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Colpa medica per dimissioni premature Le dimissioni premature del paziente con infarto in corso portano alla responsabilità penale omissiva del medico di pronto soccorso
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Dimissioni premature e responsabilità penale omissiva
Colpa medica per le dimissioni premature e il mancato approfondimento diagnostico che provocano la morte del paziente a distanza di poche ore nella propria abitazione. Scatta la responsabilità per omissione del medico di pronto soccorso. L’alterazione della troponina, in base a quanto previsto dalle linee guide, richiede un monitoraggio per procedere eventualmente a un esame successivo del valore. L’ospedale sovraffollato e l’impossibilità di un intervento tempestivo non rilevano. Queste le conclusioni a cui è giunta la Cassazione nella sentenza n. 41173/2024.
Responsabilità medico di pronto soccorso
La Corte d’Appello assolve l’imputato dal reato di omicidio colposo perché prescritto.
Il PM lo ha ritenuto responsabile del decesso della vittima a causa della sua negligenza, imperizia e imprudenza. Nella sua qualità di medico del pronto soccorso, l’imputato ha infatti ignorato le linee guida da adottare in caso di sospetto infarto, procedendo alle dimissioni premature del paziente.
La Corte ha ritenuto non contestabili le conclusioni dei periti del PM e del GUP. Gli esami di laboratorio hanno rivelato un aumento della troponina, dal valore di riferimento di 14 a 17,42. Le linee guida della società europea di cardiologia del 2011 impongono che il paziente che presenti questi valori sia mantenuto in uno stato d’osservazione con ripetizione degli esami di laboratorio ogni 3 ore. Previsto poi il ricovero in presenza dell’aumento del valore, con esami da ripetere nelle 6/24 ore successive. Tutte queste condotte sono state omesse dal medico. Il paziente infatti, una volta dimesso, è deceduto presso la propria abitazione dopo circa 6 ore e 1/2.
Ipertensione pregressa del paziente: segnale significativo
Per la Corte “la presenza della pregressa patologia del paziente (ipertensione arteriosa) era tale da aggravare i profili di responsabilità del sanitario, che avrebbe dovuto essere maggiormente allertato in ordine alla necessità di un monitoraggio diretto del medesimo secondo quanto suggerito dalle linee guida (con consulenza cardiologica, esame ecocardiografico, test da sforzo, controlli seriali da ECG e ripetizione ogni quattro ore per almeno tre volte degli esami sugli enzimi miocardici); responsabilità, tra l’altro, ritenuta desumibile anche sulla base della prescrizione indicata in sede di dimissioni e con le quali era stato suggerito il mero monitoraggio dei soli valori pressori.”
Quando il paziente è entrato nel pronto soccorso non presentava una percentuale elevata di rischio di morte. Se la crisi cardiaca fosse sopraggiunta in ospedale e fosse stata trattata adeguatamente, il paziente si sarebbe potuto salvare.
La Corte d’Appello ha concluso quindi per la responsabilità penale del medico per condotta omissiva e nesso di causa tra questa e il decesso del paziente. La stessa però ha rilevato che il reato era estinto a causa della prescrizione sopravvenuta e quindi lo ha assolto sotto il profilo della responsabilità penale, ritenendolo responsabile dal punto di vista civilistico.
Errata l’assoluzione per prescrizione del reato
L’imputato nell’impugnare la decisione contesta la negata assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato.” Per l’imputato è errato avere ritenuto che il lieve aumento della troponina fosse collegato alla crisi cardiaca causata dalla crisi ipertensiva. I dati clinici rivelavano l’assenza di una alterazione ecocardiografica per cui escludevano con una probabilità elevata l’infarto del miocardio. Più verosimile che lo stesso si fosse manifestato quando il paziente era a casa. Da escludere quindi il nesso di causa. Il tutto senza trascurare che le condizioni del pronto Soccorso erano tali da non poter garantire un’adeguata e rapida assistenza. L’evento letale pertanto si sarebbe manifestato comunque.
Colpa medica per omissione
Per la Cassazione però il ricorso è del tutto inammissibile e l’unico motivo sollevato del tutto infondato.
Dopo aver analizzato la giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica la Cassazione ribadisce che: “in tema di responsabilità del sanitario per omissione, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l’effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (…) conseguendone che l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’ipotesi circa il sicuro effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili.”
Nesso di causa tra dimissioni premature e decesso
I giudici di merito hanno effettuato delle valutazioni inattaccabili e fondate sul sapere scientifico. Dalle prove è emerso che la patologia che ha condotto all’esito letale si stava sviluppando nel momento in cui è intervenuto l’imputato. Se il medico avesse seguito il percorso diagnostico corretto, sottoponendo il paziente a un elettrocardiogramma e alla ripetizione del dosaggio della troponina, la diagnosi si sarebbe rivelata rapida e corretta. Questa condizione avrebbe permesso di intervenire repentinamente ed efficacemente. L’evento sarebbe stato scongiurato con una probabilità prossima alla certezza. Per la Cassazione i Giudici di merito sono giunti pertanto a una valutazione corretta, aderente e rispettosa ai principi sanciti dalla giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica. Sussiste infatti il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e la morte del paziente in base al criterio della probabilità logica calato nel caso concreto.
Leggi anche: Rifiuto ricovero: il medico è libero se ha informato la paziente
Allegati
- Cass-41173-2024 (1) (12 MB)
Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno Il rifiuto ingiustificato del paziente di un intervento emendativo di un errore medico configura un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi
Il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento medico, ma se il rifiuto è ingiustificato, perché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici, può integrare un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c, ove emerga che il completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente compiutamente consentito (Cass., sez. III, 11 dicembre 2023, n. 34395 (rifiuto ingiustificato del paziente).
La decisione in commento si pone in frontale contrasto con i precedenti della Cassazione, i quali hanno sostenuto che il rifiuto del paziente di sottoporsi ad un trattamento medico non può considerarsi una condotta idonea a ridurre il quantum del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.
Funzionale all’attribuzione della responsabilità civile è il nesso di causalità nella sua doppia veste di causalità materiale e giuridica:
- la prima necessaria per stabilire se vi sia responsabilità e a quale condotta vada imputata;
- la seconda necessaria per delineare l’area del danno risarcibile e determinare la misura del risarcimento.
Tale distinzione assume notevole peso in particolar modo nell’indagine su eventi ad eziologia multifattoriale: in conseguenza della infrazionabilità del nesso eziologico, coerente con l’orientamento maggioritario della Cassazione che non aderisce al modello nord-americano della causalità proporzionale (così, tra gli altri precedenti, Cass. 21 luglio 2011, n. 15991), l’accertamento di questo si risolve nella dicotomia tra sussistenza ed insussistenza.
L’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è indirettamente confermata dall’art. 1227 c.c., che circoscrivendo la riduzione di responsabilità al solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, esclude la frazionabilità nel caso in cui la condotta del responsabile concorra con cause naturali o condotte non colpevoli.
La materia della responsabilità medica è tipicamente teatro di eventi dall’eziologia complessa. Qui, in virtù del nuovo regime di responsabilità a doppio binario introdotto dalla L. 22 dicembre 2017, n. 219, l’istituto di cui all’art. 1227 c.c. trova rilevanza sia nel caso di responsabilità contrattuale tipico del rapporto tra paziente e struttura sanitaria sia, in forza dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c., in quello di responsabilità extracontrattuale che interviene tra il primo e l’esercente la professione sanitaria.
Il caso concretamente oggetto della pronuncia in commento ha dato l’occasione alla Cassazione per esprimersi nuovamente sulla possibilità di considerare il rifiuto del paziente di sottoporsi a un trattamento medico rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c. Questo presuppone che l’evento dannoso sia interamente ascrivibile alla responsabilità del debitore fungendo da criterio selettivo del danno risarcibile: si escludono i danni che il creditore avrebbe potuto evitare attraverso una condotta diligente.
L’analisi, rispetto al primo comma del medesimo articolo, si sposta pertanto sul piano della causalità giuridica, sul presupposto che il danno che taluno arreca a sé stesso non può essere traslato sull’autore della causa concorrente. Altra lettura individua in questa norma una portata causalistica, incentrata sull’esclusione dall’area del danno risarcibile le conseguenze non immediatamente e direttamente riconducibili alla condotta del danneggiante sulla base del fatto che la condotta del danneggiato interromperebbe il nesso di causalità giuridica già innescato, viene preferita una lettura solidaristica.
La tesi prevalente reputa, infatti, che alla regolazione della causalità sia esaustivamente demandato l’art. 1223 c.c. L’art. 1227, comma 2, va infatti letto quale norma comportamentale che addossa un dovere di autoresponsabilità al creditore. Alla luce del principio solidaristico che permea il Codice Civile ove letto attraverso il filtro dei dettami costituzionali si sancisce una regola etico-giuridica di condotta che impone doveri comportamentali ex art. 1176 c.c. anche al creditore. Così non si risarcisce il danno che sarebbe stato evitabile attraverso una condotta doverosa di quest’ultimo.
Di questo aspetto la Corte si è già occupata in un intervento del 2020 (Cass. 15 gennaio 2020, n. 515). In tale sede la Cassazione ha ricordato che il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche, sia per motivi religiosi che per altra natura non può essere considerato un fattore anomalo e imprevedibile ma è espressione di un diritto di rango costituzionale.
Sul punto, tale pronuncia ribadisce l’orientamento in tema: nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza consenso e non può essere configurato alcun obbligo a carico della vittima di sottoporsi al trattamento sanitario in quanto si tratterebbe di incidere surrettiziamente sull’intensità e sulla qualità del pieno riconoscimento del diritto di un soggetto di rifiutare un trattamento sanitario.
Il rifiuto ingiustificato del paziente non è quindi inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore previsto dall’art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227, comma 2, c.c., soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (così anche Cass. 5 luglio 2007, n. 15231; Cass. 10 maggio 2001, n. 6502). In sostanza, i danni derivanti dalla condotta pregiudizievole del medico che il paziente abbia omesso di mitigare mediante un trattamento sanitario non sono da considerarsi “danni evitabili” secondo quanto disposto dall’art. 1227, comma 2, c.c.
La vicenda di cui si occupa la Cassazione nella sentenza in commento trae origine dalla domanda di risarcimento derivante da un intervento chirurgico negligente dal quale era poi scaturito il rifiuto del paziente-creditore di un ulteriore trattamento.
In questa occasione la Corte, in contrasto con i precedenti sopra citati, ammette che dal rifiuto del paziente di sottoporsi a trattamenti sanitari possano derivare conseguenze sul piano risarcitorio. Recuperando il nucleo centrale del principio solidaristico, la Cassazione concepisce l’art. 1227, comma 2 c.c. come un modo per ripartire i costi dell’esercizio del diritto di autodeterminazione del creditore. Non si tratta, infatti, di sanzionare l’esercizio di un diritto quanto di impedire che dei danni conseguenti a questo possa rispondere un soggetto che, effettivamente, non li ha cagionati. Attraverso il riferimento al rifiuto “ingiustificato”, poi, si introduce la necessità di un vaglio in concreto sulle ragioni del rifiuto dell’attività medica, tenendo in considerazione le relazioni tra i rischi derivanti dall’intervento e quelli derivanti dalla non sottoposizione allo stesso. È qui che si inserisce la valutazione (e la prova) sulla probabilità che l’intervento non voluto fosse determinante per l’evoluzione in senso migliorativo delle condizioni di salute del danneggiato e che non rischiasse di introdurre nel quadro clinico ulteriori e inaspettati pericoli.
Così la pronuncia in commento armonizza, nell’ambito dell’art. 1227, comma 2 c.c., la lettura solidaristica attraverso l’aggancio al principio di solidarietà e buona fede nel sindacato sulle ragioni del rifiuto, con quella causalistica mediante il rinvio al giudizio controfattuale ipotetico sul peso che l’intervento medico non accettato avrebbe avuto sul decorso causale che ha portato alle conseguenze dannose di cui il paziente-creditore si duole.
Mentire sul contributo unificato: cosa si rischia Mentire sul reddito per pagare un contributo unificato inferiore integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Reato dichiarare il falso per pagare di meno
Mentire sul reddito percepito per pagare una cifra inferiore di contributo unificato configura il delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato. In questo caso l’agente commette il reato previsto dall’articolo 316 ter del codice penale e non il reato di falsità ideologica di cui all’articolo 483 c.p. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 40872/2024.
Falsità ideologica mentire sul reddito
La Corte di appello assolve l’imputata per la particolare tenuità del fatto in relazione al reato di falsità ideologica commesso dal privato in un atto pubblico di cui all’art. 483 c.p.
La donna, per pagare un contributo unificato inferiore a quello previsto per legge e dovuto in relazione a varie controversie di lavoro avviate, ha dichiarato infatti un reddito inferiore rispetto a quello che successivamente è stato accertato.
Reato ex art. 316 ter c.p.
La donna nel ricorrere in Cassazione contesta però il reato ascrittole. La sua condotta integrerebbe il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316 ter c.p, che assorbe il delitto di falso, come chiarito dalla sentenza “Carchivi”.
Per l’imputata dichiarare un reddito inferiore per ottenere un provvedimento di esenzione dal pagamento di una somma dovuta allo Stato equivale a conferire una somma di denaro a titolo di contributo. Anche in quest’ultimo caso infatti, il dichiarante ottiene un indebito vantaggio in danno della società.
Nel caso di specie tuttavia la soglia di punibilità prevista per il reato di indebita percezione non è stata superata. Il vantaggio economico che la stessa ha ricavato di soli 43,00 euro, pari al risparmio sul contributo unificato dovuto.
Vantaggio economico in danno della società
La Cassazione accoglie il ricorso, perché fondato.
La sentenza Carchivi richiamata dall’imputata ha chiarito infatti che “un fatto astrattamente riconducibile al delitto di quell’art. 483 cod. pen è assorbito in quello di cui all’articolo 316 ter del medesimo codice quando la dichiarazione falsa è finalizzata ad ottenere un indebita erogazione pubblica.”
Questo perché il reato punito dall’articolo 316 ter c.p si consuma in presenza di una falsa dichiarazione rilevante ai sensi dell’articolo 483 c.p o con l’uso di un atto falso.
Solo i reati di cui agli articoli 483 c.p e 489 c.p restano assorbiti dall’articolo 316 ter c.p, che concorre invece con altri diritti di falso commessi eventualmente per ottenere erogazioni indebite.
La successiva sentenza “Pizzuto” è giunta alle stesse conclusioni. La stessa ha infatti chiarito che “integra il reato di indebita percezione di erogazione a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per l’esenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere (…)”.
In questo modo si realizza in effetti un’erogazione ai danni dello Stato, anche in assenza di un esborso, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico a carico della comunità.
Deve quindi affermarsi, nel rispetto della stessa ratio, il principio per il quale il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si configura anche quando “la falsa attestazione sulle condizioni reddituali è volta a ottenere l’esenzione dal pagamento del contributo edificato.” Questa esenzione permette infatti al soggetto dichiarante di beneficiare di un vantaggio economico in danno della collettività.
Leggi anche: Contributo unificato: cos’è e quando si paga
Allegati
- Cass-40872-2024 (2 MB)
Messa alla prova e domiciliari sono compatibili I due istituti, chiarisce la Cassazione, possono coesistere ed anzi ammesse tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni
- Pubblicato da Redazione
Messa alla prova e domiciliari
La messa alla prova non è impedita dalla mera circostanza che la persona sia ai domiciliari, in quanto le due misure in linea di massima sono compatibili. Questo in sintesi quanto affermato dalla prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41185/2024.
La vicenda
Nella vicenda giunta all’attenzione della S.C., un detenuto era autorizzato dal magistrato di sorveglianza di Catania ad assentarsi dal domicilio, due giorni a settimana, per svolgere, in relazione ad un processo penale pendente a suo carico, il programma di messa alla prova.
In costanza di esperimento sopraggiungeva il provvedimento adottato d’ufficio, con il quale il magistrato di sorveglianza dava atto della diversità ontologica esistente tra la detenzione domiciliare e la sospensione del procedimento con messa alla prova, riteneva l’impossibilità di applicazione congiunta dei due regimi (dovendo il secondo essere postergato alla conclusione del primo) e revocava le autorizzazioni già concesse.
L’uomo, perciò, ricorreva innanzi al Palazzaccio con il ministero del suo difensore di fiducia. Nell’unico motivo deduceva l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, e processuale penale, sostenendo non esservi alcuna rigida preclusione alla concessione della messa alla prova in pendenza di una misura alternativa alla detenzione e rimarcando l’assenza di circostanze sopravvenute, ostative al mantenimento delle autorizzazioni già concesse.
Presupposti della messa alla prova
La Cassazione concorda. “L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova,
esteso dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, agli imputati maggiorenni – spiegano infatti i giudici di legittimità – si caratterizza quale modalità alternativa di definizione del procedimento penale, attivabile nella fase delle indagini preliminari o nei prodromi dell’udienza preliminare o del giudizio, mediante la quale è possibile pervenire, in presenza di determinati presupposti normativi, ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato all’esito di un periodo di prova, destinato a saggiare l’avvenuto reinserimento sociale del condannato”.
Si tratta, aggiungono, “di un meccanismo che, su base consensuale e in funzione della riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, innesta nel procedimento una vera e propria fase incidentale ni cui si svolge l’esperimento trattamentale, il cui esito positivo determina l’effetto estintivo”.
Portata rieducativa e afflittiva
L’istituto riveste una portata rieducativa e afflittiva al tempo stesso, in quanto l’esperimento è accompagnato, tra l’altro, dall’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, nonché dall’imposizione di prescrizioni, concordate all’atto dell’ammissione al beneficio e modulate sullo schema dell’affidamento in prova al servizio sociale, incidenti in maniera significativa, nel corso del procedimento penale, sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto (cfr. Cass. Sez. U, n. 14840 del 27/10/2022).
L’art. 298 cod. proc. pen. regola il concorso di titoli esecutivi e misure cautelari processuali.
Tale disposizione, nel suo comma 1, risolve l’interferenza tra ordine di carcerazione e cautela processuale, accordando rilievo poziore al primo, salvo che gli effetti della misura cautelare disposta siano compatibili con l’espiazione della pena.
“In base al suo comma 2, è da ritenere viceversa possibile, in linea di principio – proseguono i giudici – la contestuale esecuzione della misura alternativa alla detenzione e di una misura cautelare, dovendosi poi solo verificare, in concreto, avuto riguardo alle limitazioni connaturali alle due misure anzidette, l’effettiva compatibilità fra l’una e l’altra, nel rispetto, dalla legge ritenuto preminente, della misura cautelare”.
Pertanto, “la natura di misura endoprocessuale, sostanzialmente limitatrice della libertà personale, che, come osservato, deve essere riconosciuta alla messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen., rende analogicamente applicabile l’art. 298, comma 2, cod. proc. pen.”
La coesistenza di una misura alternativa alla detenzione, anche restrittivamente conformata, quale la detenzione domiciliare, con il regime della messa alla prova, anteriormente o successivamente disposta, “non solo, dunque, non è da escludere in linea di principio, ma deve essere ammessa tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni”.
Le autorizzazioni in costanza di detenzione domiciliare
In materia di detenzione domiciliare, spiegano infine dal Palazzaccio, “il condannato può essere autorizzato a lasciare il domicilio non solo per il soddisfacimento delle proprie indispensabili esigenze di vita, o per svolgere l’attività lavorativa necessaria per il sostentamento, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ma per ogni diversa esigenza connessa agli interventi del servizio sociale, anche relativi ad una procedura giudiziaria diversa da quella esecutiva in atto, o, più in generale, per altre finalità di giustizia penale; le prescrizioni della detenzione domiciliare possono essere, a tal fine, sempre modificate dal magistrato di sorveglianza, come consentito dall’art. 47-ter, comma 4, Ord. pen.”.
Il criterio, dunque, che deve orientare la discrezionalità di quest’ultimo organo giudiziario, e che funge da limite esclusivo alla concessione di tali autorizzazioni, “è che quest’ultima non alimenti realmente il pericolo che il condannato commetta, suo tramite, altri reati, essendo la detenzione domiciliare costruita sul presupposto che la misura risulti idonea a scongiurare la recidiva delittuosa”.
La decisione
Pertanto, il provvedimento impugnato non è conforme agli esposti principi di diritto, poichè muove dal presupposto errato dell’ontologica inconciliabilità tra le misure giudiziarie di causa, e deve essere annullato senza rinvio.
Allegati
- Cass-41185-2024 (4 MB)
Matrimonio per prova: sì della Cassazione Il matrimonio per “prova” non produce un danno ingiusto meritevole di risarcimento del danno: lo afferma la Cassazione
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Matrimonio per “prova”: no al danno ingiusto
La Cassazione ammette il matrimonio per “prova”. Lo stesso “non rappresenta il fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l’omessa comunicazione da parte di uno dei coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva”. Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 28390/2024.
Riserva mentale: matrimonio nullo per il diritto ecclesiastico
Una coppia di coniugi si scontra in Tribunale. La moglie, dopo sei mesi dalle nozze avvia una causa presso il Tribunale ecclesiastico per ottenere la nullità del matrimonio. La donna afferma di non aver mai creduto nella indissolubilità del legame matrimoniale. La stessa si è sposata “per prova”. Il Tribunale ecclesiastico dichiara nullo il matrimonio con sentenza. In seguito la donna avvia diversi procedimenti nei confronti del marito, compresi un procedimento penale e la separazione, opponendosi alla richiesta di dividere i beni in comunione e di divorziare.
Risarcimento del danno per il matrimonio per “prova”
Per tutte le ragioni suddette l’uomo agisce in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali provocati dalla condotta della moglie. Il Tribunale però respinge la domanda e condanna l’uomo per responsabilità aggravata. Questa decisione viene confermata anche in sede d’appello. La questione giunge infine in Cassazione.
Il matrimonio per prova non produce un danno ingiusto
La Cassazione nel rigettare il ricorso precisa che nel caso di specie manca un comportamento produttivo di un danno ingiusto o in grado di configurare una responsabilità pre-negoziale.
Il ricorrente denuncia, come produttiva di danno, la mancata comunicazione da parte dell’ex moglie, prima della celebrazione del matrimonio, della propria riserva mentale.
Controparte infatti ha affermato di essersi voluta sposare per “prova”. La stessa era incerta sulla possibilità della futura insorgenza di fatti capaci di rendere intollerabile la convivenza. Il Tribunale Ecclesiastico ha dichiarato nullo il matrimonio. In sede civile però la Corte di appello non ha accolto la domanda di riconoscimento della sentenza ecclesiastica. La stessa è contraria all’ordine pubblico “derivante dalla necessità di protezione dell’affidamento incolpevole del coniuge ignaro della riserva mentale, la quale è estranea al regime della nullità del matrimonio previsto dall’ordinamento civile.”
Ed è proprio l’assenza di una nullità rilevante per l’ordinamento civile a sgombrare il campo dalla responsabilità dell’ex moglie in malafede.
La presenza di un dubbio tale da spingere la donna a contrarre matrimonio per “prova” non genera una responsabilità risarcitoria a carico della stessa.
Ogni coniuge ha il diritto di separarsi e di divorziare
La Corte di legittimità ricorda che la SU n. 500/1999 hanno stabilito che “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente.”
Alla luce di questo principio gli Ermellini ricordano che la libertà matrimoniale è un diritto della personalità sancito dall’articolo 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Nel vigente diritto di famiglia ogni coniuge ha il diritto, a prescindere dalla volontà o dalle colpe dell’altro, di separarsi e di divorziare. In questo modo attua un diritto individuale di libertà da ricondurre all’articolo 2 della Costituzione.
“(…) Affinché tale libertà non sia compromessa dall’incombenza di una conseguenza come la responsabilità risarcitoria derivante dall’inottemperanza ad un dovere giuridico, la comunicazione in discorso, in quanto relativa alla sfera personale affettiva, può comportare esclusivamente un dovere morale o sociale. Alla luce della libertà della scelta matrimoniale non emergono, dalla mancata comunicazione dello stato d’animo di incertezza in questione, un interesse della controparte meritevole di tutela da parte dell’ordinamento con il riconoscimento e rimedio risarcitorio e, dunque, un danno ingiusto.”
Leggi anche: Cambio di sesso: il matrimonio non va annullato
Allegati
- Cass-28390-2024 (4 MB)
Avvocati monocommittenti: la posizione dell’Aiga I giovani avvocati chiedono l'intervento del legislatore sul fenomeno degli avvocati monocommittenti dopo la sentenza della Corte di Cassazione
- Pubblicato da Redazione
Avvocati monocommittenti in legge professionale
“Alla luce della Sentenza n. 28274/2024 pronunciata dalla Cassazione Civile, Sez. Lavoro, con la quale viene confermata la natura autonoma del rapporto degli avvocati monocommittenti, AIGA torna a chiedere con forza un intervento legislativo”. E’ questa la richiesta dei giovani avvocati dopo la pronuncia della Suprema Corte in materia.
Leggi in merito Avvocati sempre autonomi
Avvocato “collaboratore”
“Il fenomeno dell’avvocato “collaboratore” in regime di monocommittenza, che investe soprattutto la giovane avvocatura, rende necessaria l’individuazione di criteri affinché, da un lato, non venga intaccata la natura libero professionale dell’avvocato, ben distinta da quella del lavoratore subordinato. Dall’altro si evitino storture tali da esporre ad un eccesso di incertezze l’avvocato monocommittente, al quale spesso vengono richiesti impegni stringenti verso lo studio presso cui opera, con un elevato carico di lavoro” afferma in una nota istituzionale, il presidente dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati, Carlo Foglieni.
Le proposte avanzate al Congresso Nazionale Forense
“Durante il Congresso Nazionale Forense dello scorso dicembre, AIGA ha avanzato una serie di proposte, tutte approvate dall’Assise, che permetterebbe di disciplinare al meglio questa emergenza” prosegue l’Aiga.
Tra queste si ricordano: l’obbligo della forma scritta del contratto di prestazione d’opera intellettuale, un “compenso minimo inderogabile”, oltre ad una serie di garanzie e diritti a favore dei colleghi monocommittenti. Ad esempio, rimborso spese per la formazione, conseguimento del titolo di specialista e per la polizza RC professionale; obbligo di preavviso per l’esercizio di recesso e previsione di un’indennità sostitutiva del preavviso; divieto di recesso in caso di gravidanza, adozione, malattia o infortunio.
Le richieste dell’AIGA
Da qui la richiesta dei giovani avvocati affinchè “queste proposte tornino sul tavolo del Consiglio Nazionale Forense per essere inserite nella Legge professionale di prossima attuazione”. Solo così, conclude l’Aiga, “si potranno finalmente dare le adeguate garanzie e lo sperato riconoscimento ad una categoria di professionisti collaboratori, sinora di fatto priva di tutela alcuna”.
Avvocati sempre autonomi Avvocati sempre lavoratori autonomi anche se operano all’interno di studi associati con vincoli orari e regole di organizzazione e coordinamento
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Prestazioni avvocato studio associato: natura autonoma
Avvocati sempre autonomi, anche se operano in via esclusiva all’interno di uno studio associato e seguono le regole necessarie a coordinare e organizzare il lavoro di tutti. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 28274/2024.
Natura subordinata prestazioni avvocato
Una avvocata agisce in giudizio per ottenere il riconoscimento della natura subordinata del proprio lavoro, svolto all’interno di uno studio legale associato, con tutte le conseguenze di legge. I giudici di primo e di secondo grado giungono alla medesima conclusione. Il rapporto di lavoro nell’ambito di una prestazioni a contenuto professionale, ha natura autonoma.
Avvocati lavoratori autonomi?
La legale impugna la decisione in sede di Cassazione. Per la ricorrente la Corte d’appello ha negato la natura di lavoro subordinato sulla base di due elementi. Il primo è l’assenza di soggezione della ricorrente a un potere di conformazione esercitato dal socio di riferimento dello Studio associato, in relazione al merito contenutistico della sue prestazioni professionali. Il secondo è la sussistenza di un ambito di autoregolazione dell’orario di lavoro e delle assenze per le vacanze. Per la ricorrente la Corte ha trascurato il potere di direzione e quello conformativo del contenuto dell’attività intellettuale richiesta.
Studi associati: avvocati lavoratori autonomi
Nel rigettare il ricorso la Corte di Cassazione precisa che la questione giuridica da risolvere riguarda la qualificazione autonoma o subordinata dell’attività professionale svolta dalla professionista in uno Studio associato. Trattasi nello specifico di uno Studio di grandi dimensioni in cui operano avvocati associati e non associati, come la ricorrente.
Gli Ermellini ricordano di essersi già occupati in diverse occasioni di questa tematica e di aver chiarito che: “la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero- organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui”.
Orari ed esclusiva non rendono subordinato il rapporto
In diverse pronunce gli Ermellini hanno chiarito che le prestazioni professionali che vengono svolte dall’avvocato, per loro natura, non richiedono l’esercizio di un potere gerarchico, che si manifesti in ordini specifici e tipici del potere disciplinare.
La fissazione di un orario di lavoro ed eventuali controlli sull’operato non sono sintomatici del vincolo della subordinazione, se non si traducono nell’espressione del potere conformativo sul contenuto della prestazione da parte del datore.
La Corte di merito ha rilevato correttamente, dopo un’approfondita indagine sulle modalità di svolgimento del lavoro, che la ricorrente ha svolto l’attività di avvocato in modo libero, autonomo e del tutto indipendente, pur in presenza di regole necessarie a coordinare la sua attività con quella dello Studio. Essa ha rilevato inoltre che lo studio in cui la ricorrente era inserita è un’associazione professionale composta da 50 avvocati, 296 professionisti iscritti a vari albi e 95 dipendenti a supporto. L’autorità di secondo grado ha esaminato il regolamento interno e i documenti che disciplinano i vari aspetti dello studio e ha rilevato che i poteri decisionali non sono di spettanza esclusiva dei soci.
Agevolazioni e prerogative in cambio di limitazioni
All’intero di questo Studio il singolo avvocato, in cambio di qualche limitazione, beneficia di agevolazioni e prerogative. Le regole organizzative sono previste solo per gestire la complessità collegata al numero dei professionisti e al tipo di clientela.
Per quanto riguarda le ferie, i singoli professionisti si limitano a segnalare le singole esigenze per consentire a tutti di godere di un periodo di riposo senza lasciare scoperto lo studio. Anche il fisso mensile non è idoneo a inquadrare il rapporto come subordinato. Ogni avvocato infatti partecipa anche al ricavato delle pratiche che procura, tipico aspetto della libera professionale.
L’obbligo di esclusiva infine è previsto solo per evitare conflitti di interesse che potrebbero insorgere se a ogni professionista fosse consentita la gestione di una clientela propria.
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- Cass. n. 28274-2024 (1) (5 MB)
Stalking il GPS sull’auto dell’ex moglie GPS sull’auto della ex moglie e una serie di condotte vessatorie e persecutorie integrano il reato di stalking
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Reato di stalking
Stalking il GPS sull’auto della moglie posizionato per monitorarne tutti i movimenti, accompagnato da una serie di condotte vessatorie, offensive e accusatorie. La Cassazione non si fa convincere dalla versione del marito, quando afferma che il GPS è stato posizionato all’interno dell’auto da un investigatore privato da lui incaricato per dimostrare l’infedeltà della moglie ai fini dell’addebito della separazione. Questo quanto emerge dalla sentenza degli Ermellini n. 40504/2024.
Commette stalking il marito che perseguita l’ex moglie
La Corte d’Appello accoglie l’impugnazione del pubblico ministero e condanna a un anno di reclusione l’imputato per il reato di stalking aggravato ai danni della ex moglie. L’imputato avrebbe messo in atto nei confronti della donna una vera campagna persecutoria. Pedinamenti, offese in presenza di estranei, messaggi telefonici e telefonate in cui la accusava di tradimento. L’uomo inoltre avrebbe posizionato un GPS all’interno dell’abitacolo della donna per poterne monitorare gli spostamenti e le avrebbe danneggiato l’auto con un oggetto appuntito.
Manca il nesso di causa tra condotte e ansia della vittima
L’imputato impugna la decisione in sede di Cassazione e nel terzo motivo contesta l’erronea applicazione dell’art. 612 bis c.p perché manca la prova del nesso di causa tra le condotte ascritte e lo stato d’ansia che la persona offesa ha lamentato. In questo motivo l’imputato precisa inoltre che il GPS è stato collocato all’interno dell’auto della ex moglie da un investigatore privato per finalità collegate all’addebito della separazione. La condotta non rientrerebbe quindi tra quelle contestate e finalizzate al compimento di atti persecutori.
Responsabile di stalking il marito che posiziona il GPS sull’auto della ex
La Corte di Cassazione ritiene l’intero ricorso infondato e quindi non meritevole di accoglimento. Il primo motivo è inammissibile il secondo del tutto infondato. Il terzo è inammissibile perché è finalizzato ad ottenere una rivalutazione delle prove.
Dimostrati ansia e cambiamento abitudini di vita
La Corte d’Appello ha spiegato in maniera coerente e completa la responsabilità dell’imputato per il reato di stalking, ritenendolo colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. L’uomo si è reso responsabile “di un sistematico e ossessivo agire persecutorio ai danni della ex moglie, sfociato pedinamenti, insulti gravi e minacce di morte di salute oltreché in intrusione significative della sfera personale.” L’uomo è arrivato addirittura ad installare un dispositivo di localizzazione “GPS” nell’autovettura della donna. Tutte queste condotte, considerate nel loro complesso, risultano idonee a causare uno stato d’ansia e di paura e a provocare la modificazione di numerose abitudini di vita quotidiana. La donna infatti non usciva più da sola, si era munita di uno spray al peperoncino e di un allarme con S.O.S. Il tentativo del ricorrente di far passare i comportamenti vessatori come una conseguenza della conflittualità insorta nel corso della separazione rende il ricorso inammissibile proprio perché in questo modo il ricorrente chiede di rivalutare i fatti sotto un’altra ottica.
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- Cass-40504-2024 (7 MB)
Delitto di estorsione e minaccia di adire vie legali Può integrare il delitto di estorsione di cui all’art. 629 c.p. la condotta di chi minaccia di adire le vie legali?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini
Integra gli estremi del delitto di estorsione la minaccia di prospettare azioni giudiziarie al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute, qualora l’agente ne sia consapevole, potendosi individuare il male ingiusto prospettato nella pretestuosità della richiesta. La minaccia di adire le vie legali, pur avendo un’esteriore apparenza di legalità, può, infatti, integrare l’elemento costitutivo del delitto di estorsione di cui all’art. 629 c.p. quando sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto, ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia (Cass., sez. II, 13 settembre 2024, n. 34636).
Nel caso in esame la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la rilevanza penale delle condotte funzionali ad ottenere un profitto ingiusto mosse attraverso la prospettazione – o la concreta promozione – di azioni giudiziarie.
La Corte d’Appello confermava la condanna per il reato di estorsione consumata richiamando, tuttavia, principi di diritto relativi alla minaccia di adire le vie legali e non alla strumentalizzazione di azioni giudiziarie già intentate per ottenere – in via stragiudiziale – un profitto ingiusto.
Veniva, pertanto, proposto ricorso per Cassazione contestando la mancanza sia dell’elemento oggettivo, ovvero la sussistenza di un’azione costrittiva e di un ingiusto profitto, che di quello soggettivo relativamente al reato contestato.
Il Supremo Collegio, nella decisione de qua, ha preliminarmente ricordato che l’estorsione può essere integrata se la promozione di azioni giudiziarie costituisce lo strumento utilizzato per costringere il convenuto ad accettare accordi stragiudiziali palesemente ingiusti, che non sarebbero mai stati considerati, se lo stesso non fosse stato costretto a resistere in un giudizio attivato in modo temerario.
Ha, altresì precisato che la promozione di azioni temerarie non configura di per sé un tentativo di estorsione. L’estorsione, sia in forma tentata, che consumata, può ritenersi integrata solo qualora l’azione promossa costituisca il mezzo per ottenere un profitto ingiusto “fuori dal giudizio”, essendo funzionale a costringere il convenuto, fiaccandone le resistenze economiche e morali, a consegnare somme a titolo formalmente “transattivo”, ma invero, prive di qualunque giustificazione, e, dunque, ingiuste.
Nel caso di specie, la Cassazione rileva come l’imputato, facendo leva sulla pendenza del giudizio civile, esercitava pressioni minatorie funzionali a costringere la vittima a firmare un accordo stragiudiziale, così ottenendo la somma – non dovuta – di ventimila euro.
Tale condotta ha indubbia capacità coercitiva ed integra l’azione minatoria necessaria per configurare il delitto contestato.
Quanto alle doglianze in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo, le stesse non sono ammissibili in quanto genericamente dirette a negare la sussistenza dell’elemento psicologico ritenuto, invece, sussistente dai giudici di seconde cure, i quali hanno correttamente rilevato la consapevolezza da parte dell’autore del delitto.
Sottolinea, infatti, il Supremo Collegio che in ogni gravame è necessario che l’atto di parte individui il “punto” che intende devolvere alla cognizione del giudice chiamato alla decisione, enucleandolo con puntuale riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, e specificando tanto i motivi di dissenso dalla decisione appellata che l’oggetto della diversa deliberazione sollecitata presso il giudice del gravame (ex multis, Cass., sez. VI, 6 febbraio 2023, n. 13261).
Su tali assunti la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.
Vendita: il giudice non può sostituirsi alla volontà delle parti La Cassazione chiarisce che il giudice deve procedere ad una valutazione sinergica dell'agire delle parti attraverso un'indagine globale e unitaria
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Contratto di vendita
Nel contratto di vendita il giudice non può sostituirsi alla volontà delle parti. Il giudice deve, piuttosto, procedere alla valutazione sinergica del comportamento delle parti, attraverso un’indagine globale e unitaria dell’intero loro agire. Così la seconda sezione civile della Cassazione nell’ordinanza n. 26313/2024 esprimendosi su una vicenda relativa all’inadempimento di un contratto preliminare di vendita immobiliare e all’accertamento della legittimità del conseguente recesso dal contratto di una delle parti.
Il ricorso
Tra i vari motivi contestati innanzi al Palazzaccio c’è la violazione dei consolidati principi di ermeneutica giuridica da parte del giudice che, in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive e di recesso, al fine di stabilire se e quale condotta abbia influito sulla finalità economica complessiva del contratto, statuisca limitando l’indagine all’interesse di una sola parte al solo inadempimento dell’altra e alla sola anteriorità di questo rispetto all’altro inadempimento.
La decisione
Per la Cassazione, i motivi sono fondati. La Corte d’appello ha sì affermato di dover valutare la non
scarsa importanza dell’inadempimento della ricorrente, ma si è limitata a considerare il profilo del mancato pagamento della rata prevista, focalizzando su quest’unico elemento la sua indagine. In tal modo il giudice d’appello non ha considerato che “il giudice non può isolare singole condotte di una delle parti per stabilire se costituiscano motivo di inadempienza a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma deve, invece, procedere ala valutazione sinergica del comportamento di questi ultimi, attraverso un’indagine globale e unitaria dell’intero loro
agire, anche con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell’inadempimento, perché l’unitarietà del rapporto obbligatorio a cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuno non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta di ciascun contraente, ma esige un apprezzamento complessivo” (così Cass. n. 7649/2023).
La Corte d’appello avrebbe dunque dovuto considerare che la ricorrente aveva unicamente chiesto un rinvio del pagamento di una parte del prezzo, profilo che attiene all’esecuzione del contratto (cfr. Cass. n. 525/2020) e si era detta disponibile a versare tale somma entro la data fissata per la conclusione del contratto definitivo.
La sentenza impugnata va pertanto cassata e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Potenza, che dovrà procedere alla valutazione globale del comportamento delle parti sopra indicata.
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- Cass-26313-2024 (822 kB)
Fondo patrimoniale: vale per la famiglia nucleare Il Fondo patrimoniale deve soddisfare i bisogni della famiglia nucleare, è nullo l’atto che non menziona la figlia della coppia beneficiaria
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Fondo patrimoniale
Il fondo patrimoniale può essere costituito anche da un terzo. La sua costituzione però deve essere finalizzata a soddisfare i bisogni della famiglia nucleare. Nell’ipotesi in cui venga costituito per atto tra vivi, richiede l’accettazione dei coniugi per il suo perfezionamento. E’ quindi nullo per mancanza di causa l’atto pubblico con cui i genitori della ex convivente costituiscono un fondo patrimoniale che non menziona la figlia minore della donna e dell’ex convivente. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 27792/2024.
Costituzione di fondo patrimoniale da parte di terzi
I genitori di una giovane donna con atto pubblico costituiscono un fondo patrimoniale. In esso fanno confluire l’immobile di famiglia, di cui la figlia è proprietaria al 50%. L’ex compagno ricorre in giudizio per ottenere la dichiarazione di nullità dell’atto pubblico notarile con cui è stato costituito il fondo. Per l’uomo l’atto è nullo per illiceità della causa o del motivo o per mancanza del soggetto e dell’oggetto.
Il Tribunale però respinge la domanda, ma l’uomo non desiste e ricorre in appello.
La Corte dell’impugnazione questa volta accoglie le doglianze dell’ex compagno. In effetti il tribunale ha respinto il ricorso perché ha ritenuto erroneamente che il fondo fosse stato costituito per fare fronte ai bisogni della famiglia. In realtà nell’atto costitutivo la figlia minore della coppia non è stata menzionata.
Fondo patrimoniale: famiglia nucleare non parentale
La decisione viene impugnata in sede di legittimità. Nella motivazione la Cassazione ricorda come l’accordo con cui si costituisce un fondo patrimoniale rientri tra le convenzioni matrimoniali e che i beni che lo stesso comprende siano vincolati a soddisfare i bisogni della famiglia. La SU 21.658/2009 ha però ulteriormente chiarito che il fondo patrimoniale “non si riferisce alla famiglia c.d. parentale, ma alla famiglia nucleare, che comprende oltre che i coniugi anche i figli legittimi, naturali ed adottivi dei coniugi, minori e maggiorenni non autonomi patrimonialmente.” Il fondo patrimoniale può dunque costituirsi solo a beneficio di tutti i componenti della famiglia nucleare fondata sul matrimonio o sull’unione civile (ex art.1, comma 13, 1.76/2016) e i beneficiari godono di una semplice aspettativa di fatto ai proventi del fondo ed alla destinazione finale dei beni.”
Nullo se non soddisfa i bisogni della famiglia nucleare
Nel caso di specie la Corte d’appello ha accertato che nell’atto costituivo del fondo non era presente alcun riferimento alla figlia minore della coppia. Il fondo quindi non era stato costituito per fare fronte ai bisogni della famiglia nucleare. Le parti dell’atto costitutivo erano solo i genitori della donna e la stessa, ma questa opzione non è contemplata, perché non può essere costituito un fondo patrimoniale per soddisfare i bisogni di due distinte famiglie nucleari. L’unico nucleo dell’atto era quello costituito dai genitori della donna separata e dalla stessa. Per cui era privo di causa il conferimento nel fondo della quota di comproprietà che la donna aveva sulla casa coniugale, in comunione con l’ex convivente.
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- Cass-27792-2024 (1) (3 MB)
Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico La Cassazione rammenta che la reversibilità della pensione sussiste solo se c'è l'elemento della "vivenza a carico"
- Pubblicato da Redazione
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Pensione di reversibilità e vivenza a carico
Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico. Ai fini del diritto, infatti, deve sussistere cioè l’elemento della vivenza a carico. Lo ricorda la Cassazione con l’ordinanza n. 19485/2024.
Pensione di reversibilità negata
Nella vicenda, la Corte d’Appello di Torino accoglieva il gravame proposto da un uomo, avverso la sentenza del Tribunale di Asti che aveva respinto la domanda proposta da quest’ultimo nei confronti dell’Inps, volta a chiedere il pagamento in suo favore della pensione di reversibilità, quale figlio maggiorenne inabile e convivente a carico della madre a far tempo dalla data del decesso, oltre agli arretrati di legge, interessi e rivalutazione monetaria.
Il Tribunale aveva respinto la domanda ritenendo non sufficientemente provato il requisito della vivenza a carico, alla luce del trattamento pensionistico di assistenza che già percepiva (pensione di invalidità e reddito di cittadinanza) che aveva indotto il primo giudice ad escludere che l’uomo dipendesse economicamente dalla madre.
La Corte d’Appello, per quanto d’interesse, ha ritenuto sussistente sia il requisito della “vivenza a carico” della madre da parte del ricorrente, anche per l’assenza di reddito imponibile, che il requisito sanitario.
Il ricorso dell’Inps
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’Inps ricorre per cassazione, lamentando violazione di legge per avere il giudice del gravame riconosciuto il diritto alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito sanitario, nonostante l’espressa eccezione sollevata sul punto dall’Istituto, non sussistendo alcuna presunzione di inabilità lavorativa in capo a chi è stato accertato invalido civile al 100%. Inoltre, l’Inps deduceva l’errore in cui era incorsa la corte territoriale nell’aver riconosciuto il diritto del richiedente alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito della vivenza a carico della madre, benché fosse decaduto dall’onere della prova, senza che il giudice potesse procedere d’ufficio alla acquisizione dei documenti offerti dalla difesa.
La vivenza a carico
Per la Cassazione, il primo motivo è infondato; infatti, la Corte d’Appello motiva sulla sussistenza dell’inabilità lavorativa, quand’anche prendendo spunto dal certificato attestante l’invalidità civile al 100% e l’Istituto previdenziale non censura efficacemente tale accertamento di fatto.
Il secondo e il terzo motivo, invece, che possono essere oggetto di un esame congiunto, sono fondati.
Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, il requisito della “vivenza a carico”, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, “va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile e tale accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito (cfr. Cass. n. 9237/2018)”.
La decisione
Nel caso di specie, il dato valorizzato dalla Corte territoriale del reddito imponibile del ricorrente pari a zero è inconferente a fronte della percezione, da parte dello stesso, dell’importo di euro 800,00 mensili a titolo di pensione di invalidità e di reddito di cittadinanza; in buona sostanza, la Corte d’Appello doveva chiarire perché non erano da considerare sufficienti tali redditi a fronte delle reali esigenze di vita del ricorrente e perché l’intervento di sostegno economico della madre del ricorrente doveva considerarsi effettuato in misura prevalente, a fronte dei sussidi economici che lo stesso già percepiva.
Per cui, in accoglimento del secondo e terzo motivo, la sentenza va cassata e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Torino, affinché, alla luce di quanto sopra esposto, riesamini il merito della controversia.
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- Cass-19485-2024 (686 kB)