Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini
In tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venire meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo o profitto di tale delitto (Cass. pen., sez. III, 13 agosto 2024, n. 32578).
Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della confisca disposta su beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace.
Il Tribunale, in qualità di giudice del riesame, con ordinanza, aveva annullato il decreto di sequestro preventivo disposto a carico di tre indagati in relazione al reato di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000.
In particolare, il sequestro era stato disposto dal Gip in relazione a una provvisoria imputazione avente a oggetto la violazione dell’art. 11 predetto, per avere i tre indagati compiuto atti simulati o fraudolenti dismissivi del patrimonio della società allo scopo di rendere vana o inefficace la procedura di riscossione coattiva delle imposte. Il Gip, ritenuta la sussistenza del fumus delicti, aveva ritenuto di assoggettare alla misura cautelare, strumentale a una eventuale confisca ex art 12bis del citato decreto legislativo, non solamente i beni aventi il valore del debito tributario gravante sulla società, ma l’intero valore dei beni oggetto delle transazioni fraudolente, sebbene questo fosse superiore all’importo dei carichi tributari.
L’impostazione è stata ritenuta non corretta dal Tribunale del riesame, il quale ha affermato che in tal modo si giungerebbe al risultato di ipotizzare la possibilità di disporre la confisca di beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace, facendo assumere alla predetta confisca carattere sanzionatorio.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il P.M. deducendo la violazione degli artt. 11 e 12bis D.Lgs. 74/2000 in cui il Tribunale sarebbe incorso nell’affermare che il principio per cui il profitto del reato di cui al menzionato art. 11 è rappresentato dal valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria per le imposte evase, e non dall’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, debba applicarsi limitatamente ai casi in cui tale ammontare superi il valore dei beni oggetto delle operazioni fraudolente.
Nell’impostazione del Tribunale del riesame, la limitazione del profitto del reato sequestrabile alla soglia del valore del debito tributario inadempiuto sarebbe imposta: dal principio di proporzionalità di cui agli artt. 3, 25 e 27 Cost, 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; dall’interpretazione teleologica delle disposizioni del D.Lgs. 74/2000, improntato alla tutela dell’adempimento delle obbligazioni tributarie e al recupero delle somme dovute all’erario, quindi dalla necessaria configurazione della confisca ivi prevista come misura ristorativa dell’interesse violato con il reato; dal rilievo che il sequestro finalizzato alla confisca non possa avere a oggetto cose di cui non sia consentita la misura ablatoria finale; dal principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’estinzione del debito tributario determina l’illegittimità del decreto di sequestro preventivo emesso in relazione al reato ex art. 11 D.Lgs. 74/2000 negando in tal modo che il profitto del reato in esame debba sempre essere ancorata al solo valore dei beni fraudolentemente sottratti alla garanzia dell’amministrazione finanziaria.
A confutazione di tale impostazione, il Pm ricorrente ha osservato che: l’individuazione del profitto di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000 nella riduzione, pur eccedente l’ammontare del debito tributario inadempiuto, del patrimonio dell’agente su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi sarebbe coerente con la struttura di reato di pericolo della fattispecie in parola; che i beni di cui sia contestata la sottrazione fraudolenta alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria sarebbero confiscabili ex art. 240, comma 1, c.p. in quanto strumenti della consumazione del reato, a prescindere dalla relativa qualificazione come profitto dello stesso; infine, che l’illegittimità di un sequestro preventivo disposto nonostante l’intervenuto adempimento del debito tributario non dipenderebbe dal venir meno del reato o del profitto da esso derivante, bensì dal venir meno della stessa esigenza cautelare giustificativa della misura reale.
La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha affermato, preliminarmente, che sebbene l’art. 12bis D.Lgs. 74/2000 prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena per uno dei reati previsti dal decreto legislativo in esame, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, deve, tuttavia, rilevarsi che l’art. 240, comma 1 c.p. consente, nel caso di condanna, al giudice di procedere alla confisca, oltre delle cose che costituiscono il profitto o il prodotto del reato, anche di quelle che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Fra queste devono essere ricompresi, secondo il Collegio, i beni che sono stati l’oggetto delle transazioni simulate o fraudolente che costituiscono la materiale condotta attraverso la quale si è determinato il reato.
In tal senso la Corte ha richiamato il principio di diritto secondo cui in tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venir meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo profitto di tale delitto.
Il Collegio ha evidenziato che, seppure sia vero che, il profitto del reato di cui all’art. 11 del D.Lgs. 74/2000 sia rapportabile oggettivamente al valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’Amministrazione finanziaria per le imposte evase e non già al debito tributario rimasto inadempiuto, una tale regola deve, tuttavia, essere declinata coerentemente con la finalità la cui disposizione precettiva e sanzionatoria è preposta: cioè quella di assicurare agli organi pubblici una più agevole forma di esazione coattiva delle imposte interessate dalla normativa in esame il cui versamento sia stato, anche in un secondo momento rispetto al compimento degli atti simulati o fraudolenti, omesso dal contribuente.
Ebbene, nel caso di specie la Corte ha ritenuto che la confisca, e lo strumentale sequestro preventivo, siano riconducibili, quanto a sua causale normativa, non all’art. 12bis D.Lgs. 74/2000, ma all’art. 240, comma 1, c.p., cioè alle cose che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Invero, ricorrendo a una tale accezione normativa non vi è più la necessità di contenere l’ammontare del valore dei beni soggetti alla misura ablativa alla ratio dell’illiceità penale della condotta attribuita all’agente (l’esistenza di un possibile debito erariale in ordine al quale rendere ragionevole l’azione esecutiva fiscale) considerato che ora la confisca non sarebbe relativa al profitto del reato ma allo strumento utilizzato per la sua perpetrazione.
Tale principio deve essere inteso in termini rigidi, vale a dire che laddove l’attività di fraudolenta dismissione dei beni si sia articolata attraverso non un solo atto depauperativo del patrimonio del contribuente ma attraverso una pluralità di essi, ciascuno riferito a beni diversi o a porzioni diverse di un medesimo bene, gli atti effettivamente rilevanti dal punto di vista penale sono quelli che hanno determinato un concreto pericolo di inefficacia dell’azione esecutiva dell’Erario volta alla riscossione delle imposte. Risulta, pertanto, necessario che anche l’oggetto di tali ulteriori atti costituisca corpo del reato, cioè che anche questi atti siano stati in grado di ledere ex se il bene giuridico tutelato dalla norma.
Infine, la Corte ha ritenuto superata la problematica che il Tribunale del riesame ha posto in relazione alla necessità dell’esistenza di un rapporto di proporzionalità fra la misura ed il valore del bene oggetto di essa. Invero, secondo la Corte, siffatta problematica risulta essere ultronea ove si riporti la ratio della confisca non alla ipotesi della ablazione del profitto del reato ma a quella della confisca degli strumenti per mezzo dei quali il reato è stato consumato. Ipotesi per la quale non è determinante che i beni abbiano un valore economico proporzionato all’imposta alla cui evasione è finalizzata l’attività simulata o fraudolenta di dismissione patrimoniale.
Alla luce di tali argomentazioni, il Collegio annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale competente.