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Bollette: cosa cambia con la fine del mercato di maggior tutela Cosa cambia dal 1° luglio 2024 per chi ancora non ha scelto un fornitore del mercato libero dell’energia elettrica

Mercato libero: dal 1° luglio 2024 tutele graduali

Il 1° luglio 2024 entra in vigore il servizio a tutele graduali per l’energia elettrica. Si tratta di un meccanismo temporaneo che accompagna i clienti domestici non vulnerabili verso la fine del mercato tutelato, con l’obiettivo di favorire la completa liberalizzazione del mercato entro il 2027. Le tutele graduali rappresentano un passo verso la completa liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica. Per i consumatori è importante essere informati e fare scelte consapevoli, valutando le proprie esigenze e confrontando le diverse offerte disponibili.

Cosa cambia?

I soggetti interessati al passaggio alle tutele graduali sono i clienti domestici non vulnerabili che, al 30 giugno 2024, non hanno ancora scelto un fornitore del mercato libero. Si tratta, come anticipato, di un passaggio morbido verso il mercato libero, che rappresenterà l’unica scelta possibile.

Fino alla fine del mese di giugno 2024 i clienti non vulnerabili riceveranno, in almeno due bollette, una comunicazione con cui vengono informati della possibilità di scegliere un fornitore e quindi un’offerta del mercato libero. Chi non dovesse fare una scelta in tale senso entro la scadenza del 1° luglio beneficerà del servizio a tutele graduali. Le condizioni contrattuali verranno definite da ARERA.

La “nuova” bolletta

La bolletta prevista per il regime delle tutele graduali comprende:

  • la spesa per la materia energia (basata sul PUN ossia il prezzo unico nazionale);
  • i costi di approvvigionamento e commercializzazione.

Il prezzo finale che verrà applicato dal fornitore varierà tuttavia in base ai parametri dell’area in cui lo stesso opera. In base ai calcoli di Arera, il risparmio in bolletta rispetto al regime di maggior tutela, dovrebbe aggirarsi attorno ai 100 euro all’anno.

Per i clienti “vulnerabili”, ossia gli over 75enni e i beneficiari di bonus sociali o delle agevolazioni previste dalla legge 104, invece, non cambia nulla. La fornitura rimane nel mercato tutelato alle stesse condizioni.

Mercato tutelato e libero a confronto

Nel secondo semestre 2023 il prezzo medio nel mercato libero era superiore a quello del mercato tutelato (39,18 contro 28,11 centesimi/kWh). C’è da dire però che il mercato libero offre maggiore flessibilità perché prevede tariffe fisse o variabili, servizi aggiuntivi e la possibilità di scegliere liberamente il proprio fornitore.

Come scegliere il fornitore del mercato libero

I clienti che sceglieranno il mercato libero potranno confrontare le offerte sul portale https://ilportaleofferte.it/ e valutare la tariffa più adatta alle proprie esigenze, valutando se sia migliore quella fissa, quella variabile, i servizi aggiuntivi di interesse, ecc.

Qualche consiglio

Per una scelta ponderata confrontare le offerte è fondamentale. Prima di aderire alle tutele graduali o scegliere un fornitore del mercato libero, è importante infatti confrontare le diverse proposte per trovare la soluzione più conveniente. É necessario poi valutare le proprie esigenze. La scelta tra tutele graduali e mercato libero dipende da vari fattori, come il profilo di consumo, la necessità di servizi aggiuntivi e l’avversione al rischio, che farà propendere per una prezzo fisso anziché variabile. Da ultimo, ma non per importanza, si consiglia di approfondire le novità. A questo proposito è opportuno consultare il sito web di Arera (https://www.arera.it/) e il portale https://ilportaleofferte.it/.

Abolizione del mercato tutelato

Il mercato tutelato viene abolito perché il decreto legge “Bersani” n. 79/1999 aveva avviato il processo di liberalizzazione del mercato dell’energia, in quanto recepiva le prescrizioni contenute nella Direttiva UE del 1996 per la creazione di mercato europeo unico dell’energia. Nel 2007 in Italia il mercato dell’energia è stato liberalizzato, ma sarà solo con la chiusura del mercato regolamentato che si avrà il passaggio definitivo al libero mercato, caratterizzato da un prezzo che si formerà grazie all’incontro di domanda e offerta.

Responsabilità del revisore: l’intervento della Consulta Per la Consulta, non è incostituzionale far decorrere dal deposito della relazione bilancio la prescrizione del risarcimento del danno della società che ha conferito l'incarico

Responsabilità del revisore

“Nella disciplina delle azioni di responsabilità nei confronti dei revisori legali dei conti, non è manifestamente irragionevole far decorrere, dalla data di deposito della relazione sul bilancio, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno che può far valere la società che ha conferito l’incarico”. È quanto si legge nella sentenza n. 115-2024, depositata oggi dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità, sollevate dal Tribunale di Milano sull’articolo 15, comma 3, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, sul presupposto che l’ambito applicativo della disposizione si intenda riferito alla sola azione risarcitoria della società.

Ampio margine di discrezionalità del legislatore

“Il legislatore ha un ampio margine di discrezionalità nel disciplinare la decorrenza della prescrizione – ha ricordato il giudice delle leggi – e, nel caso delle azioni risarcitorie, deve contemperare l’interesse del danneggiato a far valere il proprio diritto al risarcimento con le esigenze di certezza del diritto e di tutela dell’interesse del danneggiante a non doversi difendere a distanza di molto tempo da richieste di danni”.

Il caso dei revisori legali

Nel caso dei revisori legali, “il bilanciamento realizzato dalla norma censurata non – è – manifestamente irragionevole quando l’azione risarcitoria è fatta valere dalla stessa società che ha conferito l’incarico”. In siffatta ipotesi, da un lato, infatti, ha osservato la Consulta, “il revisore è esposto a una responsabilità solidale con gli amministratori”, dall’altro, “sin dal deposito di una relazione inesatta o scorretta, il suo inadempimento produce un danno alla società che ha conferito l’incarico, la quale può già far valere una pretesa risarcitoria”.

“Quel medesimo termine – invece – non può valere per soci e terzi, i quali, fintantoché l’affidamento ingenerato dalla relazione erronea o scorretta non abbia determinato un concreto sviamento della loro autonomia negoziale, non subiscono danni”. Ad essi, dunque, ha concluso la Corte, dovrà “applicarsi la regola generale dell’art. 2947 c.c., che fa decorrere la prescrizione dal fatto illecito produttivo di danni”.

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reato resistenza pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale Il reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 del codice penale. Differenze con il reato di violenza e minacce e rassegna giurisprudenziale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale sanziona chi si oppone all’azione di un pubblico ufficiale (o del privato che, richiesto, gli presti assistenza) nel momento in cui quest’ultimo sta compiendo un atto del proprio ufficio.

Nel concetto di resistenza sono ricompresi, come vedremo tra breve, quei comportamenti che mirano a impedire il compimento dell’atto di ufficio, e questa circostanza vale a distinguere il reato di resistenza da quello di violenza o minaccia a pubblico ufficiale.

I caratteri del reato: violenza e minacce

A norma dell’art. 337 del codice penale, per aversi resistenza a pubblica ufficiale occorre che l’opposizione a quest’ultimo debba avere i caratteri della violenza o minaccia.

A questo riguardo, è opportuno precisare quando ricorrano tali caratteri, per comprendere quando si possa configurare il reato in oggetto. Ad esempio, la semplice fuga da un agente di polizia intenzionato ad eseguire controlli non integra resistenza, non ricorrendo violenza né minaccia.

Diversamente, se la fuga è accompagnata da minacce e da violenza – ad esempio, il tentativo di forzare con la propria auto un posto di blocco o l’esecuzione di manovre tese a impedire l’inseguimento in auto e foriere di pericolo per gli inseguitori – si ha resistenza a pubblico ufficiale, poiché si crea ostacolo al compimento degli atti da parte degli agenti, indipendentemente dall’esito di tale azione (Cass. pen. n. 5459/20).

La giurisprudenza sull’art. 337 c.p.

Altre pronunce giurisprudenziali ci aiutano a definire meglio i contorni di tale concetto.

Resistenza passiva

Ad esempio, la Corte di Cassazione, VI sez. penale, con sentenza n. 6604/22, ha chiarito, nel solco di pacifica giurisprudenza legittimità (cfr., tra tante, Cass. sez. VI, n. 10136/13), che la semplice resistenza passiva non vale a integrare il reato di cui all’art. 337 c.p., con tale locuzione intendendosi, ad esempio, l’atto del semplice divincolarsi del soggetto fermato dall’agente di polizia, attraverso l’uso di gesti di moderata violenza non diretta contro il pubblico ufficiale.

Parimenti, non fa resistenza il soggetto fermato dal pubblico ufficiale che si appoggi al telaio dell’auto della polizia per cercare di non essere condotto all’interno del veicolo (Cass. sez. VI, 6069/2015: si tratta di un altro esempio di resistenza passiva).

In definitiva, per integrarsi resistenza ai sensi dell’art. 337 c.p., occorre che il soggetto intenda porre in atto un condizionamento diretto dell’azione del pubblico ufficiale, opponendosi ad essa con violenza e minaccia e con lo scopo di impedirla.

La minaccia

In ogni caso, non è sempre facile ricostruire i confini di tale condotta; quanto alla minaccia, ad esempio, essa non deve essere generica, ma ingiusta, per quanto non necessariamente diretta verso la persona del pubblico ufficiale, né su una cosa. Si pensi, ad esempio, che la Suprema Corte ha ritenuto sussistente la resistenza a pubblico ufficiale in un caso in cui il soggetto fermato ha minacciato di darsi fuoco, non ritenendo la Corte necessaria una minaccia diretta o personale, essendo sufficiente una minaccia morale tale da costituire ostacolo all’azione del pubblico ufficiale (Cass. 26869/17).

Differenza tra resistenza a p.u. e violenza ex art. 336 c.p.

Il criterio per distinguere il reato di resistenza a pubblico ufficiale da quello di violenza o minaccia ai danni dello stesso (art. 336 c.p.) è quello temporale, in quanto la resistenza si configura quando si cerca di impedire un atto del pubblico ufficiale mentre questi lo sta compiendo, mentre il reato di violenza o minaccia si configura quando queste ultime sono perpetrate prima che il pubblico ufficiale compia il proprio atto d’ufficio o di servizio (cfr, Cassazione, Vi sez. pen., n. 37749/10).

Esimente al reato di resistenza a pubblico ufficiale

Va ricordato, infine, che il reato in oggetto è escluso quando la resistenza sia conseguenza di un’azione arbitraria del pubblico ufficiale che ecceda i limiti delle proprie attribuzioni (v. Cass. pen., n. 18841/2011, secondo cui tale esimente ricorre, ad esempio, quando la perquisizione personale sia disposta dal pubblico ufficiale in assenza degli elementi normativamente previsti che la giustifichino).

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale è procedibile d’ufficio – cioè senza necessità di querela – ed è sanzionato con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni.

quattordicesima pensionati

Quattordicesima pensionati: pagamenti dal 1° luglio L'INPS comunica il pagamento della quattordicesima per i pensionati con redditi bassi, indicando i limiti di reddito validi e gli importi dovuti (tra i 336 e i 655 euro)

Quattordicesima pensionati

Da oggi primo luglio, al via il pagamento della quattordicesima per i pensionati con redditi bassi. La somma aggiuntiva si aggira tra i 336 e i 655 euro. Lo ricorda l’INPS con il messaggio n. 2362/2024, indicando i limiti di reddito validi per quest’anno, gli importi dovuti in base ai redditi e agli anni di contribuzione e la platea degli interessi al pagamento.

La corresponsione della quattordicesima, spiega l’INPS, è effettuata d’ufficio ai pensionati “per i quali nelle banche dati dell’Istituto sono disponibili i dati reddituali utili per effettuare la lavorazione”.

Cosa deve fare chi non la riceve

Coloro che non ricevono la quattordicesima, ma ritengono comunque di averne diritto, chiarisce l’istituto, devono presentare l’apposita domanda di ricostituzione online, attraverso il servizio dedicato.

Reddito annuo inferiore ai limiti

Inoltre, l’INPS precisa che il diritto al beneficio viene preso in considerazione anche in base al reddito annuo del richiedente; tale reddito, in relazione agli anni di contribuzione, deve essere inferiore ai limiti indicati nella tabella allegata al messaggio.

Leggi anche la guida alla Quattordicesima

decreto sanzioni tributarie

Decreto sanzioni tributarie: cosa prevede  In vigore dal 29 giugno 2024, il decreto dedicato alle sanzioni tributarie, attuativo della riforma fiscale

Decreto sanzioni tributarie in vigore dal 29 giugno 2024

Il Consiglio dei Ministri nella giornata di venerdì 24 maggio 2024 ha approvato definitivamente, su proposta del Ministro dell’economia e delle Finanze (MEF) il decreto sulla riforma delle sanzioni tributarie (c.d. decreto sanzioni) che attua la legge fiscale prevista dalla legge delega n. 111 del 9 agosto 2023. Il D.Lgs. n. 87-2024, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 28 giugno, in vigore dal giorno successivo, modifica diverse leggi speciali e revisiona le sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla produzione, sui consumi e su altri tributi indiretti, disponendo l’applicazione delle modificazioni a partire dal 1°settembre 2024.

Vediamo le principali novità.

Crediti inesistenti e crediti non spettanti

Il decreto riformula la distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti. I crediti inesistenti sono quelli privi dei requisiti soggettivi e oggettivi o quelli oggetto di una falsa rappresentazione  causati documenti falsi o frutto di simulazioni o artifici.

I crediti non spettanti invece sono quelli che vengono fruiti con modalità diverse da quelle previste dalla legge, quelli che vengono fruiti in una misura superiore rispetto a quanto sancito dalla legge e quelli privi si elementi aggiuntivi o requisiti specifici richiesti dalla legge.

Non punibili penalmente gli omessi versamenti

Il decreto conferma la non punibilità per gli omessi versamenti previsti dagli articoli 10 bis e 10 ter del decreto legislativo n. 74/2000 se il debito è rateizzato regolarmente, anche per chi è decade dalla rateazione, a condizione che l’importo del debito non superi i 50.000 euro (art. 10 bis) e i 75.000 euro  (art. 10 ter).

Il contribuente ha il diritto di procedere in autonomia, rateizzando il debito con un numero di rate non superiori a 20 nelle more del risultato del controllo automatizzato eseguiti dall’Agenzia delle Entrate.

Definizione agevolata delle sanzioni

In caso di rinuncia del contribuente al ricorso nei casi di autotutela parziale in corso di giudizio è possibile beneficiare della definizione agevolata delle sanzioni alle condizioni previste nell’atto di contestazione in caso di acquiescenza. La procedura pensata dal legislatore però non tiene conto del fatto che la presentazione di deduzioni difensive, alternativa alla definizione agevolata dell’atto con cui vengono contestate le sanzioni, si scontra con il principio del contraddittorio generalizzato contemplato dall’articolo 16 dello Statuto del contribuente, che impone il confronto e la dialettica tra le parti prima che venga emanato l’atto pregiudizievole.

Modifiche alle sanzioni penali

Chiunque non versi, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, le ritenute dovute in base a tale dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un importo superiore a 150.000 euro per ogni periodo d’imposta, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

Prove nel processo penale

Sono utilizzabili come prova nel processo penale le sentenze definitive emesse nel processo tributario e gli atti di accertamento definitivo delle imposte in sede amministrativa, inclusi quelli derivanti da adesione relativi a violazioni per gli stessi fatti per i quali è stata esercitata l’azione penale.

Sentenze di assoluzione nel processo tributario

Le sentenze irrevocabili di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, pronunciate in seguito a dibattimento nei confronti dello stesso soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, hanno efficacia di giudicato in quest’ultimo, in ogni stato e grado, riguardo ai medesimi fatti. La sentenza penale irrevocabile può essere presentata anche nel giudizio di Cassazione con memoria illustrativa.

Sanzioni pecuniarie a società ed enti

La sanzione pecuniaria relativa al rapporto tributario di società o enti, con o senza personalità giuridica, di cui agli articoli 5 e 73 del TUIR, è a carico esclusivo della società o dell’ente.

Rimane invariata invece, nella fase di riscossione, la disciplina sulla responsabilità solidale e sussidiaria prevista dal codice civile per i soggetti privi di personalità giuridica.

Se viene accertato che la persona giuridica, la società o l’ente privo di personalità giuridica siano stati costituiti o interposti fittiziamente, la sanzione è irrogata nei confronti del soggetto che ha agito per loro conto.

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equo compenso avvocati

Equo compenso avvocati: norma in vigore dal 2 luglio Entra in vigore domani 2 luglio, la modifica al codice deontologico forense in materia di equo compenso

Equo compenso: modifica codice deontologico forense

Entra in vigore il 2 luglio 2024, la modifica al Codice deontologico forense in materia di equo compenso, ossia 60 giorni dopo la pubblicazione del comunicato del CNF in Gazzetta Ufficiale (n. 102/2024).

Già con nota del 1° marzo 2024, il CNF aveva anticipato al mondo dell’avvocatura la formulazione definitiva del nuovo art. 25 bis del Codice deontologico forense.

Il via libera definitivo della disposizione in materia di equo compenso, ai sensi della L. n. 49/2023, è stato dato nella seduta amministrativa del 23 febbraio 2024.

Il nuovo art. 25-bis Codice deontologico forense

Il testo del nuovo art. 25-bis rubricato “Violazioni delle disposizioni in materia di equo compenso” è il seguente:

“1. L’avvocato non puo’ concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso, non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti.

2. Nei casi in cui la convenzione, il contratto, o qualsiasi diversa forma di accordo con il cliente cui si applica la normativa in materia di equo compenso siano predisposti esclusivamente dall’avvocato, questi ha l’obbligo di avvertire, per iscritto, il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti in materia.

3. La violazione del divieto di cui al primo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. La violazione dell’obbligo di cui al secondo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento”.

Diritto di proprietà: prova del danno tramite presunzioni In caso di limitazione delle facoltà insite nel diritto di proprietà, l'esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni

Diritto di proprietà

Il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene. Per cui una volta limitate le stesse, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni. E’ quanto ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 17758-2024.

La vicenda

Nella vicenda, avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta a 38 centimetri di distanza dal balcone dell’attore, la Corte d’appello rigettava la sua domanda risarcitoria ritenendo insussistente il danno alla salute e carente di prova il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene.

Il ricorso in Cassazione

La proprietaria adiva quindi il Palazzaccio, dolendosi, con l’unico motivo di ricorso, del fatto che la corte territtoriale, pur avendo accertato l’intrinseca pericolosità della canna fumaria posta a distanza inferiore a quella legale, avesse rigettato la domanda risarcitoria “senza tener conto che l’esistenza di un manufatto in amianto limiterebbe il godimento del bene”. La ricorrente contesta la “fallacia del ragionamento inferenziale, che, in tema di violazione delle distanze, ammette il ricorso ad elementi presuntivi per l’accertamento e la determinazione del danno” e richiama l’orientamento di legittimità che riconosce il danno in re ipsa nell’ipotesi di violazione delle distanze.

Rispetto distanze

Per gli Ermellini, il motivo è fondato.
“Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. – affermano preliminarmente – è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che è assoluta ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale, ed è invece relativa – e, come tale, superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per li fondo vicino – ove manchi una simile norma regolamentare (cfr. Cass. 15246/2017). Nel caso di specie, la Corte di merito, proseguono i giudici della S.C., “ha accertato la violazione delle distanze della canna fumaria dal balcone di proprietà dell’attrice e la sua intrinseca pericolosità, attesa la sua composizione in amianto e le pessime condizioni manutentive, pericolosità che era superabile con la dimostrazione da parte dei convenuti di aver adottato idonee cautele tecniche al fine di salvaguardare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive”.
La sentenza impugnata, ha escluso il risarcimento in assenza di un danno diretto alla salute, “omettendo però di valutare, anche in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante dall’esposizione ad amianto, abbia limitato il godimento del bene, a prescindere dalla verifica delle immissioni nocive”.

Prova del danno

Quanto alla tutela risarcitoria, le Sezioni Unite, con sentenza del 15.11.2022, n. 33645, in tema di prova del danno da violazione del diritto di proprietà e di altri diritti reali, ricordano ancora dalla S.C., “hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della I Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile. La questione se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria è risolta dalle Sezioni Unite in senso positivo”. E’ stato dato seguito al principio di diritto, più volte affermato dalla Cassazione, “secondo cui, in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria (ex multis Cass. Sez. 11, 18.7.2013, п.17635)”. La linea evolutiva della giurisprudenza della S.C., ha sostituito la locuzione “danno in re ipsa” con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato. Ed è stato quindi definito “il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà: esso riguarda non la cosa ma li diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione”. Per cui, il nesso di causalità giuridica si stabilisce “fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il
requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire”.

Prova per presunzioni

Quindi, “nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Per cui ha errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria “senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a
compromettere li godimento del bene, come l’intrinseca pericolosità della canna fumaria per la composizione in amianto, la difformità della canna alle prescrizioni di legge ed il suo cattivo stato di conservazione”. I giudici avrebbero dovuto accertare, invero, se “per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile per il rischio di dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive”.
La sentenza impugnata, quindi concludono dalla S.C., non si pone in linea con l’orientamento di legittimità in tema di presunzione di danno correlato alla normale utilità del bene, “basato sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite
le facoltà di godimento e disponibilità del bene ne è oggetto, sicché una volta soppresse o limitate tali facoltà, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni (Cassazione Civile, Sez. II, 23.6.2023, n.18108)”.

Il principio di diritto

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, che dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

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giurista risponde

Messaggi via social e reato di molestie L’invio di messaggi tramite le piattaforme Instagram e Facebook integra gli estremi di cui all’art. 660 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

L’espressione “col mezzo del telefono” dell’art. 660 c.p. deve essere riferita all’uso delle linee telefoniche e non del telefono quale dispositivo elettronico in quanto tale. Nel rispetto del principio di legalità, dunque, l’equiparazione tra un sistema di messaggistica telematica disponibile tramite smartphone e il sistema di comunicazioni tradizionali effettuate col mezzo del telefono non si giustifica, anche in ragione del fatto che l’invasività della comunicazione improvvisa dipende da una scelta del soggetto che la riceve, il quale può disattivare le notifiche. – Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 2023, n. 40033.

Il reato di molestia integrato col mezzo del telefono è, di recente, stato esaminato dalla giurisprudenza, chiamata a verificare la compatibilità con la condotta descritta dalla fattispecie del comportamento dell’agente che, tramite Facebook, ha cercato di mettersi in contatto con i figli naturali, contattando persone a loro vicine, ivi compresi i genitori adottivi.

A seguito della condanna è stata contestata la qualificazione giuridica del fatto, che, pur concretizzatosi avvalendosi delle linee telefoniche, non si sostanzia nella condotta di molestia o di disturbo alle persone descritta dalla contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Il predetto illecito punisce una condotta molesta dell’agente idonea a turbare la persona offesa, la cui sfera personale viene ad essere invasa e perturbata improvvisamente, senza alcuna possibilità di limitare o bloccare l’ingerenza altrui.

Per quanto concerne la molestia adoperata col mezzo del telefono, tale condotta è stata oggetto di continui mutamenti nel corso del tempo in ragione del progresso tecnologico, succedendosi una serie di orientamenti.

Sebbene in un primo momento con tale espressione si è inteso lo strumento di comunicazione tradizionale agganciato alla rete telefonica, si è poi passati a considerare tale anche il dispositivo mobile e lo smartphone. Ciò che connota la molestia telefonica è l’impossibilità della persona offesa di arginare la condotta lesiva dell’agente, giacché non era possibile limitare il traffico telefonico. Invero con l’avvento di apparecchiature telefoniche sempre più sofisticate e con la diffusione di strumenti alternativi, ma idonei alla comunicazione telefonica, come i tablet, si è rappresentata la possibilità di filtrare le telefonate e i messaggi ricevuti mediante sistemi di blocco de traffico in entrata.

Tale considerazione ha comportato una rilettura del mezzo telefonico da intendersi alla stregua di linea telefonica, di rete mobile di telecomunicazione, anche al fine di evitare che la fattispecie divenisse anacronistica. Da questo ultimo punto di vista si è assistito al graduale confronto della giurisprudenza con varie ipotesi di molestia telematica, che hanno contribuito a ridisegnare l’assetto della fattispecie.

Punto di partenza della speculazione della Cassazione sono state le comunicazioni di posta elettronica. Premesso che la comunicazione epistolare era già stata distinta da quella telefonica, sul punto si è precisato che il principio di stretta legalità e di tipizzazione impedisce che l’interpretazione dell’espressione “col mezzo del telefono” possa essere dilatata sino a comprendere anche le modalità di comunicazione asincrona, quale l’invio di messaggi di posta elettronica, poiché differiscono dagli sms che costringono il destinatario, sia de auditu che de visu, a percepirli con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, arrecandosi disturbo al destinatario (Cass. pen., sez. III, 28680/2004).

Un successivo orientamento ha sostenuto che anche l’invio di un messaggio di posta elettronica può realizzare in concreto una diretta e sgradita intrusione del mittente nella sfera delle attività del destinatario, allorquando il destinatario non possa impedirne la percezione e la comunicazione sia accompagnata da un avvertimento acustico, che ne indichi l’arrivo in forma petulante, con un’intensità tale da condizionare la tranquillità del ricevente (Cass. pen.,, sez. I, 36799/2011).

“Col mezzo del telefono” va, pertanto, inteso come rete telefonica e l’art. pe c.p. sanziona le condotte moleste perpetrate mediante una comunicazione di carattere invasivo cui il destinatario non può sottrarsi (Cass. pen., sez. I, 24510/2010).

Con specifico riguardo alla messaggistica istantanea, ossia di messaggi Whatsapp, si è affermato che l’interazione indesiderata si ha ogniqualvolta assieme al segnale acustico di notifica si accompagni l’anteprima del testo. Sarebbe irrilevante la circostanza che il destinatario di messaggi non desiderati possa evitarne la ricezione, senza compromettere la propria libertà di comunicazione, escludendo o bloccando il contatto indesiderato, poiché un simile comportamento preventivo si traduce comunque in una limitazione del destinatario.

La diffusività della messaggistica istantanea e la sua invasività costituiscono il fulcro delle riflessioni da ultimo maturate dalla giurisprudenza, che ha superato il precedente orientamento con cui si estendeva l’applicazione della fattispecie fino a ricomprendervi anche i casi in cui il destinatario potesse essere avvertito con sistemi di alert e preview e potesse procedere al blocco dell’utenza molesta.

Si è osservato che tanto l’attivazione di sistemi di blocco della ricezione di messaggi quanto della installazione di meccanismi di notifica ed anteprima del messaggio non dipendono, invero, dalla volontà dell’agente, bensì da quella del destinatario dei messaggi. La possibilità per il destinatario della comunicazione di sottrarsi all’interazione immediata con il mittente e di porre un filtro alla comunicazione rende tale forma di comunicazione oggettivamente meno invasiva e più vicina a quella epistolare.

Ne consegue che i comportamenti molesti perpetrati tramite messaggi inviati con Instagram e Facebook, le cui notifiche possono essere attivate per scelta libera dal soggetto che li riceve non è sussumibile nella fattispecie penale dell’art. 660 cod. pen., in quanto non commesso “col mezzo del telefono”, nel significato attribuito a questa locuzione dalla giurisprudenza di legittimità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. III, 1° luglio 2004, n. 28680
Difformi:      Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2021, n. 37974; Cass pen., sez. I, 23 luglio 2021, n. 28959
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Decontribuzione Sud La Commissione Ue ha prorogato al 31 dicembre 2024 la Decontribuzione sud, la misura che incentiva i rapporti di lavoro in alcune regioni del Mezzogiorno

Proroga Decontribuzione Sud

Via libera della Commissione Ue alla proroga al 31 dicembre 2024 di Decontribuzione Sud, la misura in scadenza a fine mese con cui si incentivano, attraverso un esonero contributivo, i rapporti di lavoro dipendenti per le aziende con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Lo rende noto il ministero del Lavoro sul proprio sito.

Calderone: proroga consente crescita

“La proroga della Decontribuzione Sud, che ha consentito alle nostre aziende del Mezzogiorno di crescere e partecipare al generale rilancio dell’occupazione è un risultato del governo italiano per il quale ringrazio il Ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il PNRR, Raffaele Fitto e in modo particolare la Vicepresidente esecutiva della Commissione Europea, Margrethe Vestager” ha affermato il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone.

Questa decisione, ha aggiunto, “è il riconoscimento del fatto che la decontribuzione è oggi necessaria per le nostre aziende del Mezzogiorno, per continuare nel percorso intrapreso di riduzione dei divari territoriali e promozione delle imprese, del lavoro e del sistema produttivo nel suo complesso. Questi ulteriori 6 mesi sono fondamentali per consentirci di mettere a punto una revisione organica della Decontribuzione Sud, sempre più orientata agli investimenti. Ringrazio i tecnici delle strutture del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che hanno avviato e gestito l’iter procedurale del rinnovo della misura, congiuntamente con il Dipartimento per gli Affari Europei”.

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Amministratore condominio e comunione: hanno poteri diversi A differenza dell'amministratore condominiale, quello della comunione non può agire in giudizio per i comunisti senza autorizzazione assembleare

Amministratore della comunione

L’amministratore della comunione non può agire in giudizio senza autorizzazione assembleare, in quanto (a differenza di quanto previsto per l’amministratore di condominio dall’art. 1131 c.c.) non è previsto, tra i poteri che ordinariamente gli spettano, quello di rappresentare in giudizio i comunisti. E’ quanto stabilito dal tribunale di Siracusa nella sentenza n. 764-2024 decidendo l’opposizione proposta da un comunista avverso il decreto ingiuntivo con cui l’amministratore, designato dall’autorità giudiziaria, gli intimava di pagare una somma per spese di manutenzione. L’opponente si doleva soprattutto del fatto che l’amministratore giudiziario, senza munirsi di autorizzazione assembleare, si era attivato per recuperare coattivamente le somme indicate nel piano di riparto, per cui chiedeva la revoca del decreto ingiuntivo e l’accertamento dell’inesistenza del diritto dell’opposto a procedere in via esecutiva.

Carenza di legittimazione attiva

Per il tribunale l’opposizione è fondata per carenza di legittimazione attiva dell’opposto/intimante. “Correttamente – afferma il giudice – l’odierno opponente si duole del fatto che l’amministratore ad acta nominato ai sensi dell’art. 1115, comma 4, c.c., si sia attivato per l’emissione dell’opposto titolo senza preventivamente richiedere l’autorizzazione dell’assemblea dei condomini”.

Invero, “costituisce orientamento consolidato – cui il giudice dichiara di prestare continuità – quello secondo cui ‘L’amministratore della comunione non può agire in giudizio in rappresentanza dei partecipanti contro uno dei comunisti in rappresentanza degli altri, mancando, in materia di comunione, una disposizione analoga a quella posta, per l’amministratore del condominio, dall’art. 1131 c.c., che, in via eccezionale, attribuisce a questi il potere di agire in giudizio sia contro i terzi che nei confronti dei condomini'” (cfr. Cass. n. 4209/2014).

La decisione

Nel caso di specie, non risulta che l’amministratore nominato ex art. 1105 comma 4 c.c. fosse stato investito del suddetto potere da parte dei comunisti, per cui il giudice dichiara l’insussistenza del diritto di procedere in via esecutiva nei confronti dell’opponente.

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