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Ztl: basta una multa Addio alle multe seriali per chi gira nella Ztl con permesso scaduto, per la Cassazione basta una sola multa

Cassazione: multe Ztl

Le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge devono essere considerate come un’unica infrazione. Così la seconda sezione civile della Cassazione seconda nell’ordinanza n. 19680-2024.

La vicenda

La vicenda in esame origina dall’opposizione di un’automobilista avverso una cinquantina di verbali di violazione del Codice della Strada notificati in più tranches per aver circolato nella zona a traffico limitato sprovvista della prescritta autorizzazione, nell’arco di un paio di mesi.

La donna deduceva di essere incorsa in errore incolpevole, avendo – al momento della commissione delle diverse infrazioni – la convinzione di essere ancora titolare del permesso di circolare nella zona a traffico limitato, non avendo l’amministrazione comunale inviato alcuna comunicazione a distanza di circa due anni dal cambio di residenza dell’opponente, né avrebbe mai irrogato e notificato alcuna sanzione amministrativa prima di quelle oggetto di impugnazione.

Il Giudice di Pace, in parziale accoglimento dei ricorsi, annullava tutti i verbali tranne uno, determinando in euro 94,08 la somma da irrogare quale sanzione amministrativa pecuniaria. Il Comune proponeva appello e la donna si difendeva con appello incidentale.

Il giudice del gravame rigettava sia l’appello principale sia quello incidentale, confermando la sentenza del giudice di prime cure e l’amministrazione, a questo punto, adisce il Palazzaccio.

Il ricorso

Con l’unico motivo di ricorso il comune deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, comma 2, legge 24 novembre 1981; dell’art. 198 D.Lgs. n. 285/1992, in riferimento all’art 360 comma 1, n. 3) cod. proc. civ. ritenendo la sentenza in palese contrasto, innanzitutto, con i principi espressi dalla Corte di legittimità in tema di scusabilità dell’errore di fatto sulla condotta illecita: “la mera tolleranza, ovvero la mancanza di controlli, non è in alcun modo idonea a configurare la buona fede del trasgressore e ad escludere l’elemento soggettivo dell’illecito” (Cass. n. 657/1999).

In secondo luogo, pur avendo il giudice accertato che si tratta di una pluralità di condotte, a dire del comune, “ne ha erroneamente ed illogicamente dedotto la riconducibilità dell’aspetto colposo delle violazioni alla sola prima infrazione commessa in forza di un’improbabile unificazione delle singole condotte. Invece, la configurazione di tali illeciti come un tutt’uno presupporrebbe il loro inquadramento nella categoria giuridica del concorso formale, tuttavia espressamente escluso per le violazioni alla disciplina in tema di zona traffico limitato ed aree pedonali dall’art. 198, comma 2, CdS”.

La decisione della Cassazione

Per gli Ermellini, il Comune ha torto.

“Le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma (art. 7, comma 9, CdS) relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge (nel caso che ci occupa: mancanza del permesso di accesso a ZTL) devono, semmai, essere considerate come un’unica infrazione in quanto reiterazioni del medesimo illecito amministrativo (reiterazione specifica), ai sensi della legge vigente ratione temporis (v. art. 8-bis legge n. 689/1981; l’art. 198-bis CdS avente analogo contenuto è entrato i vigore il 06.08.2022, dunque successivamente alla commissione delle infrazioni), stante la sostanziale omogeneità degli illeciti perpetrati, e avuto riguardo alla natura dei fatti che le costituiscono e alle modalità della condotta” affermano innanzitutto i giudici.

Inoltre, proseguono, “a mente del comma 5 dell’art. 8-bis menzionato: ‘Le violazioni amministrative successive alla prima non sono valutate, ai fini della reiterazione, quando sono commesse in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria’”.

Per cui, la Cassazione rigetta il ricorso e conferma la soluzione adottata dal giudice di seconde cure laddove ritiene valido ed efficace un unico verbale di contestazione: “non si tratta, infatti, di escludere l’elemento soggettivo del trasgressore con riferimento alle violazioni successive (il che vale a rispondere alla prima delle censure elevate dal ricorrente), quanto piuttosto – in applicazione della disposizione citata – di elidere la valutazione delle violazioni amministrative successive alla prima (Cass. n. 2965 del 16.02.2016)”.

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licenziamento vigile in mutande

Torna al lavoro il vigile in mutande! Licenziamento illegittimo: la Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Appello in favore del vigile beccato a timbrare il cartellino in mutande

Illegittimo il licenziamento del vigile in mutande

Illegittimo il licenziamento del vigile sorpreso a timbrare il cartellino in mutande. Lo ha confermato la sentenza della Corte di Cassazione n. 20109-2024.

La “truffa del cartellino”

Confermata quindi la revoca del licenziamento, la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno. Si conclude così la vicenda del vigile diventato protagonista, insieme ad altri furbetti, della nota vicenda della “truffa del cartellino”.

Sottoposto a procedimento penale e disciplinare il vigile era stato infine licenziato. In sede d’appello però il licenziamento era stato dichiarato illegittimo e al dipendente comunale era stato riconosciuto un risarcimento superiore a 230.000 euro e la reintegra nel posto di lavoro. Dopo la sentenza della Cassazione i legali dichiarano che agiranno per ottenere somme ulteriori per le ferie non godute, oltre alla rivalutazione e agli interessi.

Licenziamento per giusta causa

La vicenda portata all’attenzione degli Ermellini si apre quando la Corte di Appello, accogliendo il reclamo del vigile urbano, annulla il licenziamento disciplinare e il provvedimento che lo ha confermato, condannando il Comune di Sanremo, nella veste di datore di lavoro, a risarcirgli i danni pari alla retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento a quello della reintegra nel posto di lavoro.

Il licenziamento per giusta causa è conseguito a un procedimento penale intrapreso nei confronti del vigile, accusato di essersi allontanato dal posto di lavoro senza timbrare il badge in uscita, di avere timbrato anche per i colleghi e di non avere timbrato in diverse occasioni, dichiarando orari di servizio falsi.

Per la Corte di Appello, in relazione alla timbratura in abiti succinti (ossia in mutande come risultato dalle riprese delle telecamere) e alla timbratura effettuata da terzi, il Comune non è stato in grado di dimostrare compiutamente la rilevanza disciplinare di queste condotte.

La Corte di Appello ha quindi  accolto il reclamo del vigile perché ha ritenuto vincolante il giudicato penale, che ha escluso la rilevanza penale degli episodi attribuiti al vigile.

Cassazione: confermato il licenziamento illegittimo

Il Comune di Sanremo nella sua qualità di datore di lavoro non accetta la decisione e ricorre in Cassazione, affidandosi a tre motivi di doglianza.

La Cassazione però respinge il ricorso, dichiarando infondati il primo e il secondo motivo di impugnazione e inammissibile il terzo.

Per gli Ermellini l’articolo 653 c.p.p. che regola l’efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio disciplinare, non comporta automaticamente l’insussistenza dell’illecito disciplinare in presenza di un’assoluzione in sede penale.

Il giudicato penale di assoluzione da un reato non comporta in automatico l’archiviazione del procedimento disciplinare. Anche quando l’assoluzione viene pronunciata con la formula “perché il fatto non sussiste” non significa che la pubblica amministrazione, nella sua qualità di datore di lavoro, non possa procedere in sede disciplinare.

Nel caso di specie però la Corte di merito ha sancito l’illegittimità della sanzione espulsiva del dipendente in maniera corretta. La sentenza penale di assoluzione adottata con la formula “perché il fatto non sussiste” non consentiva infatti di ritenere le condotte del vigile autonomamente rilevanti dal punto di vista disciplinare. Il giudicato penale ha coperto quindi l’elemento oggettivo e quello soggettivo, anche sotto il profilo disciplinare.

Queste le ragioni per le quali la Cassazione è arrivata a confermare la decisione della Corte d’appello sull’illegittimità del licenziamento irrogato al vigile.

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avvocati condotta irreprensibile

Avvocati: come valutare la condotta irreprensibile Le Sezioni Unite della Cassazione si esprimono sulla valutazione del requisito della condotta irreprensibile dell'avvocato

Condotta irreprensibile avvocato

La valutazione del requisito della condotta irreprensibile del dottore, che fa istanza per iscriversi all’albo dei praticanti, deve essere compiuta senza tenere conto dell’esito dell’eventuale procedimento penale e della qualità di imputato del richiedente. Lo hanno chiarito le sezioni unite civili della Cassazione nella sentenza n. 19726-2024.

Iscrizione registro praticanti

Nella vicenda, un Consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio respinge la richiesta di iscrizione all’albo dei praticanti avvocati di un dottore perché il  richiedente non soddisfa il requisito della condotta irreprensibile prevista dai canoni del codice deontologico forense, articolo 17, comma uno, lettera H della legge n. 247/2012.

Il dottore ha infatti riportato una condanna per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, è sottoposto a procedimento per il reato di ricettazione e nei suoi confronti sono in corso procedimenti penali per guida in stato di ebrezza e calunnia.

Non basta valutare le condotte penalmente rilevanti

Il dottore ricorre al Consiglio Nazionale Forense (C.N.F) che però rigetta il ricorso. Il COA avrebbe infatti valutato correttamente la presenza di elementi ostativi all’accoglimento della richiesta di iscrizione. Le condotte del dottore non risultano conformi alle regole deontologiche e al diritto in generale. Questo incide negativamente sulla affidabilità soggettiva del richiedente e pone dei dubbi sulla sua capacità di svolgere correttamente la professione.

Nel caso di specie le condotte penalmente rilevanti del dottore non possono condurre a un giudizio positivo in ordine alla sussistenza del requisito della condotta irreprensibile. I comportamenti del dottore tenuti al di fuori dell’attività professionale  e nei confronti dei soggetti terzi risultano lesivi della probità e del decoro della professione perché ne ledono l’immagine  e la dignità, con ripercussioni negative dell’intera classe forense.

Condotte di rilevo penale lontane non rilevano

Detto questo, per il CNF non possono essere considerate ostative all’iscrizione nel registro dei praticanti condotte occasionali o lontane, se non sono in grado di incidere sulla affidabilità attuale del soggetto a svolgere correttamente l’attività professionale.

Le condotte devono incidere negativamente sulla reputazione

Il dottore si rivolge agli Ermellini per la cassazione della pronuncia del CNF ricordando a sua difesa che:

  • il reato per il quale era stato condannato era estinto;
  • la qualità di imputato non consentiva di ritenerlo colpevole;
  • precludergli la formazione necessaria s superare l’esame esami di Stato vanifica i sacrifici fatti e ostacola il suo diritto a un lavoro futuro.

La Cassazione accoglie il motivo sollevato dal dottore perché fondato. Gli Ermellini precisano che “L’essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense costituisce un requisito di chiusura e di completamento: un requisito che, affidato a una formula meno enfatica e solenne, e più circostanziata, rispetto a quella previgente, prende li posto della condotta “specchiatissima ed illibata”, alla quale si riferiva, all’art. 17, la legge professionale forense del 1933.”

La condotta irreprensibile racchiude al suo interno un insieme di requisiti morali a tutela dell’interesse pubblico e dell’affidamento della clientela e della collettività. Essa è determinata dall’assenza di condotte costituenti reato in grado di menomare la reputazione del soggetto e della professione, ma non solo. La condotta irreprensibile non è compromessa solo dalle condotte che costituiscono reato e che sono collegate allo svolgimento della professione, tale requisito riguarda la condotta generale dell’iscritto. Occorre però fare una distinzione tra le condotte che rilevano ai fini della valutazione perché incidono sulla affidabilità del soggetto da quelle che riguardano la sfera privata e la libertà individuale e che quindi non rilevano.

I requisiti necessari ai fini dell’iscrizione devono essere valutati con rigore, tenendo conto del loro grado di incidenza sulla attività professionale. “A tal fine, la valutazione deve ricomprendere la natura e l’occasionalità delle condotte ostative, la distanza nel tempo e, comunque, tutti quegli elementi che consentono di poter valutare l’affidabilità del soggetto all’espletamento della professione o allo svolgimento della pratica professionale.”

L’ordine professionale, nel valutare la condotta irreprensibile, deve accertare se i fatti commessi dal candidato possano dare luogo, all’esito di un procedimento disciplinare, alla sanzione della interdizione. A tale fine rileva la gravità delle condotte e la loro capacità di rendere il soggetto inadeguato sotto il profilo della onorabilità nell’esercizio della professione.

Il principio

La rilevanza penale di una condotta quindi è in grado di incidere sulla valutazione della condotta irreprensibile?

Per la Cassazione la condizione di imputato del richiedente non rileva in via esclusiva, il CNF infatti “avrebbe dovuto considerare se le condotte, non prossime nel tempo e per le quali l’imputato si era dichiarato innocente, fossero state accertate anche dal giudice penale, ancorché con sentenza non ancora divenuta irrevocabile, e, in caso positivo, valutare se esse, per il loro concreto disvalore secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense, fossero tali da incidere, anche considerando l’epoca della loro commissione, sulla reputazione e sull’immagine dell’aspirante a svolgere il ruolo attribuito dall’ordinamento al professionista forense”. 

 

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pensione contanti mille euro

Pensioni in contanti fino a mille euro L'INPS conferma il limite ai pagamenti in contanti fino a mille euro per le pensioni e le altre prestazioni assistenziali

Pensioni, limite pagamenti in contanti

L’Inps conferma a mille euro il limite ai pagamenti in contanti per le pensioni e le altre prestazioni assistenziali.
Con il messaggio n. 2672/2024 del 22 luglio scorso, l’istituto detta chiarimenti infatti riguardo all’ambito di operatività dei limiti disposti dall’art. 2, comma 4-ter, lettera c), del Dl n. 138/2011, rispetto a quelli generali di 5mila euro fissati dall’art. 49 del Dlgs. n. 231/2007.
Si tratta, precisa l’Inps, di una specificazione in sostanza di quanto previsto da tale ultima disposizione per la generalità degli operatori economici (persone fisiche, giuridiche, pubbliche e private).

Superamento limite

Per cui, laddove venga liquidata, in favore di un soggetto già titolare di pensione o prestazione assistenziale con pagamento in contanti, una nuova pensione e/o prestazione assistenziale, occorre verificare, spiega ancora l’istituto, che l’importo netto complessivo delle due o più prestazioni non superi il limite di mille euro mensili.

Conto corrente o carta prepagata

Ove, tale limite venga superato, l’interessato deve aprire, a stretto giro di posta, un rapporto finanziario scegliendo tra gli strumenti ammessi per il pagamento delle pensioni e delle prestazioni assimilate (es. conto corrente bancario o postale, libretto bancario o postale, carta prepagata assistita da IBAN).

Gratuito patrocinio stranieri anche senza codice fiscale italiano La Cassazione chiarisce che per l'ammissione al beneficio presentata da cittadino straniero non è necessario il codice fiscale italiano

Gratuito patrocinio stranieri

Ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio per uno straniero non è necessario munirsi di un codice fiscale italiano. Il chiarimento arriva dalla quarta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 30047-2024) che ha accolto il ricorso di un cittadino rumeno contro l’ordinanza del tribunale di Roma che aveva rigettato l’opposizione avverso il diniego dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in quanto l’uomo non aveva indicato nella relativa istanza il codice fiscale italiano ma quello di cui era titolare nello stato di residenza (Romania) e la propria residenza all’estero.

A dire del tribunale, infatti, il cittadino rumeno avrebbe dovuto, in quanto cittadino dell’Unione Europea, richiedere il codice fiscale ad un ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate. Precisava, inoltre, il giudice che l’ordinanza della Corte Costituzionale n.144 del 2004, invocata dal ricorrente regolava il caso di stranieri presenti irregolarmente nel territorio dello Stato ovvero il caso in cui, per ragioni oggettive, l’interessato non possa provvedere alla indicazione del codice fiscale.

Il ricorso

Avverso il suddetto provvedimento l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione denunciando violazione della legge penale, in relazione all’art. 79 del DPR n. 115/2002, come interpretato dalla decisione della Corte Costituzionale n.144 del 2004, secondo cui il cittadino straniero non residente nel territorio italiano può presentare l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato allegando il proprio domicilio all’estero. Le conclusioni assunte dal Tribunale con l’ordinanza impugnata erano contrarie, quindi, ai principi fondamentali posti a tutela del diritto di difesa, richiamato dalla Consulta nella decisione citata.

Gratuito patrocinio e codice fiscale

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

L’art. 79 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), premettono i giudici, prevede, “a pena di inammissibilità della domanda di ammissione al patrocinio dei non abbienti, l’indicazione del codice fiscale. In sede di disciplina dei casi in cui è obbligatoria l’indicazione del codice fiscale, il testo dell’art. 6, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 605 (Disposizioni relative all’anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti), prevede espressamente che «l’obbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con la sola indicazione dei dati di cui all’art. 4» – dello stesso d.P.R. – «con l’eccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale all’estero.). Il citato art. 4, primo comma, lettera a), del d.P.R. n. 605 del 1973 richiede, ai fini dell’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche, esclusivamente i seguenti dati: cognome, nome, luogo e data di nascita, sesso e domicilio fiscale”.
Il ricorrente ha dedotto che, al momento del deposito dell’istanza, era presente da soli 40 giorni sul territorio italiano e che dunque, al momento della presentazione della richiesta di ammissione del patrocinio a spese dello Stato, non aveva la titolarità di un codice fiscale italiano, ma del codice fiscale del paese di residenza ( la Romania), che aveva indicato nel ricorso unitamente al proprio domicilio nello stato di residenza.
Per cui, alla stregua della normativa sopra indicata, chiariscono dalla S.C., “agli effetti dell’ammissibilità dell’istanza diretta ad ottenere il beneficio in questione, nulla appare escludere la possibilità che lo straniero non residente ni Italia, pure se residente in un paese UE, in luogo dell’indicazione del codice fiscale, fornisca i dati di cui all’art. 4 citato, oltre al proprio domicilio all’estero. Dalle norme in questione, infatti, non si ricava alcun onere, per il cittadino straniero non residente, di munirsi di un codice fiscale italiano al fine di avanzare la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, fermo restando l’obbligo, di cui all’art 76 del DPR 115 del 2002, di allegazione alla istanza del reddito prodotto come risultante dalla ultima dichiarazione presentata nel paese di residenza”.

La sentenza della Corte Costituzionale

Né la lettura della ordinanza n.144 del 2004 della Corte Costituzionale, rincarano da piazza Cavour, “porta alle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma. In quella sede – infatti – il giudice delle leggi, decidendo sulla legittimità costituzionale dell’art. 79 DPR 115/ 2002 se interpretato nel senso di richiedere, a pena di inammissibilità, anche per il cittadino extracomunitario li codice fiscale, ha rilevato che la lettura congiunta dell’art. 6 e dell’art. 4 del DPR n. 605 del 1973 consentiva di ritenere sufficiente, per il cittadino straniero irregolare, la sola indicazione del domicilio nel paese estero”. Dall’ordinanza citata non si ricava però, come si ritiene nel provvedimento impugnato, che il presupposto di applicazione dell’art. 4 DPR n. 605 del 2002 sia il fatto che l’istante si trovi nella impossibilità di richiedere la titolarità del codice fiscale italiano.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al Presidente del Tribunale di Roma per nuovo esame.

 

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patente a crediti decreto

Patente a crediti: pronto il decreto attuativo Il Ministero del Lavoro ha annunciato che il decreto attuativo sulla patente a crediti per gli infortuni sul lavoro è in arrivo, pronta la bozza del testo 

Patente a crediti: decreto attuativo in arrivo

Il decreto attuativo della patente a crediti, come previsto dalla legge n. 56/2024, è ormai pronto. Lo ha annunciato il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali con un comunicato pubblicato sul sito il 23 luglio 2024.

Il testo, in versione bozza, presentato alle parti sociali in un incontro del 10 luglio 2024, ha preso in considerazione le osservazioni delle varie associazioni sindacali e dei datori di lavoro partecipanti al tavolo.

Il decreto contiene le indicazioni necessarie per presentare la domanda, il contenuto della patente, il meccanismo di attribuzione, l’incremento e il recupero dei crediti e il meccanismo di sospensione cautelare previsto quando si verificano gli infortuni sul lavoro più gravi.

Patente a crediti dal 1° ottobre 2024

Il decreto attuativo, dopo che avrà ricevuto la firma del Ministro Marina Calderone, sarà pronto per la partenza, prevista per il 1° ottobre 2024 e consentirà anche di avviare i lavori per la creazione del portale dell’Ispettorato del Lavoro, che gestirà la patente a crediti.

Il meccanismo della patente a crediti, che riguarderà inizialmente il settore edile, sarà estesa probabilmente anche ad altri settori. In attesa della pubblicazione del testo definitivo e ufficiale del decreto, vediamo quali sono le principali novità che emergono dalla bozza.

Destinatari della patente a crediti

La patente “a punti” o “a crediti” riguarda, per il momento, le imprese e i lavoratori autonomi dei cantieri mobili e temporanei, con l’obiettivo di realizzare un “Sistema di Qualificazione” per chi opera nel settore delle costruzioni.

Esclusi dalla misura i soggetti in possesso della attestazione SOA almeno di III categoria e coloro che si limitano a effettuare mere forniture o prestazioni professionali.

Come fare domanda per la patente a crediti

La richiesta per conseguire la patente potrà essere presentata dalle imprese e dai lavoratori autonomi, nelle persone del legale rappresentante o del delegato (professionisti compresi) in modalità telematica dal portale che sarà gestito dall’Ispettorato del lavoro.

Nella fase iniziale il richiedente potrà limitarsi ad auto-certificare il possesso dei requisiti richiesti. Gli operatori stranieri stabiliti in un paese UE diverso dall’Italia devono presentare invece un’autocertificazione che attesta il possesso di un documento equivalente del paese di origine, in mancanza devono fare domanda nelle stesse modalità previste per gli operatori italiani.

Informazioni sul portale INL

Sarà il portale dell’INL a fornire le seguenti informazioni relative alla patente a crediti:

  • dati anagrafici del richiedente e del titolare della patente;
  • numero della patente e data di rilascio;
  • punteggio riconosciuto al momento del rilascio;
  • punteggio aggiornato;
  • provvedimenti di sospensione o decurtazione.

Queste informazioni saranno nella disponibilità del titolare della patente, del committente, delle pubbliche amministrazioni, degli organismi paritetici, del cantiere, di coloro che si occupano della sicurezza nella fase della progettazione e della attuazione e dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori.

Crediti base, incremento e decurtazione

Ogni patente non potrà avere più di 100 crediti, così ripartiti:

  • 30 punti sono attribuiti quando viene rilasciata la patente;
  • 30 punti ulteriori come punteggio massimo dipendono dalla storicità dell’operatore economico;
  • 40 punti ulteriori invece, sempre come punteggio massimo, possono essere attribuiti se:
  • vengono effettuati investimenti o percorsi di formazione in materia di prevenzione degli infortuni;
  • vengono adottati sistemi di gestione per la sicurezza sul posto di lavoro;
  • vengono adottati dispositivi di protezione e soluzioni tecnologiche avanzate sulla base di protocolli di intesa o dopo un minimo di due visite del medico competente.

I crediti persi possono essere recuperati attuando uno o più investimenti diretti a prevenire gli infortuni sul lavoro, che devono ricevere il parere positivo di una commissione composta dai rappresentanti dell’Ispettorato del Lavoro e dell’INAIL.

Sospensione in via cautelare della patente

L’Ispettorato del Lavoro può disporre la sospensione della patente a crediti fino a un massimo di 12 mesi se si verifica un infortunio imputabile almeno alla colpa grave del datore di lavoro e da cui sia derivata la morte o l’inabilità temporanea di uno o più lavoratori dipendenti.

Contro il provvedimento di sospensione è possibile fare ricorso (art. 14 comma 14 del decreto legislativo n. 81/2008)

Fusione e incorporazione dell’impresa

L’impresa che dovesse sorgere a seguito di una trasformazione, una fusione o un’incorporazione diventa titolare del punteggio accreditato alla società trasformata o incorporata alla data in cui dette operazioni hanno effetto. In caso di fusione invece, alla nuova società, viene attribuito il punteggio della società che possiede il numero più elevato di crediti.

 

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giurista risponde

Assegno divorzile e incentivo all’esodo L’assegno divorzile può essere riferito anche all’incentivo all’esodo, oltre che al trattamento di fine rapporto (ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970)?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

La quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1979, al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è pertanto ricompresa l’indennità di incentivo all’esodo con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro. – Cass., Sez. Un., 7 marzo 2024, n. 6229.

La vicenda è quella di due ex coniugi, uno dei quali si è visto riconosciuto il diritto all’assegno di divorzio ex art. 5, comma 6, L. 898/1970, mentre l’altro aveva conseguito somme a titolo di indennità di fine rapporto (a cui si riferisce l’art. 12bis della legge citata) e di incentivo all’esodo. Più nello specifico, il giudizio di primo grado fra le due parti si era concluso nel senso del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, il cui importo è stato però determinato tenendo conto del solo trattamento di fine rapporto. La pronuncia veniva confermata in appello, con un discostamento da un precedente di legittimità favorevole a riferire il menzionato art. 12bis anche all’incentivo all’esodo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171). Si è quindi ricorso in Cassazione, con successiva rimessione alle Sezioni Unite.

È opportuno, preliminarmente, prendere le mosse dall’analisi del dato normativo. L’art. 12bis, L. 898/1970 stabilisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e se titolare dell’assegno di cui all’art. 5 della medesima, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, anche se maturata dopo la sentenza. Tale indennità è pari al 40% dell’indennità riferibile agli anni di coincidenza fra rapporto di lavoro e matrimonio.

L’incentivo all’esodo, invece, è la prestazione cui è tenuto il datore di lavoro a fronte della disponibilità del lavoratore ad addivenire allo scioglimento anticipato del rapporto di prestazione d’opera, oggetto di accordo negoziale.

Si evidenzia l’esistenza di un contrasto, relativo alla natura dell’incentivo all’esodo e, in conseguenza, della riferibilità ad esso dell’art. 12bis (testualmente riferito solo all’indennità di fine rapporto).

Per un primo orientamento, infatti, la menzionata norma sarebbe riferita a ogni indennità di natura retributiva, comunque ricollegabile all’apporto fattuale indiretto del coniuge percettore dell’assegno divorzile, e derivante dalla risoluzione del rapporto di lavoro svolto in costanza di matrimonio. Le somme erogate a tale titolo costituirebbero reddito da lavoro dipendente, in quanto finalizzate a sollecitare e remunerare una vera e propria controprestazione, consistente nel consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata. A sostegno di tale soluzione si evidenzia altresì la parificazione, da parte del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (artt. 17 e 19, D.P.R. 917/1986), delle discipline del trattamento di fine rapporto e dell’incentivo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171).

Per un secondo orientamento, invece, l’art. 12bis farebbe riferimento all’indennità menzionata ed unicamente ad essa. Sarebbe riferito, più nello specifico, all’indennità – comunque denominata – che maturi alla cessazione del rapporto di lavoro e che sia determinata in proporzione alla durata dello stesso e all’entità della retribuzione corrisposta (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294).

L’indennità di fine rapporto non è più determinata in base all’ultima retribuzione del prestatore, ma sui compensi tempo per tempo erogatigli e periodicamente rivalutati: in sintesi, si tratta di un compenso ancorato allo sviluppo economico della carriera, e gli è comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita (per tutte: Cass. 8 gennaio 2016, n. 164 e Cass. 14 maggio 2013, n. 11479). Tenendo presente ciò, si rende ben evidente la ratio dell’art. 12bis, L. 898/1970, che ha le stesse finalità – assistenziale e perequativo-compensativa – dell’assegno divorzile: in base al principio di solidarietà, si riconosce un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, deve tener conto non solo del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Si deve, cioè, far sì di appianare la condizione di squilibrio riconducibile al sacrificio di aspettative professionali e reddituali, conseguente all’assunzione di un ruolo all’interno della famiglia. La ratio solidaristica e assistenziale dell’art. 12bis viene evidenziata, peraltro, anche nei relativi lavori parlamentari, ed altresì dalla Consulta (Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 24). Si attua una partecipazione, posticipata, che realizza non solo una funzione assistenziale, ma anche una compensativa, ovvero è rapportata al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (Cass. 30 dicembre 2005, n. 28278).

L’automatismo percentuale di cui all’art. 12bis, rilevano le Sezioni Unite in commento, si giustifica solo in base alla condivisione della medesima ratio dell’assegno divorzile. D’altronde, ciò a cui si partecipa in base all’art. 12bis è una porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente, che diviene esigibile al momento della cessazione del rapporto: si tratta, quindi, di un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che si è sacrificato. È quindi assai significativo, in tal senso, il riferimento agli anni in cui il rapporto è coinciso con il matrimonio (art. 12bis, comma 2).

Tale digressione è necessaria giacché, evidenziata la ratio dell’art. 12bis, si pone il problema del se esso si riferisca unicamente all’indennità di fine rapporto, o abbia oggetto più ampio. Invero, non si ha perfetta coincidenza con l’art. 2120 c.c. (che riguarda il trattamento di fine rapporto), e da ciò viene evinto un campo di applicazione dell’art. 12bis che è più ampio. La parziale coincidenza lessicale, osserva però la Suprema Corte, deve far propendere per l’interpretazione per cui l’art. 12bis non si riferisce a tutte le prestazioni a cui il lavoratore ha diritto in dipendenza della cessazione del contratto, ma solo a quelle che condividono la logica del trattamento di fine rapporto. L’art. 12bis, cioè, si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e sono determinate proporzionalmente alla sua durata e all’entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309). È, questo, il criterio discretivo fra ciò che il coniuge beneficiario dell’assegno divorzile può e non può esigere ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970.

Ciò posto, è evidentemente estranea all’indicata nozione di indennità di fine rapporto anche l’indennità di incentivo all’esodo. Tale indennità, infatti, non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sottoforma di assegno divorzile (Cass.17 aprile 1997, n. 3294). Tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, e quindi non ricorre l’esigenza di assicurare (in chiave assistenziale e perequativo-compensativa) una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio: si è, piuttosto, innanzi a un’attribuzione patrimoniale che discende da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.

Non vengono ritenuti dirimenti, inoltre, gli argomenti basati sul Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cui si è accennato (Cass. 12 luglio 2067, n. 14171): la Suprema Corte, infatti, ritiene che il regime fiscale dell’indennità non interferisca con la qualificazione civilistica della stessa.

Le Sezioni Unite, per ciò, concludono nel senso della non spettanza al coniuge divorziato della quota del 40% dell’indennità in questione, nei termini riportati in massima.

*Contributo in tema di “Assegno divorzile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

vietato usare femminile ddl

Vietato usare il “femminile”: ddl ritirato Il ddl sui nomi femminili del leghista Potenti che prevedeva anche multe fino a 5mila euro in caso di violazioni è stato ritirato

DDL sui nomi femminili: ritirato

Il  disegno di legge sui nomi femminili proposto in data 11 luglio 2024 dal senatore leghista Manfredi Potenti è stato ritirato.  Lo si evince alla pagina del Senato dedicata all’atto n. 1191 che riporta espressamente la dicitura: “ritirato 22 luglio 2024”.

Il senatore con questo disegno di legge intitolato “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere” avrebbe voluto vietare per legge l’utilizzo dei nomi al femminile di alcune professioni dagli atti pubblici.

Per il proponente l’utilizzo del femminile nei documenti ufficiali sarebbe irrispettoso verso le istituzioni per cui è “necessario un intervento normativo che implichi un contenimento della creatività nelluso della lingua italiana nei documenti delle istituzioni”.

Preservare la PA da deformazioni letterali

Come previsto dall’articolo 1 del testo l’obiettivo della proposta di legge è quello di “preservare la pubblica amministrazione dalle deformazioni letterali derivanti dalla necessità di affermare la parità di genere nei testi pubblici”.

Per il ddl occorre “preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come “Sindaco”, “Prefetto”, “Questore”, “Avvocato” dai tentativi simbolici di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.

Vietato usare il “femminile”

Il divieto di utilizzo del femminile era previsto espressamente dall’articolo 3 della proposta di legge che così disponeva: “divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovra esteso o a qualsiasi sperimentazione linguistica. È ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi senza neutro e senza alcuna connotazione sessista.”

Nello specifico il disegno di legge avrebbe voluto vietare l’utilizzo negli atti pubblici del “genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, e dagli incarichi individuati dati aventi forza di legge”.

Fino a 5.000 euro di multa in caso di violazione

In caso di inadempimento, l’articolo 5 del testo avrebbe previsto multe salate “la violazione degli obblighi di cui la presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1000 a 5000 euro”.  

Il parere dell’Accademia della Crusca

Il Professor Paolo d’Achille, Presidente dell’Accademia della Crusca, nel commentare il disegno di legge del Senatore Manfredi Potenti ricorda che da un punto di vista puramente tecnico qualunque nome declinato al maschile può essere volto al femminile e che non sempre è possibile il contrario.

In una risposta del 2023 riferita all’individuazione di regole finalizzate allo sviluppo di un linguaggio giuridico di tipo inclusivo, il professor d’Achille aveva precisato di usare la lingua italiana nel rispetto della parità di genere, ricordando la correttezza dell’uso del genere femminile per i titoli professionali che si riferiscono alle donne.

 

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morte imputato sentenza inesistente

Morte imputato: sentenza inesistente La Cassazione rammenta che la morte dell'imputato prima della conclusione del grado processuale rende la sentenza inesistente anche se il giudice non è a conoscenza dell'evento

Morte dell’imputato

La morte dell’imputato intervenuta prima della decisione rende la sentenza inesistente anche laddove il giudice non è a conoscenza dell’evento. Giudice che, ad ogni modo, ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato stesso. Così la quarta sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 27827-2024 decidendo una vicenda in cui l’imputato decedeva nelle more del ricorso.

Inesistenza giuridica della sentenza

Va premesso, anticipano gli Ermellini, che “secondo il diritto vivente la morte dell’imputato intervenuta prima della decisione, determina l’inesistenza giuridica della sentenza per essere estinto il reato per morte dell’imputato e che il giudice penale ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato, quale presupposto essenziale del processo” (cfr., tra le altre, SS.UU. n. 12602/2015, n. 25995/2019).

Inoltre, “la tardiva conoscenza dell’evento morte, verificatasi nel corso del processo, può esser considerata errore di fatto paragonabile a quello materiale, soggetto dunque al procedimento di correzione, anche nei gradi successivi del giudizio, in quanto la mancanza del soggetto nei cui confronti si esercita l’azione penale determina l’inesistenza giuridica della sentenza, per essere estinto il reato per morte dell’imputato”.

Obbligo permanente del giudice

Il giudice penale, peraltro, proseguono dal Palazzaccio, “ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato, quale presupposto essenziale del processo – ma – tale obbligo non può tradursi in una costante attività di indagine e, con riferimento al giudizio di legittimità, l’art. 625 bis, comma terzo, del codice di procedura penale prevede che l’errore materiale disciplinato dal comma primo può essere rilevato anche d’ufficio dalla Corte di cassazione in ogni momento, con la conseguenza che l’ipotesi in questione – proprio per l’inesistenza giuridica della sentenza che essa determina – prescinde dalle condizioni di legittimazione disciplinate dall’art. 625 bis, comma secondo, che parifica, quanto ad iniziativa, quella del Procuratore Generale a quella del condannato che, nella specie, è inesistente (cfr. Cass. n. 7632/2017).

Procedimento di correzione ex art. 625 comma 3 c.p.p.

Nel caso di specie, risulta che il decesso dell’imputato è avvenuto prima che la sentenza venisse deliberata. Per cui, “l’errore, effettivamente esistente, è rilevabile d’ufficio con il procedimento di correzione di cui all’art. 625 bis comma 3 cod. proc. pen.” e, pertanto, si impone l’annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per morte dell’imputato.

Allegati

liceo made in Italy

Il liceo del Made in Italy prende forma Approvato dal Governo lo schema di regolamento per il piano studi del liceo del made in Italy in partenza dall'anno scolastico 2024-2025

Liceo del Made in Italy: cos’è

Il liceo del made in Italy è stato istituito dall’articolo 18 della legge 27 dicembre 2023, n. 206 a partire dall’anno scolastico 2024/2025.

Come si legge nel sito dedicato, il nuovo liceo “offre un percorso formativo completo integrando scienze economiche e giuridiche con le scienze matematiche, fisiche e naturali”.

Attraverso questo nuovo percorso liceale, “gli studenti possono esplorare gli scenari storici, geografici e culturali per comprendere le peculiarità del tessuto produttivo italiano e l’evoluzione sociale e industriale del Paese. Il percorso formativo permette di acquisire competenze specifiche per la gestione d’impresa, sulle strategie di mercato e sui processi produttivi e organizzativi, preparando gli studenti alle sfide imprenditoriali. Combinando teoria e pratica, offre un approccio educativo multidisciplinare con sbocchi professionali in tutti i settori di eccellenza del Made in Italy”.

La norma istitutiva sopracitata, al comma 2, stabilisce che, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, venga emanato uno specifico regolamento, attraverso il quale si provveda alla definizione del quadro orario degli insegnamenti e degli specifici risultati di apprendimento.

Il regolamento

Lo schema di regolamento concernente la definizione del quadro orario degli insegnamenti e degli specifici risultati di apprendimento del percorso liceale del “Made in Italy”, integrativo del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 89, è stato approvato in esame preliminare dal Governo il 22 luglio 2024.

Nel testo che ha ricevuto il primo sì dell’esecutivo sono previste più discipline e laboratori ad hoc, ma anche più ore trascorse in azienda (nell’ambito dei percorsi di alternanza scuola-lavoro). Nel quadro degli insegnamenti molta attenzione sarà puntata sul diritto del made in Italy e sull’arte.

In via transitoria è stata prevista la possibilità di costituire le classi prime del percorso liceale del made in Italy su richiesta delle istituzioni scolastiche che erogano l’opzione economico-sociale del percorso del liceo delle scienze umane.

La commissione tecnica

Al fine di procedere alla stesura del citato regolamento, è stata costituita una Commissione tecnica composta da esperti che ha operato per la definizione del quadro orario degli insegnamenti e degli specifici risultati di apprendimento in armonia con le indicazioni fornite dalla legge 206/2023.