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Falso in atto pubblico falsificare la firma del padre per l’iscrizione a scuola Scatta il reato di falso in atto pubblico, commesso dal pubblico ufficiale e dal privato, per la madre che falsifica la firma del padre a sua insaputa per iscrivere la figlia in una scuola
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Falso in atto pubblico falsificare la firma
Reato di falso in atto pubblico, del pubblico ufficiale e del privato ex artt. 476 e 482 c.p., per la madre che falsifica la firma del padre per iscrivere la figlia minore presso un istituto scolastico. Così ha stabilito la quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 3880/2025, rigettando il ricorso di una mamma e confermandone la condanna inflitta in appello per il delitto di cui agli artt. 476 e 482 c.p.
La vicenda
La donna aveva presentato domanda ad un istituto comprensivo apponendo la falsa sottoscrizione a nome dell’altro genitore, attestandone falsamente il consenso all’iscrizione presso il medesimo istituto della figlia minore.
Il ricorso
L’imputata proponeva ricorso per cassazione deducendo, tra l’altro, l’insussistenza del falso, atteso che il modulo con la firma apocrifa non aveva determinato la formazione di alcun atto, visto che la domanda a quell’istituto scolastico non si era mai concretizzata nella relativa iscrizione.
Lamentava inoltre la violazione dell’art. 51 c.p., non essendosi considerato che la domanda proposta costituiva l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica e in particolare dalla legge 52/2003, dovendo provvedere l’imputata all’istruzione della figlia minore.
Inammissibilità
Per gli Ermellini il ricorso, inammissibile laddove mira ad una nuova valutazione delle risultanze istruttorie o solleva questioni non rilevabili d’ufficio per al prima volta in sede di legittimità, ed infondato sule questioni di diritto prospettate, va, nel complesso, rigettato.
Inammissibile è, infatti, il primo motivo, formulato per la prima volta in Cassazione. In effetti, proseguono dal Palazzaccio, “all’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui la minore era stata regolarmente iscritta all’istituto scolastico, nessuna censura risulta formulata con l’atto d’appello: sicché la richiesta in questa sede di valutare un fatto (l’assenza di iscrizione al predetto istituto) smentito, in modo incontestato, in sede di merito, è del tutto inammissibile”. Inoltre, aggiungono i giudici, è del tutto irrilevante “la frequenza, di fatto, di altro istituto scolastico, da parte della minore: ciò che non pone nel nulla la detta, ove pure iniziale e poi mutata, iscrizione all’istituto in rubrica”.
Falso documentale
Opportunamente, poi, i giudici del merito hanno richiamato quella giurisprudenza secondo cui: «In tema di falso documentale rientrano nella nozione di atto pubblico anche gli atti interni, ovvero quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, nonché quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale ponendosi quale necessario presupposto di momenti procedurali successivi» (Sez. 5, n. 36213 del 7/4/2015).
Nel caso di specie, la falsa sottoscrizione è stata accertata in primo grado, senza contestazione alcuna con l’atto d’appello, per quanto già detto, come funzionale all’iscrizione della figlia al detto istituto scolastico e, come tale, ha certamente acquisito valore determinante per la medesima iscrizione.
Adempimento dovere senza ricorrere al falso
Nulla di fatto neanche in ordine al quarto motivo, sulla assunta violazione dell’articolo 51 cod. pen., avendo l’imputata agito per l’adempimento di un dovere, provvedere all’istruzione della figlia minore, ritenuto infondato.
È evidente, concludono dalla S.C. rigettando il ricorso, “che il falso commesso non costituisse via obbligata, ovvero non fosse affatto l’unico modo per garantire l’istruzione alla minore: laddove solo in caso di condotta vincolata a tutela di un diritto è logico che si integri la scriminante de qua (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 34501 del 21/06/2024).
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Allegati
- Cass-3880-2025 (3 MB)
Reato di minaccia (612 c.p.) Il reato di minaccia (612 c.p.) si configura qualora un soggetto minacci un altro di un danno ingiusto, se aggravato è punito con la reclusione
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ToggleReato di minaccia: cos’è
Il reato di minaccia è contemplato dall’art. 612 del codice penale. Esso si configura quando un soggetto minaccia un altro soggetto di cagionargli un danno ingiusto. La norma tutela la libertà morale e psichica contro ogni tipo di condotta in grado di creare un turbamento derivante dal prospettare un male ingiusto alla vittima. Il danno minacciato può consistere in una lesione o nella sola messa in pericolo di un interesse che ha rilievo giuridico. L’ingiustizia del danno si riferisce ai danni che vengono cagionati da condotte illecite.
Il reato di minaccia è definito “di pericolo” perché non richiede il verificarsi di un evento, è sufficiente che il male venga prospettato e che questo induca nella vittima il timore che il danno minacciato si potrebbe effettivamente verificare.
Procedibilità del reato di minaccia
Il reato di minaccia è punibile a querela della persona offesa.
Si procede d’ufficio se:
- la minaccia si realizza in uno dei modi contemplati dall’articolo 339 del codice penale;
- la minaccia è grave e ricorrono circostanze aggravanti con effetto speciale diverse dalla recidiva;
- la persona offesa è incapace per età o per infermità.
Minaccia aggravata: art. 339 c.p.
La minaccia è aggravata se il soggetto agente la commette:
- durante manifestazioni che si svolgono in un luogo pubblico o aperto al pubblico;
- con l’uso delle armi;
- da un soggetto dal volto coperto;
- da più soggetti riuniti;
- con uno scritto anonimo;
- ricorrendo alla forza intimidatorie di associazioni segrete, esistenti o anche solo supposte;
- lanciando o utilizzando corpi contundenti o altri oggetti idonei a offendere come i fuochi d’artificio, tutti oggetti che creano situazioni di pericolo per le persone.
Elemento soggettivo
Per integrare il delitto di minaccia la legge richiede che il soggetto agisca con dolo generico ossia con la coscienza e la volontà di minacciare un altro soggetto di un danno ingiusto.
Come è punito il reato di minaccia
Il reato di minaccia viene punito con una multa che può arrivare fino a 1.032,00 euro.
Se la minaccia è grave o è commessa nei modi previsti dall’articolo 339 c.p il reato è punito con la pena della reclusione fino a un anno.
Minaccia: rapporto con altri reati
Il reato di minaccia può essere confuso con altri reati contro la persona, ma può anche rappresentare una componente di altre condotte illecite complesse. La Cassazione nel tempo ha fornito importanti chiarimenti al riguardo.
Minaccia in concorso con violenza privata
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 50702/2019 ha chiarito che: “il reato di violenza privata si distingue dal reato di minaccia per la coartata attuazione da parte del soggetto passivo di un contegno (commissivo od omissivo) che egli non avrebbe assunto, ovvero per la coartata sopportazione di una altrui condotta che egli non avrebbe tollerato. Ne consegue che i due reati, pur promossi da un comune atteggiamento minatorio, dando luogo ad eventi giuridici di diversa natura e valenza, concorrono tra loro.”
Minacce assorbite dal reato di maltrattamenti in famiglia
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 17599/2021 ha precisato che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe il delitto di minaccia previsto dall’art. 612 c.p. purché le minacce rivolte alla persona offesa non siano il risultato di una condotta criminosa autonoma e indipendente, ma costituiscano una delle condotte per mezzo delle quali si mette in atto il reato di maltrattamenti.
Minacce assorbite o in concorso con il reato di stalking
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 12720/2020 ha sancito che il delitto di minaccia contemplato dall’art. 612 c.p. è assorbito da quello di atti persecutori disciplinato dall’art. 612 bis c.p a condizione che le minacce vengano poste in essere nello stesso contesto temporale e fattuale che integrano lo stalking. Qualora invece le minacce risalgano a un periodo anteriore all’inizio degli atti persecutori allora le minacce concorrono con il reato di stalking.
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Minaccia aggravata il post “ti aspetto giù” su Facebook Per la Cassazione integra il reato di minaccia aggravata il post "ti aspetto giù" pubblicato sui social network
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Cassazione: minaccia aggravata sui social
La sentenza n. 3877/2025 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha ribadito i principi in materia di reati commessi attraverso i social network, riconoscendo come minaccia aggravata la frase “ti aspetto giù” postata su Facebook.
I fatti
Il caso ha avuto origine da un video pubblicato sul profilo Facebook da un soggetto con cui lo stesso si lamentava degli schiamazzi di un altro in ora notturna vicino la propria abitazione. L’imputato aveva scritto “come ti sei permesso a pubblicare il video su Facebook? Ti aspetto giù”.
La Corte d’Appello di Torino condannava l’autore del messaggio per il reato di minaccia aggravata.
L’imputato aveva quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che l’espressione non fosse idonea a integrare il reato contestato.
La decisione della Cassazione
Per gli Ermellini, il ricorso è infondato.
Come noto, affermano, “il delitto di minaccia costituisce reato di pericolo e non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima (Sez. 2, n. 21684 del 12/02/2019, Rv. 275819-02, Sez. 5, .n 6756 del 11/10/2019, dep. 2020, Rv. 278740-01)”. Per cui, “non è necessario accertare se il messaggio in questione sia stato percepito come minatorio dalla vittima, dovendosi semplicemente indagare se lo stesso fosse potenzialmente idoneo ad intimidirla”.
Orbene, per la incontestata ricostruzione operata dalle sentenze di primo e secondo grado, l’aggressione coeva ai danni della vittima è evidente come “non solo, e certamente, non depotenziasse la carica minatoria del medesimo messaggio, ma la rendesse persino ancor più concreta: ragionamento in relazione al quale non emerge alcuna contraddittorietà o illogicità, posto che l’affermata ininfluenza dell’aggressione al fine di escludere il carattere minatorio della detta frase non è affatto in contrasto col suo ritenuto effetto rafforzativo dell’effetto intimidatorio”.
In definitiva, la sentenza d’appello è congruamente motivata e priva di vizi o illegittimità. Il ricorso è rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
Allegati
- Cass-3877-2025 (2 MB)
Tentato omicidio: l’elemento soggettivo Quali sono gli elementi rilevanti ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo nel tentato omicidio?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez
La sussistenza dell’elemento soggettivo nell’omicidio deve essere ricavata da quegli elementi della condotta che, per la loro inequivoca potenzialità offensiva, siano più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Cass., sez. I, 25 ottobre 2024, n. 39250).
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte ha ribadito i principi dettati in materia di dolo omicidiario.
Nel caso di specie il ricorrente, condannato con rito abbreviato per tentato omicidio e porto ingiustificato di un coltello fuori dall’abitazione, ha contestato la qualificazione giuridica del fatto deducendo la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo nel tentato omicidio. Invero, ad avviso della difesa l’autore del reato, qualora avesse voluto, avrebbe potuto provocare danni di maggiore entità rispetto alle lesioni che poi la vittima ha riportato e, soprattutto, l’agente ha desistito dal realizzare l’evento morte pur potendo, date le circostanze di luogo e di tempo, agire indisturbato.
I giudici della Prima Sezione, richiamando un consolidato orientamento di legittimità, hanno ricordato che la sussistenza del dolo nel tentato omicidio può desumersi dalle peculiarità intrinseche dell’azione criminosa, come la natura del mezzo usato, il comportamento antecedente o susseguente dell’azione, ossia quegli elementi che per la loro potenzialità offensiva palesino il fine perseguito dall’agente (in tal senso anche Cass. 29 ottobre 2024, n. 39705 e Cass. 7 luglio 2011, n.30466).
Il dolo omicidiario deve essere ricavato dalle circostanze esistenti ex ante e, pertanto, il giudice di merito deve formulare “un giudizio sull’esistenza di una cosciente volontà di porre in essere una condotta idonea a provocare, con certezza o alto grado di probabilità, la morte della persona” (Cass. 11 aprile 2016, n. 23618). Ciò premesso, la Corte territoriale ha correttamente rilevato l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato all’esito di una valutazione complessiva dell’azione che, come ribadito, tiene conto dell’arma utilizzata, della direzione e reiterazione dei colpi, nonché della violenza degli stessi.
Parimenti infondata è l’ipotesi di desistenza prospettata dal ricorrente. È ormai acclarato dalla giurisprudenza di legittimità che la desistenza non è configurabile nel caso in cui gli atti posti in essere integrino gli estremi del tentativo (Cass. 15 maggio 2017, n. 50079).
Stalking abusare della genitorialità ai danni dell’ex Stalking: il reato viene integrato anche dall’abuso della genitorialità quando esercitata in danno dell’ex
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Reato di stalking l’abuso della genitorialità
Il reato di stalking si configura anche quando i diritti e i doveri connessi alla genitorialità vengono esercitati oltre i limiti fissati dal giudice. O quando ad esempio il diritto di visita viene svolto oltre i limiti del diritto/dovere di assistenza morale e materiale del minore. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 2732/2025.
Stalking: doppia condanna
La Corte d’appello conferma la condanna nei confronti dell’imputato per il delitto di atti persecutori perpetrato in danno della donna alla quale è stato legato da una relazione affettiva.
Abuso della genitorialità insussistente
Il difensore dell’imputato impugna la decisione in Cassazione. Con il terzo motivo il ricorrente eccepisce l’errata valutazione delle dichiarazioni della parte civile costituita e delle persone legate alla stessa. La Corte avrebbe dovuto riconsiderare la versione dei fatti fornita da questi soggetti, stante la divergenza di questa rispetto alla pacificità dei fatti. Con il quarto e il quinto motivo invece denuncia il vizio di motivazione sulla prova dell’elemento soggettivo del reato di stalking e della sussistenza degli eventi integrativi del reato. L’imputato afferma di non aver mai voluto interferire nella vita privata dell’ex compagna. Lo stesso si sarebbe limitato a coltivare il rapporto con il figlio minore. Il tutto senza effetti negativi sulla madre del minore, che, in piena libertà e autonomia ha scelto di trasferirsi nella città in cui lavorava e frequentava amici. Il PG della Cassazione e il difensore della donna chiedono il rigetto del ricorso.
Stalking esercizio genitorialità fuori dai limiti
Gli Ermellini respingono il ricorso perché infondato. Il terzo motivo del ricorso in particolare risulta inammissibile. Le argomentazioni relative alla censura sulla valutazione delle dichiarazioni rese dai testi a favore della parte civile sono generiche e ripetono doglianze già respinte nel merito. La Cassazione ribadisce che tali doglianze non sono consentite in sede di legittimità se dirette a una nuova valutazione o rilettura dei fatti.
La S.C. non condivide neppure le critiche dell’imputato relative all’apprezzamento delle prove, che smentirebbero la versione dei fatti così come descritta dalla parte civile. Dal verbale dell’udienza celebrata davanti al Tribunale per i Minorenni emerge in sostanza che l’imputato ha minacciato la parte civile di portarle via il figlio. Dalla motivazione della sentenza impugnata emerge inoltre “l’ossessione dell’imputato per l’ex compagna, cui aveva cagionato un forte stress emotivo appostandosi continuamente presso la sua abitazione e il luogo di lavoro.”
La Cassazione ricorda inoltre che “l’esercizio dei diritti e dei doveri genitoriali nei confronti dei figli, avvenuto con modalità che esorbitino dai limiti fissati dalla regolamentazione del giudice civile ex art. 337-ter cod. proc. o, comunque, dai limiti del diritto/dovere di assistenza morale e materiale del minore stesso (ad esempio del diritto di visita) costituisce abuso del diritto alla genitorialità e non può essere fatto valere neppure alla stregua di scriminante putativa, come tale suscettibile di escludere l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen.”
Condotta ossessiva e molesta dell’ex
Nel caso di specie è indubbio che l’imputato abbia abusato della propria genitorialità per danneggiare la ex compagna. L’uomo non si è “limitato a far visita al figlio minore o a cercare di incontrarlo”. Lo stesso ha tenuto una “condotta ossessiva, reiteratamente molesta e intrusiva nella vita della stessa ex compagna, cui aveva creato un grave e perdurante stato d’ansia.”
Respinto anche l’ultimo motivo. I giudici di merito hanno infatti ritenuto, in maniera conforme, che “le condotte ossessive, reiteratamente moleste e intrusive, tenute dall’imputato nei confronti della sua ex convivente, avevano avuto un’incidenza negativa sull’equilibrio psichico della donna, che aveva dovuto cambiare il luogo di residenza ed aveva subito il persistente patema d’animo discendente dal rischio di incontrare il ad integrare gli eventi del delitto di atti persecutori”.
Eventi che non sono stati smentiti dal ricorrente, che non è stato in grado di fornire prove contrarie decisive.
Leggi anche: Il reato di stalking
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- Cass-2732-2025 (1) (4 MB)
Atti e provvedimenti amministrativi Atti e provvedimenti amministrativi: definizione, elementi distintivi, tipologie, normativa e giurisprudenza
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ToggleCosa sono gli atti amministrativi
Vediamo cosa sono atti e provvedimenti amministrativi.
Gli atti amministrativi sono manifestazioni di volontà, dichiarazioni o comportamenti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione per perseguire interessi pubblici. Questi atti si distinguono per la loro finalità di realizzare obiettivi di interesse generale, agendo nel rispetto delle norme di legge e dei principi costituzionali.
Un atto amministrativo è generalmente unilaterale, ossia emesso dalla Pubblica Amministrazione senza necessità di consenso da parte del destinatario. Gli atti possono essere ricognitivi, se accertano una situazione giuridica preesistente, o costitutivi, se creano, modificano o estinguono situazioni giuridiche.
Cosa sono i provvedimenti amministrativi
I provvedimenti amministrativi rappresentano una particolare categoria di atti amministrativi caratterizzati dalla capacità di incidere direttamente sulla sfera giuridica dei destinatari, creando obblighi o attribuendo diritti. Essi si distinguono per la loro immediata esecutorietà, che consente alla Pubblica Amministrazione di darvi attuazione senza necessità di ulteriori passaggi giudiziari.
Tra i provvedimenti amministrativi più comuni troviamo:
- autorizzazioni;
- concessioni;
- ordini;
- sanzioni amministrative.
Qual è la normativa di riferimento?
La disciplina degli atti e dei provvedimenti amministrativi si fonda su normative di livello costituzionale, legislativo e regolamentare:
- Articolo 97 della Costituzione: stabilisce i principi di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, che devono guidare l’adozione di atti e provvedimenti.
- Legge n. 241/1990: regola il procedimento amministrativo, imponendo trasparenza, motivazione e partecipazione per gli atti adottati dalla PA.
- Codice del processo amministrativo (D.lgs. n. 104/2010): disciplina il controllo giurisdizionale sugli atti amministrativi, prevedendo strumenti di tutela per i destinatari.
- Codice civile: in alcuni casi, integra la disciplina amministrativa, ad esempio con riferimento alla capacità giuridica o alla validità degli atti.
Quali effetti producono gli atti amministrativi?
Gli atti amministrativi producono effetti giuridici immediati e diretti sulla sfera dei destinatari. A seconda della loro natura, possono:
– attribuire diritti: ad esempio, un’autorizzazione consente al destinatario di svolgere un’attività altrimenti vietata;
– imporre obblighi: come nel caso di un’ordinanza di demolizione;
– sanzionare comportamenti illeciti: attraverso l’irrogazione di multe o altre sanzioni amministrative;
– dichiarare situazioni giuridiche: riconoscendo uno status giuridico preesistente.
Giurisprudenza su atti e provvedimenti amministrativi
La giurisprudenza ha contribuito a definire con precisione le caratteristiche e i limiti degli atti e provvedimenti amministrativi:
Consiglio di Stato: ha specificato che i provvedimenti amministrativi devono essere adeguatamente motivati e adottati nell’ambito delle competenze dell’ente, pena la loro annullabilità. Come precisato nella sentenza n. 2457/2017 l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, ha una funzione sostanziale: è rispettato se l’atto espone il percorso logico-giuridico che ha portato alla decisione, consentendo al destinatario di comprenderne le ragioni e di accedere efficacemente alla tutela giurisdizionale, in linea con gli artt. 24 e 113 della Costituzione.
Consiglio di Stato n. 10484/2024: l’amministrazione competente per il diritto di accesso ai è il soggetto pubblico o privato che, svolgendo attività di pubblico interesse, possiede o deve possedere i documenti amministrativi relativi a tale attività. Non può essere opposta al cittadino la mancanza dei documenti, se questi rientrano nelle competenze dell’amministrazione e devono essere da essa detenuti.
Cassazione civile n. 5097/2018: secondo l’art. 21-septies della L. 241/1990, la nullità di un provvedimento amministrativo si configura solo in caso di “difetto assoluto di attribuzione”, cioè quando manca qualsiasi norma che conferisca il potere esercitato. I casi di “carenza di potere in concreto” (esercizio del potere senza i presupposti di legge) ricadono invece nell’annullabilità.
Casa famiglia per il figlio che usa troppo il cellulare Casa famiglia per il minore problematico che cresce in un ambiente conflittuale e fa un uso smodato dello smartphone
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Casa famiglia per figlio che fa uso smodato del cellulare
Un ragazzo di 13 anni viene collocato in una casa famiglia per decisione del Tribunale per i minorenni competente. La vicenda ruota attorno a una situazione familiare estremamente delicata, caratterizzata da alta conflittualità tra i genitori, episodi di violenza domestica e comportamenti problematici del minore, come l’uso smodato del cellulare. I genitori ovviamente si oppongono alla decisione di primo grado e poi a quella della Corte di’Appello. La Cassazione però con l’ordinanza n.1832/2025 respinge il ricorso dimostrando anche di condividere le conclusioni del giudice di primo grado sull’importanza di una corretta educazione digitale.
Collocazione del minore in casa famiglia
La vicenda prende avvio da una richiesta del Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni di Salerno, che nell’aprile 2022 ha chiesto la decadenza della responsabilità genitoriale. La situazione familiare era critica: i genitori non riuscivano a gestire i conflitti, e il figlio mostrava comportamenti aggressivi e una forte dipendenza dai dispositivi elettronici, in particolare dal cellulare. I servizi sociali, intervenuti per monitorare la situazione, hanno rilevato ulteriori problemi, tra cui difficoltà scolastiche e scarsa capacità dei genitori di garantire un ambiente stabile.
Il Tribunale ha deciso di sospendere la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori, disponendo l’affidamento del ragazzo ai servizi sociali. Il minore è stato collocato in una casa famiglia, con il divieto assoluto di utilizzare dispositivi elettronici. Inoltre, i contatti con i genitori sono stati limitati e demandati a successivi accertamenti.
Entrambi i genitori hanno impugnato il provvedimento, presentando ricorso alla Corte d’Appello. La Corte d’Appello, tuttavia, ha respinto i ricorsi, confermando la validità della decisione del Tribunale.
Nomina tardiva del curatore e pregiudizio per il minore
I genitori hanno quindi fatto ricorso alla Corte di Cassazione, sollevando cinque motivi principali di impugnazione. Tra questi, hanno ribadito la presunta violazione del diritto del minore a essere rappresentato adeguatamente e l’assenza di un difensore per il figlio nel primo grado di giudizio. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze, stabilendo che, pur in presenza di errori procedurali, non era stato arrecato un concreto pregiudizio al minore.
Secondo i giudici, la nomina tardiva del curatore speciale non aveva inciso negativamente sull’esito del processo. Infatti, il curatore nominato successivamente ha potuto partecipare attivamente al giudizio d’appello, rappresentando gli interessi del minore in modo autonomo e indipendente.
La Cassazione ha richiamato anche il principio secondo cui l’interesse superiore del minore deve prevalere su ogni altra considerazione. In situazioni di conflitto familiare e inadeguatezza genitoriale, è necessario intervenire prontamente per garantire un ambiente sereno al bambino. La collocazione in casa famiglia è stata ritenuta una misura adeguata, viste le difficoltà dei genitori di fornire un contesto stabile e protetto.
Inoltre, i giudici hanno sottolineato l’importanza di procedere con celerità in questi casi, evitando inutili ritardi che potrebbero aggravare il disagio del minore. Sebbene la nomina tardiva del curatore speciale rappresenti un errore procedurale, non ha reso nullo il processo, poiché il minore è stato adeguatamente rappresentato nelle fasi successive.
Educazione digitale: vietato l’uso dello smartphone
Un elemento centrale del caso è l’uso eccessivo del cellulare da parte del ragazzo. Questo aspetto è emerso come un campanello d’allarme, evidenziando un problema diffuso tra i giovani. La dipendenza da dispositivi elettronici può avere conseguenze negative sullo sviluppo emotivo, sociale e scolastico dei ragazzi. In questo caso, il Tribunale ha scelto di vietare al minore l’utilizzo di smartphone e tablet, ritenendoli un fattore aggravante della sua situazione, già sufficientemente problematica.
Leggi anche gli altri articoli d in materia di diritto di famiglia
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- Cass-1832-2025 (1) (2 MB)
Guida sotto effetto di stupefacenti: servono gli esami Guida sotto effetto di stupefacenti: non bastano gli elementi sintomatici e il sì all'esame del sangue esclude quello delle urine
- Pubblicato da Redazione
Guida sotto l’effetto di stupefacenti ed esami
Guida sotto effetto di stupefacenti: non è configurabile il reato previsto dall’articolo 187, comma 8 del Cds se il soggetto alla guida rifiuti il prelievo delle urine acconsentendo al prelievo ematico, già sufficiente. Lo ha chiarito la quarta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 30617/2024.
La vicenda
Nella vicenda, la Corte d’appello di L’Aquila, confermava la sentenza di primo grado con cui il ricorrente veniva dichiarato colpevole del reato previsto e punito dall’articolo 187, commi 3 e 8, del decreto legislativo 285/1992, perché, dopo essere stato fermato alla guida di una autovettura per un controllo sulla circolazione stradale, sebbene invitato dagli operanti di polizia giudiziaria, si era rifiutato di sottoporsi all’accertamenti sanitari per accertare l’effettiva assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, e veniva perciò condannato alla pena di mesi 8 di arresto ed euro 1800 di ammenda, oltre ad essere sanzionato con la sospensione della patente di guida per anni 1.
La Corte aveva evidenziato che nel corso del controllo eseguito dalla polizia giudiziaria in occasione di un sinistro stradale, l’uomo aveva manifestato segni di alterazione psico-fisica e pertanto gli operanti lo avevano invitato a sottoporsi all’accertamento per verificare il tasso alcolemico e l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti. Atal fine si era recato in ospedale, dove aveva accettato di sottoporsi al prelievo del sangue che aveva dato risultato negativo ma, subito dopo, si era allontanato dal pronto soccorso, rifiutandosi di fornire anche un campione delle urine per l’esame tossicologico.
Pertanto, la corte distrettuale riteneva integrata la contravvenzione prevista dalla norma indicata, atteso che l’imputato avrebbe prestato il consenso soltanto ad una verifica parziale mediante esame ematico, rifiutando il prelievo di altri campioni biologici.
Il ricorso
L’imputato, a mezzo del suo difensore, proponeva ricorso per cassazione, deducendo che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte distrettuale, si era reso disponibile a sottoporsi all’esame ematico, idoneo ad entrambi gli accertamenti alcolemico e tossicologico, dovendosi perciò ritenere che non aveva opposto il rifiuto di sottoporsi all’accertamento richiesto. Richiamava in proposito precedenti giurisprudenziali riguardanti casi analoghi, in cui era stato affermato che l’aver comunque accettato di sottoporsi a prelievo ematico, pienamente sufficiente anche ai fini dell’accertamento dell’assunzione di sostanze stupefacenti, rendeva superfluo il compimento dell’ulteriore analisi delle urine.
Peraltro, la sentenza, a dire del ricorrente, risulterebbe carente di motivazione, non avendo fornito alcuna spiegazione sul fatto che l’esame ematico non potesse essere utilizzato per entrambi gli accertamenti alcolemico e tossicologico.
Rifiuto prelievo campioni biologici
Per gli Ermellini, il motivo è fondato.
La disposizione di cui all’art. 187, comma 8, Cod. Strada «non sanziona il rifiuto opposto ad
un particolare prelievo di campioni biologici quanto, piuttosto, la condotta ostativa ovvero deliberatamente elusiva dell’accertamento di una condotta di guida indiziata di essere
gravemente irregolare e tipicamente pericolosa» (cfr. Cass. n. 43864/2016).
Secondo la giurisprudenza di legittimità, non é configurabile li reato previsto dall’art. 187, comma 8, cod. strada, nel caso in cui il soggetto alla guida di un’autovettura rifiuti un tipo di prelievo (ad esempio il prelievo delle urine), acconsentendo ad altro prelievo di liquidi biologici (ad esempio il prelievo ematico), anch’esso idoneo a dimostrare l’assunzione di sostanza stupefacente (cfr., ex multis, Cass. n. 49507/2015).
Va pure ricordato, affermano dal Palazzaccio, che, “ai fini della configurabilità del reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, lo stato di alterazione del conducente dell’auto non può essere desunto in via esclusiva da elementi sintomatici esterni, così come avviene per l’ipotesi di guida in stato di ebbrezza alcolica, essendo necessario che detto stato di alterazione venga accertato nei modi previsti dall’art. 187 C.d.S., comma 2, attraverso un esame su campioni di liquidi biologici, trattandosi di un accertamento che richiede conoscenze tecniche specialistiche in relazione alla individuazione ed alla quantificazione delle sostanze”.
La decisione
Nel caso di specie, risulta assodato che il ricorrente aveva accettato di sottoporsi al prelievo ematico “che ben poteva, in ipotesi, essere utilizzato anche per l’accertamento della presenza nel sangue di sostanze stupefacenti. Pertanto, raccordando i principi richiamati al caso concreto, considerato che il prelievo ematico è astrattamente idoneo ai fini della suddetta verifica, deve escludersi che sia stata correttamente motivata la sussistenza del ritenuto rifiuto, non essendo – in linea generale – indispensabile il compimento di un’analisi su due diversi liquidi biologici dell’imputato”.
Nella sentenza impugnata non è in alcun modo spiegato perché fosse necessario che l’uomo dopo aver dato il consenso ed essersi sottoposto al prelievo ematico, fornisse un secondo campione biologico. Per cui, la sentenza impugnata è annullata con rinvio per nuovo giudizio.
Allegati
- Cass-30617-2024 (3 MB)
Delitto di omicidio e motivo abietto Nel delitto di omicidio la circostanza aggravante del motivo abietto può ritenersi integrata per il solo fatto che l’autore abbia agito per gelosia?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez
La gelosia, rientrante nei cd stati emotivi e passionali, non è di per sé idonea ad integrare la circostanza aggravante del motivo abietto. Questa, piuttosto, si ritiene sussistente nel caso in cui il delitto di omicidio sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima considerata come propria appartenenza (Cass., sez. I, 25 ottobre 2024, n. 39245).
La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione riguarda la configurabilità della circostanza aggravante dei motivi abietti.
Il ricorrente, condannato per omicidio ai danni del coniuge, contesta l’erronea applicazione dell’art. 577, n. 4, c.p. in relazione all’art. 61, n. 1, c.p. Ad avviso della difesa i giudici di merito hanno trascurato alcuni elementi individualizzanti (come il contesto sociale dell’imputato) che, invece, rivestono un ruolo centrale ai fini del riconoscimento, o meno, dell’aggravante in esame. In particolare, la Corte territoriale avrebbe attribuito la condotta del soggetto ad una reazione animata da gelosia, senza tener conto degli elementi prospettati dalla difesa.
I giudici della Prima Sezione hanno analizzato l’ambito applicativo delle circostanze de qua.
L’art. 61, n. 1, c.p. contempla le aggravanti dei motivi abietti o futili che, peraltro, sono richiamate anche tre le aggravanti speciali del delitto di omicidio, per cui si tratta di due distinte fattispecie che possono ricorrere separatamente. Il motivo è abietto quando rileva “un tale grado di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità” (Cass. 5 febbraio 2017, n. 33250). Il motivo abietto è qualificabile come motivo ignobile, spregevole o vile. Diversamente, il motivo è futile quando caratterizzato da sproporzione sul piano oggettivo e sul piano soggettivo. In particolare, a livello oggettivo ci deve essere sproporzione tra il fatto realizzato e il motivo che lo ha determinato; a livello soggettivo la sproporzione deve essere espressione di un moto interiore ingiustificato, così da rendere “lo stimolo esterno come mero pretesto di un impulso criminale” (Cass. 27 giugno 2019, n. 45138). Ciò premesso, la pura gelosia (cioè una condizione psicologica rientrante nei cd stati emotivi e passionali) non è di per sé idonea ad integrare automaticamente le aggravanti in questione, in quanto non è qualificabile da sola come espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima.
La giurisprudenza di legittimità è ormai concorde nel ritenere che l’aggravante dei motivi abietti ricorra quando l’omicidio sia compiuto non per motivi di gelosia legati ad un desiderio di vita in comune, ma sia la manifestazione di una reazione punitiva nei confronti della vittima. Invero, la condizione di gelosia è idonea ad integrare l’aggravante di cui trattasi tutte le volte in cui risulti “ingiustificata espressione di supremazia e possesso”, ossia tutte le volte in cui l’agente consideri la vittima come propria appartenenza e non ne tolleri l’insubordinazione (Cass. 10 marzo 2023, n. 16054).
In applicazione di questi principi la Suprema Corte ha dichiarato infondati i motivi di ricorso e, pertanto, ha ritenuto immune da censure la decisione di merito. La Corte distrettuale ha correttamente ancorato la circostanza di cui all’art. 61, n. 1, c.p. ad elementi concreti (come ad esempio il contesto storico-sociale) ed ha correttamente qualificato la gelosia come condizione riconducibile all’aggravante dei motivi abietti. Nel caso di specie la gelosia ha assunto i caratteri di “abnormità e spregevolezza” che hanno portato l’agente alla consumazione del fatto omicidiario. Si tratta, quindi, di una condizione psicologica espressione di uno spirito punitivo connessa al mero desiderio egoistico di preservare la posizione di dominio acquisita sulla donna.
Shock tributario: nessun risarcimento Shock tributario: non spetta il risarcimento alla professionista se non prova il nesso tra condotta del consulente e la patologia psichica
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Shock tributario: niente risarcimento senza prova
Sul risarcimento del danno da “shock tributario” si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 1036/2025. Gli Ermellini hanno affrontato nello specifico il caso di una professionista che ha chiesto i danni patrimoniali e non patrimoniali causati dalla negligenza del proprio consulente contabile, responsabile di inadempimenti che hanno costretto la donna a versare all’Erario più di 9000,00 euro.
Consulente inadempiente: sanzioni per più di 9000 euro
Una professionista subisce un accertamento fiscale in relazione all’anno 2009, conclusosi con il pagamento di oltre 9.000 euro in sanzioni. La donna attribuisce il problema alle omissioni del consulente contabile. A causa dello stress provocato dalla vicenda, la ricorrente ritiene di aver sviluppato una grave patologia psichiatrica, diagnosticata come “disturbo dell’adattamento” con perdita significativa della capacità lavorativa. Nel 2015, la ricorrente chiude infatti la propria attività professionale, lamentando una riduzione del reddito di circa il 40%. Chiede quindi il risarcimento di oltre 500.000 euro per i danni patrimoniali e morali subiti.
Danno da “shock tributario”: manca la prova
Il Tribunale di Parma accoglie parzialmente accolto la domanda, riconoscendo però solo un risarcimento di 743,64 euro per il danno patrimoniale legato alle omissioni fiscali. Non ha invece ritenuto provati il danno alla salute e il lucro cessante.Il giudice esclude il nesso di causalità tra la condotta del consulente e la grave patologia psichica, considerando il danno non prevedibile secondo il criterio dell’art. 1225 c.c. L’autorità giudiziaria inoltre respinge la richiesta di una consulenza tecnica medico-legale. In appello, la Corte di Bologna conferma la decisione, dichiarando inammissibile il ricorso per mancanza di elementi nuovi e condividendo la valutazione del Tribunale.
Shock tributario: danno prevedibile?
La ricorrente a questo punto impugnato la sentenza della Corte d’Appello davanti alla Corte di Cassazione. Tra i motivi del ricorso la ricorrente:
- lamenta l’errata applicazione dell’ 1225 c.c in quanto il danno psichico era prevedibile, data la gravità delle omissioni del consulente;
- contesta la non ammissione della CTU medico-legale perché ha impedito una corretta valutazione della patologia e del suo nesso causale con l’inadempimento;
- considera del tutto errata valutazione delle prove perché la documentazione prodotta dimostra un chiaro legame tra l’accertamento fiscale e il danno subito.
Danno psichico non giustificato
La Cassazione respinge il ricorso, sottolineando che la prevedibilità del danno, secondo l’art. 1225 c.c., deve essere valutata in modo astratto. Il danno deve rientrare cioè nella normale alea del contratto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Il giudice di merito, secondo la Cassazione, ha motivato adeguatamente la decisione. L’assenza di risvolti penali nella vicenda fiscale e l’entità modesta delle sanzioni non giustificano un danno psichico così grave.
La Corte conferma anche la discrezionalità del giudice nell’ammettere o rigettare le richieste di consulenze tecniche. Nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto che la documentazione medica prodotta fosse insufficiente a dimostrare il nesso causale. Lo stesso inoltre ha valutato che la patologia denunciata fosse sproporzionata rispetto alla condotta del consulente.
Leggi anche: Danno da shock: riconosciuto dalla Cassazione
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- Cass-1036-2025 (2 MB)
Reddito di cittadinanza indebitamente percepito: niente tenuità del fatto La Cassazione conferma la negazione della particolare tenuità del fatto per il reddito di cittadinanza indebitamente percepito
- Pubblicato da Redazione
Reddito di cittadinanza indebitamente percepito
Niente particolare tenuità del fatto a chi percepisce indebitamente il reddito di cittadinanza per non aver comunicato tempestivamente la nuova occupazione. Così la terza sezione penale della Cassazione con sentenza n. 36936/2024.
La vicenda
Nella vicenda, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Lecco condannando una donna in relazione al reato di cui all’art. 7 comma 2 del DL 4/2019.
L’imputata proponeva ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, di non avere l’obbligo di comunicare all’ente pubblico di riferimento la nuova assunzione, non trattandosi di
una variazione occupazionale, rispetto alla presentazione della domanda del reddito di cittadinanza, atteso che con la nuova assunzione permaneva il pregresso stato di occupata. Peraltro, non sussisterebbe alcun termine per operare la suddetta comunicazione, con conseguente assenza del reato. Conseguentemente, inoltre, la ricorrente non avrebbe avuto consapevolezza della pretesa illiceità del comportamento ascrittole.
Si doleva, altresì, del diniego dell’applicazione della speciale tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p.
La decisione
Gli Ermellini le danno torto.
La Corte d’appello ha, infatti, “congruamente osservato, in maniera condivisibile, come ala luce dell’art. 3 comma 8 del dl .n 4/2019, laddove nell’ultima parte del predetto comma 8
invero prevede che ‘l’avvio dell’attività di lavoro dipendente è comunque comunicato dal lavoratore al’INPS per il tramite della Piattaforma digitale per il Patto per il lavoro di cui all’articolo 6, comma 2, a pena di decadenza dal beneficio, entro trenta giorni dall’inizio dell’attività, ovvero di persona presso i centri per l’impiego’ risulti obbligo di comunicazione e tempestivo del nuovo lavoro dipendente, che abbia generato la rimodulazione della somma percepibile a titolo di reddito di cittadinanza in uno con la consumazione del reato ascritto”. Quanto alla tesi – giuridica – per cui la comunicazione non sarebbe stata necessaria a fronte della persistenza comunque di uno stato di occupata della ricorrente, “occorre innanzitutto richiamare la regola per cui il vizio di motivazione non è configurabile riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime infatti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, come nel caso di specie, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di
correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. ni tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01 Emmanuele)”.
Per il Palazzaccio, “valida è anche la risposta, tutt’altro che mancata, sulla assenza di consapevolezza della violazione”. Si rammenta peraltro, scrivono i giudici, “che in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato d.l.”.
Nulla di fatto, anche con riferimento alla negazione della fattispecie di cui all’art. 131 bis cod. pen., “stante la considerevole somma indebitamente percepita, costituendo, li valore di quanto ingiustamente percepito, una argomentazione di per sé autonoma e adeguata. Le rappresentazioni difensive per cui la donna si sarebbe appropriata di una somma minore attengono al merito della vicenda, e come tali non possono essere sindacate in questa sede” concludono da piazza Cavour.
Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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- Cass-36936-2024 (3 MB)
Tasso di interesse e usura Secondo quali parametri il giudice deve qualificare le operazioni di finanziamento intercorrenti tra privati ai fini della valutazione del tasso di interesse come usurario?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi
Il giudice del merito deve rinvenire i profili di omogeneità tra le categorie individuate dai decreti ministeriali e il rapporto in causa, rispetto ai quali assumono rilievo soprattutto: la natura del prestito, ossia se si tratta di un negozio tra privati, non tra professionisti quali banche o intermediari non bancari, rispetto al quale dovrebbe essere chiarita l’eventuale funzione di scopo del finanziamento tale da integrare la struttura tipica del negozio, ampliandone la causa, nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali (Cass., sez. II, 5 settembre 2024, n. 23866).
Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica di un contratto di finanziamento al fine di valutare se gli interessi applicati allo stesso fossero o meno usurari.
In primo grado il Giudice qualificava il contratto intercorrente tra le parti come operazione di mutuo, sulla base delle categorie individuate dal Ministero del Tesoro per l’individuazione del tasso-soglia, ritenendo pertanto come usurario il tasso di interesse del 10% applicato.
Il Giudice d’appello, viceversa, riteneva valida la clausola di previsione degli interessi convenzionali contenuta all’interno della scrittura privata intercorrente tra le parti; in particolare, il rapporto dedotto in giudizio veniva qualificato come “altro finanziamento a breve, medio/lungo termine”, sulla base dell’assunto che le operazioni di finanziamento chirografario non possono essere qualificate come mutui.
Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea qualificazione della scrittura privata nella categoria “altri finanziamenti” anziché in quella dei contratti di mutuo, con conseguente applicazione di un diverso tasso di riferimento per la determinazione dell’usura.
La Suprema Corte, nella decisione de qua, delinea i criteri sulla base dei quali deve essere effettuata l’operazione di qualificazione del contratto di finanziamento oggetto di causa. In particolare, in caso di dubbio circa la riconducibilità di un’operazione finanziaria all’una o all’altra delle categorie, identificate con Decreto Ministeriale cui si riferisce la rilevazione dei tassi globali medi, l’interprete deve procedere ad individuare i profili di omogeneità che l’operazione stessa presenti rispetto alle diverse tipologie ivi contemplate, attribuendo rilievo, a tal fine, ai richiamati parametri normativi individuati dall’art. 2, comma 2, L. 108/1996, apprezzando, in particolare, quelli, tra essi, che, sul piano logico, meglio giustifichino l’inclusione del prestito preso in esame in questa o in quella classe di operazioni. Pertanto, i parametri da valorizzare sono la natura del prestito nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali.
Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha ritenuto di accogliere il motivo proposto e di rinviare il giudizio rinviato alla medesima Corte d’Appello che, in applicazione dei principi sopra riportati, provvederà alla corretta qualificazione del rapporto negoziale di cui è causa ai fini dell’individuazione del tasso di interesse soglia di riferimento.