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Sospeso l’avvocato che si appropria del denaro del cliente La Cassazione conferma la sospensione dalla professione per due anni nei confronti dell'avvocato che si appropria delle somme del cliente

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Sospeso l’avvocato che si appropria delle somme del cliente: l’illecito, ribadiscono le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 26374/2024, confermando la sospensione dalla professione per due anni, ha natura permanente.

La vicenda

Nella vicenda, alcuni soggetti segnalavano al competente Ordine professionale di essersi rivolti all’avvocato in questione per essere assistiti nella controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno da essi sofferto in conseguenza della morte del rispettivo figlio e fratello in un sinistro stradale.

L’avvocato aveva incassato per conto loro la somma versata dalla compagnia assicuratrice tacendo la circostanza e intascando il denaro.

Veniva avviato procedimento disciplinare che si concludeva con l’irrogazione all’incolpato della sanzione della sospensione per due anni. La decisione veniva impugnata innanzi al CNF il quale rigettava il gravame.

L’avvocato impugnava quindi la decisione innanzi alla Cassazione con un ricorso fondato su un unico motivo.

Il ricorso

Nell’illustrazione del motivo, l’avvocato sosteneva che l’illecito disciplinare era stato commesso nel 2011, per cui esso era soggetto alle previsioni del codice deontologico vigente ratione temporis, le cui previsioni erano più favorevoli per l’incolpato rispetto alle corrispondenti previsioni del codice deontologico vigente al momento della decisione.

In particolare, il ricorrente sosteneva che “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di corretta gestione del denaro del cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente perché questo prevede la sospensione fino a tre anni, mentre quello non prevedeva espressamente una sanzione predeterminata”. Inoltre, che, “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di informare il cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente sia per le medesime ragioni appena indicate, sia perché qualifica quello di informazione come ‘dovere’, invece che come ‘obbligo'”.

La decisione

Per gli Ermellini, però, il ricorso è manifestamente infondato per due indipendenti ragioni.
La prima ragione è l’erroneità del presupposto di diritto da cui muove il ricorrente: ovvero che, avendo egli commesso il contestato illecito nel 2011, è a tale momento che occorre fare riferimento per individuare la disciplina applicabile ratione temporis.

La censura, osservano infatti dal Palazzaccio, “non tiene conto del fatto che una delle condotte ascritte a titolo di illecito disciplinare all’odierno ricorrente (non restituire il denaro incassato per conto dei clienti) è un illecito permanente”.

Come già stabilito dalla giurisprudenza precedente, aggiungono i giudici, “l’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che si appropria di una somma di denaro destinata a un suo cliente ha natura permanente e la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado” (così Cass. SS.UU. n. 23239/2022). Di conseguenza, la disciplina applicabile andava individuata in base al momento di cessazione della permanenza, non in base al momento di inizio della stessa.
La seconda ragione di infondatezza del ricorso, concludono dalla S.C. rigettando in toto le doglianze dell’avvocato, “è che il codice deontologico del 1997 puniva la violazione degli obblighi in tema di informazione del cliente e gestione del denaro altrui senza fissare la misura o il tipo della sanzione (art. 41 cod. deont. del 1997)”. Dunque, “in modo meno favorevole rispetto al codice deontologico del 2014, del quale pertanto correttamente fu fatta applicazione nel caso di specie, ai sensi dell’art. 65 d.lgs. 247/12”.

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