clausola risolutiva espressa

Clausola risolutiva espressa Clausola risolutiva espressa art. 1456 c.c.: cos'è, come funziona, differenze rispetto alla condizione risolutiva e giurisprudenza

Cos’è la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è una clausola contrattuale che prevede la risoluzione automatica del contratto in caso di inadempimento di uno degli obblighi  che gravano su una delle parti. In altre parole, se una delle parti non adempie agli obblighi stabiliti nel contratto, l’altra parte può considerare il contratto risolto senza necessità di intervento giudiziale.

Questa clausola è esplicitamente indicata nel contratto e deve essere concordata dalle parti al momento della stipula.

Normativa di riferimento: art. 1456 c.c.

La norma che prevede e disciplina la clausola risolutiva espressa è l’articolo 1456 c.c. Esso dispone in particolare che: “1. I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.”

Dal tenore letterale della norma emerge che la risoluzione del contratto non richiede l’intervento di un giudice, ma è automatica, in quanto le parti hanno esplicitamente previsto l’inadempimento come causa di risoluzione. La clausola risolutiva espressa è quindi uno strumento di protezione per le parti contraenti, per evitare lunghe procedure legali per risolvere un contratto in caso di inadempimento.

Funzionamento della clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è un meccanismo automatico di risoluzione, che scatta nel momento in cui si verifica un inadempimento da parte di una delle parti. Tuttavia, affinché la risoluzione si realizzi, è necessario che la clausola sia esplicitamente prevista nel contratto, che l’inadempimento sia di entità tale da giustificare la sua attivazione e che la parte interessata dichiari all’altra parte di volersene avvalere.

Un esempio pratico utile a chiarire

Supponiamo che due parti stipulino un contratto di locazione con una clausola risolutiva espressa che preveda la risoluzione del contratto nel caso in cui una delle parti non paghi il canone entro 30 giorni dalla scadenza. Se il conduttore non paga il canone per un mese, il locatore può ritenere risolto il contratto senza bisogno di una causa legale, comunicando l’intenzione al conduttore di volersi avvalere della clausola. La risoluzione avviene  quindi automaticamente, sulla base di quanto concordato nel contratto. La parte che ha subito l’inadempimento non ha quindi bisogno di rivolgersi al tribunale per chiedere la risoluzione del contratto, proprio perché la clausola prevede già l’eventualità di un effetto automatico a fronte di un comportamento inadempiente.

Differenze con la condizione risolutiva

Molti tendono a confondere la clausola risolutiva espressa con la condizione risolutiva, ma ci sono differenze significative tra le due. Vero che entrambe portano alla risoluzione del contratto, ma la modalità e i presupposti sono diversi.

Cos’è la condizione risolutiva

La condizione risolutiva, come definita dal Codice Civile (Art. 1359), è un evento futuro e incerto che determina la cessazione di un contratto. Il contratto esiste già e ha effetti, ma si risolve automaticamente al verificarsi di una condizione che è incerta e non dipende dall’inadempimento di una delle parti. La condizione risolutiva può essere legata a eventi esterni (ad esempio, l’approvazione di un finanziamento, l’ottenimento di una licenza) e il contratto si risolve solo se tali eventi si verificano. La risoluzione avviene senza bisogno di un’azione delle parti, ma dipende dall’evento specifico concordato.

La differenza con la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa, invece, dipende direttamente dall’inadempimento di una delle parti e prevede una risoluzione automatica del contratto, senza la necessità di un evento futuro e incerto. Il contratto è già in vigore e, se una parte non adempie ai suoi obblighi, il contratto viene risolto in base a quanto stabilito nella clausola. L’inadempimento, quindi, è la causa scatenante, non un evento esterno.

Giurisprudenza  

La giurisprudenza italiana ha esaminato numerosi casi riguardanti la clausola risolutiva espressa e la sua applicazione nei contratti. Ecco alcune sentenze significative:

Cassazione n. 23287/2024: per avvalersi della clausola risolutiva espressa (ex art. 1456 c.c.), l’inadempimento deve essere effettivo; altrimenti, si rischierebbe un abuso del diritto. La buona fede, sancita dagli artt. 1175 e 1375 c.c., guida l’interpretazione per evitare condotte pretestuose e abusi. La giurisprudenza sottolinea che, se il comportamento del debitore è conforme alla buona fede, anche se rientra nei fatti previsti dalla clausola, non può essere considerato inadempimento. Questo principio tutela entrambe le parti da azioni ingiustificate.

Cassazione n. 14195/2022: la tolleranza del creditore (come l’accettazione di pagamenti parziali o tardivi) non elimina la clausola risolutiva espressa né implica una tacita rinuncia ad avvalersene, purché il creditore, contestualmente o successivamente, dichiari l’intenzione di utilizzarla in caso di ulteriori inadempimenti. Secondo la giurisprudenza (Cass. 2005, 2013, 2018), la tolleranza rende temporaneamente inoperante la clausola, ma questa riprende efficacia se il creditore richiama il debitore all’adempimento puntuale delle sue obbligazioni con una nuova manifestazione di volontà.

Cassazione n. 23879/2021: la clausola risolutiva espressa è invalida se non indica specificamente le obbligazioni contrattuali a cui si riferisce. È necessario individuare con precisione gli obblighi la cui violazione giustifica lo scioglimento immediato del contratto. Durante la redazione, è essenziale definire chiaramente le circostanze che possono provocare la risoluzione automatica, evitando riferimenti generici a tutte le obbligazioni contrattuali. In questo modo le parti possono identificare, sin dall’inizio, le violazioni gravi che impediscono la prosecuzione del rapporto, riducendo tempi e costi rispetto a un accertamento giudiziale.

 

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violentometro

Violentometro: cos’è e come funziona Violentometro: che cos’è, come funziona, a che cosa serve, dove trovarlo e perché è importante utilizzarlo

Violentometro: cos’è

Il Violentometro è uno strumento ideato per aiutare le donne a riconoscere i segnali di allarme nelle relazioni e a chiedere aiuto. La sua finalità è di aiutare le donne a identificare i comportamenti violenti e a capire quando è il momento di allontanarsi da una situazione pericolosa.

Origini del violentometro

Il Violentometro è stato creato in Francia nel 2018 e da allora è stato utilizzato in molti paesi in tutto il mondo. In Italia, il Violentometro è stato introdotto nel 2013 e da allora è stato distribuito in migliaia di copie.

Come funziona 

E’ uno strumento grafico che illustra le diverse forme di violenza attraverso una scala cromatica che evidenzia i vari livelli di rischio. Questo strumento incoraggia la riflessione su comportamenti che spesso vengono minimizzati, permettendo di riconoscere la tossicità e la pericolosità delle dinamiche relazionali con il partner. Le condotte che vengono prese in considerazione riguardano diversi aspetti della relazione, come il controllo, la gelosia, le umiliazioni e le aggressioni fisiche. In base alle risposte fornite, il Violentometro fornisce un punteggio che indica il livello di rischio della relazione. Se il punteggio è alto, è importante cercare aiuto da un professionista.

Dove trovarlo

Il Violentometro è disponibile online e in molti centri anti-violenza. È anche possibile scaricarlo gratuitamente da Internet.

A cosa serve 

Si tratta di uno strumento utile per:

  • riconoscere i segnali di allarme nella propria relazione;
  • capire quando è il momento di allontanarsi da una situazione pericolosa;
  • cercare aiuto da un professionista in grado di fornire il giusto supporto;
  • rivolgersi a un centro anti-violenza per intraprendere il percorso di uscita dal contesto violento in cui si vive.

Importanza del violentometro

Il Violentometro è uno strumento importante per combattere la violenza sulle donne. Aiuta le donne a riconoscere i segnali di allarme e a chiedere aiuto prima che la situazione degeneri.

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assegno temporaneo figli minori

Assegno temporaneo figli minori: legittimo escludere i richiedenti asilo Per la Corte Costituzionale è legittima l'esclusione dei richiedenti asilo dall'assegno temporaneo figli minori

Assegno temporaneo figli minori

Con la sentenza n. 40 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’art. 1, comma 1, lett. a), n. 1), del decreto-legge 8 giugno 2021, n. 79 (convertito con modifiche dalla legge 30 luglio 2021, n. 112), che disciplina l’assegno temporaneo per i figli minori.

Le questioni erano state sollevate dal Tribunale di Padova, adito da una cittadina extracomunitaria, madre di due minori e titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo, alla quale l’INPS aveva negato l’assegno temporaneo in quanto priva del requisito del titolo di soggiorno previsto dalla norma (permesso UE per soggiornanti di lungo periodo o permesso per lavoro o ricerca di durata non inferiore a sei mesi).

Nessun contrasto con la Costituzione

Il giudice a quo aveva ipotizzato un contrasto con gli articoli 3 e 31 della Costituzione, ritenendo irragionevole l’esclusione di soggetti in stato di bisogno sulla sola base del titolo di soggiorno. Tuttavia, la Corte ha ritenuto infondate le censure.

Secondo i giudici costituzionali, l’assegno temporaneo non rientra tra le prestazioni sociali essenziali a tutela dei diritti inviolabili della persona. Si tratta, piuttosto, di una misura volta a incentivare la genitorialità, connessa a specifiche condizioni economiche, e destinata a essere assorbita dall’assegno unico universale previsto dal d.lgs. n. 230/2021.

I richiedenti asilo e le altre tutele previste

La Corte ha sottolineato che ai richiedenti asilo e ai loro familiari sono già garantiti diversi strumenti di tutela, tra cui l’assistenza sanitaria, l’accesso all’istruzione per i minori e la possibilità di svolgere attività lavorativa, idonei a fronteggiare i bisogni primari.

Una volta riconosciuta la protezione internazionale o sussidiaria, i beneficiari accedono alle medesime prestazioni sociali previste per i cittadini italiani, compreso l’assegno per i figli.

Discrezionalità legislatore e principio ragionevolezza

In conclusione, la Consulta ha ribadito che il legislatore, nel rispetto del principio di ragionevolezza e tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie, può prevedere criteri selettivi o escludere determinate categorie di stranieri dall’accesso a prestazioni sociali non essenziali. L’esclusione dei richiedenti asilo dall’assegno temporaneo, quindi, non risulta lesiva dei principi costituzionali.

banca ore

Banca Ore Banca ore: cos'è, come è regolata, come funziona, vantaggi per lavoratore e datore di lavoro, come viene pagata

Cos’è la banca ore

La banca ore è uno strumento di gestione flessibile dell’orario di lavoro, pensato per agevolare l’equilibrio tra vita privata e attività professionale e per ottimizzare l’organizzazione aziendale. Permette al lavoratore di accumulare ore di lavoro in eccedenza rispetto al normale orario settimanale, da utilizzare successivamente.

Nel contesto delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro, la banca ore è diventata una risorsa centrale e apprezzata in molte realtà aziendali, sia pubbliche che private.

La banca ore è un conto virtuale individuale in cui vengono registrate le ore lavorate in eccesso rispetto all’orario contrattuale. Tali ore possono essere accumulate e poi “spese” dal lavoratore sotto forma di:

  • permessi od ore di riposo compensativo;
  • monetizzazione (in casi previsti dai contratti collettivi);
  • ore disponibili per esigenze personali o familiari.

Normativa di riferimento

L’istituto della banca ore non è disciplinato direttamente dal Codice del lavoro (D.Lgs. n. 66/2003), ma trova fondamento nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) e negli accordi aziendali o territoriali.

La “banca ore” si inserisce nel quadro normativo italiano sull’orario di lavoro, influenzato dalle direttive europee. In particolare:

  • Legge 24/6/1997, n. 196: definisce il contesto in cui si inserisce la gestione dell’orario di lavoro, aprendo la strada a forme di flessibilità come la banca ore;
  • Direttiva CEE n. 93/104: stabilisce i criteri generali sull’orario di lavoro, consentendo agli Stati membri e alla contrattazione collettiva di introdurre deroghe e adattamenti.

Le circolari dell’INPS hanno fornito indicazioni operative per l’implementazione della banca ore:

  • Circ. INPS n. 40 del 20/02/1996
  • Circ. INPS n. 39 del 17/2/2000
  • Circ. INPS n. 95 del 16/5/2000

Come funziona la banca ore

Le modalità di funzionamento della banca ore sono stabilite dal contratto collettivo applicato o da un regolamento aziendale, e possono variare da un’azienda all’altra. In generale:

  1. Accumulo delle ore: ogni volta che il dipendente presta attività oltre l’orario ordinario (es. 40 ore settimanali), queste vengono conteggiate e archiviate nella banca ore.
  2. Utilizzo delle ore: le ore accumulate possono essere utilizzate per:
  • recuperare tempo (es. uscita anticipata, giornata libera);
  • far fronte a esigenze personali o familiari;
  • in alternativa al pagamento degli straordinari, in base all’accordo vigente.
  1. Limiti temporali: molti contratti prevedono un periodo massimo entro cui le ore devono essere utilizzate, oltre il quale si perdono o vengono monetizzate.

Il ricorso alla banca ore è volontario e deve essere regolato da un accordo tra le parti.

Come viene pagata  

Le ore accantonate nella banca ore pertanto possono essere “retribuite” in due modalità:

  1. con riposo compensativo: il dipendente utilizza le ore come se fossero ferie o permessi, senza trattenuta in busta paga;
  2. con pagamento in busta paga: quando previsto dal contratto collettivo o dall’accordo aziendale, il dipendente può richiedere la monetizzazione, spesso con la stessa maggiorazione prevista per il lavoro straordinario (es. +25%, +50% a seconda del giorno e dell’orario).

In fase di cessazione del rapporto di lavoro, tutte le ore residue non godute vengono generalmente liquidate insieme al TFR e agli altri istituti contrattuali.

Vantaggi della banca ore

Per il lavoratore:

  • maggiore equilibrio tra vita e lavoro;
  • possibilità di gestire con autonomia il proprio tempo;
  • recupero di ore extra senza dover ricorrere necessariamente alle ferie.

Per il datore di lavoro:

  • maggiore flessibilità nell’organizzazione delle attività;
  • riduzione del costo degli straordinari;
  • incentivo al benessere organizzativo e alla produttività.

Banca ore e straordinari: le differenze

La principale differenza tra la banca ore e il lavoro straordinario sta nella gestione del tempo e della retribuzione:

Aspetto

Banca ore

Lavoro straordinario

Finalità

Flessibilità e recupero tempo

Incremento salariale

Compensazione

Riposo compensativo (in genere)

Maggiorazione retributiva

Volontarietà

Deve essere concordata

Può essere ordinato dal datore di lavoro

Normativa

Regolata da CCNL e accordi

Regolato per legge (D.Lgs. 66/2003)

Alcuni contratti collettivi consentono anche la monetizzazione delle ore in banca ore in particolari condizioni, ad esempio alla cessazione del rapporto di lavoro o al superamento di una soglia predefinita.

 

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avvocati e praticanti

Avvocati e praticanti: i bandi 2025 di Cassa Forense Cassa Forense ha pubblicato i bandi 2025 destinati ad avvocati e praticanti iscritti. 19 bandi di assistenza finalizzati a sostenere la professione, la salute e la famiglia

Cassa Forense: pubblicati i nuovi bandi 2025

La Cassa Forense ha approvato per il 2025 un pacchetto di 19 bandi di assistenza, finalizzati a sostenere la professione forense, la salute e la famiglia, con uno stanziamento complessivo pari a 20 milioni di euro. Tra le novità più rilevanti, si segnalano i contributi economici riservati a praticanti e avvocate vittime di violenza di genere, i sussidi per la preparazione all’esame di abilitazione e le agevolazioni per le spese di alloggio in studentati universitari.

Nuovi contributi 2025: inclusione e supporto

Tre i nuovi interventi introdotti:

  • Contributo in favore di avvocate e praticanti vittime di violenza (bando n. 6/2025), destinato a offrire un sostegno reale a chi si trova in condizione di fragilità;

  • Sussidi per i praticanti che affrontano l’esame di Stato (bando n. 7/2025), a copertura dei costi di corsi formativi e materiali professionali;

  • Contributi per le spese di alloggio in studentati (bando n. 17/2025), per i figli universitari degli iscritti alla Cassa.

Il presidente Valter Militi ha dichiarato che questi strumenti sono una risposta concreta all’urgenza sociale e un segnale chiaro di solidarietà istituzionale, finalizzato a garantire pari opportunità e contrastare ogni forma di discriminazione e violenza.

Misure confermate e platea dei beneficiari

Accanto ai nuovi bandi, restano attivi i contributi già collaudati negli anni precedenti, tra cui:

  • contributi per l’acquisto di strumenti informatici;

  • sussidi per la partecipazione ai centri estivi dei figli minori;

  • premi e borse di studio per merito o per situazioni familiari particolari.

I beneficiari possono essere:

  • avvocati iscritti alla Cassa;

  • praticanti iscritti;

  • pensionati per invalidità (purché in regola con obblighi dichiarativi e contributivi).

La regolarità contributiva e dichiarativa costituisce requisito imprescindibile per l’ammissione ai singoli bandi.

Contributo ai praticanti: plauso di Aiga

Particolare apprezzamento è stato espresso dall’Associazione Italiana Giovani Avvocati (AIGA) per il contributo fino a 1.000 euro rivolto ai praticanti, utile a sostenere le spese per corsi di formazione e per l’acquisto di strumenti utili all’avvio della professione. AIGA ha evidenziato come questa misura rappresenti un passo significativo per contenere gli effetti della soppressione del dimezzamento del contributo soggettivo minimo, auspicando un adeguamento del relativo regolamento.

Elenco dei bandi Cassa Forense 2025

Di seguito, l’elenco completo dei bandi attivi per il 2025, con le rispettive finalità e fondi stanziati:

Bando Oggetto Importo stanziato (€)
1/2025 Prestiti under 35 2.500.000
2/2025 Strumenti informatici 1.800.000
3/2025 Organizzazione studi – Persone fisiche 150.000
4/2025 Organizzazione studi – Persone giuridiche 150.000
5/2025 Attrezzatura sale videoconferenza 300.000
6/2025 Sostegno a vittime di violenza (avvocate/praticanti) 500.000
7/2025 Preparazione esame di abilitazione 1.000.000
8/2025 Esercizio professionale per avvocati con disabilità 150.000
9/2025 Centri estivi per figli minori 1.800.000
10/2025 Corsi di alta formazione 1.500.000
11/2025 Borse di studio per titolo di cassazionista 400.000
12/2025 Premio “Marco Ubertini” per nuovi abilitati 200.000
13/2025 Contributi per ospitalità in case di riposo 200.000
14/2025 Contributo per figli nati/adottati nel 2024 3.000.000
15/2025 Borse di studio per orfani 350.000
16/2025 Borse di studio per studenti universitari 700.000
17/2025 Alloggi in studentati per figli universitari 2.000.000
18/2025 Famiglie numerose 2.000.000
19/2025 Famiglie monogenitoriali 800.000

Modalità di partecipazione e requisiti

Le domande devono essere presentate esclusivamente online tramite l’area riservata del sito ufficiale della Cassa Forense, sezione “Assistenza”. L’accesso è subordinato al possesso della regolarità contributiva e dichiarativa verificabile direttamente nella procedura.

Non è consentito ottenere più contributi della stessa tipologia nello stesso anno. Ogni domanda sarà valutata in base alla conformità ai requisiti previsti dal Regolamento dell’assistenza e alle disponibilità di bilancio.

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fasi del procedimento amministrativo

Le fasi del procedimento amministrativo Le fasi del procedimento amministrativo: quali sono, riferimenti normativi, funzionamento e giurisprudenza

Fasi del procedimento amministrativo

Le fasi del procedimento amministrativo scandiscono il percorso attraverso cui la Pubblica Amministrazione (PA) adotta un provvedimento finale, nel rispetto di principi fondamentali come trasparenza, imparzialità ed efficacia.

La loro disciplina è contenuta nella legge n. 241/1990, che definisce le regole procedurali per garantire la tutela dei cittadini e il buon andamento dell’amministrazione.

Secondo la normativa vigente e la giurisprudenza, il procedimento amministrativo si articola in quattro fasi principali:

  1. iniziativa (avvio del procedimento)
  2. istruttoria (raccolta delle informazioni e valutazioni)
  3. decisoria (adozione del provvedimento)
  4. integrativa dell’efficacia (fase eventuale per la piena operatività dell’atto)

Analizziamo nel dettaglio ogni fase, con riferimenti normativi e giurisprudenziali.

1. L’iniziativa

Riferimento normativo: art. 2 e art. 7 legge 241/1990

La fase iniziale del procedimento consiste nell’attivazione dell’azione amministrativa, che può avvenire:

  • d’ufficio, quando è la stessa PA a dare avvio al procedimento (es. controlli fiscali, autorizzazioni obbligatorie).
  • su istanza di parte, quando il procedimento è attivato su richiesta di un soggetto interessato (es. domanda di concessione edilizia, richiesta di permesso di soggiorno).

Consiglio di Stato sentenza n. 4925/2012: la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo può essere omessa quando l’amministrazione è obbligata e vincolata ad adottare un determinato provvedimento finale, i fatti su cui si basa l’atto sono pacificamente accettati, le norme applicabili sono chiare e univoche, e un’eventuale annullamento per mancata comunicazione non impedirebbe all’amministrazione di emanare un nuovo atto identico, anche riguardo alla sua efficacia temporale.

2. La fase istruttoria

Riferimento normativo: artt. 8-12 legge 241/1990

La fase istruttoria è cruciale per raccogliere le informazioni necessarie a una decisione motivata e legittima. Durante questa fase, la PA svolge attività:

  • di acquisizione di documenti e pareri (es. verifiche tecniche, istruttorie ambientali).
  • di audizione delle parti interessate (diritto di partecipazione, art. 10 legge 241/1990).
  • di ispezioni o perizie.

Consiglio di Stato n. 3224/2010: La mancata considerazione dei contributi presentati dal privato durante il procedimento amministrativo rende illegittimo il provvedimento conclusivo per carenza di motivazione.

3. La fase conclusiva della decisione

Riferimento normativo: art. 2 e art. 21-quinquies legge 241/1990

Conclusa l’istruttoria, la PA adotta il provvedimento finale, che può essere:

  • accoglimento dell’istanza (es. concessione edilizia);
  • diniego (es. rifiuto di un’autorizzazione);
  • un provvedimento di autotutela (es. revoca di una licenza).

4. Fase integrativa dell’efficacia (eventuale)

Non tutti i provvedimenti producono effetti immediati: alcuni necessitano di ulteriori adempimenti per diventare efficaci, come:

  • pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (es. regolamenti ministeriali).
  • notifica agli interessati (es. revoca di autorizzazioni).
  • registrazione o visto di controllo (es. atti che richiedono approvazione superiore).

 

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giurista risponde

Dichiarazione di ignoranza inevitabile La dichiarazione di ignoranza inevitabile dell’età di un minore può escludere la responsabilità penale ai sensi degli artt. 609quater e 609sexies c.p. per reati sessuali nei confronti di una persona al di sotto dei quattordici anni?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

La Corte di Cassazione ha escluso che la dichiarazione di ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa possa valere come scriminante per l’imputato, salvo dimostrazione di una verifica diligente e approfondita da parte dell’imputato per accertare l’età della vittima (Cass., sez. III, 19 settembre 2024, n. 45805).

La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione affronta il delicato tema della responsabilità penale per reati sessuali con minori, concentrandosi sui criteri per valutare l’ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa e l’importanza di tutelare l’integrità psicofisica del minore nella sfera sessuale.

Il GUP del Tribunale di Genova ha riconosciuto l’imputato responsabile di un’ipotesi di concorso formale tra reati, condannandolo per i fatti previsti dagli artt. 81 e 609quater c.p., relativi a rapporti sessuali consenzienti con una minore di quattordici anni, e dagli artt. 73, comma 5, e 80 del D.P.R. 309/90, concernenti la cessione di sostanze stupefacenti alla medesima persona offesa.

In sede di giudizio, il Tribunale ha concesso l’attenuante della minore gravità ai sensi dell’art. 609quater, comma 6, c.p. e quella prevista dall’art. 62, n. 6, c.p. per la riparazione del danno.

Applicata la riduzione di pena connessa al rito abbreviato, l’imputato è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione.

Successivamente, la Corte d’Appello di Genova, pronunciandosi sia sull’appello proposto dall’imputato che sul ricorso per Cassazione del Procuratore Generale, ha riconosciuto ulteriori attenuanti generiche e ridotto la pena a dieci mesi di reclusione.

La sentenza della Suprema Corte rappresenta un consolidamento della giurisprudenza che valorizza la tutela del minore nella sfera sessuale, anche alla luce delle normative internazionali e nazionali. Essa si pone in continuità con precedenti orientamenti giurisprudenziali precisando che l’ignoranza inevitabile è configurabile solo qualora nessun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, possa essere rivolto all’agente per non aver rispettato il dovere di accertarsi adeguatamente dell’età del soggetto coinvolto (così Cass., sez. III, 10 dicembre 2013, n. 3651; Cass., sez. III, 6 maggio 2014, n. 37837).

La Corte pone l’accento sul dovere di diligenza chiarendo che in tali circostanze è necessario compiere controlli adeguati e proporzionali alla rilevanza del bene giuridico tutelato rappresentato dal libero sviluppo psicofisico dei minori.

Avallando quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, nel caso di specie, tali controlli avrebbero potuto includere richieste di informazioni a parenti della vittima o verifiche oggettive sulla sua età.

Nella decisione de qua la Cassazione precisa che dichiarazioni mendaci del minore circa la propria età o indizi fisici non possono essere considerate sufficienti per invocare la scriminante ex art 609sexies (del pari Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n.775).

Tale interpretazione riflette l’importanza di preservare il libero sviluppo psicofisico dei minori e di evitare esperienze traumatiche che possano compromettere il loro futuro chiarendo che qualsiasi condotta che arrechi un pregiudizio rilevante a tale bene giuridico non può considerarsi priva di offensività, anche se vi è il consenso del minore (così anche Cass. pen., sez. III, 14 dicembre 2011, n.12464).

La pronuncia in questione rafforza l’obbligo di comportamenti responsabili e scrupolosi in situazioni che coinvolgono minori definendo i confini applicativi della scriminante di cui all’art. 609sexies c.p.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, ha confermato la condanna e ha disposto il pagamento delle spese processuali nonché di una somma in favore della Cassa delle ammende, sottolineando che l’imputato non aveva soddisfatto i criteri per invocare l’ignoranza inevitabile.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di ignoranza inevitabile”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

spese legali stragiudiziali

Spese legali stragiudiziali al condomino moroso: delibera nulla Non è valida la delibera assembleare che imputa al singolo condomino moroso le spese legali stragiudiziali

Spese legali stragiudiziali in condominio

Spese legali stragiudiziali in condominio: il Tribunale di Pavia, con la sentenza n. 178/2025, ha chiarito che non è valida la delibera assembleare che imputa al singolo condomino moroso le spese legali sostenute per l’invio della diffida di pagamento, trattandosi di una spesa che rientra nell’interesse comune.

Il caso esaminato

Nella vicenda, una condomina aveva regolarmente corrisposto le prime due rate del bilancio preventivo, ma si era vista recapitare una lettera di costituzione in mora nella quale si richiedeva anche il rimborso delle spese legali.

La questione finiva, quindi, in giudizio, al fine di ottenere la dichiarazione di nullità della delibera assembleare con conseguente restituzione della somma, perchè non dovuta, in quanto percepita sulla base di una delibera assembleare condominiale nulla.

Il principio affermato dal Tribunale

Nel decidere il merito del ricorso, il tribunale afferma che la questione controversa è se l’imputazione in bilancio delle spese legali per il recupero di crediti in via stragiudiziale debba essere effettuata con riferimento, in via esclusiva, al condomino moroso.

Dopo aver analizzato la normativa del codice civile e gli indirizzi giurisprudenziali in materia, il giudice di Pavia ritiene di dover aderire all’orientamento secondo il quale “pur essendo astrattamente consentito addebitare spese asingoli condomini di natura ‘personale’, queste devono necessariamente ed obbligatoriamente ancorarsi ad una diversa e maggiore utilità concreta che il condomino trae dall’utilizzo diversificato di una o più parti comuni dell’edificio condominiale” (cfr. Cass. n. 12573/2019; Cass. n. 18503/2020).

La spesa per compensi in ragione di attività prestata dall’avvocato incaricato dall’amministratore di condominio era, quindi, non addebitabile esclusivamente ala ricorrente (in assenza di suo esplicito consenso e di espressa previsione del regolamento di condominio), ma doveva essere ripartita fra tutti i condomini in base al criterio legale dei millesimi, dato che i costi in esame non erano in nessun modo inerenti all’uso differenziato delle parti comuni condominiali. Al contrario, l’intero condominio ha beneficiato della stessa attività di legale.

La decisione

La delibera assembleare impugnata, quindi, per il tribunale, deve essere dichiarata nulla perché adottata dall’assemblea in violazione dei criteri stabiliti dalla legge.
La nullità comporta sul piano giuridico l’obbligo di restituzione della somma versata da parte della condomina.

Allegati

reato di peculato

Reato di peculato Il reato di peculato di cui all'art. 314 del codice penale: cos'è, come funziona e differenze con la concussione

Cos’è il reato di peculato

Il reato di peculato si verifica quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio si appropria, indebitamente, di denaro o beni mobili altrui, di cui ha il possesso o la disponibilità in virtù del suo ufficio o servizio. La norma si pone l’obiettivo di tutelare gli interessi di natura patrimoniale della PA e quindi il suo buon andamento.

Art. 314 c.p: reato di peculato

L’articolo 314 c.p, che punisce il reato di peculato, recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizi, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.”

Questo articolo prevede quindi che, nel caso in cui un pubblico ufficiale (come un ministro, un funzionario pubblico, un agente della polizia, ecc.) o un incaricato di pubblico servizio (ad esempio, un consulente pubblico o un appaltatore) si appropri di denaro o cose mobili altrui in suo possesso per ragioni di servizio o ufficio, venga punito con la reclusione da 4 fino a 10 anni e sei mesi.

Elemento oggettivo 

L’elemento oggettivo del reato di peculato è rappresentato dall’appropriazione indebita di denaro o beni mobili altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio. Perché il reato si configuri deve esserci una appropriazione del denaro o d altre cose mobili che sono nel suo possesso in ragione del suo ufficio o servizio.

Se il soggetto attivo del reato si appropria del denaro o dei beni mobili altrui, solo per farne un uso momentaneo e poi restituisce il tutto si configura il reato di peculato d’uso.

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo del reato di peculato è il dolo generico. Esso si traduce nella volontà di appropriarsi dei beni pubblici per un scopo personale, che può essere economico o materiale. È essenziale che l’appropriazione venga compiuta con consapevolezza e intenzionalità. La condotta deve essere volontaria e il pubblico ufficiale deve agire con l’intenzione di trarre un beneficio illecito.

Nel peculato d’uso invece il dolo è specifico e consiste nella volontà di fare un uso momentaneo del denaro e delle cose pubbliche.

Pena e procedibilità del reato di peculato

Per il reato di peculato è la reclusione da 4 a 10 anni e sei mesi. La pena può essere maggiorata in caso di circostanze aggravanti (es: danno particolarmente grave per la pubblica amministrazione o coinvolgimento di più persone). La reclusione può essere invece ridotta se il reo restituisce i beni o il denaro di cui si è appropriato prima del processo. In questo modo egli dimostra infatti la volontà di riparare il danno arrecato.

Il peculato è un reato procedibile d’ufficio. Non è necessaria quindi la querela della parte lesa per avviare il procedimento penale. In altre parole il processo penale può essere avviato anche senza che la pubblica amministrazione presenti una denuncia. Questo aspetto è importante per tutelare l’interesse pubblico e impedire che l’azione penale possa essere bloccata da eventuali interessi privati.

Peculato e concussione a confronto

Sebbene il peculato e la concussione abbiano entrambi, come protagonisti, i pubblici ufficiali, i due reati si differenziano in modo significativo sotto il profilo della condotta e dell’intento dell’agente.

  • Peculato: il pubblico ufficiale si appropria indebitamente di beni o risorse che gli sono stati affidati per ragioni di servizio o ufficio. In questo caso, la condotta è quella di appropriarsi di risorse pubbliche per fini personali.
  • Concussione (art. 317 c.p.): il pubblico ufficiale costringe una persona a dargli o promettergli indebitamente denaro o altre utilità, abusando delle sue qualità e dei suoi poteri.

Il peculato implica l’appropriazione di beni o denaro, mentre la concussione si fonda sull’intimidazione che il pubblico ufficiale esercita nei confronti di un terzo per farsi dare o promettere denaro o altre utilità.

Giurisprudenza

La giurisprudenza ha fornito importanti chiarimenti sul reato di peculato. Di seguito alcune sentenze significative.

Cassazione n. 11928/2025

Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, confermato dai principi stabiliti dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19054 del 20/12/2012, l’utilizzo di un’auto di servizio per scopi privati è generalmente vietato. Si presume che tali veicoli siano destinati esclusivamente all’uso pubblico, a meno che non esistano provvedimenti ufficiali che autorizzino deroghe specifiche e documentate. In assenza di tali autorizzazioni, l’uso dell’auto di servizio per fini personali costituisce reato di peculato.

Cassazione n. 4520/2025

Il delitto di indebita destinazione di denaro o cose mobili, disciplinato dall’articolo 314-bis del codice penale, punisce le azioni di distrazione dei beni menzionati che, in precedenza, la giurisprudenza considerava rientranti nell’abrogato reato di abuso d’ufficio; pertanto, l’introduzione di questa nuova fattispecie non ha modificato l’ambito di applicazione del reato di peculato.

Cassazione n. 39546/2024

Il reato di peculato protegge sia il patrimonio della pubblica amministrazione sia l’integrità del suo operato, sussistendo anche in assenza di danno economico se l’interesse alla legalità viene violato. Il fulcro del reato risiede nell’abuso del possesso del bene da parte del funzionario, che lo usa per fini personali anziché istituzionali, anche senza arrecare un danno economico all’ente pubblico. Tuttavia, l’uso simultaneo del bene per scopi privati e pubblici non configura peculato se non causa un apprezzabile danno economico o funzionale all’amministrazione, poiché in tal caso non si verifica l’interversione del possesso che costituisce l’essenza del reato.

 

Leggi anche: Peculato d’uso: configurabilità

totalizzazione dei contributi

La totalizzazione dei contributi Totalizzazione dei contributi: cos’è, come funziona e quando conviene

Cos’è la totalizzazione dei contributi

La totalizzazione dei contributi è un istituto previdenziale che consente ai lavoratori di sommare gratuitamente i contributi versati in diverse gestioni previdenziali al fine di ottenere un’unica pensione. È particolarmente utile per chi ha avuto carriere lavorative discontinue o ha versato contributi in più enti previdenziali, senza aver maturato autonomamente il diritto alla pensione in ciascuna gestione.

Normativa

La totalizzazione è un meccanismo che permette di cumulare gratuitamente i contributi versati in più casse previdenziali pubbliche o private per ottenere una pensione unitaria. È regolata dal decreto legislativo n. 42/2006, successivamente modificato dalla legge n. 247/2007, dal decreto legge n. 78/2010; il decreto legge n. 201/2011; dal decreto del Presidente della Repubblica n. 157/2013.

Caratteristiche della totalizzazione dei contributi

L’istituto della totalizzazione presenta le seguenti caratteristiche distintive:

  • gratuità: a differenza della ricongiunzione, non prevede costi per il lavoratore;
  • obbligo di calcolo contributivo: la pensione viene calcolata interamente con il sistema contributivo, anche per i periodi antecedenti il 1996 (se presenti),
  • versamento di contributi in almeno due gestioni previdenziali;
  • minimo di 20 anni complessivi per ottenere la pensione di vecchiaia.

Quando conviene la totalizzazione dei contributi

La totalizzazione è conveniente nei seguenti casi:

  • carriere discontinue: utile per chi ha cambiato più lavori e ha versato contributi in enti diversi senza raggiungere il minimo richiesto in ogni gestione;
  • assenza di un diritto autonomo alla pensione: se un lavoratore non ha maturato la pensione in una singola gestione, può cumulare i contributi per ottenerne una unica;
  • evitare i costi della ricongiunzione: la totalizzazione è gratuita, mentre la ricongiunzione è spesso onerosa;
  • avere diritto a una pensione di anzianità: con la totalizzazione si può accedere alla pensione di anzianità con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica.

Tuttavia, la totalizzazione potrebbe non essere conveniente per chi ha maturato contributi prima del 1996 con il sistema retributivo (se non ha maturato un diritto autonomo alla pensione in nessuna delle gestioni interessate) poiché il calcolo contributivo può ridurre l’importo della pensione rispetto a quello ottenibile con una ricongiunzione.

Differenza tra totalizzazione e ricongiunzione

Molti lavoratori si chiedono se sia meglio ricorrere alla totalizzazione o alla ricongiunzione.

Vediamo le principali differenze:

Caratteristica Totalizzazione Ricongiunzione
Costo Gratuita A pagamento (spesso elevato)
Calcolo pensione Contributivo Mantiene il sistema originario (retributivo o contributivo)
Anzianità minima Nessuna Nessun minimo richiesto
Pensione autonoma Unica pensione INPS La posizione viene accentrata in un solo ente
Età pensionabile 66 anni e 7 mesi (vecchiaia), 41 anni di contributi (anzianità) Dipende dall’ente previdenziale di destinazione

In generale, la ricongiunzione è conveniente per chi ha molti contributi retributivi e vuole mantenere un calcolo più favorevole, mentre la totalizzazione è indicata per chi cerca una soluzione gratuita per ottenere una pensione.

Quale pensione si ottiene con la totalizzazione

Chi utilizza la totalizzazione può accedere a diversi tipi di pensione, in base ai contributi maturati:

Pensione di vecchiaia

Richiede 66 anni 

Almeno 20 anni di contributi totali

Almeno 2 gestioni previdenziale coinvolte

Pensione di anzianità

Possibile con 41 anni di contributi a prescindere dall’età

Utile per chi ha avuto carriere lunghe ma frammentate in diverse gestioni

Pensione di inabilità

Spetta a chi ha invalidità totale e permanente

Requisiti contributivi differenti a seconda delle gestioni coinvolte

Pensione ai superstiti

Se il lavoratore deceduto aveva diritto alla totalizzazione, il coniuge o i familiari possono richiedere la pensione di reversibilità

Procedura per la totalizzazione dei contributi

La procedura per totalizzare i contributi è gestita dall’INPS ed è relativamente semplice e si snoda attraverso i seguenti step:

1. presentazione della domanda:il lavoratore deve inviare una richiesta all’INPS per l’applicazione della totalizzazione;

2. verifica dei contributi: l’INPS raccoglie i dati dai diversi enti previdenziali e verifica se il lavoratore ha i requisiti per la totalizzazione;

3. calcolo della pensione: ogni gestione calcola la quota di pensione spettante secondo il sistema contributivo. L’INPS somma le quote per determinare l’importo finale della pensione.

4. erogazione della pensione: la pensione viene erogata direttamente dall’INPS, anche se i contributi erano stati versati ad altri enti.

Considerazioni finali

La totalizzazione dei contributi è una soluzione utile per chi ha lavorato in più settori e ha versato contributi in enti previdenziali differenti. Permette di ottenere una pensione unitaria senza costi aggiuntivi, ma è importante considerare che la pensione verrà calcolata con il sistema contributivo, che potrebbe essere meno vantaggioso per chi ha periodi di lavoro antecedenti al 1996. Prima di scegliere la totalizzazione, è consigliabile valutare attentamente la propria posizione contributiva ed eventualmente confrontarla con la ricongiunzione per capire quale opzione garantisce la pensione più favorevole.