estorsione

Minacce di maleficio? È estorsione, non truffa La Cassazione chiarisce che chi minaccia un maleficio commette estorsione se il male prospettato dipende dalla sua volontà

Estorsione e truffa aggravata: come si distinguono

Con la sentenza n. 23947 del 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio chiaro: la minaccia di un maleficio, anche se formulata da un sedicente mago, integra il reato di estorsione e non quello di truffa aggravata. Il discrimine sta nel rapporto di causalità tra la volontà dell’agente e il male paventato.

Secondo la Cassazione, l’estorsione si perfeziona quando l’agente prospetta un male che può determinare o far cessare a suo piacimento, inducendo la vittima a fare o non fare qualcosa.
Diversamente, la truffa aggravata (art. 640 n. 2 c.p.) si configura quando il pericolo rappresentato non dipende dall’agente, ma è un rischio reale o immaginario che la vittima può evitare soltanto attraverso l’azione suggerita dal truffatore.

Il caso del sedicente mago

Nel giudizio esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato aveva minacciato di far ricorrere un mago per infliggere un maleficio alla persona offesa.
La difesa sosteneva che si trattasse di una truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo immaginario, e che quindi la condotta non potesse essere qualificata come estorsione.

La Cassazione ha rigettato questa impostazione. Infatti, il presunto maleficio non era una circostanza estranea alla volontà dell’imputato, ma un’azione che lo stesso poteva decidere di fare o meno. Di conseguenza, la minaccia costituiva una forma di coercizione.

La differenza decisiva: la disponibilità del male prospettato

Il Collegio ha sottolineato che il punto chiave sta nella disponibilità del male minacciato.
Quando l’evento dannoso dipende, anche indirettamente, dalla volontà dell’agente, si integra il reato di estorsione. In altre parole, chi prospetta un male che può effettivamente provocare esercita un potere coercitivo sulla vittima.

Viceversa, se il pericolo prospettato non è riconducibile all’imputato, ma viene utilizzato come strumento di inganno per indurre un comportamento, la condotta si configura come truffa aggravata.

Il principio di diritto affermato

La Cassazione ha ribadito che: “La minaccia di un maleficio, anche mediato da terze persone, integra il reato di estorsione quando il male prospettato è suscettibile di essere attuato dall’agente direttamente o indirettamente, in base alla propria volontà.”

Pertanto, il timore ingenerato nella parte offesa discendeva dal potere del ricorrente di decidere se avvalersi o meno del presunto mago.

cassette di sicurezza

Cassette di sicurezza Cassette di sicurezza: definizione, normativa di riferimento, responsabilità della banca, cointestazione e apertura

Cassette di sicurezza: definizione

Le cassette di sicurezza rappresentano un servizio che la banca fornisce ai propri clienti in virtù di un contratto consensuale a esecuzione continuata. Il servizio prevede che il cliente possa inserire personalmente i propri beni nella cassetta, senza che l’istituto di credito possa controllarne il contenuto, se non per i limiti stabiliti dal contratto.

Riferimenti normativi

Il servizio delle casette di sicurezza offerte dalla banca è disciplinato dai seguenti articoli del Codice civile:

  • art 1839 c.c: cassette di sicurezza
  • art 1840 c.c: apertura della cassetta
  • art 1841: apertura forzata della cassetta

Cassette di sicurezza e responsabilità della banca

A differenza di un semplice deposito, questo accordo vincola la banca a una responsabilità elevata. La banca infatti risponde per l’adeguatezza e la sorveglianza dei locali, ma anche per l’integrità della cassetta stessa. Può liberarsi da tale responsabilità solo dimostrando che il danno è stato causato da un caso fortuito, ossia un evento imprevedibile e irresistibile. Il furto non è considerato un caso fortuito, in quanto le cassette di sicurezza sono concepite proprio per evitarlo. Eventi naturali come un terremoto, invece, rientrano invece in questa categoria.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 17207/2024, in cui ha chiarito che la banca è potenzialmente responsabile per la sottrazione di beni da una cassetta di sicurezza a causa di un furto. L’istituto di credito infatti non può invocare il furto come un caso fortuito, poiché è un evento prevedibile e, quindi, prevenibile, considerata la natura stessa del servizio offerto. Per liberarsi da ogni responsabilità, la banca deve dimostrare un caso fortuito non prevedibile, come un terremoto o un’alluvione.

Intestazione multipla  delle cassette di sicurezza

Se una cassetta è intestata a più persone, la legge permette a ciascun cointestatario di aprirla individualmente, a meno che le parti non abbiano convenuto diversamente. Questo criterio si basa sulla disciplina del mandato conferito a più soggetti. Se gli intestatari desiderano, possono stipulare un accordo specifico che preveda l’apertura solo con il consenso di tutti. Se quindi un cointestatario si oppone, la banca ha l’obbligo di impedire l’apertura fino alla risoluzione della disputa.

La Corte di Cassazione nel provvedimento n. 13614/2013 ha chiarito inoltre che la cointestazione di una cassetta di sicurezza o di un conto corrente autorizza ciascun intestatario a compiere operazioni, come prelievi o aperture. La contestazione però non conferisce un diritto di proprietà sui beni o sulle somme. Se quindi un cointestatario sa che il contenuto appartiene a un’altra persona, non può disporne come se ne fosse il proprietario legittimo.

Morte dell’intestatario: cosa accade?

In caso di morte di uno degli intestatari, la banca non può più consentire l’apertura della cassetta se ha ricevuto una comunicazione del decesso. L’apertura è possibile solo con il consenso di tutti gli aventi diritto, inclusi gli eredi del defunto, oppure tramite le modalità stabilite dall’autorità giudiziaria. Queste norme tutelano sia la banca, evitando contenziosi, che gli interessi degli eredi.

In relazione alla morte dell’intestatario della cassetta e alle vicende successive al decesso, la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 12599/2021 ha precisato che secondo la legge italiana (art. 2935 c.c.), il termine per far valere un diritto (prescrizione), inizia solo quando il titolare ne ha la possibilità concreta. Pertanto, se uno degli eredi (figlio) scopre che un altro erede (sorella) ha svuotato la cassetta di sicurezza della madre prima della morte di quest’ultima, l’erede può agire legalmente contro la sorella e la banca solo da quando ha la certezza del fatto, rappresentato nel caso di specie dal momento in cui ha avuto conoscenza della sottrazione. Ne consegue che la prescrizione del suo diritto al risarcimento ha inizio a decorrere da tale data, non da un momento precedente.

Scadenza del contratto e apertura forzata

La legge disciplina inoltre l’apertura forzata della cassetta dopo la scadenza del contratto. Il potere della banca non è arbitrario, la stessa infatti deve continuare a garantire la custodia e non può aprire la cassetta immediatamente. Deve prima intimare l’intestatario, anche tramite raccomandata per porre fine al servizio. Se passano almeno sei mesi dall’intimazione, la banca può chiedere al tribunale l’autorizzazione all’apertura. L’apertura avviene con l’assistenza di un notaio, nominato dal giudice. Il giudice può anche stabilire cautele specifiche per proteggere gli interessi del cliente. Il tribunale inoltre può dare disposizioni per la conservazione dei beni e ordinare la vendita di quelli necessari a coprire i canoni scaduti e le spese legali. da parte sua la banca non ha alcun diritto di ritenzione sugli oggetti. In questo modo si tutela la proprietà del cliente.

Leggi anche: Banca paga se fa bonifico a IBAN sbagliato

vivenza a carico

Vivenza a carico: definizione e applicazioni pratiche Vivenza a carico: condizione di dipendenza economica da un soggetto da cui derivano conseguenze fiscali, pensionistiche e assicurative

Vivenza a carico: significato

Con l’espressione vivenza a carico si indica in generale la condizione di un soggetto che non è in grado di provvedere autonomamente alle proprie necessità e che pertanto dipende economicamente da un altro soggetto.

Questa espressione assume significati diversi a seconda della misura di cui costituisce presupposto. La vivenza a carico infatti rappresenta un requisito fondamentale per ottenere, ad esempio, delle agevolazioni fiscali o dei particolari trattamenti pensionistici e assicurativi.

Vediamo quindi in quali ambiti normativi la nozione di “vivenza a carico” viene presa in considerazione.

Vivenza a carico e pensione di reversibilità

La vivenza a carico richiesta per il riconoscimento della pensione ai superstiti è definita dall’articolo 22 della legge n. 903/1965, che si occupa dei trattamenti pensionistici della previdenza sociale.

In base a questa norma i figli minorenni e quelli inabili al lavoro di qualsiasi età hanno diritto alla pensione di reversibilità purché a carico del genitore defunto. I figli studenti, invece, hanno diritto alla pensione solo se risultano a carico del genitore deceduto e non lavorano. Il limite d’età è di 21 anni per chi frequenta scuole professionali e di 26 per chi è iscritto all’università. I genitori invece possono ottenere la pensione di reversibilità, solo se hanno più di 65 anni, non siano già titolari di una pensione e se erano a carico del figlio defunto. Lo stesso principio si applica a fratelli e sorelle celibi o nubili, purché inabili al lavoro, senza altre pensioni ed economicamente dipendenti dal defunto.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 19485/2024 ha chiarito in particolare che affinché un figlio inabile riceva la pensione di reversibilità, deve risultare “a carico” del genitore defunto. Questo però non richiede una convivenza o dipendenza economica totale del figlio dal genitore. Secondo la giurisprudenza della Corte è fondamentale piuttosto che il genitore abbia provveduto al mantenimento del figlio inabile in maniera continuativa e prevalente. Non è sufficiente un aiuto saltuario. La valutazione di questo requisito però spetta al giudice, che analizza i fatti e le prove presentate per determinare che la condizione di “vivenza a carico” sia soddisfatta.

Detrazioni fiscali per familiari “a carico”

In base alla normativa fiscale vigente (art. 12 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto legislativo n. 917/1986) come modificata da ultimo dalla legge di bilancio 2025, il contribuente ha diritto a particolari detrazioni fiscali per carichi di famiglia, anche:

  • il coniuge non separato;
  • per i figli del coniuge deceduto conviventi di età compresa tra i 21 e i 30 anni;
  • per i figli con una disabilità riconosciuta dalla legge 104/92 con più di 21 anni. Ai fini del requisito non rileva se sono figli naturali, adottivi o affidati.
  • genitori e nonni del contribuente convivente.

Ai fini del riconoscimento della detrazione, per vivenza a carico si intende il mancato superamento del limite di reddito annuo complessivo del figlio pari a 4.000 euro fino a 24 anni di età e 2840,51 euro fino a 30 anni di età.

Vivenza a carico e rendita INAIL per i superstiti

La rendita INAIL ai  superstiti del lavoratore defunto sul lavoro è prevista e disciplinata dall’articolo 85 del Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali di cui al decreto legislativo n. 1124/1965. Per il riconoscimento della rendita l’articolo 106 del medesimo testo unico definisce il requisito della vivenza a carico del soggetto superstite del lavoratore defunto.

In base a questa norma, in ambito assicurativo, la vivenza a carico si considera provata quando il reddito pro capite del familiare superstite, calcolato in base al suo nucleo familiare, è inferiore a una soglia specifica. Questa soglia viene calcolata partendo dal reddito medio netto delle famiglie italiane (dati ISTAT), ridotto del 15%. La normativa semplifica anche la prova di inabilità al lavoro per il vedovo che abbia almeno 65 anni al momento del decesso della moglie per infortunio. Gli enti assicuratori possono richiedere informazioni e certificati a vari uffici pubblici per verificare la vivenza a carico.

La Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 25975/2020 ha sancito che in caso di infortunio sul lavoro con esito mortale, il diritto alla rendita per gli ascendenti superstiti (come i genitori) non è automatico. Occorre che siano soddisfatte due condizioni fondamentali, provando la vivenza a carico.

  • Gli ascendenti non devono avere mezzi di sostentamento sufficienti. Il concetto di “sufficienza” non è strettamente definito dalla legge, ma la giurisprudenza lo collega ai “mezzi necessari per vivere” garantiti dalla Costituzione, escludendo una dipendenza economica totale, ma esigendo che il reddito sia al di sotto di una soglia minima.
  • È necessario dimostrare inoltre che il lavoratore defunto contribuiva in modo efficiente, costante e regolare al loro mantenimento. Questo significa che il suo aiuto economico, seppur parziale, doveva costituire una parte normale e non sporadica del loro sostentamento. Nel valutare la situazione economica, si tiene conto inoltre del reddito del coniuge dell’ascendente, data la reciprocità dell’obbligo di assistenza.

Leggi anche: Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico

rendita vitalizia

Cassazione: prescrizione decennale per la rendita vitalizia pensionistica Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono i termini per la rendita vitalizia: prescrizione di dieci anni, ma con decorrenza dalla conoscenza dell’omissione contributiva

Un chiarimento atteso da tempo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22802/2025 a Sezioni Unite, ha risolto definitivamente un contrasto giurisprudenziale di lungo corso in materia di rendita vitalizia previdenziale. La Suprema Corte ha stabilito che il diritto alla costituzione della rendita non è imprescrittibile, ma soggetto al termine ordinario di dieci anni previsto dall’art. 2946 del Codice civile.
La vera novità riguarda la decorrenza: il termine non parte più automaticamente dal momento dell’omissione contributiva, ma dal giorno in cui il lavoratore è consapevole della mancata regolarizzazione o dell’impossibilità per il datore di lavoro di provvedere.

La rendita vitalizia: il quadro normativo

L’istituto della rendita vitalizia trova disciplina nell’art. 13 della legge n. 1338/1962. In base a questa disposizione, quando i contributi non vengono versati e risultano ormai prescritti (dopo cinque anni), il datore di lavoro, o in alternativa lo stesso lavoratore, può costituire presso l’INPS una rendita vitalizia reversibile, commisurata alla pensione che sarebbe spettata in caso di regolare accredito dei contributi.
La giurisprudenza, fino a oggi, era divisa: da un lato, chi considerava il diritto imprescrittibile; dall’altro, chi applicava la prescrizione decennale facendola decorrere dal termine di prescrizione dei contributi, orientamento seguito anche dall’INPS.

I principi fissati dalla Cassazione

Le Sezioni Unite hanno posto tre punti fondamentali:

  • il diritto alla rendita vitalizia è soggetto alla prescrizione decennale;

  • la decorrenza non coincide con la mera omissione contributiva, ma con la conoscenza effettiva della stessa da parte del lavoratore;

  • resta ferma la possibilità di azionare il risarcimento del danno pensionistico ai sensi dell’art. 2116, comma 2, c.c., con prescrizione decennale che decorre dal momento in cui il danno si manifesta, di norma con il diniego o la liquidazione ridotta della pensione.

Conseguenze pratiche per lavoratori e datori di lavoro

Dalla pronuncia emergono regole chiare sui termini:

  • 10 anni per la rendita costituita dal datore di lavoro ex art. 13 L. 1338/1962;

  • 10 anni per la rendita costituita dal lavoratore, con decorrenza dalla conoscenza dell’omissione contributiva;

  • 10 anni per l’azione di risarcimento del danno pensionistico ex art. 2116, comma 2, c.c.

Un ulteriore strumento resta a disposizione dei lavoratori: l’art. 30 della legge n. 203/2024, che, come illustrato dall’INPS con circolare n. 48/2025, ha introdotto una nuova facoltà di costituzione della rendita vitalizia, non soggetta a prescrizione, attivabile nei casi in cui i termini ordinari risultino ormai scaduti.

cartella clinica

La cartella clinica incompleta non basta a provare l’errore medico La Cassazione chiarisce che l’incompletezza della cartella clinica non dimostra di per sé il nesso causale. Serve la prova di una condotta colposa astrattamente idonea a causare il danno

Il caso giunto in Cassazione

Cartella clinica: la Suprema corte si è pronunciata su un ricorso presentato dagli eredi di un paziente deceduto dopo un intervento chirurgico per la sostituzione di un pacemaker con un defibrillatore biventricolare.
Gli eredi avevano convenuto in giudizio l’azienda sanitaria, ritenendo che l’evento fosse riconducibile a responsabilità medica. Tribunale e Corte d’appello, però, avevano escluso la colpa dei sanitari, attribuendo il decesso a un evento imprevedibile e inevitabile.

Il ruolo della cartella clinica

Secondo gli eredi, la cartella clinica era inadeguata poiché non riportava esami diagnostici che non erano stati eseguiti. A loro avviso, proprio questa incompletezza provava automaticamente il nesso causale tra condotta medica ed evento letale.
La Cassazione ha respinto tale argomento, chiarendo che l’omessa annotazione di esami mai effettuati non integra, di per sé, un difetto della cartella.

La decisione della Cassazione

Con la sentenza n. 14609 del 30 maggio 2025, la Cassazione ha ribadito che:

  • l’incompletezza della cartella clinica non può essere considerata prova automatica di responsabilità;

  • occorre dimostrare che il professionista abbia tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno;

  • solo quando la lacunosità della cartella renda impossibile accertare il nesso causale, e vi sia un fumus di colpa medica, il giudice può valorizzarla come elemento probatorio.

Il principio affermato

La Corte ha riaffermato un criterio importante: la responsabilità sanitaria non può fondarsi su mere omissioni formali, ma necessita di un accertamento sostanziale.
Se manca qualsiasi indizio di condotta colposa e l’evento è imprevedibile e inevitabile, l’incompletezza della cartella clinica diventa irrilevante ai fini probatori.

diritto di accedere agli atti

Gli eredi hanno diritto di accedere agli atti dell’amministrazione di sostegno La Cassazione riconosce ai chiamati all’eredità il diritto di accedere agli atti dell’amministrazione di sostegno del de cuius per tutelare il patrimonio e verificare eventuali responsabilità

Diritto di accedere agli atti: il caso e il ricorso

Diritto di accedere agli atti: La Suprema Corte, con la sentenza n. 18563 dell’8 luglio 2025, ha stabilito che i chiamati all’eredità possono accedere agli atti dell’amministrazione di sostegno del defunto.
Nel caso esaminato, due sorelle avevano chiesto di visionare l’intero fascicolo relativo alla gestione patrimoniale e personale del padre, sottoposto ad amministrazione di sostegno dal 2021 e deceduto durante il ricovero in una clinica.

Le istanti miravano a valutare se accettare l’eredità, considerati i debiti segnalati dalla struttura sanitaria, e a comprendere le circostanze del decesso.

Le decisioni di merito

Il Giudice tutelare aveva respinto la richiesta, ritenendo sufficiente l’accesso ai soli rendiconti e ai decreti di approvazione. La decisione è stata confermata dal Tribunale in sede di reclamo.
Le due figlie hanno quindi proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che il diniego le privava di un diritto fondamentale riconosciuto dalla normativa sulla privacy e dal Codice civile.

La pronuncia della Cassazione

La Corte di cassazione ha ribaltato le decisioni precedenti, chiarendo che:

  • il provvedimento che nega l’accesso ha natura decisoria ed è quindi impugnabile;

  • il diritto di accesso spetta agli eredi sia per ragioni familiari meritevoli di protezione (art. 2-terdecies Codice privacy) sia per esigenze di vigilanza e conservazione del patrimonio (art. 460 c.c.);

  • i chiamati all’eredità possono proporre azioni di responsabilità contro l’amministratore di sostegno e impugnare i rendiconti entro cinque anni (artt. 382 e 387 c.c.).

Secondo i giudici di legittimità, l’accesso serve a garantire non solo i rapporti di credito e debito, ma anche il diritto all’identità familiare e alla conoscenza delle vicende che hanno interessato il genitore.

Privacy e interesse familiare

La Cassazione ha sottolineato che il diritto alla protezione dei dati personali non si estingue con la morte, ma può essere esercitato dai familiari per motivi meritevoli di tutela.
Nel caso di specie, negare l’accesso ha significato escludere le figlie dal controllo sulle decisioni assunte durante l’amministrazione di sostegno, con potenziale pregiudizio per la gestione del patrimonio e per la comprensione delle cause del decesso.

Compenso dell'avvocato

Compenso dell’avvocato: spese liquidate sul decisum La Cassazione stabilisce che i compensi professionali dell’avvocato devono essere liquidati in base al decisum e non al petitum

La vicenda processuale

Compenso dell’avvocato: un legale aveva impugnato in Cassazione la decisione con cui la Corte d’appello aveva rideterminato i suoi compensi professionali sulla base del valore effettivo della lite definito dal giudice (decisum) e non in base allo scaglione riferito alla domanda originaria (petitum).

Secondo il ricorrente, il criterio applicato non rispettava le tariffe corrispondenti allo scaglione della domanda, da cui sarebbe derivato un maggiore riconoscimento degli onorari.

La decisione della Suprema Corte

La Cassazione civile, con la sentenza n. 23875 del 2025, ha respinto il ricorso. I giudici hanno chiarito che le spese devono essere liquidate in base all’esito complessivo del giudizio e al valore della lite riconosciuto in sentenza, cioè sul decisum, non su quanto richiesto e non integralmente accolto.

La regola, ribadisce la Corte, è che il criterio da applicare è quello dell’effettivo risultato della controversia, salvo l’ipotesi in cui l’appello abbia come unico obiettivo ottenere una somma superiore rispetto a quella già riconosciuta in primo grado e venga rigettato. In questo caso, invece, l’appello della parte soccombente era stato parzialmente accolto, giustificando la liquidazione sul decisum.

Compenso dell’avvocato: le motivazioni dei giudici

La Suprema Corte ha evidenziato che il ricorrente non aveva contestato adeguatamente il principio secondo cui le spese si liquidano sul decisum, limitandosi a sostenere che fosse stato applicato un errato scaglione di riferimento. Inoltre, non aveva neppure censurato l’altra ratio decidendi della Corte d’appello, ossia la liquidazione effettuata in funzione dell’esito complessivo del giudizio di secondo grado.

Leggi le altre news in materia di professioni

giurista risponde

Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale È legittima la comminazione obbligatoria della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale a seguito di condanna per il delitto di maltrattamenti commesso in presenza ovvero a danno di minori con abuso della responsabilità genitoriale?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

Viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2 c.p. nella parte in cui prevede che la condanna per il delitto ex art. 572, comma 2, c.p., commesso, in presenza o a danno di minori, con abuso della responsabilità genitoriale, comporta la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporla. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55 (sospensione della responsabilità genitoriale).

Il Tribunale di Siena sollevava questione di legittimità del reato succitato in quanto chiamato a giudicare sulla responsabilità penale di due genitori per il reato di maltrattamenti in famiglia «perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, ponevano in essere abitualmente, con finalità educative, condotte violente ed aggressive nei confronti dei figli minori conviventi». Una volta riconosciuta quest’ultima, lo stesso riteneva ultronea nell’an e nel quantum l’applicazione della pena accessoria della sospensione dalla responsabilità genitoriale. La motivazione risiedeva nel lungo lasso temporale intercorso tra i fatti e il procedimento, nel corso del quale vi era stata una ricomposizione del nucleo familiare. In particolare, il giudice remittente contestava tanto l’obbligatorietà della sanzione conseguentemente alla pena per maltrattamenti quanto il suo lasso temporale (il doppio rispetto alla pena per maltrattamenti).

L’excursus del giudice di merito partiva da un richiamo alla precedente sentenza della Consulta 222/2018; essa descriveva la discrezionalità del giudice nel determinare la pena in concreto, in quanto naturale prosecuzione dei principi costituzionali. Applicando tali principi, il giudice a quo evidenziava come in questo caso le risposte sanzionatorie rischino di rivelarsi manifestatamente sproporzionate rispetto a casi meno gravi [1] e, di conseguenza, incompatibili con il principio di individualizzazione della pena ex artt. 3 e 27 Cost. Al contempo, viene richiamata l’ulteriore sent. 102/2020 con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della pena accessoria obbligatoria della sospensione con riferimento al reato di sottrazione e trattenimento di minore all’estero (art. 574bis, comma 3 c.p.).

I Giudici della Consulta illustravano preliminarmente l’inammissibilità del primo motivo di doglianza, il quale era stato parametrato alla Convenzione dei Diritti del fanciullo. Quest’ultima veniva, infatti, evocata come riferimento immediato e non come norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.

L’iter argomentativo proseguiva suddividendo la valutazione del quesito in due filoni: da una parte, la valutazione dell’automatica applicazione della pena accessoria della sospensione (con riferimento agli artt. 2, 3 e 30 Cost.) e, dall’altra, la valutazione sul quantum.

Tre le sentenze della Corte costituzionale che si annoverano sul tema per motivare il primo quesito. Punto di partenza è costituito dalla sent. 31/2012. Con tale pronuncia la Corte si è espressa sul reato di alterazione di stato, in base al combinato disposto degli artt. 569 e 567, comma 2 c.p. In particolare, si evidenziava come ad essere coinvolto fosse l’interesse del figlio minorea vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione” (Corte cost. 31/2012). Il concetto è stato poi rimarcato dalla successiva sent. 7/2013, dichiarante l’incostituzionalità dell’art. 569 c.p. e concluso con la sent. 102/2020 sull’illegittimità del delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero.

In particolare, l’interesse del minore ex artt. 30 Cost. e 147 c.c. è inevitabilmente coinvolto dalla decisione del Giudice della decadenza dalla responsabilità genitoriale. Lo stesso si manifesta nell’obbligo dei genitori di assicurare ai figli un completo percorso educativo che garantisca loro benessere, salute e crescita fisica e spirituali, sulla base delle condizioni socioeconomiche dei genitori. Solo il venir meno di tali obblighi, pertanto, giustifica la decadenza del genitore dal suo ruolo e sempre e unicamente per salvaguardare le esigenze educative e affettive del minore. In virtù del complesso equilibrio di diritti e doveri così delineato, “è irragionevole precludere «al giudice ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto, tra l’interesse stesso e la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso, tali da giustificare la detta applicazione appunto a tutela di quell’interesse»” (Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55). La commissione del reato da parte del genitore, infatti, può costituire un indice delle mancanze provocate e non una irragionevole presunzione assoluta di inidoneità al ruolo. Diversamente, anche il minore si ritroverebbe ad essere direttamente colpito dalla sanzione e dalla conseguente perdita di diritti, poteri e obblighi che il genitore possiede nei suoi riguardi. Inoltre, tale circostanza risulta irragionevole anche alla luce del momento di comminazione, ossia con il passaggio in giudicato della sentenza che spesso viene in essere molto dopo lo svolgimento dei fatti, con il rischio di interrompere percorsi di riparazione del rapporto affettivo, così come avvenuto nel caso di specie. A conclusione, la Corte indicava come assorbite le questioni ex artt. 27 e 29 Cost. e invitava il legislatore a meglio delineare la competenza in materia di decadenza dalla responsabilità genitoriale tra il giudice per i minorenni o ordinario.

A conclusione, la Corte dichiarava l’inammissibilità della questione inerente al quantum della pena per contraddittorietà della motivazione a quo.

[1] La «rigidità applicativa» che esse richiedono, infatti, determinerebbe risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso «rispetto ai fatti commessi con abuso di responsabilità genitoriale meno gravi», non consentirebbe di tenere in considerazione l’interesse del minore alla preservazione del nucleo familiare e si rivelerebbe distonica rispetto al principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, con violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

 

(*Contributo in tema di “Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

sanzioni tributarie

Cassazione: le sanzioni tributarie non si ereditano Le sanzioni tributarie non si trasmettono agli eredi. La Cassazione ha ribadito che la morte del contribuente estingue il credito erariale derivante da violazioni fiscali

Sanzioni tributarie: il principio affermato dalla Cassazione

Con l’ordinanza n. 22476/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che le sanzioni tributarie hanno natura personale e, in caso di decesso del contribuente, non possono essere trasmesse agli eredi.
Una volta documentata la morte del soggetto destinatario della sanzione, viene meno la materia del contendere.

La vicenda processuale

Il caso riguardava un contribuente che deteneva investimenti non dichiarati all’estero. Dalla documentazione acquisita risultavano sanzioni calcolate in misura pari a 246.806 euro per l’anno 2008 e a 216.840 euro per l’anno 2009.
Nel corso del procedimento il contribuente è deceduto (22 giugno 2024) e la questione è giunta in Cassazione.

La normativa applicabile

La Corte ha richiamato l’articolo 8 del decreto legislativo n. 472/1997, che sancisce l’intrasmissibilità agli eredi delle sanzioni tributarie. Tale previsione discende dal principio di responsabilità personale, già contenuto nell’articolo 2 dello stesso decreto.
In altre parole, la sanzione riguarda esclusivamente la condotta dell’autore della violazione e non può gravare sui suoi successori.

Effetti del decesso: estinzione del credito erariale

Secondo la Cassazione, il credito dell’erario derivante da violazioni tributarie riferibili a persone fisiche si estingue con la morte dell’autore.
Pertanto, una volta accertato il decesso, l’Amministrazione finanziaria non può più pretendere il pagamento e il giudizio deve dichiararsi estinto.

Nessuna condanna alle spese

I giudici hanno inoltre chiarito che non vi è luogo a provvedere sulle spese di giudizio. Richiamando l’orientamento già espresso in materia di sanzioni amministrative (Cass. n. 29577/2021), la Corte ha precisato che la morte del destinatario rende superfluo l’esame dei motivi di ricorso e impedisce l’applicazione del criterio della “soccombenza virtuale”.

Allegati

giurista risponde

Il contratto di locazione ispirato a finalità distrattive Un contratto di locazione può essere dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa ove ispirato a finalità distrattive?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Davide Venturi

 

Un contratto di locazione può essere dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa ove ispirato a finalità distrattive. – Cass., sez. I, ord. 9 aprile 2025, n. 9357.

Nell’ordinanza in esame la Suprema Corte ha specificato che in linea di principio, in assenza di una norma che vieti in via generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, un contratto lesivo dei diritti e delle pretese satisfattorie dei creditori non è di per sé illecito. Ne deriva che non può essere dichiarato nullo per illiceità della causa, né per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alle parti (se il contratto è stipulato con finalità vietata dall’ordinamento perché contraria norma imperativa, all’ordine pubblico o al buon costume), in quanto l’ordinamento appresta, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione di inefficacia.

Qualora però, oltre al pregiudizio dei creditori, un contratto violi anche una norma imperativa penale, l’atto negoziale è nullo ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.

Trattasi delle ipotesi c.d. di reato-contratto (come la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione, il commercio di prodotti con segni falsi, il trasferimento di un bene in pagamento di un debito usurario) ove il contratto collide così gravemente con interessi di indole generale da assurgere di per sé alla qualificazione di reato.

Allo stesso modo, anche gli atti attraverso cui la società, poi assoggettata a procedura concorsuale, abbia determinato il trasferimento in favore di terzi di beni propri, così distraendoli alla soddisfazione della massa dei creditori, risultano assoggettati alla sanzione di nullità in quanto compiuti in violazione di norme incriminatrici, in materia di bancarotta (oggi liquidazione coatta amministrativa), norme altresì applicabili anche all’amministrazione straordinaria di una grande impresa dichiarata insolvente a norma dell’art. 95, comma 1 del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270.

Ciò rende evidente che l’area delle norme inderogabili la cui violazione può determinare la nullità del contratto è più ampia e non comporta di far riferimento al solo contenuto del contratto medesimo, ma ricomprende anche tutte quelle norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni, oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto.

Tuttavia, se al momento della dichiarazione giudiziale di insolvenza non sussiste più alcun pericolo concreto di per le ragioni dei creditori, essendosi posto effettivo rimedio agli atti distrattivi precedentemente compiuti (la c.d. bancarotta “riparata”), non sussisterebbe più l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, con la conseguenza che è da escludersi la nullità dei contratti in essere.

Ebbene, un contratto di locazione, dedotto a sostegno della domanda di ammissione al passivo del credito dell’imposta di registro sostenuta, non può essere considerato nullo poiché elemento concorrente alle operazioni distrattive volte a depauperare parte del patrimonio societario (la cui integrità è il bene giuridico tutelato dal precetto penale quale norma imperativa di riferimento) se dall’operazione distrattiva compiutamente realizzata per effetto di precedenti delibere assembleari ormai definitive non risulti il collegamento funzionale del contratto di locazione medesimo con le operazioni societarie distrattive stesse di cessione degli immobili sociali al creditore che vanta il credito stesso. Per la Suprema Corte, il collegamento, invero, può risultare da dati fattuali quali la misura abnorme dei canoni pattuiti, altrimenti il contratto è valido.

 

(*Contributo in tema di “Il contratto di locazione ispirato a finalità distrattive”, a cura di Valentina Riente e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)