Parcheggio non pagato: non è valido il verbale dell’agente ATM Per la Cassazione, gli ispettori dell'azienda di trasporto pubblico non hanno il potere di accertare le violazioni del Cds nell'intero territorio comunale

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia
In tema di riduzione o mantenimento in schiavitù, presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente è la situazione di necessità da porsi in relazione non con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto; la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo adatta a condizionarne la volontà personale, coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cassazione, sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2450).
La Corte di Assise ha dichiarato colpevoli tre imputati delle condotte rispettivamente loro ascritte di riduzione in schiavitù, di tentata alienazione della persona offesa, di tentata estorsione, di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e di cessione di sostanze stupefacenti. In sede di appello, la Corte di Assiste d’appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado oggetto di gravame, assolvendo uno degli imputati dal delitto di tentata alienazione perché il fatto non sussiste, rideterminando la pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, riducendo altresì la pena nei confronti di altro imputato, ferma restando l’acclarata responsabilità penale di costoro.
Avverso la predetta sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi di ricorso presentati dagli imputati per il tramite dei loro difensori, l’insussistenza del delitto di riduzione in schiavitù posto che, secondo le argomentazioni del ricorrente, non sarebbe riscontrabile la mancanza di libertà di movimento da parte della persona offesa, l’impossibilità di comunicare con terze persone, la sottrazione del passaporto e la privazione dei mezzi di sussistenza, come formalmente contestato.
In merito al motivo di censura oggetto di interesse, la Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso non fondato, ha analizzato la struttura nonché i presupposti del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all’art. 600 c.p. Il delitto in parola è un reato a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario – implicando così la reificazione della vittima ed ex se lo sfruttamento – ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa in relazione alla quale è richiesta la prova dell’imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o comunque il compimento di attività illecite).
In particolare, la condizione personale della vittima del delitto di cui all’art. 600 c.p. qualificabile come “servitù” è caratterizzata da uno stato di soggezione continuativa, provocato e mantenuto con una delle modalità indicate al comma 2, ossia mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento della situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha l’autorità sulla persona, che si sostanza nel costringere o indurre la persona stessa a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.
Pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di riduzione in stato di schiavitù o di servitù di una persona in stato di soggezione continuativa è richiesto, oltre la prova dell’imposizione alla persona offesa di prestazioni integranti una delle predette forme di sfruttamento di cui al comma 1 dell’art. 600 c.p., preliminarmente la dimostrazione che il soggetto agente ha ridotto o mantenuto la persona sfruttata in servitù tramite una delle modalità alternative indicate al comma 2.
Orbene, come espresso dalla Suprema Corte, il reato di riduzione in schiavitù non richiede la totale privazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione delle persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. 21 maggio 2020, n. 15662). Di conseguenza, la soggezione continuativa non viene meno in presenza di una limitata autonomia della vittima che non intacchi il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato.
Inoltre, i giudici di legittimità si sono espressi riguardo la “situazione di necessità” in cui deve versare la vittima ritenendo che costituisca presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente che essa non deve porsi in relazione con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata (art. 644, comma 5, n. 3 c.p.) e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto (art. 1418 c.c.); la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cass. 25 gennaio 2007, n. 2841).
Pertanto, si ha approfittamento della situazione di vulnerabilità della persona offesa anche quando l’autore del reato, conscio della condizione di debolezza fisica, psichica o esistenziale della persona offesa, se ne sia subdolamente avvalso per accedere alla sua sfera interiore, manipolandone la capacità critica e le tensioni emotive e per tale via inducendola in uno stato di remissività così da ridurla a mezzo per soddisfare più agevolmente il proprio proposito di sfruttamento sul piano lavorativo ovvero imponendo obblighi di facere.
Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, la Suprema Corte ha ritenuto che l’imputata si sia avvalsa della condizione oggettiva di vulnerabilità e inferiorità psichica della persona offesa, costringendola a prostituirsi, a lavorare fino a tarda notte e a consegnarle i proventi dell’attività di meretricio.
Alla luce delle argomentazioni esposte, la Suprema Corte ha, quindi, dichiarato l’infondatezza dei ricorsi presentati, rigettandoli e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Per stabilire l’assegno di separazione, la valutazione del tenore di vita durante il matrimonio e delle condizioni economiche dei coniugi dopo la separazione può basarsi su indizi e deduzioni. È fondamentale però che tale valutazione sia fondata su un’analisi specifica e dettagliata delle circostanze reali. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 11611/2025.
Una donna ricorre in appello contro due sentenze che, in virtù della separazione dal marito le assegnavano la casa familiare, le addebitavano la separazione e obbligavano l’ex marito a versare 1.000 euro mensili per il mantenimento del figlio, oltre all’80% delle spese straordinarie. La donna contestava l’addebito della separazione a suo carico e chiedeva il mantenimento in suo favore.
La Corte d’Appello riforma la decisione di primo grado. Essa respinge la richiesta di addebito della separazione alla moglie e riconosce alla donna un assegno di mantenimento di 800 euro mensili (oltre rivalutazione Istat). Il resto della decisione viene confermato. Per la Corte il tenore di vita matrimoniale era sostenuto principalmente dal reddito dell’uomo. Lo stesso aveva infatti revocato i mandati professionali alla moglie (avvocato) e si era appropriato dei risparmi comuni. Nonostante la capacità professionale della donna e la futura divisione dei beni, la Corte riconosce una riduzione delle sue disponibilità economiche e la sua incapacità di mantenere le precedenti condizioni di vita. L’assegno di 800 euro appare pertanto equo. L’uomo a questo punto ricorre in Cassazione.
La Cassazione accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbiti tutti gli altri. Nella motivazione ricorda che l’articolo 156, comma 1, del codice civile stabilisce che il coniuge a cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a ricevere dall’altro quanto necessario per mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio, qualora non abbia redditi adeguati.
In sede di separazione (a differenza del divorzio), il parametro per valutare l’adeguatezza dei redditi è il mantenimento del tenore di vita matrimoniale. Questo perché il vincolo coniugale permane e sussiste ancora il dovere di assistenza materiale.
Per quantificare l’assegno, il giudice di merito deve quindi necessariamente accertare il tenore di vita della coppia durante la convivenza. Nel compiere questa valutazione deve considerare i redditi dichiarati fiscalmente, altri elementi economici come il patrimonio (anche mobiliare), uno stile di vita agiato, o redditi non dichiarati. Tale accertamento può basarsi anche su elementi presuntivi, ma deve essere concreto.
Nel caso specifico, la Cassazione critica la Corte d’Appello per aver stabilito la prevalenza del contributo economico dell’uomo nel determinare il tenore di vita coniugale senza descrivere in alcun modo quale fosse tale tenore di vita.
Allo stesso modo, la Corte territoriale ha ritenuto peggiorate le condizioni economiche della donna dopo la separazione senza specificare quali fossero prima e dopo. La Corte di Cassazione contesta quindi alla Corte d’Appello di aver espresso un’opinione sulla maggiore incidenza del reddito dell’uomo nel sostenere il tenore di vita familiare e sul peggioramento della situazione economica della donna senza aver prima chiaramente definito e valutato le reali circostanze economiche in cui versava la famiglia e ciascun coniuge. La mancanza di una precisa determinazione delle effettive condizioni di vita dei coniugi ha portato la Corte d’Appello a decidere sull’obbligo e sull’entità dell’assegno di mantenimento senza avere una comprensione concreta del loro pregresso tenore di vita familiare e delle loro attuali risorse individuali. Alla Corte d’Appello in diversa composizione il compito di decidere su questi punti nel rispetto di quanto affermato in sentenza.
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La Cassazione torna a occuparsi di alunni abusati, precisando che quando un insegnante commette abusi sessuali sui suoi allievi a scuola, il Ministero deve risarcire il danno. Questo perché, secondo la legge, la condotta criminosa dell’insegnante, pur essendo contraria agli scopi educativi della scuola, non è considerata un evento così inatteso o impossibile da escludere la responsabilità dell’amministrazione pubblica. Il rischio che un abuso possa avvenire in un contesto scolastico non è così remoto da sollevare il Ministero dal suo dovere di risarcire le vittime. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 11614/2025.
I famigliari di alcuni alunni abusati da un loro insegnante citano in giudizio il MIUR (ora MIM), affermando la responsabilità civile del Ministero per abusi di un docente sui loro figli minori. Il docente infatti è stato condannato definitivamente per abusi su minori (anni 2003-2006) e gli attori si erano già costituiti parte civile nel processo penale contro il docente. Il Ministero però non aveva partecipato al processo penale come responsabile civile. Nell’incardinato giudizio civile però lo stesso si costituisce, eccependo la prescrizione dell’azione, deducendo l’inopponibilità del giudicato penale, rilevando l’erroneo richiamo all’art. 2049 c.c ed evidenziando la carenza delle allegazioni avversarie.
Il Tribunale di Genova però condanna il Ministero e con la sentenza n. 2122/2021 riconosce il risarcimento per danno biologico e morale agli attori. La Corte d’appello di Genova riforma parzialmente la decisione di primo grado, ricalcola il danno e detrae le provvisionali già liquidate agli attori, confermando nella parte restante la decisione di primo grado. Gli attori ricorrono in Cassazione e il MIM resiste con controricorso.
La Cassazione nel rigettare il ricorso incidentale e accogliere quello degli attore fornisce importanti indicazioni interpretative. La stessa ricorda che la pronuncia a Sezioni Unite n. 13246/2019 ha chiarito che l’art. 2049 c.c.configura una responsabilità oggettiva per fatto altrui, un’applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in base al quale chi si avvale dell’attività di un altro ne subisce anche i danni. L’ordinamento in questo modo rialloca i costi delle condotte dannose, ponendoli a carico di chi si avvale dell’operato altrui.
A fondare la responsabilità del preponente è il nesso di occasionalità necessaria e lo stesso sussiste se le funzioni esercitate agevolano l’illecito. È irrilevante il superamento dei limiti o il dolo del dipendente, occorre che la condotta non costituisca uno sviluppo anomalo della funzione. Il contesto scolastico richiede accorgimenti preventivi, la dirigenza e tutto il personale devono adottarli e gli stessi vanno attuati in base all’età degli allievi e alle circostanze.
Le situazioni di affidamento di minori sono sicuramente insidiose. La normativa penale infatti distingue le condotte verso minori e aggrava le pene per chi ha compiti di cura, educazione o custodia. L’art. 609-quater c.p, che punisce gli atti sessuali con minori, prevede un trattamento specifico quando tra reo e vittima esiste un rapporto di fiducia o di autorità.
La Convenzione di Lanzarote all’art. 18 prevede sanzioni per chi commette abusi quando riveste posizioni di fiducia. L’abuso che viene attuato all’interno delle relazioni con figure professionali come insegnanti e medici merita un’attenzione particolare.
I minori in queste relazioni vanno protetti, anche se hanno raggiunto l’età per i rapporti sessuali e anche se non vi è coercizione. Le relazioni di cura o istruzione possono evolvere in abuso e questo non costituisce un’anomalia imprevedibile. Statisticamente, chi abusa di minori spesso è proprio chi se ne occupa. L’assunzione di compiti di cura favorisce quindi i predatori sessuali.
Le condotte delittuose commesse ai danni dei ricorrenti quindi, nel caso di specie, non possono essere considerati “improbabili”. Esse non costituiscono un’anomalia imprevedibile e la Pubblica Amministrazione ha il dovere di prevenire i reati, adottando le misure opportune durante le prestazioni scolastiche. La reiterazione degli abusi nell’ambiente scolastico evidenzia carenze nel controllo.
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La sentenza n. 16535/2025 della terza sezione penale della Cassazione ha affrontato il tema del favoreggiamento della prostituzione, stabilendo che l’accompagnamento occasionale di una prostituta da parte di una collega sul luogo di esercizio non costituisce reato.
Nel caso in esame, una donna è stata accusata di favoreggiamento della prostituzione per aver accompagnato in auto una collega sul luogo dove quest’ultima esercitava l’attività. La donna adiva il Palazzaccio sostenendo di aver agito per “spirito di colleganza”. La Corte ha ritenuto che tale condotta, se isolata e priva di elementi che indichino un’organizzazione o un supporto sistematico all’attività di prostituzione, non integra il reato previsto dall’art. 3, n. 8, della legge n. 75/1958.
La Corte ha sottolineato che per configurare il reato di favoreggiamento della prostituzione è necessario che l’azione dell’agente sia idonea a facilitare in modo concreto e consapevole l’esercizio dell’attività di prostituzione altrui. Nel caso specifico, l’accompagnamento occasionale non è stato ritenuto sufficiente a integrare tale fattispecie criminosa.
Con la sentenza n. 15265/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha chiarito un aspetto delicato in tema di reato di evasione (art. 385 c.p.) e applicazione della circostanza attenuante dell’avvenuta costituzione.
L’imputato, per il tramite del proprio difensore, impugnava la sentenza della Corte d’appello di Napoli che, confermando la decisione di primo grado, lo aveva condannato, ritenuta la contestata recidiva, a un anno e 8 mesi di reclusione in ordine al delitto di evasione ex art. 385 cod. pen. Riteneva la corte territoriale che non vi fossero i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. né per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui al quarto comma di cui all’art. 335 cod. pen., atteso che la presentazione presso la Caserma dei Carabinieri fosse condotta strumentale del ricorrente.
Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale l’imputato denuncia vizi di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche attraverso argomentazioni prive di un apparato logico; esclusione dei presupposti per riconoscere la citata circostanza attenuante, nonostante il ricorrente si fosse presentato presso la Caserma dei Carabinieri per costituirsi; violazione dell’art. 131-bis cod. pen. laddove la Corte non aveva apprezzato la sua buona condotta e la non abitualità a delinquere.
Per gli Ermellini, il ricorso è fondato limitatamente all’attenuante di cui all’art. 385. quarto comma, cod. pen. mentre sono infondati gli altri di fronte alla “significativa biografia criminale – del soggetto – all’assenza di resipiscenza e alla non episodicità del delitto di evasione”.
Quanto alla mancata applicazione dell’attenuante di cui al quarto comma dell’art. 385 c.p., invece, affermano dal Palazzaccio, “costituisce ormai solido principio di diritto quello secondo cui, per poter ritenere sussistenti i presupposti per il riconoscimento della circostanza in parola, è sufficiente che la costituzione in carcere ovvero presso gli organi preposti alla vigilanza del rispetto delle prescrizioni inerenti agli arresti domiciliari, o che abbiano l’obbligo di tradurre l’evaso in carcere, sia volontaria e non conseguente alla coazione fisica delle forze dell’ordine, senza che assumano rilevanza la spontaneità del comportamento o l’assenza di influenze esterne, atteso che scopo della previsione è il tempestivo ripristino dello stato costrittivo, senza dispendio di energie da parte delle forze dell’ordine (Sez. 6, n. 29935 del 13/03/2022, Muggeri, Rv. 283721)”.
“Una volta che sia stata esclusa l’incidenza sulla citata attenuante e della spontaneità della costituzione in carcere o presso chi ha l’obbligo di tradurlo o dei motivi – anche di natura egoistica – che spingono l’evaso ad interrompere la situazione antigiuridica autonomamente creata, come invece previsto dal codice penale, deve ritenersi che sono indifferenti le modalità di tempo e luogo di costituzione – aggiungono dalla S.C. – richiedendo la norma esclusivamente una condotta, anche dettata da esigenze contingenti ed utilitaristiche, che renda palese la volontà di recedere dalla condotta che ha dato origine all’evasione; viene in tal senso esaltata la natura oggettiva dell’attenuante per la cui integrazione è sufficiente sia posta in essere una condotta coincidente con il dettato della norma”.
Ciò anche alla luce dei plurimi principi di diritto espressi dalla S.C., spiegano i giudici, “specie laddove hanno ritenuto di equiparare la costituzione in carcere alla costituzione presso un ufficio appartenente alla polizia giudiziaria che ha l’obbligo di condurre l’evaso in carcere, deve rilevarsi come la motivazione della sentenza che ha escluso la sussistenza dei presupposti per la concessione della citata attenuante confligga con il significato assegnato alla citata disposizione”.
Nel caso di specie, la Corte di appello, pur dando atto della natura oggettiva della circostanza attenuante ex art. 385, quarto comma, c.p., erroneamente finisce per assegnare rilevanza a profili di natura soggettiva, allontanandosi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato che reputa irrilevante la motivazione che spinge l’evaso a costituirsi.
Per cui, la sentenza impugnata va annullata, limitatamente alla sussistenza dell’attenuante de qua, con rinvio alla Corte di appello “che dovrà attenersi, nel fornire risposta circa la sussistenza o meno dei presupposti per il riconoscimento dell’invocata attenuante, al principio di diritto sopra richiamato”.
Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia
Nel calcolo della pena per il reato di tentato omicidio aggravato ex art. 576, comma 1, n. 5, c.p., la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale è assorbita nella circostanza aggravante del tentato omicidio, rendendo non configurabile il concorso materiale tra tali reati (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2210 – Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia).
Il punctum dolens sottoposto al vaglio del Supremo Collegio è la riconducibilità o meno del caso in esame all’istituto del reato complesso, ex art. 84 c.p., se sia applicabile l’art. 15 c.p., ovvero se sia applicabile, invece, il criterio di temperamento di cui all’art. 81 c.p.
La disciplina del reato complesso è ispirata ai principi di specialità in concreto, della sussidiarietà, della consunzione e si contrappone al principio della specialità in astratto posta a fondamento dell’art. 15 c.p.. Pertanto, per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici è opportuno svolgere una disamina sulla struttura normativa del reato complesso.
Tuttavia, preliminarmente, si ritiene di dover, comunque, escludere l’applicabilità dell’art. 15 c.p. al caso di specie posto che le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2019, n. 2664) hanno ritenuto applicabile detto articolo soltanto qualora fra le norme evocate sussista un rapporto di specialità in astratto, indiscutibilmente non sussistente fra le incriminazioni di omicidio volontario ed i maltrattamenti in famiglia attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare le due fattispecie, rectius il delitto di cui all’art. 575 c.p. e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 572 c.p., dei quali, peraltro, l’uno ha natura istantanea e l’altro abituale.
Ciò premesso è, dunque, opportuno analizzare l’art. 84 c.p.; dal tenore letterale dello stesso risulta ictu oculi che la figura in esame presenti più forme di manifestazione. Focalizzandosi, però, su quanto attiene alla soluzione del quesito si può affermare che il profilo problematico è l’inclusione o meno del caso di specie nel genus del reato complesso in senso lato. Nel testo della norma citata si individuano chiaramente due distinte ipotesi, una definibile come: “reato composto”, costituito da elementi che di per sè integrererebbero altre figure criminose; mentre l’altra definibile come: “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunge quale circostanza aggravante un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge. Per cui da un punto di vista meramente formale risulta ictu oculi la sussumibilità del caso di specie risulta in questa seconda categoria, posto che il delitto di maltrattamenti in famiglia – autonomamente punito dall’art. 572 c.p. – è espressamente previsto come aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 576, comma 5 c.p.. A queste considerazioni di natura testuale debbono essere aggiunge delle considerazioni di natura sostanziale che confermano l’applicabilità dell’art. 84 c.p. Invero, qualora il delitto di omicidio (o tentato omicidio come nel caso di specie) avvenga in un contesto di maltrattamenti risulta evidente l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti delittuosi. Non vi è dubbio, infatti, che, se l’intento Legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta ex art. 572 c.p., è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale i maltrattamenti e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono, altresì, in una prospettiva finalistica unitaria.
La tesi della ravvisabilità di un reato complesso nella fattispecie aggravata in esame, convalidata dalle argomentazioni che precedono, non è inficiata dalle obiezioni che alla stessa sono state opposte. Tanto in considerazione, soprattutto, delle caratteristiche del reato complesso come delineate in generale e, per quanto detto, presenti nel caso di specie, con particolare riguardo alla necessaria ricorrenza di un’unitarietà non solo contestuale, ma anche finalistica dei fatti complessivamente considerati. Tale interpretazione, peraltro trova l’avvallo della giurisprudenza di legittimità nella sua massima composizione (Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 38402) la quale mutatis mutandis ha affrontato la tematica oggetto della presente sentenza in relazione al delitto di atti persecutori ex art. 612bis c.p. e l’aggravante di cui all’art. 576, comma 5.1 c.p. concludendo anche in questo caso in senso favorevole all’applicazione dell’art. 84 c.p.
La riconducibilità del caso in esame alla disciplina del reato complesso implica l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio, previsti negli articoli precedenti, escludendo qualsiasi incidenza sanzionatoria dei reati in esso unificati. Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit dell’art. 84 c.p. rientra il concorso formale di reati ex art. 81, comma 1 c.p., per la quale è previsto il cumulo giuridico. La normativa dell’art. 84 si connota particolarmente come derogatoria in quanto “assorbe” le pene stabilite per i singoli reati in quella stabilita per il reato complesso.
Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che sia applicabile il principio di consunzione tra la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. e il delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 5 c.p. Pertanto, il Supremo Collegio annullava senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di maltrattamenti in famiglia rideterminava e la pena inflitta per il delitto di tentato omicidio aggravato.
Con la sentenza n. 6549/2025, le Sezioni Unite Civili della Cassazione hanno risolto un contrasto giurisprudenziale in tema di prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti degli avvocati.
La vicenda trae origine da un esposto disciplinare presentato nei confronti di un avvocato, accusato di aver denigrato pubblicamente un collega attraverso affermazioni ritenute lesive della sua reputazione.
L’azione disciplinare era stata promossa a distanza di oltre tre anni dall’episodio contestato. L’incolpato, eccependo l’intervenuta prescrizione, contestava la tardività del procedimento. Tuttavia, il Consiglio nazionale forense aveva rigettato l’eccezione, ritenendo che il termine decorresse non dalla data dell’atto denigratorio, ma dalla scoperta del fatto da parte dell’autorità disciplinare.
La Corte di cassazione, rilevato un contrasto tra pronunce precedenti sull’individuazione del dies a quo della prescrizione disciplinare, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, le quali si sono espresse nel senso della decorrenza oggettiva del termine.
La Corte ha affermato il seguente principio: “In tema di procedimento disciplinare forense, la prescrizione dell’azione decorre dalla data di commissione del fatto, e non dal momento della sua conoscenza da parte dell’organo disciplinare, anche quando si tratti di condotte a carattere diffamatorio tra colleghi.”
Secondo le Sezioni Unite, la norma contenuta nell’art. 51, comma 2, L. n. 247/2012 stabilisce in modo chiaro che il termine di prescrizione è di cinque anni e decorre dalla commissione del fatto illecito, senza introdurre eccezioni analoghe a quelle previste per i reati penali in materia di reati occulti o permanenti.
La Corte ha ritenuto che una diversa interpretazione, fondata sul momento della conoscibilità soggettiva del fatto da parte dell’organo procedente, si porrebbe in contrasto con i principi di certezza del diritto, affidamento legittimo dell’incolpato e tutela del giusto processo, oltre a risultare priva di base normativa.
Viene ribadito che il procedimento disciplinare, pur avendo natura amministrativa, non può essere soggetto a criteri estensivi di decorrenza della prescrizione, pena la violazione del principio di legalità e della parità delle parti nel procedimento.
Nella motivazione si legge: “L’interpretazione che faccia decorrere il termine prescrizionale da un momento diverso da quello della commissione del fatto rischia di tradursi in una dilatazione indeterminata della responsabilità disciplinare, con effetti lesivi della stabilità del rapporto professionale.”
Applicando tale principio, le Sezioni Unite hanno annullato la decisione del CNF e dichiarato estinta per prescrizione l’azione disciplinare, rilevando che il fatto denigratorio si era verificato nel 2019, mentre il procedimento era stato avviato soltanto nel 2023, oltre il termine massimo di cinque anni.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 16496/2025 della quinta sezione penale, ha chiarito che la rinuncia alla prescrizione del reato, effettuata prima della maturazione della stessa, non è invalida ma semplicemente inefficace, producendo i suoi effetti solo al momento in cui la prescrizione si verifica.
Nel caso esaminato, l’imputato veniva condannato in primo grado per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico aggravato ai sensi dell’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p.. In appello, la Corte dichiarava il reato estinto per prescrizione. La questione approdava dunque innanzi al Palazzaccio. L’imputato lamentava che il termine di prescrizione non si era ancora compiuto ed evidenziava l’interesse a rinunciare alla prescrizione al fine di conseguire una sentenza assolutoria nel merito, atteso che la declaratoria di estinzione del reato non era ostativa all’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti.
Per la S.C. il ricorso è infondato e va rigettato. Nondimeno, evidenziano da piazza Cavour, “l’imputato ha avuto ampia possibilità di rinunziare alla prescrizione prima della pronunzia della Corte territoriale, dovendosi ribadire in tal senso che tale rinunzia, qualora effettuata prima che la prescrizione sia maturata, non è invalida, ma soltanto inefficace, in quanto produce i suoi effetti al verificarsi della causa estintiva del reato (ex multis Sez. 3, n. 3758 del 20/10/2021)”.
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ToggleLo straining è una forma di disagio lavorativo che si verifica quando il dipendente è esposto a condotte ostili isolate, ma permanenti nei loro effetti, in grado di compromettere la sua serenità psicofisica e professionale. Pur non essendo regolato da una norma specifica, lo straining è riconosciuto e tutelato dalla giurisprudenza italiana, che lo assimila, sotto alcuni profili, al mobbing.
Il termine “straining” deriva dall’inglese to strain (tendere, mettere sotto pressione) e si riferisce a una situazione di stress occupazionale forzato determinata da un singolo evento ostile o da pochi episodi non reiterati, ma capaci di produrre conseguenze durature nel tempo.
Caratteristiche principali:
Caratteristica | Mobbing | Straining |
Frequenza delle condotte | Reiterate e sistematiche | Isolate ma con effetti duraturi |
Durata | Prolungata nel tempo | Può essere anche un singolo episodio |
Obiettivo persecutorio | Esplicito e intenzionale | Anche non intenzionale |
Gravità delle conseguenze | Spesso maggiore | Reale ma meno intensa |
Cassazione n. 123/2025: Anche in assenza di “mobbing” vero e proprio (cioè senza un intento persecutorio unitario), il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile per danni alla salute del dipendente ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile. Questa responsabilità scatta quando il datore di lavoro, anche per negligenza, permette il persistere di un ambiente di lavoro stressante che danneggia la salute dei lavoratori. Inoltre, il datore è responsabile se adotta comportamenti che, pur non essendo di per sé illegittimi, possono causare disagio o stress e che, isolatamente o insieme ad altre inadempienze, peggiorano gli effetti dannosi per la salute e la personalità del lavoratore. La Cassazione (sentenze citate) sottolinea che un ambiente di lavoro stressogeno è considerato un fatto ingiusto che può portare a riesaminare anche condotte datoriali apparentemente lecite o isolate, poiché la tutela della salute del lavoratore è un diritto fondamentale garantito da una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2087 c.c.
Cassazione n. 15957/2024: Il mobbing lavorativo si configura quando si verificano ripetuti comportamenti dannosi all’interno del contesto lavorativo, accompagnati dall’intenzione di perseguitare la vittima, indipendentemente dalla legalità dei singoli atti. Lo straining, invece, si verifica quando un singolo comportamento stressogeno viene attuato consapevolmente nei confronti del dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie continuative, mirando a indurre una condizione di stress forzato e prolungato nell’ambiente di lavoro. In sostanza, il mobbing si basa sulla ripetizione di atti persecutori, mentre lo straining si concentra sull’impatto stressante di un singolo atto consapevole.
Cassazione 29101/2023: o “straining” è considerato una forma di mobbing “attenuata” perché non presenta la ripetitività tipica delle azioni vessatorie. Tuttavia, costituisce comunque un’imposizione di stress da parte del superiore attraverso atti ostili mirati a discriminare il lavoratore. L’aspetto fondamentale è che, indipendentemente dall’etichetta (“mobbing” o “straining”), ciò che rileva è che il singolo atto ostile sia di per sé illecito e causi una lesione all’integrità psicofisica e personale del lavoratore.
Non esiste una disciplina legislativa specifica sullo straining. Tuttavia, il fenomeno trova tutela nei seguenti strumenti normativi:
La giurisprudenza considera quindi il comportamento illecito e lesivo, anche se isolato, rilevante per fondare una richiesta di tutela e risarcimento.
Sebbene lo straining, come il mobbing, non configuri un reato autonomo, alcune condotte possono assumere rilevanza penale:
Il lavoratore vittima di straining ha diritto a un risarcimento integrale del danno subito, purché provi:
La giurisprudenza riconosce il danno da straining come:
Cassazione n. 33428/2022: l’ambiente di lavoro stressogeno costituisce un fatto ingiunto e illecito e come tale deve essere sempre preso in considerazione ai fini del risarcimento del danno del lavoratore, anche manca la reiterazione.
Le azioni da intraprendere in caso di straining includono:
Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli
Le unioni di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, che trova tutela nell’art. 2 Cost., e sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che possono concretizzarsi in attività di assistenza materiale e di contribuzione economica prestata non solo nel corso del rapporto di convivenza, ma anche nel periodo successivo alla cessazione dello stesso e che possono configurarsi, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, come adempimento di un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c., ove siano ricorrenti pure gli ulteriori requisiti della proporzionalità, spontaneità ed adeguatezza (Cass., sez. I, 2 gennaio 2025, n. 28).
Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte trae origine dalla richiesta avanzata dal ricorrente al fratello maggiore unilaterale (generato dallo stesso padre ma da madre diversa) di restituzione delle somme versate dalla madre al padre dopo la cessazione della loro convivenza, nonché della metà delle spese sostenute in proprio per il mantenimento del padre dopo la morte della madre.
In primo e secondo grado era stata accolta soltanto la seconda richiesta, mentre la prima era stata rigettata in quanto, secondo i giudici di merito, il contributo dato dalla madre al padre si configurava come adempimento di un’obbligazione naturale.
Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, poiché, per il ricorrente, una volta cessata la convivenza non è configurabile alcun obbligo morale di un convivente nei confronti dell’altro.
La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha preliminarmente rammentato quanto stabilito da Cass., sez. II, 30 settembre 2016, n. 19578 e cioè che, per valutare la sussistenza dell’obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c. occorre dapprima accertare se ricorra, in rapporto alla valutazione corrente nella società, un dovere morale o sociale e, successivamente, se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza.
La giurisprudenza consolidata ha già riconosciuto l’esistenza di un obbligo di assistenza reciproca nelle unioni di fatto, sicché le attribuzioni finanziarie effettuate nel corso del rapporto per le esigenze della famiglia configurano l’adempimento di un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., sempre che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, da valutare in relazione alle circostanze del caso concreto e non devono essere restituite (così Cass. 13 giugno 2023, n. 16864).
Tuttavia, nel caso di specie, la Cassazione ha dovuto affrontare una questione diversa, sulla quale non constano precedenti giurisprudenziali, e cioè se l’obbligo di assistenza reciproca perduri dopo la cessazione della convivenza.
La Suprema Corte, aderendo alla soluzione adottata dalle Corti di merito, ha dato risposta affermativa, ritenendo che, poiché le convivenze di fatto sono sempre più diffuse, addirittura superando in numero le famiglie fondate sul matrimonio, il mantenimento dell’ex convivente sia conforme “alla valutazione corrente nella società” e sia, pertanto, tale da integrare un’obbligazione naturale, al ricorrere degli altri requisiti previsti dalla legge.
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ToggleL’assegno divorzile una tantum è una forma di liquidazione dell’obbligo di mantenimento derivante dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio in un’unica soluzione. A differenza dell’assegno mensile, l’una tantum esclude la possibilità di revisioni future e comporta la chiusura definitiva di ogni rapporto patrimoniale tra gli ex coniugi.
Questa modalità può essere disposta:
La disciplina dell’assegno divorzile si rinviene principalmente:
L’assegno una tantum può assumere diverse forme:
La corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione produce effetti definitivi e irrevocabili:
Dal punto di vista fiscale, l’assegno divorzile una tantum gode di un trattamento differente rispetto all’assegno periodico.
Tale qualificazione fiscale è confermata anche dall’Agenzia delle Entrate e dalla giurisprudenza di legittimità, a condizione che l’importo sia effettivamente corrisposto in un’unica soluzione e non come simulazione di una periodicità occulta.
se ti interessa l’argomento leggi anche gli altri articoli dedicati all’assegno divorzile
Responsabilità infermiere: la quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 15076/2025, ha affermato un principio rilevante in materia di colpa medica infermieristica nel triage ospedaliero. L’infermiere di pronto soccorso è tenuto non solo a rilevare i parametri vitali del paziente al momento dell’accesso, ma anche a proseguire il monitoraggio clinico, prestando attenzione all’eventuale peggioramento dei sintomi riferiti o osservati, anche nei casi di assegnazione del codice verde.
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Livorno, dichiarava non doversi procedere nei confronti di un’infermiera, per intervenuta prescrizione del reato, confermando la condanna al risarcimento del danno subito dalle parti civili costituite, in solido con l’ASL-Toscana
per il reato di cui all’art. 589 c.p.
Alla predetta, in qualità di infermiera professionale in servizio presso il Pronto Soccorso, era stato contestato di aver omesso di valutare correttamente la gravità del quadro clinico di soggetto asmatico, attribuendole così un codice di accesso di colore verde, circostanza che determinò un ritardo nell’intervento medico, causa della morte della paziente per arresto cardio-respiratorio dovuto ad “insufficienza respiratoria acuta da attacco asmatico di tipo 2”.
La Suprema Corte, esaminando il caso di specie, ha ribadito che “al personale infermieristico compete non solo una completa raccolta di dati, non limitata alla rilevazione dei parametri vitali, ma compete altresì un giudizio di carattere valutativo dei sintomi riscontrati e riferiti. E tanto considerano compiutamente i giudici di merito, rilevando non solo come non si possa sostenere che il compito dell’infermiere si limiti alla meccanica compilazione delle schede, ma che, appunto, lo stato della paziente obiettivamente rilevabile, avrebbe dovuto condurre ad una valutazione di gravità del caso”.
Seppur non competente a formulare diagnosi, il personale infermieristico, in sostanza, doveva procedere all’auscultazione mediante stetoscopio, potendo rilevare i ” sibili” certamente presenti in un attacco di asma grave quale quello in corso, compilando correttamente la scheda di triage.
Pertanto, i giudici rimarcano altresì “la gravità della condotta colposa della ricorrente, in quanto caratterizzata da sottovalutazione delle condizioni della paziente e dalla omissione del dovere di monitoraggio che, qualora osservato, avrebbe permesso di avvisare il personale medico dell’aggravarsi delle condizioni della donna e della necessità di intervenire immediatamente”.
Va invero ribadito, concludono gli Ermellini, che, secondo principi costantemente affermati dalla Corte di legittimità, “l’infermiere è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, gravando sullo stesso un obbligo di assistenza effettiva e continuativa del soggetto ricoverato, atta a fornire tempestivamente al medico di guardia un quadro preciso delle condizioni cliniche ed orientarlo verso le più adeguate scelte terapeutiche (cfr. Cass. n. 21449/2022).
Il dovere di monitorare la stabilità delle condizioni dei pazienti presenti rientra, pertanto, tra gli obblighi specifici del personale infermieristico di pronto
soccorso, il quale, nel caso in cui si verifichino particolari situazioni di emergenza, idonee a pregiudicare la salvaguardia del bene tutelato, “ha l’obbligo di allertare i sanitari in servizio, anche in altri reparti dell’ospedale, al fine di consentirne l’intervento in supporto (cfr. Cass. n. 11601/2014).