imposta successioni e donazioni

Imposta successioni e donazioni: il punto dell’Agenzia delle Entrate Le novità apportate al regime dell'imposta sulle successioni e donazioni nella circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 3/E/2025

Imposta successioni e donazioni: la circolare

Con la circolare n. 3/E del 2025, l’Agenzia delle Entrate ha illustrato le principali modifiche introdotte dal decreto legislativo 18 settembre 2024, n. 139 al regime dell’imposta sulle successioni e donazioni, che ha riformato il decreto legislativo n. 346/1990 (Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni).

Focus su autoliquidazione imposta

A partire dalle successioni aperte dal 1° gennaio 2025, l’imposta di successione non sarà più calcolata dagli uffici finanziari tramite avviso di liquidazione, ma sarà direttamente autoliquidata dai contribuenti, in base ai dati dichiarati nella dichiarazione di successione. Il pagamento dovrà avvenire entro 90 giorni dalla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione di successione, ossia entro dodici mesi dall’apertura della successione più ulteriori novanta giorni.

Esempio pratico: se la successione si apre il 22 ottobre 2025 e la dichiarazione viene presentata il 15 aprile 2026, il termine per il versamento dell’imposta sarà il 20 gennaio 2027.

Determinazione dell’imposta e aliquote applicabili

La circolare fornisce indicazioni operative sulla modalità di calcolo dell’imposta, richiamando le aliquote previste in relazione al valore netto dei beni e dei diritti trasferiti. Le aliquote variano in funzione del grado di parentela e delle franchigie previste dalla normativa vigente.

Competenza territoriale dell’ufficio

In base alle nuove disposizioni, l’ufficio competente per la gestione dell’imposta è quello nella cui circoscrizione il defunto aveva l’ultima residenza. In caso di residenza estera, si considera l’ultima residenza nota in Italia o, in mancanza, l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate di Roma.

Modifiche al regime sanzionatorio

Per le violazioni commesse a decorrere dal 1° settembre 2024, il decreto legislativo n. 87/2024 ha previsto una riduzione delle sanzioni amministrative relative alle irregolarità in materia di imposta sulle successioni e donazioni. Le percentuali delle sanzioni risultano quindi più contenute rispetto alla disciplina precedente.

Responsabilità infermiere

Responsabilità infermiere: va monitorato il paziente in codice verde Responsabilità infermiere: la Cassazione afferma che l'infermiere del PS deve monitorare l'evoluzione clinica del paziente nell'attesa di visita medica

Responsabilità infermiere

Responsabilità infermiere: la quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 15076/2025, ha affermato un principio rilevante in materia di colpa medica infermieristica nel triage ospedaliero. L’infermiere di pronto soccorso è tenuto non solo a rilevare i parametri vitali del paziente al momento dell’accesso, ma anche a proseguire il monitoraggio clinico, prestando attenzione all’eventuale peggioramento dei sintomi riferiti o osservati, anche nei casi di assegnazione del codice verde.

Il caso: crisi respiratoria sottovalutata

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Livorno, dichiarava non doversi procedere nei confronti di un’infermiera, per intervenuta prescrizione del reato, confermando la condanna al risarcimento del danno subito dalle parti civili costituite, in solido con l’ASL-Toscana
per il reato di cui all’art. 589 c.p.

Alla predetta, in qualità di infermiera professionale in servizio presso il Pronto Soccorso, era stato contestato di aver omesso di valutare correttamente la gravità del quadro clinico di soggetto asmatico, attribuendole così un codice di accesso di colore verde, circostanza che determinò un ritardo nell’intervento medico, causa della morte della paziente per arresto cardio-respiratorio dovuto ad “insufficienza respiratoria acuta da attacco asmatico di tipo 2”.

Il ruolo dell’infermiere nel triage

La Suprema Corte, esaminando il caso di specie, ha ribadito che “al personale infermieristico compete non solo una completa raccolta di dati, non limitata alla rilevazione dei parametri vitali, ma compete altresì un giudizio di carattere valutativo dei sintomi riscontrati e riferiti. E tanto considerano compiutamente i giudici di merito, rilevando non solo come non si possa sostenere che il compito dell’infermiere si limiti alla meccanica compilazione delle schede, ma che, appunto, lo stato della paziente obiettivamente rilevabile, avrebbe dovuto condurre ad una valutazione di gravità del caso”.

Seppur non competente a formulare diagnosi,  il personale infermieristico, in sostanza, doveva procedere all’auscultazione mediante stetoscopio, potendo rilevare i ” sibili” certamente presenti in un attacco di asma grave quale quello in corso, compilando correttamente la scheda di triage.

Pertanto, i giudici rimarcano altresì “la gravità della condotta colposa della ricorrente, in quanto caratterizzata da sottovalutazione delle condizioni della paziente e dalla omissione del dovere di monitoraggio che, qualora osservato, avrebbe permesso di avvisare il personale medico dell’aggravarsi delle condizioni della donna e della necessità di intervenire immediatamente”.

Infermiere titolare di posizione di garanzia

Va invero ribadito, concludono gli Ermellini, che, secondo principi costantemente affermati dalla Corte di legittimità, “l’infermiere è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, gravando sullo stesso un obbligo di assistenza effettiva e continuativa del soggetto ricoverato, atta a fornire tempestivamente al medico di guardia un quadro preciso delle condizioni cliniche ed orientarlo verso le più adeguate scelte terapeutiche (cfr. Cass. n. 21449/2022).

Il dovere di monitorare la stabilità delle condizioni dei pazienti presenti rientra, pertanto, tra gli obblighi specifici del personale infermieristico di pronto
soccorso, il quale, nel caso in cui si verifichino particolari situazioni di emergenza, idonee a pregiudicare la salvaguardia del bene tutelato, “ha l’obbligo di allertare i sanitari in servizio, anche in altri reparti dell’ospedale, al fine di consentirne l’intervento in supporto (cfr. Cass. n. 11601/2014).

Allegati

riforma della professione

Riforma della professione forense: cosa prevede Riforma della professione forense: pronto il testo elaborato da CNF, OCF e altre associazioni per porre rimedio alle difficoltà degli avvocati

Avvocati: in arrivo la riforma della professione

L’avvocatura italiana è in fase di trasformazione, pronta la riforma della professione forense.

I dati evidenziano del resto un calo degli iscritti alla Cassa Forense. Salgono invece l’età media e i redditi, ma non per tutti. Significative poi le disparità di genere e territoriali.

Proprio al fine di migliorare questo stato di cose, il Consiglio Nazionale Forense (CNF), in collaborazione con l’Organismo Congressuale Forense (OCF) e altre associazioni, ha completato una proposta di riforma dell’ordinamento professionale. Come annunciato nel corso dell’illustrazione del Rapporto del Censis sull’avvocatura 2025, l’obiettivo è di portarla in Parlamento entro quindici giorni per l’approvazione. La proposta è stata presentata ufficialmente il 29 aprile 2025 a Roma, nel corso dell’Agorà dei presidenti degli Ordini e delle unioni.

Tra le novità di maggiore rilievo spicca la possibilità per il professionista di accordarsi con il cliente e pattuire un compenso collegato al raggiungimento degli obiettivi, senza tuttavia superare il criterio di proporzionalità e il 20% del tetto massimo stabilito dai parametri in vigore.

Il rapporto Censis sull’avvocatura

Secondo il Rapporto Cassa Forense-Censis, presentato a Roma, gli avvocati iscritti nel 2024 sono  in calo dell’1,6% rispetto all’anno precedente. Dal 2020 la riduzione è di quasi 12.000 unità. Parallelamente, il numero di pensionati è aumentato di circa 5.000 unità, mentre gli iscritti attivi sono diminuiti di 15.000. L’età media degli avvocati ha raggiunto i 49 anni, confermando un progressivo invecchiamento della categoria.

Preoccupante anche il dato relativo alla professione: il 33% degli avvocati intervistati ha dichiarato di valutare l’idea di abbandonare l’attività, principalmente per difficoltà economiche e problemi di conciliazione tra vita professionale e familiare, soprattutto per le donne.

Redditi in crescita ma con forti disparità

Il reddito medio degli avvocati nel 2023 è stato di 47.678 euro, ma le differenze sono evidenti. Gli uomini hanno dichiarato in media 62.456 euro, mentre le donne si sono fermate a 31.115 euro. Le disparità emergono anche su base territoriale: in Lombardia il reddito medio è di 81.115 euro, mentre in Calabria scende a 24.203 euro.

Il nuovo Statuto dellAvvocatura

A tredici anni dalla legge professionale del 2012, il nuovo Statuto dell’Avvocatura è pronto. Tra le misure proposte, spicca l’obbligo per la Pubblica Amministrazione e le autorità giudiziarie di rispettare la parità di genere nell’assegnazione degli incarichi.

Arricchita la disciplina del segreto professionale che si estende ai nuovi supporti informatici, audio e video.

Nuove regole per chi decide di associarsi e disciplina dell’esercizio della professione tramite la partecipazione a contratti di rete tra avvocati o multidisciplinari. Apertura nei confronti delle collaborazioni continuative e coordinate per gli avvocati.

Cambia anche il percorso di formazione per esercitare la professione forense e la disciplina degli albi, degli elenchi e dei registri. Prevista anche una delega al Governo per riformare le difese d’ufficio.

Novità importanti e numerose in ambito disciplinare. Prevista la sospensione del procedimento disciplinare per i medesimi fatti per i quali viene aperta l’azione penale o vengono avviate le indagini penali.

Le comunicazioni, i provvedimenti e le notifiche del CDD avverranno a mezzo PEC, solo in mancanza si continueranno a effettuare a mezzo raccomandata A/R o ufficiale giudiziario. Cambia inoltre la disciplina della riabilitazione dell’avvocato che abbia commesso illeciti disciplinari, la quale verrà annotata nel fascicolo personale dell’iscritto.

La riforma è attesa con grande interesse dalla categoria, con la speranza che possa fornire strumenti concreti per garantire una professione più equa, sostenibile e attrattiva per le nuove generazioni.

 

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addizionale provinciale

Addizionale provinciale energia elettrica: incostituzionale La Consulta dichiara illegittima costituzionalmente l'addizionale provinciale sull'energia elettrica

Addizionale provinciale sull’energia elettrica

Con la sentenza n. 43 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica, già abrogata nel 2012. La norma istitutiva, infatti, è stata ritenuta in contrasto con i principi del diritto dell’Unione europea, in quanto priva di una finalità specifica e trasparente per l’utilizzo del gettito.

Mancanza di finalità specifica: contrasto con UE

Secondo la Consulta, la destinazione generica del tributo “in favore delle province” non soddisfa il requisito della finalità specifica, come richiesto dalle direttive comunitarie in materia di imposizione indiretta. Tale orientamento è coerente con la giurisprudenza della Corte di cassazione (sentenza n. 27101/2019 e ordinanza n. 24373/2024), che aveva già evidenziato la natura meramente generica della destinazione delle somme, ritenendola assimilabile a una finalità di bilancio ordinaria.

Rilevanza sentenza Corte UE nel caso C-316/22

Nell’esaminare la questione, la Corte costituzionale ha tenuto conto anche della recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dell’11 aprile 2024 (causa C-316/22, Gabel industria tessile spa e Canavesi spa). In tale decisione, la CGUE ha ribadito che, in una controversia tra privati, il giudice nazionale non può disapplicare direttamente una norma nazionale in contrasto con una direttiva. Tuttavia, ha riconosciuto il diritto del cliente del servizio di fornitura di energia elettrica di agire direttamente nei confronti dello Stato, quando non sia giuridicamente possibile agire contro il fornitore.

giunto tecnico condominiale

Il giunto tecnico condominiale Giunto tecnico condominiale: definizione, funzione, normativa e ripartizione delle spese

Che cos’è un giunto tecnico o giunto strutturale

Il giunto tecnico condominiale, anche noto come giunto strutturale, è un’interruzione fisica progettata tra due edifici contigui o tra due parti dello stesso edificio per evitare che, in caso di sollecitazioni meccaniche o movimenti strutturali (come terremoti, dilatazioni termiche o assestamenti del terreno), le strutture entrino in contatto diretto danneggiandosi reciprocamente. In particolare, esso previene il cosiddetto martellamento, ovvero l’urto tra edifici adiacenti con differenti risposte dinamiche.

Il giunto strutturale può essere visibile (ad esempio con un profilo metallico o un elemento elastico di copertura) oppure nascosto, in ogni caso è essenziale per garantire la sicurezza statica e l’autonomia strutturale delle costruzioni.

A cosa serve il giunto tecnico in un condominio

Nel contesto condominiale, il giunto tecnico svolge quindi una duplice funzione:

  • strutturale: garantisce l’indipendenza statica delle unità immobiliari, soprattutto in edifici pluriblocco costruiti con corpi di fabbrica separati;
  • funzionale: evita infiltrazioni d’acqua, dispersioni termiche o rumori, grazie all’inserimento di materiali flessibili, guarnizioni o profili metallici.

Oltre alla funzione edilizia e strutturale, il giunto strutturale ha quindi anche un’importanza ai fini della manutenzione dell’involucro edilizio e della sicurezza abitativa.

Normativa di riferimento

Sebbene non esista una normativa codificata specifica per il giunto strutturale in ambito condominiale, il suo utilizzo è prescritto dalle Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC 2018), approvate con D.M. 17 gennaio 2018, che impongono l’adozione di distacchi adeguati tra edifici per garantire la sicurezza sismica.

In ambito condominiale, il giunto tecnico assume rilevanza anche in relazione ad alcuni articoli del codice civile, che riguardano le spese per i beni comuni:

  • Art. 1117 c.c. (beni comuni);
  • Art. 1123 c.c. (criteri di ripartizione delle spese);
  • Art. 1134 c.c. (spese urgenti).

Come si ripartiscono le spese per il giunto tecnico

Una questione delicata riguarda  la ripartizione delle spese per la manutenzione o sostituzione del giunto tecnico.

La giurisprudenza e la dottrina più accreditata, come emerge anche dalla sentenza Cassazione civile n. 8292/2000 ritengono che le spese per la conservazione del valore capitale mirano a garantire o ripristinare l’integrità del bene e si basano sulla proprietà, suddividendosi proporzionalmente alle quote. Queste spese, indipendenti dai vantaggi personali derivanti dall’utilizzo del bene, rispondono a una funzione oggettiva legata alla tutela del capitale. Le spese legate all’uso dipendono invece dal godimento soggettivo e personale del bene e sono ripartite in proporzione al grado di utilizzo, riflettendo la funzione e il fondamento specifici del godimento. Ne consegue che  qualora i giunti strutturali richiedano interventi di manutenzione, le decisioni relative e le spese devono essere sostenute dai condomini coinvolti, salvo diverso accordo stipulato, in base ai millesimi di proprietà. In questo modo si garantisce una distribuzione proporzionata alle quote di ciascun condomino.

Sull’argomento si segnala anche la recente sentenza della Corte d’appello di Bari n. 457/2025, la quale ha affermato che il giunto tecnico, essendo un elemento essenziale per l’intera struttura, comporta una ripartizione proporzionale delle spese tra i condomini. La Suprema Corte del resto ha stabilito che interventi su pilastri di edifici separati da giunti tecnici, necessari a sostenere non solo l’edificio, ma anche parti comuni come porticati, seguono il criterio di ripartizione previsto dall’art. 1123 c.c. Tutti i condomini devono quindi contribuire “pro-quota” alle spese, indipendentemente dal diritto di proprietà.

infortunio inail

Comunicazione infortunio Inail: cosa cambia L'Inail rende noti gli aggiornamenti operativi dal 16 maggio 2025 relativi alle comunicazioni e denunce di infortunio

Comunicazione e denuncia di infortunio INAIL

Infortunio Inail: dal 16 maggio 2025 in vigore importanti aggiornamenti relativi agli applicativi “Comunicazione di infortunio” e “Denuncia/Comunicazione di infortunio”. Le modifiche, rende noto l’istituto con avviso sul proprio sito, coinvolgono in particolare le modalità di invio offline e tramite cooperazione applicativa.

Nuovo campo obbligatorio per attività in cantiere

La principale novità introdotta con l’aggiornamento consiste nell’aggiunta di un nuovo campo obbligatorio destinato a raccogliere l’informazione relativa allo svolgimento dell’attività lavorativa in cantiere. Il campo, denominato “Attività svolta in cantiere”, è stato previsto anche ai fini della corretta gestione della patente a crediti per i lavori eseguiti in cantieri temporanei o mobili, come previsto dal sistema normativo vigente in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Adeguamento dei sistemi: scadenza 15 maggio 2025

I soggetti che trasmettono le comunicazioni tramite modalità offline o in cooperazione applicativa sono tenuti ad aggiornare i propri sistemi informativi entro il 15 maggio 2025, al fine di garantire la corretta acquisizione del nuovo dato richiesto dagli applicativi aggiornati.

Infortunio Inail: documenti e percorsi

Le versioni aggiornate delle specifiche tecniche, complete di cronologia delle modifiche, sono accessibili ai seguenti percorsi del portale INAIL:

  • Home > Atti e documenti > Assicurazione > Prestazioni > Denuncia infortunio

  • Home > Atti e documenti > Prevenzione > Comunicazione di infortunio

Inoltre, le documentazioni tecniche relative ai servizi in cooperazione applicativa sono state trasmesse direttamente alle aziende che utilizzano tale modalità di comunicazione.

avvocati stabiliti

Avvocati stabiliti: serve la residenza o il domicilio Il CNF chiarisce che l'iscrizione nella sezione speciale degli Avvocati stabiliti richiede la residenza o il domicilio professionale nella circoscrizione del COA

Avvocati stabiliti e residenza

L’iscrizione nella Sezione Speciale per gli Avvocati Stabiliti dell’Albo degli Avvocati può essere effettuata e mantenuta solo qualora l’istante abbia stabilmente la residenza o il domicilio professionale nella circoscrizione territoriale dell’Ordine presso il quale viene chiesta l’iscrizione stessa: trattandosi di requisito indispensabile per l’iscrizione e il suo mantenimento, il COA può in ogni tempo verificarne la sussistenza, anche d’ufficio. Questo quanto affermato dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 386/2024 (pubblicata il 28 aprile 2025 sul sito del Codice deontologico).

Le verifiche del COA durante il triennio

Inoltre, specifica il CNF, durante il triennio di stabilimento, “il COA può verificare unicamente il permanere dei requisiti per l’iscrizione nella Sezione speciale, come previsti dal D. Lgs. n. 96/2001”.

Altre circostanze (ad esempio, quelle attinenti allo svolgimento dell’attività professionale, nonché alla continuatività della stessa, alla mancanza o sospensione dell’attività professionale) potranno essere verificate e valutate, “unicamente al termine del triennio ed ai fini della decisione sulla successiva domanda d’integrazione nell’Albo degli Avvocati, dovendosi escludere che le stesse circostanze possano dar luogo alla revoca dell’iscrizione, permanendo in ogni caso, in presenza dei requisiti di legge, il diritto dell’Avvocato proveniente da Paese membro dell’Unione Europea a rimanere iscritto nella sezione speciale dell’Albo”.

 

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condizione risolutiva

La condizione risolutiva Condizione risolutiva: cos’è, normativa, funzionamento, differenze con la clausola risolutiva espressa, giurisprudenza

Cos’è la condizione risolutiva

La condizione risolutiva è una clausola contrattuale che prevede l’estinzione di un contratto se si verifica un determinato evento futuro e incerto. Essa si distingue dalla condizione sospensiva, che condiziona l’efficacia al verificarsi di un evento futuro.

La condizione risolutiva infatti opera quando il contratto è già in vigore e cessa di avere effetto quando si verifica l’evento condizionante. La condizione risolutiva permette, dunque, di “annullare” l’effetto del contratto al verificarsi dell’evento stabilito. Non c’è quindi la necessità di risolvere giudizialmente l’accordo.

Normativa di riferimento

La condizione risolutiva è disciplinata dal Codice Civile Italiano, dall’articolo 1359 c.c, che si occupa delle condizioni contrattuali. Esso stabilisce che “La condizione può essere sospensiva o risolutiva. La condizione risolutiva è quella che determina la cessazione dell’efficacia del contratto se si verifica l’evento futuro e incerto.”

Il Codice Civile non fornisce una definizione dettagliata di condizione risolutiva. Esso si limita stabilire che la stessa produce un effetto automatico, senza bisogno di il ricorrere a una pronuncia giudiziale.

Come funziona la condizione risolutiva

Il funzionamento di questa condizione, da quanto detto finora, è piuttosto semplice. Un contratto può prevedere che, al verificarsi di un determinato evento futuro (ma non certo), questo faccia cessare gli effetti del contratto stesso. Questo significa che, una volta che la condizione si realizza, il contratto si estingue automaticamente. Non sono necessarie cioè comunicazioni o formalizzazione ulteriori.

Esempio di applicazione pratica

Immaginiamo un contratto di vendita sottosto alla condizione del conseguimento del finanziamento da parte dell’acquirente. Se, nel termine stabilito, l’acquirente non ottiene il prestito necessario, il contratto si risolve automaticamente, senza la necessità di una dichiarazione formale da parte delle parti.

Questo tipo di clausola viene utilizzato soprattutto quando le parti vogliono tutelarsi contro il rischio di un imprevisto che potrebbe rendere il contratto inefficace. La condizione risolutiva, dunque, offre maggiore flessibilità rispetto a un contratto definitivo.

Differenza con la clausola risolutiva espressa

La condizione risolutiva viene spesso confusa con la clausola risolutiva espressa, che è una clausola tipica dei contratti stipulati tra le parti. Sebbene entrambe abbiano la funzione di determinare la risoluzione di un contratto, le due sono concettualmente diverse e si applicano in contesti distinti.

La condizione risolutiva si applica quando il contratto prevede che si annulli o cessi di essere efficace al verificarsi di un evento futuro e incerto. Non è necessaria una decisione delle parti per risolvere il contratto, esso si scioglie automaticamente. In un contratto di vendita, ad esempio se la condizione risolutiva è subordinata alla mancata concessione del finanziamento all’acquirente, il contratto si risolve automaticamente.

La clausola risolutiva espressa, invece, prevede che il contratto venga risolto in maniera automatica e immediata se una delle parti non adempie a una determinata obbligazione, senza necessità di una condizione sospensiva. La differenza fondamentale con la condizione risolutiva è che la clausola risolutiva espressa agisce per inadempimento di una delle parti. Se in un contratto di appalto l’appaltatore non esegue una prestazione essenziale, la clausola risolutiva espressa farà cessare automaticamente l’efficacia del contratto, senza che ci sia bisogno di un intervento giudiziale.

In sintesi la condizione risolutiva dipende dal verificarsi di un evento futuro e incerto, mentre la clausola risolutiva espressa dipende dall’inadempimento o dalla violazione di un obbligo espressamente pattuito nel contratto.

Giurisprudenza sulla condizione risolutiva

La giurisprudenza italiana ha avuto numerosi pronunciamenti sul tema della condizione risolutiva, chiarendo il suo funzionamento in vari ambiti. Ecco alcuni esempi significativi.

Cassazione n. 24318/2022

La clausola inserita nel preliminare di vendita, che prevede la risoluzione automatica del contratto se i permessi di costruzione non vengono rilasciati entro una data stabilita per cause indipendenti dalla volontà delle parti, configura una condizione risolutiva. Ciò significa che l’efficacia del contratto è subordinata a un evento futuro e incerto, ovvero il rilascio dei permessi entro il termine concordato. Se tale evento non si verifica, il contratto si considera risolto fin dall’origine, come se non fosse mai stato stipulato, senza necessità di ulteriori azioni da parte dei contraenti. La clausola non attribuisce al venditore la facoltà di sciogliersi unilateralmente dal contratto, ma stabilisce una conseguenza automatica al verificarsi di una circostanza oggettiva.

Cassazione n. 21427/2022

Se una parte viola l’obbligo di agire in buona fede durante il periodo in cui una condizione sospensiva è pendente, come richiesto dall’articolo 1358 del codice civile, il momento in cui si verifica tale violazione, che è fondamentale per calcolare il danno risarcibile e quando inizia a decorrere, non è quando la parte in malafede chiede al giudice di annullare il contratto (che era già diventato inefficace perché la condizione non si è verificata). Piuttosto, il momento rilevante è l’ultimo istante in cui si può dimostrare che la parte non ha fatto ciò che era necessario per permettere alla condizione di avverarsi. In altre parole, il danno viene calcolato a partire dal momento in cui la parte ha smesso di agire in buona fede, non da quando ha cercato di sfruttare la situazione in tribunale.

Cassazione n. 9550/2018

Quando un contratto è soggetto a una condizione, sia essa sospensiva (che ne ritarda l’efficacia) o risolutiva (che ne determina la cessazione), e le parti non stabiliscono un termine preciso per il verificarsi di tale condizione, la legge interviene per evitare situazioni di incertezza prolungata. In questi casi, se trascorre un periodo di tempo considerato ragionevolmente sufficiente senza che la condizione si avveri (nel caso di condizione sospensiva) o si verifichi (nel caso di condizione risolutiva), una delle parti può rivolgersi al giudice per ottenere una dichiarazione di inefficacia del contratto. Il giudice, valutando le circostanze specifiche e la natura dell’evento condizionante, determinerà se il tempo trascorso è da considerarsi eccessivo, portando così alla caducazione del contratto. In sostanza, anche in assenza di un termine esplicito, la legge prevede un limite temporale implicito, volto a garantire la certezza dei rapporti giuridici.

 

Leggi anche:  La risoluzione del contratto

giurista risponde

Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento L’accordo patrimoniale tra genitori ex conviventi può essere risolto per inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

In tema di mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati, alla luce del disposto di cui all’art. 337ter, comma 4 c.c., anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori non coniugati e non conviventi, al fine di disciplinare le modalità di contribuzione degli stessi ai bisogni e necessità dei figli, è riconosciuto valido come espressione dell’autonomia privata e pienamente lecito nella materia, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo; tuttavia, avendo tale accordo ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege”, l’autonomia contrattuale delle parti assolve allo scopo solo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta e incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale della prole. Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 1324 – Accordo patrimoniale tra ex conviventi).

La vicenda trae origine da una scrittura privata sottoscritta dalle parti, ex conviventi, per definire gli aspetti relativi al mantenimento del figlio e le questioni patrimoniali insorte nella coppia.

Ivi le parti avevano inserito una clausola con cui una di esse si impegnava a vendere l’immobile di sua proprietà e a corrispondere una cospicua somma all’altra parte, a condizione che questi assolvesse agli obblighi di mantenimento del figlio.

In primo grado il Tribunale aveva ritenuto tale accordo di natura transattiva e ne aveva dichiarato la risoluzione per grave inadempimento di una delle parti.

In secondo grado, la Corte d’Appello aveva qualificato diversamente la scrittura privata, attribuendole natura di accordo stipulato in occasione di una crisi familiare ex art. 337ter, comma 4 c.c. a struttura non sinallagmatica, ritenendo inammissibile l’azione di risoluzione per inadempimento.

Avverso tale decisione è stato proposto ricorso per Cassazione.

Preliminarmente, la Cassazione ha rammentato la giurisprudenza in materia di diversa qualificazione giuridica del rapporto d’ufficio, che la ammette anche in difetto di specifico motivo di impugnazione, in quanto il giudice d’appello ha il potere dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia. Tuttavia, occorre rispettare due limiti: lasciare inalterati il “petitum” e la “causa petendi” e non introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto (così Cass. 26 giugno 2012, n. 10617; Cass. 17 febbraio 2020, n. 3893).

La Suprema Corte ha affermato nella decisione de quo che l’accordo negoziale di cui all’art. 337ter comma 4 c.c. è espressione dell’autonomia privata ed è pienamente lecito, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo.

Esso ha ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege, consistente nel mantenimento della prole; pertanto, l’autonomia contrattuale delle parti deve limitarsi a regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta garantendo l’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale dei figli (così Cass., 11 gennaio 2022, n. 633).

Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento.

Per tale motivo, la Cassazione ha cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

(*Contributo in tema di “Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

avvocato specialista

L’avvocato specialista Avvocato specialista: chi è, come si acquisisce e si conserva il titolo, come fare domanda per il titolo e quando viene revocato

Chi è l’avvocato specialista

L’avvocato specialista è un professionista del diritto che ha acquisito una particolare competenza in uno specifico settore del diritto, riconosciuta formalmente attraverso un percorso di formazione o una comprovata esperienza professionale.

Questa figura è stata introdotta per rispondere all’esigenza crescente di garantire maggiore qualità, trasparenza e tutela nell’esercizio della professione forense, soprattutto in materie complesse e altamente tecniche.

La figura dell’avvocato specialista rappresenta un’evoluzione dell’ordinamento forense verso una maggiore qualificazione e trasparenza professionale. I percorsi previsti, sia formativo che per esperienza, consentono a ogni professionista di costruire una carriera riconosciuta, anche formalmente, in ambiti giuridici specifici.

DM 144/2015 e regolamento CNF n. 3/2024

La disciplina dell’avvocato specialista è contenuta principalmente in due atti normativi:

  • Decreto Ministeriale n. 144 del 1° ottobre 2015, attuativo dell’art. 9 della legge n. 247/2012 (Nuova disciplina dell’ordinamento forense), che ha istituito il titolo di specialista in specifiche aree di competenza;
  • Regolamento n. 3/2024 del Consiglio Nazionale Forense che ha aggiornato la procedura per il rilascio e il mantenimento del titolo di specializzazione.

Le aree di specializzazione riconosciute

Secondo il DM 144/2015 vigente le principali aree di specializzazione sono le seguenti:

  • diritto civile;
  • diritto penale
  • diritto del lavoro e della previdenza sociale;
  • diritto tributario, doganale r fiscalità internazionale;
  • diritto amministrativo;
  • diritto dell’Unione Europea;
  • diritto internazionale;
  • diritto della concorrenza;
  • diritto dell’informazione, della comunicazione digitale e della protezione dei dati personali;
  • diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni;
  • tutela dei diritti umani e protezione internazionale;
  • diritto dello sport.

Al diritto civile, penale e amministrativo afferiscono diversi indirizzi.

Come si diventa avvocato specialista

L’avvocato può ottenere il titolo di specialista seguendo due percorsi alternativi, disciplinati dal DM 144/2015 e regolati più dettagliatamente dal regolamento CNF n. 3/2024:

1. Percorso formativo universitario

  • Frequenza di corsi di alta formazione specialistica organizzati da “Dipartimenti o dalle strutture di raccordo di cui all’articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240 degli ambiti di giurisprudenza delle università legalmente riconosciute e inserite nell’apposito elenco del Ministero dell’istruzione, università e ricerca.
  • I corsi devono avere una durata minima di 200 ore, con almeno l’80% di frequenza obbligatoria.
  • Al termine è previsto un esame finale.

2. Comprovata esperienza professionale

  • Dimostrazione di almeno cinque anni di esperienza continuativa e prevalente in una delle aree di specializzazione.
  • Presentazione di un elenco di casi trattati (almeno 10 l’anno), con allegata documentazione dimostrativa (atti, sentenze, pareri, ecc.).
  • Conferimento del titolo da parte del CNF previa valutazione della regolarità dei documenti comprovanti il possesso dei requisiti da parte del Consiglio dell’Ordine di appartenenza.

Come richiedere il titolo di avvocato specialista

La domanda per ottenere il titolo di avvocato specialista, corredata della documentazione comprovante il possesso dei requisiti richiesti, deve essere presentata:

In caso di esito positivo, il CNF rilascia un certificato che attesta la specializzazione. I consigli dell’ordine formano e aggiornano gli elenchi degli avvocati specialisti.

Mantenimento e revoca del titolo

Il titolo di avvocato specialista non ha validità illimitata, ma è subordinato al mantenimento della competenza tramite la formazione continua.

  • L’avvocato specialista deve conseguire almeno 25 crediti formativi annui nella materia di specializzazione per un totale di 75 nel triennio.
  • La mancata formazione, così come l’irrogazione di sanzioni disciplinari definitive diverse dall’avvertimento, comportano la revoca del titolo.

Il CNF ha il potere di verificare periodicamente la sussistenza dei requisiti e, in caso di irregolarità, può avviare la procedura di revoca.

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