. La s.r.l però sostiene di aver già versato l’intero importo al notaio incaricato, che però si è appropriato indebitamente delle somme senza trasferirle all’erario.
Notaio non versa le tasse: unico responsabile?
Nell’unico motivo di ricorso che la s.r.l presenta in Cassazione lamenta la violazione dell’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986, in combinato disposto con l’art. 3-bis del d.lgs. n. 463 del 1987 e degli artt. 3 e 53 della Costituzione italiana.
Per la società il giudice d’appello ha erroneamente attribuito una responsabilità solidale alla contribuente, nonostante il comportamento illecito del notaio, che ha trattenuto indebitamente le somme destinate al pagamento delle imposte. La società sostiene inoltre che, con l’introduzione della registrazione telematica degli atti immobiliari, il notaio diventa l’unico responsabile del versamento dell’imposta, poiché le parti contraenti forniscono la provvista necessaria al notaio stesso. La consegna delle somme al notaio dovrebbe quindi liberare il contribuente dall’obbligo tributario, ai sensi dell’art. 1188 del codice civile.
Il contribuente rischia di pagare due volte
La società evidenzia inoltre una presunta disparità di trattamento. Il contribuente, infatti, rischia di dover pagare nuovamente l’imposta in caso di appropriazione indebita da parte del notaio. Quest’ultimo invece beneficia di garanzie sia preventive (deposito delle somme prima del rogito) sia successive (privilegio speciale sugli immobili).
La stessa infine rileva come l’applicazione dell’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986 rappresenterebbe una violazione dell’art. 53 della Costituzione, imponendo un onere economico al contribuente senza una sua colpevolezza manifesta e senza espressione di capacità contributiva.
Notaio solidalmente responsabile
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso della società confermando che, anche quando si utilizza la registrazione telematica dell’atto tramite il modello unico informatico (M.U.I.), il notaio rimane solidalmente responsabile per il pagamento delle imposte.
Questa modalità di registrazione non modifica però la responsabilità solidale prevista dall’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986, che coinvolge le parti contraenti dell’atto.
La responsabilità del notaio è una garanzia per l’amministrazione finanziaria, ma non esclude che il presupposto impositivo riguardi le parti contraenti. Il fatto che il notaio possa appropriarsi indebitamente delle somme non altera il vincolo di solidarietà tra le parti, che resta intatto in base alla normativa vigente. Pertanto, il contribuente è comunque tenuto al pagamento, poiché il rapporto fiduciario tra le parti e il notaio non influisce sulla responsabilità fiscale solidale.
Sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ricorrente, la Cassazione precisa infine che l’art. 57 del d.P.R. n. 131 del 1986 non viola i principi di uguaglianza (art. 3 Costituzione) e di capacità contributiva (art. 53 Costituzione). Il notaio, nel ricevere le somme, agisce in virtù di un rapporto fiduciario e non come esattore dello Stato. Eventuali illeciti del notaio non possono essere imputati alla normativa sulla solidarietà fiscale, che resta valida.
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- Cassazione n. 26800-2024 (1) (125 kB)
Dolo alternativo e delitto tentato La figura del dolo diretto nella forma di dolo alternativo è compatibile con il delitto tentato?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini
L’analisi relativa alla ricorrenza del dolo nel tentato omicidio non deve necessariamente approdare alla ricostruzione di un dolo specifico di tipo intenzionale, posto che il tentativo punibile è tale anche in presenza di dolo diretto di tipo alternativo, ferma restando la ritenuta incompatibilità tra tentativo punibile e dolo eventuale (Cass., sez. I, 5 giugno 2024, n. 34379).
Il caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione permette di ribadire i caratteri principali dell’istituto del tentativo soffermandosi sulla compatibilità con il dolo alternativo.
Il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame confermando l’ordinanza con la quale il Giudice per le Indagini Preliminari aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di uno degli imputati in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56 e 575 c.p.
Veniva proposto ricorso per Cassazione contestando sia la ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e, dunque, l’adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere, che la qualificazione giuridica dei fatti posti in essere per insussistenza del c.d. animus necandi.
La Suprema Corte, nella decisione in esame, respingendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato il consolidato principio espresso in tema di ordinanza “de libertate” del tribunale del riesame secondo cui «è ravvisabile il vizio di omessa motivazione quando dal provvedimento, considerato nella sua interezza, non risultino le ragioni del convincimento del giudice su punti rilevanti per il giudizio e non anche quando i motivi per il superamento delle tesi difensive su una determinata questione siano per implicito desumibili dalle argomentazioni adottate» (così Cass., sez. III, 16 aprile 2020, n. 15980).
Osserva, la Corte, che nel caso de quo la motivazione del provvedimento risulta coerente e adeguata, fondandosi su una valutazione complessiva di tutti gli elementi allo stato emersi.
Allo stesso modo, infondate sono state ritenute le censure relative alla qualificazione giuridica attribuita ai fatti realizzati dall’agente.
Il Supremo Collegio ha poi ricordato come nel delitto tentato – fattispecie caratterizzata dalla punibilità di atti che, per definizione, non hanno raggiunto lo scopo perseguito dall’agente e tipizzato dal legislatore nella norma incriminatrice di parte speciale – si pone il duplice problema di individuare sia l’idoneità e l’univocità in fatto degli atti (da valutarsi ex ante e in concreto, secondo la prospettiva dell’agente) che la reale intenzione perseguita dall’autore del fatto.
L’istituto del tentativo nei delitti richiede la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che soggettivo, costituendo autonoma fattispecie rispetto al reato consumato (ex multis Cass., sez. II, 14 novembre 2014, n. 6337).
L’elemento soggettivo, ad eccezione del dolo eventuale pacificamente ritenuto incompatibile con il tentativo, è identico a quello previsto per il reato che il soggetto agente si propone di compiere. L’elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti: l’idoneità degli atti, l’univocità degli atti e il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento.
Il delitto tentato si colloca fra la semplice ideazione o l’accordo – non punibile – ed il delitto consumato ed è, pertanto, necessario stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera ideazione, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, deve essere ugualmente punibile.
E ciò in quanto il fondamento giuridico di tale istituto viene ravvisato nella esposizione a pericolo, o nella mancata neutralizzazione di un pericolo, per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
Alla luce di questo inquadramento devono essere valutati gli elementi essenziali della direzione non equivoca degli atti e della loro idoneità necessari anche ad accertare l’intenzione perseguita dall’autore e, quindi, la sussistenza dell’elemento psicologico (così Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).
Il concetto di idoneità degli atti prescinde dalla mancata realizzazione dell’evento e attiene alla possibilità che questo aveva di realizzarsi.
In tal caso, dunque, il criterio cui fare riferimento, non è costituito dalla probabilità, più o meno concreta, che l’evento si verifichi ma dalla possibilità che ciò avvenga.
Ciò in quanto le eventuali difficoltà concrete che il soggetto agente dovesse trovare non rilevano per la sussistenza o meno del tentativo ma, anzi, ne costituiscono l’essenza, nel senso che ogni evento ha una maggiore o minore probabilità di verificarsi e che, proprio laddove non si dovesse verificare, saremo in presenza di un delitto tentato piuttosto che consumato.
Invero, solo qualora l’evento non sia accaduto e questo non aveva alcuna possibilità di accadere può ritenersi che il tentativo non sussista, a nulla rilevando se la realizzazione o meno dell’evento stesso fosse, allorché la condotta è stata posta in atto, più o meno probabile, anche solo per incapacità dell’agente o per mere difficoltà oggettive (Cass., sez. I, 17 ottobre 2019, n. 870).
Ulteriore e imprescindibile caratteristica della condotta nel delitto tentato è rappresentata dalla univocità degli atti.
L’idoneità degli atti, infatti, in sé e per sé considerata, non è da sola sufficiente ai fini della rilevanza penale della condotta, in quanto un atto, ontologicamente, può apparire ovvero essere potenzialmente idoneo a conseguire una pluralità di risultati, per cui solo la sua univoca direzione a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente si pone in linea con il principio di offensività del fatto.
Sotto tale profilo, pertanto, la direzione non equivoca non indica un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza della condotta che, non escludendo che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, impone che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, l’intenzione ovvero il fine perseguito dall’agente ( ex multis Cass., sez. I, 7 gennaio 2010, n. 9411).
Ai fini della rilevanza penale e della punibilità del tentativo la Corte ricorda come gli atti non possono essere in astratto distinti e classificati in atti preparatori e atti esecutivi, discrimine da ritenersi generico e superato, poiché quello che rileva è l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso, nonché la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta.
Ciò in quanto per la configurabilità del tentativo assumono rilievo non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quelli che, pur classificabili come preparatori, siano in qualche modo tipici, siano cioè corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata e, di conseguenza, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi così affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo ( cfr. Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).
Il requisito dell’univocità, infatti, prescindendo da ogni classificazione degli atti, deve essere accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di identificare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo.
Passando all’elemento soggettivo, la verifica dello stesso appare particolarmente delicata, data la mancata verificazione dell’evento; pertanto, la riconoscibilità di un tentativo punibile impone la logica e coerente individuazione di ‘segni esteriori’ della condotta che, in rapporto alle circostanze del caso concreto, siano idonei, attraverso una catena inferenziale solida, di dedurre la presenza del necessario elemento psicologico.
Invero, come altresì espresso dalla Cass., Sez. Un., 24 aprile 2024, n. 38343, il dolo è un fenomeno interiore – costituito dalla rappresentazione e dalla volontà della condotta e di determinare l’evento preso di mira – che si ricostruisce necessariamente in via indiziaria, attraverso la valorizzazione di indicatori fattuali capaci di sostenere l’opzione ricostruttiva di sussistenza e di qualificazione dello stesso.
Fatta questa premessa, nel caso del tentato omicidio, non è necessario dimostrare un dolo specifico di tipo intenzionale, poiché il tentativo punibile può sussistere anche con un dolo diretto di tipo alternativo, rimanendo incompatibile solamente con il dolo eventuale.
Secondo un principio consolidato dalla giurisprudenza si possono individuare differenti gradi di intensità della volontà dolosa, con accettazione dell’evento che varia in base alla percezione della sua probabilità di accadere.
Il dolo si configura come diretto nel caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, quando l’autore non si limita ad accettarlo come conseguenza accessoria ma di fatto lo vuole con un’intensità maggiore, mentre, viene qualificato come dolo eventuale quando l’evento è previsto come altamente probabile ma non necessario.
In questa prospettiva interpretativa, per riconoscere il dolo diretto di omicidio non è richiesta la previsione e la volontà esplicita di provocare la morte come unica e certa conseguenza, ma è sufficiente che essa sia prevista e voluta come altamente probabile nell’ambito di una dinamica lesiva che includa anche, in via cumulativa e alternativa, l’evento di lesioni (da ultimo ex multis, Cass., sez. I, 13 ottobre 2022, n. 4773; Cass., sez. I, 30 marzo 2022, n. 29611).
Il cosiddetto dolo alternativo, che contempla un secondo evento altamente probabile accanto al primo, viene considerato, dunque, come dolo diretto in quanto anche il secondo è previsto come scopo della condotta e non è per tale ragione meramente accettato come conseguenza accessoria o ulteriore (così Cass., sez. I, 30 marzo 2023, n. 33435).
Pertanto, la distinzione tra dolo diretto di tipo alternativo e dolo eventuale richiede un’analisi attenta delle manifestazioni esteriori, considerando indicatori significativi dell’intenzione dell’agente come, a titolo di esempio, nel tentato omicidio, la potenzialità dell’azione lesiva, desumibile dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata, nonché dalle modalità dello stesso atto lesivo (così Cass., sez. I, 5 aprile 2022, n. 24173).
Nel caso di specie, secondo la Corte, il Tribunale del riesame si è correttamente conformato ai criteri indicati.
Invero, il giudice del riesame ha evidenziato come il ricorrente abbia utilizzato un coltello dall’elevata potenzialità e che con questo ha attinto la vittima sul fianco, provocando una lesione tale da porre in pericolo la vita della vittima.
Con specifico riferimento alle modalità dell’azione poi, ha dato atto dell’idoneità del mezzo, dell’univocità dell’azione e della natura dell’elemento psicologico quale dolo alternativo. Quanto a quest’ultimo, il Tribunale ha correttamente fatto riferimento alla zona, l’addome, che il ricorrente ha deliberatamente e consapevolmente attinto, così rappresentandosi come altamente probabile e quindi volendo, anche in via cumulativa o alternativa, l’evento morte.
Permessi sindacali: legittimo licenziare chi ne abusa Permessi sindacali: legittimo il licenziamento del dipendente che usa o meglio abusa di due giorni di permessi sindacali per motivi personali
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Permessi sindacali: abuso e licenziamento
I permessi richiesti per prendere parte alle riunioni sindacali non possono essere usati per soddisfare motivi personali. E’ quindi legittimo il licenziamento del dipendente che usa i due giorni di permesso richiesti per partecipare a delle riunioni sindacali e poi va fuori regioni per accompagnare il figlio alle prove selettive delle Forze armate. Il lavoratore, con la sua condotta, ha inclinato irrimediabilmente il rapporto di fiducia che il datore di lavoro nutre nei suoi confronti. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 29135/2024.
Uso non autorizzato dei permessi sindacali
L’ex impiegato di una società per azioni (S.p.A) viene licenziato per giusta causa il 20 ottobre 2016, a causa dell’uso non autorizzato di permessi sindacali nei giorni 6 e 7 ottobre dello stesso anno. In quei giorni, il lavoratore non aveva svolto infatti alcuna attività sindacale, in quanto fuori regione per motivi personali.
Reintegra e risarcimento del danno
L’ex dipendente contesta il licenziamento, ritenendolo ingiusto per diverse ragioni:
- violazione delle norme sui permessi sindacali stabilite dagli articoli 23 e 24 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori);
- insufficienza di giorni per giustificare un simile provvedimento;
- mancata comunicazione delle motivazioni;
- presunta inesattezza del rapporto investigativo che documentava i suoi movimenti.
Per il ricorrente infine le indagini condotte hanno violato la sua privacy poiché erano state avviate durante un periodo di ferie.
Licenziamento legittimo: uso improprio dei permessi
Il lavoratore si rivolge quindi al Tribunale, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento per i danni subiti. In primo grado, il Tribunale respinge il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento. Successivamente, l’ex dipendente presenta appello, ma anche questo viene rigettato. Il Tribunale ha motivato la sua decisione affermando che non vi era stata alcuna violazione della privacy. I controlli infatti sono stati eseguiti in luoghi pubblici con l’obiettivo di verificare l’effettiva ragione della richiesta dei permessi sindacali.
La Corte d’Appello ha confermato la sentenza del Tribunale ritenendo infondati i motivi dell’opposizione. La questione disciplinare infatti riguardava non una semplice assenza ingiustificata dal lavoro, ma l’uso improprio dei permessi sindacali. Le indagini hanno dimostrato che nei giorni in cui il dipendente aveva ottenuto i permessi questi si trovava fuori regione con suo figlio, impegnato in prove selettive per l’arruolamento nelle Forze Armate, senza svolgere alcuna attività sindacale.
Abuso se si usano per motivi personali
L’investigatore privato incaricato dall’azienda ha confermato l’accuratezza del suo rapporto che descriveva dettagliatamente gli spostamenti del dipendente nei giorni in questione. Per la Corte, se il diritto ai permessi sindacali fosse protetto dall’art. 30 della Legge n. 300/1970, in questo caso specifico si è verificato un abuso dell’istituto usandolo per scopi personali invece che per attività sindacali.
La sanzione è quindi proporzionata e del tutto legittima la decisione del licenziamento. Il comportamento del lavoratore ha infatti compromesso irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. L’abuso dei permessi sindacali retribuiti è più grave rispetto a una semplice assenza ingiustificata.
Diritto di controllare la partecipazione alle riunioni
L’ex dipendente ricorre in Cassazione sollevando tre motivi di doglianza. Con il secondo lamenta la falsa applicazione delle norme sul diritto ai permessi sindacali. Il terzo motivo riguarda invece la presunta mancata comunicazione delle ragioni del licenziamento da parte dell’azienda.
La Cassazione però respinge il secondo perché il datore di lavoro ha tutto il diritto di controllare l’effettiva partecipazione dei sindacalisti alle riunioni per cui sono concessi i permessi, respinge invece il terzo perché la lettera ha esposto chiaramente le motivazioni del licenziamento.
In sintesi, tutte le fasi processuali hanno confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa adottata dall’azienda a fronte dell’abuso fraudolento dei permessi sindacali da parte del dipendente.
Leggi anche: Abuso dei permessi sindacali: ok al licenziamento
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- Cass-29135-2024 (2 MB)
Pensione anticipata: nuovi scenari dopo la Cassazione Pensione anticipata: cosa cambia soprattutto per i lavoratori dopo che la Cassazione ha valorizzato i contributi figurativi
- Pubblicato da Redazione
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TogglePensione anticipata e pronuncia della Cassazione
La pensione anticipata è uno dei temi più dibattuti nel panorama previdenziale italiano, soprattutto alla luce delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali. Due decisioni della Corte di Cassazione (si tratta delle due sentenze “gemelle” n. 24916/2024 e n. 24952/2024) hanno recentemente cambiato l’orientamento riguardo al requisito dei 35 anni di contributi effettivi necessari per accedere a questa forma di pensionamento, stabilendo che tale requisito non è più indispensabile.
Queste decisioni potrebbero avere un impatto significativo su molti lavoratori italiani, in particolare su coloro che hanno attraversato periodi di disoccupazione, malattia o altre situazioni coperte da contribuzione figurativa.
In questo articolo, approfondiremo le implicazioni di queste pronunce, analizzando il contesto normativo, le motivazioni della Corte e le possibili conseguenze per il sistema previdenziale e i lavoratori.
Leggi anche: Pensione anticipata: i 35 anni di contributi effettivi non servono
Il contesto normativo della pensione anticipata
Per comprendere appieno la portata delle pronunce della Cassazione, è fondamentale esaminare il quadro normativo entro cui si inserisce. La pensione anticipata, introdotta con la Riforma Fornero del 2011, permette ai lavoratori di ritirarsi dal lavoro prima dell’età pensionabile di vecchiaia, a condizione di aver maturato una significativa anzianità contributiva. I requisiti tradizionali per accedere alla pensione anticipata erano:
- Per gli uomini: almeno 42 anni e 10 mesi di contributi.
- Per le donne: almeno 41 anni e 10 mesi di contributi.
Oltre a questi requisiti contributivi, era necessario che almeno 35 anni di contributi fossero “effettivi”, ossia derivanti da attività lavorativa reale. Questo escludeva dal conteggio i cosiddetti contributi figurativi, ovvero quelli accreditati per periodi di non lavoro coperti da specifiche tutele previdenziali, come malattia, disoccupazione indennizzata, cassa integrazione, servizio militare e maternità.
Pensione anticipata: contributi effettivi e figurativi
La distinzione tra contributi effettivi e figurativi è stata per lungo tempo un elemento cruciale nel determinare l’accesso alla pensione anticipata. I contributi effettivi sono quelli versati dal datore di lavoro o dal lavoratore autonomo durante l’effettiva attività lavorativa, rappresentando il frutto del lavoro svolto. Sono direttamente correlati alla prestazione lavorativa e alla retribuzione percepita.
I contributi figurativi, invece, sono accrediti contributivi riconosciuti in specifiche situazioni previste dalla legge, senza oneri per il lavoratore o per il datore di lavoro. Questi periodi sono coperti dall’ordinamento per garantire una continuità contributiva anche in assenza di lavoro effettivo. Rientrano tra i contributi figurativi i periodi di:
- malattia o infortunio sul lavoro;
- disoccupazione;
- cassa integrazione guadagni;
- servizio militare obbligatorio o servizio civile;
- assistenza a familiari disabili, usufruendo dei permessi previsti dalla Legge 104/1992.
Fino alla recente sentenza, per accedere alla pensione anticipata era necessario che almeno 35 anni dei contributi fossero effettivi, escludendo dunque i periodi coperti da contribuzione figurativa dal calcolo di questa quota minima. Questa limitazione penalizzava i lavoratori che, per motivi non dipendenti dalla loro volontà, avevano interrotto l’attività lavorativa per periodi protetti dalla legge.
Contributi figurativi per la pensione anticipata
La Corte di Cassazione, con le sentenze innovative, ha stabilito che il requisito dei 35 anni di contributi effettivi non è più necessario per accedere alla pensione anticipata. Questa decisione rappresenta una svolta significativa, in quanto modifica un’interpretazione consolidata della normativa previdenziale.
Le motivazioni della Cassazione
La Corte ha fondato in sostanza la sua decisione su diversi principi giuridici e costituzionali:
- interpretazione conforme ai principi costituzionali: le norme previdenziali devono essere interpretate in modo coerente con i principi sanciti dalla Costituzione, in particolare il principio di uguaglianza (art. 3) e il diritto alla previdenza sociale (art. 38). Escludere i contributi figurativi dal conteggio per la pensione anticipata potrebbe violare questi principi, creando disparità di trattamento tra lavoratori in situazioni analoghe;
- valorizzazione dei contributi figurativi: i contributi figurativi sono riconosciuti dall’ordinamento come periodi di contribuzione validi a tutti gli effetti. Rappresentano periodi in cui il lavoratore, pur non svolgendo attività lavorativa, è comunque tutelato dalla legge. La loro esclusione dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per la pensione anticipata contrasterebbe con la finalità stessa della protezione previdenziale;
- eliminazione di disparità di trattamento: la distinzione tra contributi effettivi e figurativi creava una disparità ingiustificata tra lavoratori che avevano maturato la stessa anzianità contributiva complessiva. Questa differenziazione penalizzava coloro che, per cause indipendenti dalla loro volontà, non avevano potuto accumulare 35 anni di contributi effettivi;
- funzione sociale della previdenza: la Corte ha ribadito che il sistema previdenziale ha una funzione sociale fondamentale, volta a garantire la sicurezza economica dei lavoratori anche nei periodi di difficoltà. Riconoscere pienamente i contributi figurativi rafforza questa funzione, evitando penalizzazioni ingiuste.
Il caso che ha originato la sentenza
Le sentenze traggono origine da un caso concreto in cui i lavoratori avevano richiesto la pensione anticipata, avendo maturato l’anzianità contributiva complessiva richiesta, ma senza raggiungere i 35 anni di contributi effettivi a causa di periodi di disoccupazione indennizzata e malattia. L’INPS aveva rigettato la domanda, sostenendo che non erano stati soddisfatti tutti i requisiti previsti dalla normativa vigente.
I lavoratori hanno impugnato la decisione, sostenendo che i contributi figurativi dovessero essere considerati validi ai fini del raggiungimento dell’anzianità contributiva necessaria. La questione è giunta fino alla Corte di Cassazione, che ha accolto le argomentazioni, stabilendo un nuovo orientamento interpretativo.
Implicazioni pratiche per i lavoratori
La decisione della Corte di Cassazione può avere importanti ripercussioni per numerosi lavoratori italiani. Come ad esempio:
- Accesso facilitato alla pensione anticipata: molti lavoratori che finora non potevano accedere alla pensione anticipata a causa della mancanza dei 35 anni di contributi effettivi potranno ora farlo, considerando nel computo anche i contributi figurativi. Questo apre nuove opportunità per coloro che hanno avuto carriere lavorative discontinue o interrotte da periodi di difficoltà.
- Valorizzazione dei periodi di tutela: I periodi di malattia, disoccupazione, maternità e altri eventi protetti saranno pienamente riconosciuti, riflettendo una maggiore attenzione verso le situazioni di fragilità del lavoratore. Questo riconoscimento rafforza il principio di solidarietà su cui si basa il sistema previdenziale italiano.
- Riduzione delle disparità: La sentenza elimina una distinzione che penalizzava ingiustamente alcuni lavoratori, promuovendo una maggiore equità nel sistema previdenziale. Si supera così una barriera che creava disuguaglianze tra chi aveva avuto una carriera lavorativa lineare e chi aveva affrontato periodi di interruzione.
Omesso versamento ritenute in caso di difficoltà economica In materia di reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali può integrare una causa di esclusione della responsabilità penale l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta in presenza di una situazione economica di difficoltà?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini
Costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui, nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto (Cass. pen., sez. III, 19 agosto 2024, n. 32682).
Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo sul piano dell’effettiva rimproverabilità al ricorrente degli omessi versamenti previdenziali e assistenziali.
In primo e secondo grado era stata affermata la responsabilità penale dell’imputato in relazione al reato continuato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali per gli anni 2016 e 2017.
Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando, per quanto qui di interesse, l’erronea individuazione dell’elemento soggettivo del reato. In particolare, la difesa ha lamentato l’omessa valutazione da parte dei giudici di merito di ogni apprezzamento in punto di esigibilità soggettiva non avendo considerato quanto dedotto nell’atto di appello in ordine alla crisi d’impresa.
La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha ribadito un costante indirizzo di legittimità secondo cui nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto.
Alla luce di tale principio di diritto i giudici di legittimità hanno affermato che correttamente la difesa ha lamentato la mancata valutazione delle allegazioni difensive, e della documentazione allegata, concernenti l’importante crisi preceduta dal crollo del fatturato che aveva colpito la società. In particolare, il ricorrente aveva evidenziato: che la società era stata costretta a lavorare in perdita in regime di mono-committenza per un unico cliente; l’impossibilità di accedere al credito bancario; la revoca degli affidamenti; gli elevati tassi applicati da altro istituto di credito.
Tali allegazioni sono ritenute dalla Corte potenzialmente idonee a incidere sulla complessiva valutazione della vicenda in termini di effettiva rimproverabilità al soggetto agente. Pertanto, il Collegio annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello.
Doppio della caparra: quando se ne ha diritto Doppio della caparra: restituzione solo in caso di grave inadempimento, il mero rinvio del certificato di destinazione urbanistica non basta
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Restituzione del doppio della caparra
Il superamento di un termine fissato per il rilascio del certificato di destinazione urbanistica dell’immobile non dà automaticamente diritto al compratore di ottenere la restituzione del doppio della caparra confirmatoria in materia di compravendita immobiliare. Lo afferma l’ordinanza n. 28568/2024 della Corte di Cassazione. Per ottenere questa conseguenza, è necessario dimostrare una colpa grave del venditore.
Caparra confirmatoria: effetti legali
La caparra confirmatoria rappresenta un elemento centrale nel contratto preliminare di compravendita immobiliare. Essa viene versata dall’acquirente al venditore come segno della serietà dell’accordo e come garanzia di adempimento. Se una delle parti non rispetta infatti gli impegni contrattuali, la caparra può assumere funzioni diverse: l’acquirente, in caso di inadempimento da parte del venditore, può recedere dal contratto e chiedere la restituzione del doppio dell’importo versato. Al contrario, se è l’acquirente a essere inadempiente, il venditore può trattenere la caparra.
La Cassazione però ha chiarito che il diritto alla doppia restituzione non è automatico, occorre infatti valutare la gravità dell’inadempimento. Solo un inadempimento “grave” e non giustificabile può legittimare la richiesta di vedersi restituire il doppio della caparra.
Contratto preliminare non rispettato: doppio della caparra
La vicenda sottoposta al vaglio della Cassazione nasce da un accordo preliminare di compravendita immobiliare stipulato tra due soggetti nel novembre 2006. In questa occasione, l’acquirente versa 40.000 euro a titolo di caparra confirmatoria, impegnandosi a concludere il contratto definitivo entro il 28 febbraio 2007. Nel contratto è previsto che il venditore debba ottenere il rilascio del certificato di destinazione urbanistica entro la stessa scadenza. Detto termine però non viene rispettato.
Termine certificato di destinazione urbanistica
Nel giugno 2007, l’acquirente decide di agire legalmente contro il venditore presso il Tribunale di Frosinone. In questa sede l’attore sostiene di aver legittimamente esercitato il diritto di recesso dal contratto a causa dell’inadempimento del venditore, chiede quindi la condanna del venditore al pagamento del doppio della caparra versata. In subordine richiede la risoluzione del contratto e la restituzione della caparra. In primo grado, il Tribunale di Frosinone respinge la domanda dell’acquirente. Il termine del 28 febbraio 2007 indicato nel preliminare non ha infatti carattere essenziale per cui il suo superamento non può considerarsi un inadempimento così grave da giustificare la richiesta del doppio della caparra. La Corte d’Appello conferma la decisione del Tribunale, sottolineando che, anche qualora il venditore avesse superato il termine fissato per il rilascio del certificato di destinazione urbanistica, tale ritardo non avrebbe costituito una violazione sufficientemente significativa da comportare l’applicazione delle conseguenze di cui all’articolo 1453 del Codice Civile. Per la Corte d’Appello l’inadempimento non può considerarsi grave perché non ha pregiudicato l’interesse principale dell’acquirente alla conclusione del contratto definitivo.
Doppio della caparra: serve inadempimento grave
La Corte di Cassazione conferma la decisione delle autorità giudiziarie di merito, rigettando il ricorso dell’acquirente. Per gli Ermellini il termine indicato nel preliminare non può considerarsi essenziale. Le parti non hanno infatti qualificato espressamente questa scadenza come fondamentale per l’adempimento del contratto. La Suprema corte ha evidenziato inoltre che l’acquirente non ha dimostrato la gravità dell’inadempimento, elemento imprescindibile per richiedere la risoluzione del contratto con conseguente restituzione del doppio della caparra.
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- Cass-28568-2024 (1) (3 MB)
Colpa medica per dimissioni premature Le dimissioni premature del paziente con infarto in corso portano alla responsabilità penale omissiva del medico di pronto soccorso
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Dimissioni premature e responsabilità penale omissiva
Colpa medica per le dimissioni premature e il mancato approfondimento diagnostico che provocano la morte del paziente a distanza di poche ore nella propria abitazione. Scatta la responsabilità per omissione del medico di pronto soccorso. L’alterazione della troponina, in base a quanto previsto dalle linee guide, richiede un monitoraggio per procedere eventualmente a un esame successivo del valore. L’ospedale sovraffollato e l’impossibilità di un intervento tempestivo non rilevano. Queste le conclusioni a cui è giunta la Cassazione nella sentenza n. 41173/2024.
Responsabilità medico di pronto soccorso
La Corte d’Appello assolve l’imputato dal reato di omicidio colposo perché prescritto.
Il PM lo ha ritenuto responsabile del decesso della vittima a causa della sua negligenza, imperizia e imprudenza. Nella sua qualità di medico del pronto soccorso, l’imputato ha infatti ignorato le linee guida da adottare in caso di sospetto infarto, procedendo alle dimissioni premature del paziente.
La Corte ha ritenuto non contestabili le conclusioni dei periti del PM e del GUP. Gli esami di laboratorio hanno rivelato un aumento della troponina, dal valore di riferimento di 14 a 17,42. Le linee guida della società europea di cardiologia del 2011 impongono che il paziente che presenti questi valori sia mantenuto in uno stato d’osservazione con ripetizione degli esami di laboratorio ogni 3 ore. Previsto poi il ricovero in presenza dell’aumento del valore, con esami da ripetere nelle 6/24 ore successive. Tutte queste condotte sono state omesse dal medico. Il paziente infatti, una volta dimesso, è deceduto presso la propria abitazione dopo circa 6 ore e 1/2.
Ipertensione pregressa del paziente: segnale significativo
Per la Corte “la presenza della pregressa patologia del paziente (ipertensione arteriosa) era tale da aggravare i profili di responsabilità del sanitario, che avrebbe dovuto essere maggiormente allertato in ordine alla necessità di un monitoraggio diretto del medesimo secondo quanto suggerito dalle linee guida (con consulenza cardiologica, esame ecocardiografico, test da sforzo, controlli seriali da ECG e ripetizione ogni quattro ore per almeno tre volte degli esami sugli enzimi miocardici); responsabilità, tra l’altro, ritenuta desumibile anche sulla base della prescrizione indicata in sede di dimissioni e con le quali era stato suggerito il mero monitoraggio dei soli valori pressori.”
Quando il paziente è entrato nel pronto soccorso non presentava una percentuale elevata di rischio di morte. Se la crisi cardiaca fosse sopraggiunta in ospedale e fosse stata trattata adeguatamente, il paziente si sarebbe potuto salvare.
La Corte d’Appello ha concluso quindi per la responsabilità penale del medico per condotta omissiva e nesso di causa tra questa e il decesso del paziente. La stessa però ha rilevato che il reato era estinto a causa della prescrizione sopravvenuta e quindi lo ha assolto sotto il profilo della responsabilità penale, ritenendolo responsabile dal punto di vista civilistico.
Errata l’assoluzione per prescrizione del reato
L’imputato nell’impugnare la decisione contesta la negata assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato.” Per l’imputato è errato avere ritenuto che il lieve aumento della troponina fosse collegato alla crisi cardiaca causata dalla crisi ipertensiva. I dati clinici rivelavano l’assenza di una alterazione ecocardiografica per cui escludevano con una probabilità elevata l’infarto del miocardio. Più verosimile che lo stesso si fosse manifestato quando il paziente era a casa. Da escludere quindi il nesso di causa. Il tutto senza trascurare che le condizioni del pronto Soccorso erano tali da non poter garantire un’adeguata e rapida assistenza. L’evento letale pertanto si sarebbe manifestato comunque.
Colpa medica per omissione
Per la Cassazione però il ricorso è del tutto inammissibile e l’unico motivo sollevato del tutto infondato.
Dopo aver analizzato la giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica la Cassazione ribadisce che: “in tema di responsabilità del sanitario per omissione, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l’effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (…) conseguendone che l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’ipotesi circa il sicuro effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili.”
Nesso di causa tra dimissioni premature e decesso
I giudici di merito hanno effettuato delle valutazioni inattaccabili e fondate sul sapere scientifico. Dalle prove è emerso che la patologia che ha condotto all’esito letale si stava sviluppando nel momento in cui è intervenuto l’imputato. Se il medico avesse seguito il percorso diagnostico corretto, sottoponendo il paziente a un elettrocardiogramma e alla ripetizione del dosaggio della troponina, la diagnosi si sarebbe rivelata rapida e corretta. Questa condizione avrebbe permesso di intervenire repentinamente ed efficacemente. L’evento sarebbe stato scongiurato con una probabilità prossima alla certezza. Per la Cassazione i Giudici di merito sono giunti pertanto a una valutazione corretta, aderente e rispettosa ai principi sanciti dalla giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica. Sussiste infatti il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e la morte del paziente in base al criterio della probabilità logica calato nel caso concreto.
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Allegati
- Cass-41173-2024 (1) (12 MB)
Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno Il rifiuto ingiustificato del paziente di un intervento emendativo di un errore medico configura un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi
Il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento medico, ma se il rifiuto è ingiustificato, perché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici, può integrare un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c, ove emerga che il completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente compiutamente consentito (Cass., sez. III, 11 dicembre 2023, n. 34395 (rifiuto ingiustificato del paziente).
La decisione in commento si pone in frontale contrasto con i precedenti della Cassazione, i quali hanno sostenuto che il rifiuto del paziente di sottoporsi ad un trattamento medico non può considerarsi una condotta idonea a ridurre il quantum del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.
Funzionale all’attribuzione della responsabilità civile è il nesso di causalità nella sua doppia veste di causalità materiale e giuridica:
- la prima necessaria per stabilire se vi sia responsabilità e a quale condotta vada imputata;
- la seconda necessaria per delineare l’area del danno risarcibile e determinare la misura del risarcimento.
Tale distinzione assume notevole peso in particolar modo nell’indagine su eventi ad eziologia multifattoriale: in conseguenza della infrazionabilità del nesso eziologico, coerente con l’orientamento maggioritario della Cassazione che non aderisce al modello nord-americano della causalità proporzionale (così, tra gli altri precedenti, Cass. 21 luglio 2011, n. 15991), l’accertamento di questo si risolve nella dicotomia tra sussistenza ed insussistenza.
L’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è indirettamente confermata dall’art. 1227 c.c., che circoscrivendo la riduzione di responsabilità al solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, esclude la frazionabilità nel caso in cui la condotta del responsabile concorra con cause naturali o condotte non colpevoli.
La materia della responsabilità medica è tipicamente teatro di eventi dall’eziologia complessa. Qui, in virtù del nuovo regime di responsabilità a doppio binario introdotto dalla L. 22 dicembre 2017, n. 219, l’istituto di cui all’art. 1227 c.c. trova rilevanza sia nel caso di responsabilità contrattuale tipico del rapporto tra paziente e struttura sanitaria sia, in forza dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c., in quello di responsabilità extracontrattuale che interviene tra il primo e l’esercente la professione sanitaria.
Il caso concretamente oggetto della pronuncia in commento ha dato l’occasione alla Cassazione per esprimersi nuovamente sulla possibilità di considerare il rifiuto del paziente di sottoporsi a un trattamento medico rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c. Questo presuppone che l’evento dannoso sia interamente ascrivibile alla responsabilità del debitore fungendo da criterio selettivo del danno risarcibile: si escludono i danni che il creditore avrebbe potuto evitare attraverso una condotta diligente.
L’analisi, rispetto al primo comma del medesimo articolo, si sposta pertanto sul piano della causalità giuridica, sul presupposto che il danno che taluno arreca a sé stesso non può essere traslato sull’autore della causa concorrente. Altra lettura individua in questa norma una portata causalistica, incentrata sull’esclusione dall’area del danno risarcibile le conseguenze non immediatamente e direttamente riconducibili alla condotta del danneggiante sulla base del fatto che la condotta del danneggiato interromperebbe il nesso di causalità giuridica già innescato, viene preferita una lettura solidaristica.
La tesi prevalente reputa, infatti, che alla regolazione della causalità sia esaustivamente demandato l’art. 1223 c.c. L’art. 1227, comma 2, va infatti letto quale norma comportamentale che addossa un dovere di autoresponsabilità al creditore. Alla luce del principio solidaristico che permea il Codice Civile ove letto attraverso il filtro dei dettami costituzionali si sancisce una regola etico-giuridica di condotta che impone doveri comportamentali ex art. 1176 c.c. anche al creditore. Così non si risarcisce il danno che sarebbe stato evitabile attraverso una condotta doverosa di quest’ultimo.
Di questo aspetto la Corte si è già occupata in un intervento del 2020 (Cass. 15 gennaio 2020, n. 515). In tale sede la Cassazione ha ricordato che il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche, sia per motivi religiosi che per altra natura non può essere considerato un fattore anomalo e imprevedibile ma è espressione di un diritto di rango costituzionale.
Sul punto, tale pronuncia ribadisce l’orientamento in tema: nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza consenso e non può essere configurato alcun obbligo a carico della vittima di sottoporsi al trattamento sanitario in quanto si tratterebbe di incidere surrettiziamente sull’intensità e sulla qualità del pieno riconoscimento del diritto di un soggetto di rifiutare un trattamento sanitario.
Il rifiuto ingiustificato del paziente non è quindi inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore previsto dall’art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227, comma 2, c.c., soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (così anche Cass. 5 luglio 2007, n. 15231; Cass. 10 maggio 2001, n. 6502). In sostanza, i danni derivanti dalla condotta pregiudizievole del medico che il paziente abbia omesso di mitigare mediante un trattamento sanitario non sono da considerarsi “danni evitabili” secondo quanto disposto dall’art. 1227, comma 2, c.c.
La vicenda di cui si occupa la Cassazione nella sentenza in commento trae origine dalla domanda di risarcimento derivante da un intervento chirurgico negligente dal quale era poi scaturito il rifiuto del paziente-creditore di un ulteriore trattamento.
In questa occasione la Corte, in contrasto con i precedenti sopra citati, ammette che dal rifiuto del paziente di sottoporsi a trattamenti sanitari possano derivare conseguenze sul piano risarcitorio. Recuperando il nucleo centrale del principio solidaristico, la Cassazione concepisce l’art. 1227, comma 2 c.c. come un modo per ripartire i costi dell’esercizio del diritto di autodeterminazione del creditore. Non si tratta, infatti, di sanzionare l’esercizio di un diritto quanto di impedire che dei danni conseguenti a questo possa rispondere un soggetto che, effettivamente, non li ha cagionati. Attraverso il riferimento al rifiuto “ingiustificato”, poi, si introduce la necessità di un vaglio in concreto sulle ragioni del rifiuto dell’attività medica, tenendo in considerazione le relazioni tra i rischi derivanti dall’intervento e quelli derivanti dalla non sottoposizione allo stesso. È qui che si inserisce la valutazione (e la prova) sulla probabilità che l’intervento non voluto fosse determinante per l’evoluzione in senso migliorativo delle condizioni di salute del danneggiato e che non rischiasse di introdurre nel quadro clinico ulteriori e inaspettati pericoli.
Così la pronuncia in commento armonizza, nell’ambito dell’art. 1227, comma 2 c.c., la lettura solidaristica attraverso l’aggancio al principio di solidarietà e buona fede nel sindacato sulle ragioni del rifiuto, con quella causalistica mediante il rinvio al giudizio controfattuale ipotetico sul peso che l’intervento medico non accettato avrebbe avuto sul decorso causale che ha portato alle conseguenze dannose di cui il paziente-creditore si duole.
Mentire sul contributo unificato: cosa si rischia Mentire sul reddito per pagare un contributo unificato inferiore integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Reato dichiarare il falso per pagare di meno
Mentire sul reddito percepito per pagare una cifra inferiore di contributo unificato configura il delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato. In questo caso l’agente commette il reato previsto dall’articolo 316 ter del codice penale e non il reato di falsità ideologica di cui all’articolo 483 c.p. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 40872/2024.
Falsità ideologica mentire sul reddito
La Corte di appello assolve l’imputata per la particolare tenuità del fatto in relazione al reato di falsità ideologica commesso dal privato in un atto pubblico di cui all’art. 483 c.p.
La donna, per pagare un contributo unificato inferiore a quello previsto per legge e dovuto in relazione a varie controversie di lavoro avviate, ha dichiarato infatti un reddito inferiore rispetto a quello che successivamente è stato accertato.
Reato ex art. 316 ter c.p.
La donna nel ricorrere in Cassazione contesta però il reato ascrittole. La sua condotta integrerebbe il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316 ter c.p, che assorbe il delitto di falso, come chiarito dalla sentenza “Carchivi”.
Per l’imputata dichiarare un reddito inferiore per ottenere un provvedimento di esenzione dal pagamento di una somma dovuta allo Stato equivale a conferire una somma di denaro a titolo di contributo. Anche in quest’ultimo caso infatti, il dichiarante ottiene un indebito vantaggio in danno della società.
Nel caso di specie tuttavia la soglia di punibilità prevista per il reato di indebita percezione non è stata superata. Il vantaggio economico che la stessa ha ricavato di soli 43,00 euro, pari al risparmio sul contributo unificato dovuto.
Vantaggio economico in danno della società
La Cassazione accoglie il ricorso, perché fondato.
La sentenza Carchivi richiamata dall’imputata ha chiarito infatti che “un fatto astrattamente riconducibile al delitto di quell’art. 483 cod. pen è assorbito in quello di cui all’articolo 316 ter del medesimo codice quando la dichiarazione falsa è finalizzata ad ottenere un indebita erogazione pubblica.”
Questo perché il reato punito dall’articolo 316 ter c.p si consuma in presenza di una falsa dichiarazione rilevante ai sensi dell’articolo 483 c.p o con l’uso di un atto falso.
Solo i reati di cui agli articoli 483 c.p e 489 c.p restano assorbiti dall’articolo 316 ter c.p, che concorre invece con altri diritti di falso commessi eventualmente per ottenere erogazioni indebite.
La successiva sentenza “Pizzuto” è giunta alle stesse conclusioni. La stessa ha infatti chiarito che “integra il reato di indebita percezione di erogazione a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per l’esenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere (…)”.
In questo modo si realizza in effetti un’erogazione ai danni dello Stato, anche in assenza di un esborso, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico a carico della comunità.
Deve quindi affermarsi, nel rispetto della stessa ratio, il principio per il quale il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si configura anche quando “la falsa attestazione sulle condizioni reddituali è volta a ottenere l’esenzione dal pagamento del contributo edificato.” Questa esenzione permette infatti al soggetto dichiarante di beneficiare di un vantaggio economico in danno della collettività.
Leggi anche: Contributo unificato: cos’è e quando si paga
Allegati
- Cass-40872-2024 (2 MB)
Messa alla prova e domiciliari sono compatibili I due istituti, chiarisce la Cassazione, possono coesistere ed anzi ammesse tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni
- Pubblicato da Redazione
Messa alla prova e domiciliari
La messa alla prova non è impedita dalla mera circostanza che la persona sia ai domiciliari, in quanto le due misure in linea di massima sono compatibili. Questo in sintesi quanto affermato dalla prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41185/2024.
La vicenda
Nella vicenda giunta all’attenzione della S.C., un detenuto era autorizzato dal magistrato di sorveglianza di Catania ad assentarsi dal domicilio, due giorni a settimana, per svolgere, in relazione ad un processo penale pendente a suo carico, il programma di messa alla prova.
In costanza di esperimento sopraggiungeva il provvedimento adottato d’ufficio, con il quale il magistrato di sorveglianza dava atto della diversità ontologica esistente tra la detenzione domiciliare e la sospensione del procedimento con messa alla prova, riteneva l’impossibilità di applicazione congiunta dei due regimi (dovendo il secondo essere postergato alla conclusione del primo) e revocava le autorizzazioni già concesse.
L’uomo, perciò, ricorreva innanzi al Palazzaccio con il ministero del suo difensore di fiducia. Nell’unico motivo deduceva l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, e processuale penale, sostenendo non esservi alcuna rigida preclusione alla concessione della messa alla prova in pendenza di una misura alternativa alla detenzione e rimarcando l’assenza di circostanze sopravvenute, ostative al mantenimento delle autorizzazioni già concesse.
Presupposti della messa alla prova
La Cassazione concorda. “L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova,
esteso dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, agli imputati maggiorenni – spiegano infatti i giudici di legittimità – si caratterizza quale modalità alternativa di definizione del procedimento penale, attivabile nella fase delle indagini preliminari o nei prodromi dell’udienza preliminare o del giudizio, mediante la quale è possibile pervenire, in presenza di determinati presupposti normativi, ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato all’esito di un periodo di prova, destinato a saggiare l’avvenuto reinserimento sociale del condannato”.
Si tratta, aggiungono, “di un meccanismo che, su base consensuale e in funzione della riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, innesta nel procedimento una vera e propria fase incidentale ni cui si svolge l’esperimento trattamentale, il cui esito positivo determina l’effetto estintivo”.
Portata rieducativa e afflittiva
L’istituto riveste una portata rieducativa e afflittiva al tempo stesso, in quanto l’esperimento è accompagnato, tra l’altro, dall’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, nonché dall’imposizione di prescrizioni, concordate all’atto dell’ammissione al beneficio e modulate sullo schema dell’affidamento in prova al servizio sociale, incidenti in maniera significativa, nel corso del procedimento penale, sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto (cfr. Cass. Sez. U, n. 14840 del 27/10/2022).
L’art. 298 cod. proc. pen. regola il concorso di titoli esecutivi e misure cautelari processuali.
Tale disposizione, nel suo comma 1, risolve l’interferenza tra ordine di carcerazione e cautela processuale, accordando rilievo poziore al primo, salvo che gli effetti della misura cautelare disposta siano compatibili con l’espiazione della pena.
“In base al suo comma 2, è da ritenere viceversa possibile, in linea di principio – proseguono i giudici – la contestuale esecuzione della misura alternativa alla detenzione e di una misura cautelare, dovendosi poi solo verificare, in concreto, avuto riguardo alle limitazioni connaturali alle due misure anzidette, l’effettiva compatibilità fra l’una e l’altra, nel rispetto, dalla legge ritenuto preminente, della misura cautelare”.
Pertanto, “la natura di misura endoprocessuale, sostanzialmente limitatrice della libertà personale, che, come osservato, deve essere riconosciuta alla messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen., rende analogicamente applicabile l’art. 298, comma 2, cod. proc. pen.”
La coesistenza di una misura alternativa alla detenzione, anche restrittivamente conformata, quale la detenzione domiciliare, con il regime della messa alla prova, anteriormente o successivamente disposta, “non solo, dunque, non è da escludere in linea di principio, ma deve essere ammessa tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni”.
Le autorizzazioni in costanza di detenzione domiciliare
In materia di detenzione domiciliare, spiegano infine dal Palazzaccio, “il condannato può essere autorizzato a lasciare il domicilio non solo per il soddisfacimento delle proprie indispensabili esigenze di vita, o per svolgere l’attività lavorativa necessaria per il sostentamento, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ma per ogni diversa esigenza connessa agli interventi del servizio sociale, anche relativi ad una procedura giudiziaria diversa da quella esecutiva in atto, o, più in generale, per altre finalità di giustizia penale; le prescrizioni della detenzione domiciliare possono essere, a tal fine, sempre modificate dal magistrato di sorveglianza, come consentito dall’art. 47-ter, comma 4, Ord. pen.”.
Il criterio, dunque, che deve orientare la discrezionalità di quest’ultimo organo giudiziario, e che funge da limite esclusivo alla concessione di tali autorizzazioni, “è che quest’ultima non alimenti realmente il pericolo che il condannato commetta, suo tramite, altri reati, essendo la detenzione domiciliare costruita sul presupposto che la misura risulti idonea a scongiurare la recidiva delittuosa”.
La decisione
Pertanto, il provvedimento impugnato non è conforme agli esposti principi di diritto, poichè muove dal presupposto errato dell’ontologica inconciliabilità tra le misure giudiziarie di causa, e deve essere annullato senza rinvio.
Allegati
- Cass-41185-2024 (4 MB)
Matrimonio per prova: sì della Cassazione Il matrimonio per “prova” non produce un danno ingiusto meritevole di risarcimento del danno: lo afferma la Cassazione
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Matrimonio per “prova”: no al danno ingiusto
La Cassazione ammette il matrimonio per “prova”. Lo stesso “non rappresenta il fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l’omessa comunicazione da parte di uno dei coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva”. Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 28390/2024.
Riserva mentale: matrimonio nullo per il diritto ecclesiastico
Una coppia di coniugi si scontra in Tribunale. La moglie, dopo sei mesi dalle nozze avvia una causa presso il Tribunale ecclesiastico per ottenere la nullità del matrimonio. La donna afferma di non aver mai creduto nella indissolubilità del legame matrimoniale. La stessa si è sposata “per prova”. Il Tribunale ecclesiastico dichiara nullo il matrimonio con sentenza. In seguito la donna avvia diversi procedimenti nei confronti del marito, compresi un procedimento penale e la separazione, opponendosi alla richiesta di dividere i beni in comunione e di divorziare.
Risarcimento del danno per il matrimonio per “prova”
Per tutte le ragioni suddette l’uomo agisce in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali provocati dalla condotta della moglie. Il Tribunale però respinge la domanda e condanna l’uomo per responsabilità aggravata. Questa decisione viene confermata anche in sede d’appello. La questione giunge infine in Cassazione.
Il matrimonio per prova non produce un danno ingiusto
La Cassazione nel rigettare il ricorso precisa che nel caso di specie manca un comportamento produttivo di un danno ingiusto o in grado di configurare una responsabilità pre-negoziale.
Il ricorrente denuncia, come produttiva di danno, la mancata comunicazione da parte dell’ex moglie, prima della celebrazione del matrimonio, della propria riserva mentale.
Controparte infatti ha affermato di essersi voluta sposare per “prova”. La stessa era incerta sulla possibilità della futura insorgenza di fatti capaci di rendere intollerabile la convivenza. Il Tribunale Ecclesiastico ha dichiarato nullo il matrimonio. In sede civile però la Corte di appello non ha accolto la domanda di riconoscimento della sentenza ecclesiastica. La stessa è contraria all’ordine pubblico “derivante dalla necessità di protezione dell’affidamento incolpevole del coniuge ignaro della riserva mentale, la quale è estranea al regime della nullità del matrimonio previsto dall’ordinamento civile.”
Ed è proprio l’assenza di una nullità rilevante per l’ordinamento civile a sgombrare il campo dalla responsabilità dell’ex moglie in malafede.
La presenza di un dubbio tale da spingere la donna a contrarre matrimonio per “prova” non genera una responsabilità risarcitoria a carico della stessa.
Ogni coniuge ha il diritto di separarsi e di divorziare
La Corte di legittimità ricorda che la SU n. 500/1999 hanno stabilito che “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente.”
Alla luce di questo principio gli Ermellini ricordano che la libertà matrimoniale è un diritto della personalità sancito dall’articolo 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Nel vigente diritto di famiglia ogni coniuge ha il diritto, a prescindere dalla volontà o dalle colpe dell’altro, di separarsi e di divorziare. In questo modo attua un diritto individuale di libertà da ricondurre all’articolo 2 della Costituzione.
“(…) Affinché tale libertà non sia compromessa dall’incombenza di una conseguenza come la responsabilità risarcitoria derivante dall’inottemperanza ad un dovere giuridico, la comunicazione in discorso, in quanto relativa alla sfera personale affettiva, può comportare esclusivamente un dovere morale o sociale. Alla luce della libertà della scelta matrimoniale non emergono, dalla mancata comunicazione dello stato d’animo di incertezza in questione, un interesse della controparte meritevole di tutela da parte dell’ordinamento con il riconoscimento e rimedio risarcitorio e, dunque, un danno ingiusto.”
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Allegati
- Cass-28390-2024 (4 MB)