giurista risponde

Furto con strappo e rapina Il contegno con cui il reo asporta una res particolarmente aderente al corpo della vittima è sussumibile nella fattispecie di furto con strappo o in quella più grave della rapina?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Il soggetto agente che, con violenza sulla cosa, sottrae un bene strettamente aderente al corpo della persona offesa e se ne impossessa commette il delitto di cui all’art. 628 c.p., indipendentemente dalla volontaria resistenza della vittima o dalle ecchimosi da questa subite, in quanto, per superare la fisiologica opposizione posta dal corpo e conseguire, quindi, il risultato atteso, la violenza sulla cosa si estende necessariamente alla persona e si sviluppa su di essa (Cass., sez. II, 17 ottobre 2024, n. 45589 (Furto con strappo e rapina).

Nel caso di specie i Giudici di legittimità sono stati chiamati a sciogliere i nodi circa la qualificazione di una peculiare fattispecie in cui l’imputato si è reso autore dell’impossessamento di una collana particolarmente stretta al collo di una signora ultrasessantenne e in condizioni di vulnerabilità, in quanto rimasta vittima di tale condotta criminosa all’interno del suo domicilio cui il reo ha avuto accesso mediante artifizi e raggiri.

In sede di giudizio abbreviato il soggetto agente è stato condannato con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Modena, riconosciuto il vincolo della continuazione e, quindi, della medesimezza del disegno criminoso, per il delitto di truffa aggravata e rapina aggravata, sentenza questa che è stata, tra l’altro, confermata dalla Corte d’appello di Bologna.

Contro la decisione del giudice di secondo grado il reo, per mezzo del suo difensore, ha esperito ricorso per cassazione per omessa motivazione e manifesta illogicità della stessa circa alcuni profili dedotti nell’atto di appello.

Il difensore, innanzitutto, ha contestato che il giudice di merito abbia, erroneamente e senza adeguata motivazione, privilegiato la seconda versione dei fatti resa con la querela, quest’ultima successiva all’annotazione della P.G rispetto alla quale risulta contraddittoria.

Infatti, nelle dichiarazioni fornite alla P.G. il giorno in cui si è perfezionato e consumato il reato la persona offesa – per come dedotto nella censura di legittimità – non ha fatto riferimento alcuno alla violenza perpetrata dal reo.

Inoltre, il ricorrente ha lamentato la mancata riqualificazione del fatto in furto con strappo ai sensi dell’art. 624bis c.p.

La violenza eventualmente cagionata dall’imputato – sostiene il difensore – era diretta nei confronti della res senza alcun coinvolgimento della persona offesa, in quanto quest’ultima non opponeva alcuna resistenza all’agire delittuoso.

La seconda sezione penale della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

In particolare, i giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto logica la motivazione della Corte d’appello circa l’accoglimento della seconda versione fornita dalla vittima mediante querela, in quanto risultante più circostanziata e maggiormente attendibile per la maggiore lucidità psicologica caratterizzante la persona offesa.

Inoltre, la Cassazione con il suo arresto ha ribadito il principio di diritto espresso in una sua precedente decisione Cass. pen., sez. II, 3 ottobre 2006, n. 34206, nella quale la linea di demarcazione tra furto con strappo e rapina è stata individuata nella direzione della violenza sprigionata dal soggetto agente.

In particolare, il furto con strappo si configura quando la violenza si rivolge direttamente alla cosa, indipendentemente dai riflessi indiretti e involontari che la vittima possa subire a causa della relazione fisica tra la stessa e il bene posseduto. Per contro, si realizza il delitto di rapina nel momento in cui la violenza è diretta alla persona o si sviluppa sulla medesima e, comunque, anche quando viene esercitata per vincere la sua resistenza attiva (così anche Cass. pen., sez. II, 19 dicembre 2014, n. 2553).

Ciò nonostante, con quest’illuminante sentenza gli Ermellini sono andati oltre e hanno approfondito con un’interessante argomentazione la vexata quaestio circa il confine tra le due tipologie di reato.

Nel caso specifico si è precisato che, quando la cosa che si intende asportare è particolarmente aderente al corpo del possessore, la violenza perpetrata sul bene si estende inevitabilmente anche alla persona (così anche Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2010, n. 41464).

Icasticamente nella fattispecie in questione il soggetto attivo, per raggiungere il risultato criminoso atteso, ha dovuto superare non solo la forza di coesione inerente alla relazione fisica tra possessore e cosa sottratta, ma altresì la materiale opposizione determinata dal corpo della vittima, per cui qui lo strumento con cui si è realizzata la sottrazione non è tanto lo strappo, quanto la violenza stessa (così anche Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2019, n. 16899).

La configurazione della rapina, peraltro, non è ostacolata dalla circostanza che la persona offesa non abbia subito alcuna contusione o lesione, in quanto lo strappo della collana determina un inconfutabile esercizio di energia fisica sul collo della donna che si concretizza, quindi, in una violenza sulla persona, elemento quest’ultimo costitutivo ai sensi dell’art. 628 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Furto con strappo e rapina”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

cane dall'indole diffidente

Cane dall’indole diffidente al guinzaglio anche nell’area dedicata La Cassazione chiarisce che a prescindere da taglia e razza, il cane dall'indole diffidente va tenuto al guinzaglio anche nell'apposita area sgambamento

Cane dall’indole diffidente: guinzaglio obbligatorio

La quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 9620/2025, ha stabilito che anche nelle zone appositamente attrezzate per lo sgambamento, un cane dall’indole diffidente deve essere condotto con guinzaglio e museruola. Questo obbligo si applica indipendentemente dalla razza e/o dalla taglia. Si tratta, infatti, di una regola di prudenza che il proprietario deve rispettare per garantire la sicurezza di persone e animali.

Il caso: responsabilità del proprietario per lesioni colpose

Nel caso esaminato dalla S.C., il Tribunale aveva confermato la condanna della proprietaria di un pitbull per il reato ex art. 590 c.p. per aver cagionato alla vittima, entrata all’interno dell’area cani insieme al suo cucciolo di piccola taglia, lesioni personali colpose.

La condanna era stata motivata dalla mancata adozione di misure di sicurezza per imprudenza, imperizia e negligenza da parte della proprietaria, che, pur consapevole dell’indole diffidente dell’animale, non lo aveva assicurato al guinzaglio né dotato di museruola lasciandolo libero di circolare all’interno dell’area cani.

La donna ricorreva innanzi al Palazzaccio, lamentando che nelle aree appositamente attrezzate, i cani possono essere condotti senza guinzaglio e senza museruola, mentre tali accorgimenti vanno adottati per i cani di indole aggressiva. Da ciò deriva che nessun obbligo giuridico fosse configurabile a suo carico, non essendo certificato che il cane potesse essere definito ex ante come aggressivo, né potendo estendersi le limitazioni previste per gli animali aggressivi a quelli descritti come diffidenti.

La responsabilità del proprietario e le regole di condotta

Tuttavia, la Suprema Corte ha rigettato le argomentazioni della difesa, sottolineando che la natura colposa della condotta del ricorrente, “è da ricondurre all’inosservanza di norme cautelari afferenti al governo e alla conduzione dei cani”. Norme “volte a prevenire, neutralizzare o ridurre i rischi per la pubblica incolumità, specificamente declinate in relazione alle potenzialità lesive dell’animale, con richiamo alla norma di cui all’art. 672 c.p., che sanziona a livello amministrativo l’incauta custodia di animali e che positivizza il generale dovere di diligenza e prudenza che l’ordinamento pone in capo a chiunque abbia il dominio di un animale dotato di capacità lesiva”. Sancendo “l’assunzione di una posizione di garanzia rispetto alla possibilità del verificarsi di eventi dannosi, corredata da una serie di obblighi, divieti e modelli comportamentali la cui violazione determina responsabilità giuridica a vari livelli (amministrativo, civile e penale)”.

Nella sentenza di primo grado si è, con chiarezza, “affermata la violazione di regole di generica prudenza considerando che, in presenza di un altro animale nell’area di sgambamento nonché del relativo accompagnatore, la proprietaria del cane avrebbe dovuto fronteggiare la situazione con maggiore cura e cautela attuando una vigilanza stretta e una presenza dominante sul cane” aggiungono gli Ermellini.

“Il giudice di appello ha, per altro verso, addebitato all’imputata di aver lasciato il cane libero di circolare all’interno dell’area cani nonostante si trattasse di cane di indole da lei stessa definita ‘diffidente’ e nonostante un estraneo avesse manifestato l’intento di avvicinarsi e accarezzarlo”.

La “culpa in vigilando”

In definitiva, per la Cassazione, “la culpa in vigilando del proprietario del cane è stata correttamente identificata quale violazione di una regola cautelare non positivizzata desumibile da una massima di esperienza, legata non tanto alla razza del cane quanto piuttosto alla eventualità che un cane diffidente reagisca in maniera aggressiva all’avvicinamento di terzi estranei”. Si tratta di argomenti coerenti con il principio secondo il quale “in tema di colpa, allorquando risulti ex ante l’inefficacia preventiva delle regole cautelari positivizzate, il gestore del rischio è tenuto a osservare ulteriori regole cautelari non positivizzate, preesistenti alla condotta ed efficaci a prevenire l’evento, individuate alla luce delle conoscenze tecniche scientifiche e delle massime di esperienza (cfr. Cass. n. 32899/2021)”.

Da qui il rigetto delle doglianze avanzate dall’imputata nel ricorso che, tuttavia, viene accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio, annullando la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Roma in diversa persona fisica per nuovo giudizio sul punto.

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danno iatrogeno

Danno iatrogeno Danno iatrogeno: definizione, normativa di riferimento, risarcimento del danno e giurisprudenza rilevante in materia

Cos’è il danno iatrogeno?

Il danno iatrogeno differenziale si verifica quando un paziente subisce un peggioramento delle proprie condizioni di salute a causa di un trattamento sanitario. Questo danno può derivare da errori medici, effetti collaterali non prevedibili o complicazioni post-operatorie. La responsabilità per questo danno può essere attribuita alla struttura sanitaria o al personale medico, qualora vi sia una condotta colposa o negligente.

Normativa di riferimento

Il danno iatrogeno rientra infatti nell’ambito della responsabilità sanitaria disciplinata dalla Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), che stabilisce i criteri di imputabilità della responsabilità medica. In particolare:

  • il medico risponde penalmente solo per colpa grave in caso di imperizia, se ha seguito le linee guida riconosciute;
  • la struttura sanitaria risponde a titolo di responsabilità contrattuale, mentre il medico dipendente ha responsabilità extracontrattuale.

Risarcimento del danno

La liquidazione del danno iatrogeno segue i principi del risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale:

  • Danno biologico: peggioramento della salute del paziente, quantificato attraverso le tabelle di invalidità permanente.
  • Danno patrimoniale: perdita di reddito o aumento delle spese mediche per trattamenti correttivi.
  • Danno morale: sofferenza psicologica del paziente.

Giurisprudenza di rilievo

La giurisprudenza ha fornito importanti chiarimento sul danno iatrogeno differenziale:

Cassazione n. 8851/2017: il danno differenziale si verifica quando il danneggiato richiede il risarcimento esclusivamente per il danno iatrogeno, senza includere l’intero danno subito. In sede di liquidazione, verranno quindi considerati i postumi che il paziente avrebbe comunque riportato anche in caso di un trattamento medico corretto. Il risarcimento del danno iatrogeno differenziale si determina sottraendo dall’importo corrispondente all’invalidità complessiva quello relativo alla percentuale di invalidità che si sarebbe comunque verificata, anche in presenza di un intervento medico eseguito in modo ottimale.

Cassazione n. 26117/2021: in materia di danno differenziale e impatto degli indennizzi Inail nel calcolo del risarcimento la corte ha chiarito che il calcolo del danno differenziale prevede la sottrazione dell’indennizzo INAIL solo se quest’ultimo copre lo stesso pregiudizio per cui si richiede il risarcimento. Se l’indennizzo è erogato sotto forma di rendita, occorre considerare sia i ratei già percepiti sia il valore capitale della rendita futura. Nel caso di danno iatrogeno, ossia l’aggravamento di una lesione preesistente dovuto a negligenza medica, il danno deve essere quantificato economicamente e confrontato con l’indennizzo ricevuto per determinare l’effettivo risarcimento spettante.

 

Leggi anche: Responsabilità medica: la legge Gelli-Bianco

procura speciale

Procura speciale all’avvocato: deve emergere la volontà di patteggiare La Cassazione chiarisce che la procura speciale all'avvocato anche se ampia non prova automaticamente la volontà dell'imputato di patteggiare

Procura speciale avvocato e patteggiamento

La seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 6214/2025, ha chiarito che la procura speciale conferita al difensore non prova automaticamente la volontà dell’imputato di patteggiare.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, il GIP applicava la pena concordata a un imputato, per come proposta dal suo difensore, nel corso delle indagini preliminari. L’imputato, in udienza rendeva dichiarazioni spontanee, sostenendo di non aver prestato il proprio consenso consapevole. Essendo agli arresti domiciliari e non avendo avuto colloqui diretti col difensore, l’uomo dichiarava di non aver mai condiviso l’intenzione di patteggiare.

Il giudice riteneva che la sua dichiarazione non fosse rilevante. L’imputato adiva il Palazzaccio, deducendo che la volontà di accedere al patteggiamento, formulata dal primo avvocato, il cui mandato era stato revocato, era viziata.

La natura personalissima dell’assenso al patteggiamento

Per Gli Ermellini, il ricorso è fondato.

La Corte ha ribadito che, pur essendo l’accordo non ritrattabile una volta concluso, la volontà di patteggiare è un “atto personalissimo”. Al punto che, “nel caso di contestuale presenza in udienza del difensore e dell’imputato che manifestino volontà
diverse circa l’accesso al rito, si è ritenuto che debba prevalere la volontà di quest’ultimo”.

La rilevanza della volontà dell’imputato risulta anche dalla scelta del legislatore di prevedere che, “nell’ipotesi in cui la richiesta di applicazione di pena sia stata avanzata esclusivamente dal procuratore speciale con atto scritto o all’udienza in assenza dell’imputato, il giudice, per accertare la volontarietà della richiesta o del consenso, può disporre la comparizione dell’imputato (art. 446, comma 5, c.p.p.)”.

La decisione

Nel caso in esame, la richiesta di patteggiamento risulta essere stata effettuata
nel corso delle indagini preliminari dal difensore munito di una procura speciale,
strutturata in modo “aspecifico”. La stessa, infatti, era riferita in generale «ad ogni stato e grado del procedimento, compreso quello davanti agli organi di sorveglianza».
Tali caratteristiche, scrivono i giudici, “rendono l’atto non sufficientemente chiaro in ordine al suo valore di ‘delega’ al difensore per definire il processo con il patteggiamento”. E, dunque “per consentire di ritenere che la volontà del ricorrente fosse proprio quella di volere accedere a tale rito alternativo”.
In conclusione, la S.C. ritiene che la struttura della procura, che non risulta specificamente ed esclusivamente diretta a consentire al difensore di concludere il procedimento con l’accesso al rito ex artt. 444 e ss. c.p.p., unitamente alle dichiarazioni rese dal ricorrente, indichino che lo stesso non sia stato posto nelle condizioni di scegliere consapevolmente il rito alternativo.
La sentenza impugnata, pertanto, è annullata senza rinvio.

 

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Falsa testimonianza e timore di subire lesioni La falsa testimonianza determinata dall’altrui minaccia di un danno grave all’incolumità del deponente è scriminata per la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 384 c.p. o, in subordine, dello stato di necessità?

Quesito con risposta a cura di Leonarda di Fonte e Francesco Trimboli

 

In tema di falsa testimonianza, il timore di subire conseguenze pregiudizievoli per la propria vita o incolumità a causa della deposizione non integra la scriminante di cui all’art. 384 c.p, ma potrebbe al più configurare la causa di giustificazione dello stato di necessità, purché siano accertate in concreto dal giudice di merito le condizioni richieste dall’art. 54 c.p. (Cass., sez. VI, 10 dicembre 2024, n. 45261).

Nel caso specifico i Giudici di legittimità sono stati chiamati a decidere sulla configurabilità della scriminante ai sensi dell’art. 384 c.p. e, alternativamente, dello stato di necessità in caso di falsa deposizione indotta dal pericolo di subire ritorsioni sulla propria persona dall’organizzazione criminale di tipo mafioso di cui era membro il destinatario delle dichiarazioni testimoniali.

La fase dibattimentale del giudizio di primo grado era stata omessa, in quanto l’imputato ha chiesto l’ammissione al giudizio abbreviato all’esito del quale era stata pronunciata dal G.u.p sentenza di condanna per il delitto a lui ascritto di falsa testimonianza.

In secondo grado la sentenza di condanna è stata riformata dalla Corte d’appello, la quale ha assolto il reo con la formula “il fatto non costituisce reato”, in quanto l’antigiuridicità era esclusa dalla sussistenza dell’esimente ai sensi dell’art. 384 c.p.

Contro la sentenza di condanna della Corte territoriale il Procuratore generale della Corte medesima ha proposto ricorso per cassazione per due motivi di violazione di legge.

In particolare, il P.G. ha censurato la ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 384 c.p, in quanto nel caso di specie il timore di subire un pregiudizio era ipotetico e supposto e concerneva l’incolumità personale, ossia un bene giuridico differente dalla libertà o dall’onore indicati dalla norma.

Inoltre, ha contestato alla Corte d’appello l’accertamento del difetto dell’elemento psicologico del dolo in capo al reo.

La sesta Sezione della Corte di cassazione con la decisione in questione ha accolto il ricorso e, conseguentemente, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio degli atti ad altra sezione territoriale per un nuovo giudizio sul punto.

Innanzitutto, i giudici di legittimità hanno ribadito quanto enunciato in una loro recente sentenza Cass. pen., sez. VI, 20 giugno 2024, n. 27411, secondo cui la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. dev’essere esclusa quando il teste rende la falsa testimonianza per il timore di un nocumento successivo alla vita o all’incolumità propria, circostanza nella quale piuttosto può configurarsi lo stato di necessità.

I Giudici di legittimità, quindi, si sono soffermati sul requisito dell’attualità del pericolo di cui all’art. 54 c.p., il quale sussiste quando, durante la condotta criminosa del reo, ci sia la ragionevole minaccia di una causa prossima e imminente del danno accertata alla luce di una serie di circostanze concrete, tra cui circostanze di tempo e di luogo, tipo di danno temuto e la sua possibile prevenzione (così anche Cass., sez. I, 2 giugno 1988, n. 4903).

Tra l’altro, lo stato di necessità può ricorrere anche quando è determinato dall’altrui minaccia ai sensi dell’art. 54, comma 3 c.p., in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità, con il richiamo di un precedente arresto Cass. pen., sez. III, 2 febbraio 2022, n. 15654, specifica che il pericolo attuale di un danno grave alla persona non dev’essere necessariamente imminente, ma può essere altresì “perdurante”, per cui il pregiudizio minacciato può verificarsi anche in un prossimo futuro

Infine, la scriminante de qua può essere riconosciuta anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59, comma 4 c.p. quando il soggetto agente dimostra, alla luce di dati di fatto concreti e prodotti in giudizio, che la sussistenza dell’attualità o inevitabilità del pericolo sia stata da lui erroneamente supposta senza colpa (così anche Cass. pen., sez. VI, 11 giugno 2024, n. 30592; Cass. pen., sez. VI, 16 ottobre 2019, n. 2241).

Ciò premesso, la Corte conclude con l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio della decisione nel merito alla Corte d’appello, in quanto in base alla motivazione della decisione censurata dal P.G. non è stato possibile accertare la sussistenza o meno dei requisiti richiesti dall’art. 54 c.p. per lo stato di necessità (ancorché anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59 c.p.) diretta a detergere l’antigiuridicità della falsa testimonianza perpetrata dall’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Falsa testimonianza”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

contributo unificato

Contributo unificato: si paga solo sulle cartelle esattoriali La Cassazione ha chiarito che il contributo unificato nel giudizio tributario va versato solo sugli atti effettivamente impugnati

Contributo unificato: i chiarimenti della Cassazione

La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 6769/2025, ha chiarito che il contributo unificato nel giudizio tributario deve essere versato esclusivamente sugli atti effettivamente impugnati. Se il contribuente contesta solo le cartelle esattoriali, il pagamento del contributo non può estendersi all’intimazione di pagamento, anche se il giudice ne fa riferimento nella sentenza.

Il caso: il contribuente e l’impugnazione delle cartelle

Un contribuente, ricevuta la notificazione di intimazione di pagamento, aveva impugnato le tre cartelle esattoriali presupposte riportate nell’atto, senza contestare l’intimazione ad esse collegata.

Tuttavia, l’ufficio riteneva che il contributo unificato dovesse essere versato anche per l’intimazione di pagamento, non espressamente impugnata ma alla quale la CTP aveva operato riferimento nella sua decisione.

La questione finiva innanzi alla CTR del Lazio che riteneva fondata la tesi dell’ufficio, riformava la decisione della CTP e affermava la validità dell’atto di irrogazione delle sanzioni, compensando tra le parti le spese di lite.
Il contribuente adiva quindi il Palazzaccio, lamentando la “carenza, illogicità, erroneità e contraddittorietà della motivazione” della decisione adottata dalla CTR, perché, a suo dire, “non è dovuto il pagamento del contributo unificato in relazione ad atto non impugnato, e pertanto è illegittima l’irrogazione di sanzioni per non aver versato un contributo non dovuto”.

Il principio di diritto della Cassazione

La Cassazione ha ribaltato la decisione della CTR, accogliendo il ricorso del contribuente.

La Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto, secondo cui “ai fini del
pagamento del contributo unificato nel giudizio tributario, non ogni atto cui il giudice operi riferimento nella sua pronuncia diviene, per ciò solo, un atto impugnato; pertanto qualora li contribuente, ricevuta la notificazione di una intimazione di pagamento relativa a tre cartelle esattoriali, abbia proposto impugnazione esclusivamente avverso queste ultime, solo in relazione ad esse dovrà versare il contributo unificato, anche se il giudice, nella sua
decisione, abbia proposto valutazioni anche in ordine all’intimazione di pagamento”.
Pertanto, il ricorso è accolto e l’atto irrogativo delle sanzioni annullato.

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giurista risponde

Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici In materia di beni demaniali gravati da usi civici spetta al Comune il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Deve ritenersi che al Comune spetta il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata di tali beni (Cass., Sez. Un., 14 ottobre 2024, n. 26598). 

I Giudici evidenziano che, in materia di demanio e patrimonio e, più nel dettaglio, di beni gravati da usi civici, deve ritenersi che al Comune spetti il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata da tali beni, la quale succede all’ente locale e subentra nei rapporti da questo già instaurati.

Le Sezioni Unite hanno rilevato che: “Già la L. 1766/1927, quanto all’individuazione del soggetto cui affidare la rappresentanza degli interessi della collettività, nonché l’amministrazione dei beni interessati da uso civico, optò a favore del Comune, in quanto individuato come ente particolarmente vicino ai fruitori del diritto. Ancorché, secondo la prevalente opinione della giurisprudenza, la proprietà dei beni resti in capo alla collettività dei cittadini (trattandosi di un’entità che di norma preesiste alla stessa istituzione dell’ente locale), la citata legge, accanto ai Comuni ha altresì previsto, nel caso in cui i diritti di uso civico siano riferibili agli abitanti di una frazione, e non all’intero territorio comunale, che vengano costituite le amministrazioni separate, le quali, pur senza acquisire una personalità giuridica (nella legge statale), sono munite di una soggettività giuridica, in quanto centro di imputazione degli interessi della collettività installata nella frazione”.

Nello specifico caso esaminato, l’istituzione dell’amministrazione separata avvenuta solo successivamente all’entrata in vigore della legge della provincia di Trento 6/2005, ha comportato la legittima amministrazione e gestione da parte del Comune, in vista della tutela degli interessi degli abitanti della frazione.

 

(*Contributo in tema di “Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

furto in abitazione

Furto in abitazione: no alla tenuità del fatto Per la Cassazione, il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Furto in abitazione

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10410/2025, ha stabilito che il reato di furto in abitazione non può beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis c.p.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltagirone ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di un uomo in ordine al reato di furto ni abitazione di un paio di scarpe Nike, nuove, del valore di euro 100,00.
Contro tale sentenza, ricorreva in Cassazione il procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, deducendo mancare le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della citata disposizione normativa con riferimento ai limiti di pena che ne consentono la specifica forma di proscioglimento.

Art. 131-bis c.p.: ambito applicativo

Per gli Ermellini, l’impugnazione è fondata.
“La sentenza impugnata nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato in applicazione della disposizione di cui all’art.131 bis, c.p., per il reato di cui all’art.624 bis c.p. – osservano infatti – ha interpretato erroneamente la citata disposizione normativa in relazione ai limiti di pena che individuano il novero dei reati per i quali è consentita la specifica forma di proscioglimento”.
Il nuovo istituto, introdotto dal D.Lgs. 28/2015, “configura un’ipotesi in cui sussiste un fatto tipico costituente reato, ma questo per scelta legislativa non è ritenuto punibile in presenza di determinati requisiti e al fine di soddisfare i principi di proporzione ed economia processuale”.

L’art. 131-bis c.p.

L’art. 131 bis c.p. comma 1 dispone che: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
L’ambito applicativo dell’istituto è, dunque, individuato, osservano ancora dal Palazzaccio, “utilizzando una tecnica già ampiamente collaudata dal legislatore, quella di individuare dei limiti edittali di pena e, nello specifico, vengono indicati i reati per i quali il legislatore ha previsto inizialmente il limite massimo di pena detentiva non superiore ad anni cinque e successivamente il limite della pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”.

La decisione

Nel caso di specie, trattandosi di reato di furto in abitazione, lo stesso, previsto dall’art.624 bis cod. pen., “fuoriesce dall’ambito dei limiti edittali previsti dall’art. 131 bis cod. pen., in quanto il limite massimo di pena detentiva (sei anni) non poteva superare i cinque anni e, successivamente, secondo la nuova formulazione, il limite minimo di pena detentiva (tre anni), non poteva superare i due anni, previsti dalla citata disposizione normativa”.
Ne consegue, decidono i giudici, l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art.131 bis cod. pen, per violazione di legge sia nella nuova che nella vecchia formulazione della norma.

Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catania.

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licenziamento legittimo

Licenziamento legittimo per il dipendente che discrimina la collega Licenziamento legittimo quello irrogato al dipendente che offende ripetutamente e discrimina la collega per il suo orientamento sessuale

Licenziamento legittimo condotta discriminatoria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025, conferma il licenziamento legittimo del  dipendente disposto per motivi disciplinari, perché ritenuto responsabile di aver offeso reiteratamente l’orientamento sessuale di una collega.

Offese reiterate di contenuto sessista rivolte alla collega

Un dipendente si rivolge a una collega con frasi disonorevoli e immorali, lesive della sua dignità. Il comportamento, reiterato e aggravato dalla presenza di altri colleghi, ha portato all’espulsione del lavoratore dall’azienda. Il dipendente però ha impugnato il provvedimento davanti all’autorità giudiziaria.

In primo grado, il Tribunale respinge l’impugnazione del lavoratore. La Corte d’Appello invece dichiara illegittimo il licenziamento, ritenendolo una misura sproporzionata, ma risolve comunque  il rapporto di lavoro, condannando l’azienda a pagare 20 mensilità di retribuzione. La società presenta ricorso incidentale in Cassazione, la quale accoglie il primo motivo, rinviando il caso alla Corte d’Appello per riesaminare la sussistenza della giusta causa di licenziamento. In sede di riassunzione, la Corte d’Appello rigetta il reclamo del lavoratore, confermando la legittimità della sanzione disciplinare.

Moleste le offese discriminatorie

I comportamenti offensivi e discriminatori legati all’orientamento sessuale di un collega integrano infatti una forma di molestia. La valutazione si basa sul contenuto oggettivo della condotta e sulla percezione soggettiva della vittima. Non occorre dimostrare lintenzione di arrecare danno da parte dell’autore. In questo caso, il lavoratore ha violato l’articolo 45, punto 6, del DPR 148/1931, che sancisce l’obbligo di mantenere una condotta rispettosa e decorosa nei confronti dei colleghi. Le frasi pronunciate sono state considerate disonorevoli, immorali e discriminatorie, immeritevoli di pubblica stima.

La Cassazione non può rivalutare il merito

La Cassazione respinge quindi i motivi sollevati dal lavoratore nei confronti della sentenza della Corte d’Appello, pronunciatasi in sede di rinvio. I giudici hanno ritenuto inammissibili tali argomentazioni,  perché finalizzate a ottenere una diversa valutazione dei fatti. La Suprema Corte  conferma quindi l’importanza del rispetto della dignità dei colleghi e della tutela contro le discriminazioni sessuali, elemento fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano.

 

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pensione di reversibilità

Pensione di reversibilità: va valutato anche l’assegno di divorzio Pensione di reversibilità: l’assegno di divorzio è un elemento di valutazione e deve rispondere alla sua finalità solidaristica

Pensione di reversibilità e assegno di divorzio

La Cassazione nell’ordinanza n. 5839/2025 precisa che la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato non è vincolata all’importo dell’assegno divorzile. Quest’ultimo però deve essere considerato tra gli elementi di valutazione, senza automatismi, per garantire la finalità solidaristica della pensione.

Concorso tra ex coniuge e seconda moglie

Una vedova, titolare di una pensione di 500 euro mensili, agisce in giudizio per ottenere il riconoscimento della reversibilità nella misura dell’80% del trattamento pensionistico spettante all’ex marito defunto. Il matrimonio, contratto nel maggio del 1975 è cessato nell’ottobre del 2014. Alla stessa spetterebbe quindi un importo superiore a quello riconosciuto alla seconda moglie, il cui matrimonio è durato solo 5 anni. La donna ritiene inoltre che la reversibilità a lei spettante debba coincidere almeno con la misura dell’assegno di divorzio pari a 315,00 euro mensili.

Importo pensione di reversibilità

L’INPS nel costituirsi in giudizio precisa che l’importo della pensione di reversibilità, pari al 60% dell’importo della pensione del defunto, è di 1.905,79 euro e che dopo la morte del marito la pensione di reversibilità è stata erogata solo alla vedova superstite.

La seconda moglie in giudizio chiede invece il riconoscimento della pensione di reversibilità nella misura non inferiore all’80% di quello spettante al marito defunto.

Il giudice di primo grado però riconosce il 70% della pensione del de cuius alla ex moglie e il restante 30% alla seconda moglie. Quest’ultima ricorre in appello, ma la Corte respinge il ricorso, la donna decide così di ricorrere in Cassazione.

Nell’unico motivo la stessa lamenta di non avere ricevuto una quota di pensione di reversibilità sufficiente a soddisfare le esigenze di vita più elementari mentre la ex moglie, al contrario, ha ricevuto una quota di pensione del tutto sproporzionata rispetto all’assegno di divorzio. A fronte infatti di un assegno divorzile di 357,00 euro mensili alla ex moglie è stata riconosciuta una pensione di 1200 euro mensili.

L’assegno di divorzio incide sul calcolo

La Cassazione accoglie il ricorso nei limiti indicati nella motivazione nella quale enuncia il principio giuridico da applicare quando si deve riconoscere all’ex coniuge la pensione di reversibilità.

Per la Cassazione nel determinare la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, della legge numero 898 del 1970, è importante sottolineare che tale quota non deve necessariamente coincidere con l’importo dell’assegno divorzile, né quest’ultimo rappresenta un limite massimo invalicabile. Tuttavia, in linea con un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’entità dell’assegno divorzile deve essere considerata tra gli elementi di valutazione, senza che ciò implichi un automatismo. L’obiettivo è garantire che l’attribuzione della quota di pensione risponda alla finalità solidaristica dell’istituto, che si traduce nel sostenere economicamente coloro che hanno subito la perdita del supporto finanziario fornito in vita dal lavoratore defunto.

 

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