giurista risponde

Adescamento di minore e reati-fine: quale confine Come si atteggia il delitto di adescamento di minore previsto e punito dall’art. 609undecies c.p. rispetto ai reati-fine cui tende la condotta dell’agente?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

Il delitto di adescamento, di cui all’art. 609undecies c.p., è stato introdotto dalla L. 1° ottobre 2012, n. 172, recante la ratifica della Convenzione di Lanzarote, per accrescere la tutela del minore rispetto ai pericoli cui è esposto, in particolare sul web, e contiene una clausola di riserva “se il fatto non costituisce più grave reato”. Punisce infatti solo le condotte prodromiche a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli art. 609bis, 609quater, 609quinquies, 609octies c.p., sempre che non si sia verificato il reato fine. Il presupposto, pertanto, è che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato fine. Si tratta quindi di una tutela anticipata rispetto alla commissione del reato fine, sia pure allo stadio del tentativo, e non è ammesso il concorso formale tra i due reati, perché vi sarebbe un bis in idem (Cass. sez. VI, 23 gennaio 2025, n. 2787).

Avverso la sentenza di condanna pronunciata in secondo grado che riconosceva la responsabilità penale dell’imputato in ordine al delitto previsto e punito dall’art. 609undecies c.p., la difesa ricorreva per Cassazione, eccependo violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo alla carenza dell’elemento soggettivo del reato di adescamento sotto il duplice profilo dell’assenza di prova dell’intenzione di commettere il reato-fine di atti sessuali con minorenne e della mancanza di prova della conoscenza o conoscibilità dell’età della persona offesa.

Dall’ipotesi accusatoria recepita dai giudici di merito, emergeva che l’imputato – venticinquenne – avesse adescato la persona offesa – dodicenne – su un social, carpendone la fiducia mediate la cessione delle credenziali di accesso alla piattaforma Netflix, finalizzata ad ottenere incontri sessuali. Inequivocabile appariva l’intento dal contenuto erotico delle conversazioni virtuali intrattenute, connotate da richieste ed inoltro da parte dell’imputato di materiale pornografico autoprodotto, nonché dalle bramose richieste di incontro in circostanze di intimità. Parimenti sconfessata appariva l’eccezione della difesa in ordine alla conoscibilità dell’età della persona offesa, atteso che quest’ultima denegava una richiesta d’incontro a causa della punizione impartita dai genitori.

Ebbene, la Suprema Corte adita – ritenendo il ricorso complessivamente infondato – ha trattato della fattispecie di adescamento di minore, analizzandone natura e funzione. Partendo dalla ratio legis della fattispecie in esame – rappresentata dalla necessità di tutelare i minori rispetto ai pericoli cui sono esposti, in particolare sul web, concepita al precipuo scopo di neutralizzare il rischio di commissione di reati più gravi – e dall’analisi della casistica nella quale si è costantemente ravvisato il tentativo del delitto di atti sessuali con minorenni, la Corte di legittimità ha evidenziato quanto segue. La disposizione di cui all’art. 609undecies c.p., integrando un reato di pericolo concreto, offre una tutela anticipata al bene giuridico che mira a proteggere (corretto sviluppo psicofisico del minore e sua autodeterminazione), criminalizzando condotte prodromiche rispetto a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli artt. 609bis, 609quater, 609quinquies e 609octies c.p., sempreché non si sia verificato il reato fine. Segnatamente, il delitto de quo si configura allorquando l’agente ponga in essere – attraverso artifici, lusinghe o minacce – atti volti a carpire la fiducia del minore, al fine di attrarre la persona offesa al proprio volere e addivenire al compimento del reato-fine. Affinché si configuri il delitto di cui all’art. 609undecies c.p. è, pertanto, necessario che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato-fine, cui si accede quando si passa a richieste insistenti o pressanti di ottenere materiale pornografico ovvero atti sessuali. Quanto detto fuga ogni dubbio in ordine alla tenuta costituzionale della norma rispetto al principio di offensività. Parimenti è a dirsi per quanto concerne la legittimità della norma rispetto ai principi di determinatezza e proporzionalità della pena, atteso che il vaglio sull’elemento soggettivo del reato – dolo specifico – e sulla materialità dello stesso è ancorato a parametri oggettivi dai quali possa dedursi il movente sessuale e che gli atti posti in essere dall’agente finalisticamente orientati alla commissione del reato fine sono sanzionati con una cornice edittale autonoma – equa, proporzionata e inferiore – rispetto a quella prevista per i delitti cui accede. Di qui, la compatibilità del sistema anche con il principio di rieducazione della pena.

 

(*Contributo in tema di “Il confine tra il delitto di adescamento di minore e i reati-fine che la norma mira a prevenire”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Naspi

Naspi, ferie e riposi contano come giornate di lavoro effettivo La Cassazione chiarisce: per la Naspi valgono ferie e giorni retribuiti come lavoro effettivo. Anche le pause rientrano nel requisito dei 30 giorni

Naspi, il concetto di lavoro effettivo

La Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 15660/2025, ha precisato i criteri interpretativi relativi al requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” richieste per l’accesso alla NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego). Secondo la Corte, non solo le giornate di effettiva attività lavorativa, ma anche quelle di ferie e riposi retribuiti contribuiscono al raggiungimento del requisito.

Ferie e pause retribuite: giorni da includere

I giudici hanno ribadito che le giornate in cui il lavoratore è in ferie o in pausa retribuita non interrompono il sinallagma contrattuale. Anche in assenza di attività materiale, l’obbligo retributivo e contributivo permane, rendendo queste giornate giuridicamente assimilabili al lavoro effettivo.

Tali momenti, infatti, sono considerati parte integrante e fisiologica del rapporto di lavoro, finalizzati alla tutela della salute e al recupero psico-fisico del dipendente.

Lavoro effettivo: interpretazione giuridica

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “lavoro effettivo” non va interpretato in senso strettamente materiale, cioè come prestazione fisica resa, ma secondo un’accezione giuridica. Conta ogni giornata che dà diritto alla retribuzione e alla contribuzione, a prescindere dalla concreta attività lavorativa svolta.

Naspi: i principi di diritto fissati dalla Cassazione

Nel corpo della sentenza, la Suprema Corte ha espresso due importanti principi di diritto applicabili ai casi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2025, in base all’art. 3, comma 1, lett. c), del D.lgs. 22/2015, nella versione anteriore alla riforma della legge n. 207/2024:

  • Sono valide ai fini della Naspi tutte le giornate che comportano retribuzione e contribuzione, comprese ferie e riposi;

  • Non vanno conteggiati i periodi di sospensione del rapporto per cause tutelate dalla legge, che vengono considerati “neutrali” nel computo dei 12 mesi precedenti l’inizio della disoccupazione.

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furto d'auto

Furto d’auto in hotel? Niente risarcimento senza contratto di deposito La Cassazione nega l’indennizzo per il furto d’auto in hotel: serve un vero contratto di deposito, non basta il parcheggio all’interno della struttura

Furto d’auto nel parcheggio dell’hotel

Con l’ordinanza n. 12840/2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di furto d’auto nel parcheggio di un hotel, l’albergatore non è automaticamente responsabile, a meno che non sia stato perfezionato un contratto di deposito. L’esistenza di tale contratto è infatti il presupposto imprescindibile per poter ottenere un indennizzo.

Il contratto di deposito: quando si perfeziona

Secondo il Codice civile (artt. 1766 ss.), il contratto di deposito è di natura reale: si perfeziona solo con la consegna della cosa mobile e, in certi casi, anche delle chiavi, quando necessarie alla custodia. Il depositario ha l’obbligo di custodire e restituire il bene, salvo eventi indipendenti dalla sua volontà.

Nel caso del furto, l’art. 1780 c.c. stabilisce che il depositario è liberato dalla responsabilità solo se denuncia immediatamente l’accaduto e dimostra che l’evento non gli è imputabile.

Il caso: furto d’auto e richiesta di risarcimento

Un cliente (Sempronio) aveva soggiornato in un albergo, parcheggiando la propria auto in un’area interna alla struttura. In seguito al furto del veicolo, aveva citato l’hotel per ottenere un risarcimento, sostenendo che il servizio di parcheggio fosse incluso nel soggiorno e che ciò integrasse un contratto di deposito.

La struttura alberghiera si è difesa sostenendo che non vi era stata alcuna consegna né dell’auto né delle chiavi, e che il cliente aveva solo usufruito di uno spazio delimitato, senza alcun accordo specifico di custodia.

Nessuna responsabilità dell’hotel

Sia il tribunale di primo grado che la Corte d’appello hanno respinto la richiesta di risarcimento. Il cliente ha proposto ricorso per Cassazione, invocando una presunta violazione dell’art. 1780 c.c., ma la Suprema Corte ha confermato le decisioni precedenti.

Gli Ermellini hanno chiarito che il solo fatto che il parcheggio sia interno alla struttura non implica la nascita automatica di un contratto di deposito. Senza consegna del veicolo e delle chiavi, e in assenza di specifiche condizioni pattuite, manca il presupposto giuridico per l’obbligo di custodia e, di conseguenza, per il risarcimento in caso di furto.

rifiuto della quarta pec

Rifiuto della quarta pec: focus sui motivi del rigetto La Cassazione chiarisce che in caso di rifiuto della quarta pec, la parte deve contestare solo le ragioni indicate dalla cancelleria

Deposito PCT rigettato

Rifiuto della quarta pec: con l’ordinanza n. 15801/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito un importante principio in materia di processo civile telematico (PCT). Quando un atto viene rifiutato dalla cancelleria a seguito del controllo manuale (la cosiddetta “quarta PEC”), l’onere della parte si limita a contestare i motivi indicati nel rigetto, senza dover dimostrare la regolarità dell’intero processo di invio.

Il caso concreto riguardava una S.c.a.r.l. che aveva proposto opposizione allo stato passivo di un fallimento, ma il Tribunale di Teramo aveva dichiarato il ricorso tardivo, ritenendo insufficiente la documentazione relativa al primo deposito, avvenuto via PEC.

Perfezionamento deposito telematico

Nel processo civile telematico, ogni deposito genera quattro distinte comunicazioni PEC:

  1. Ricevuta di accettazione: il sistema accoglie il messaggio inviato;

  2. Ricevuta di consegna: l’atto arriva alla casella PEC dell’ufficio giudiziario;

  3. Controlli automatici: verifica formale dell’indirizzo del mittente, del formato e della dimensione;

  4. Controllo del cancelliere: verifica manuale e definitiva accettazione (o rigetto).

Il deposito si considera perfezionato già al momento della seconda PEC, con effetto provvisorio, salvo successivo buon esito della verifica finale da parte della cancelleria.

Basta la contestazione mirata

Nel caso analizzato, il deposito iniziale del 14 marzo 2016 era stato rifiutato il 18 marzo con la quarta PEC. L’opponente aveva poi effettuato un nuovo deposito cartaceo il 30 marzo, allegando le quattro ricevute PEC.

Il Tribunale aveva ritenuto la prova insufficiente, poiché mancavano i file originali e il contenuto informatico del primo atto. Ma per la Cassazione questa impostazione è errata: la parte non deve dimostrare l’intero iter tecnico, ma può concentrarsi esclusivamente sui motivi esplicitati nel rigetto della cancelleria.

Il principio di diritto della Cassazione

Secondo la Suprema Corte: “Nell’ipotesi in cui la quarta p.e.c. dia esito non favorevole, la parte ha l’onere di attivarsi con immediatezza per rimediare al mancato perfezionamento del deposito telematico; la reazione immediata si sostanzia, alternativamente e secondo i casi:

(a) in un nuovo tempestivo deposito, da considerare in continuazione con la precedente attività, previa contestazione delle ragioni del rifiuto;
(b) in una tempestiva formulazione dell’istanza di rimessione in termini ove la decadenza si assuma in effetti avvenuta ma per fatto non imputabile alla parte.”

In altre parole, basta contestare i motivi specifici contenuti nella quarta PEC. La prova dell’intera regolarità tecnica o del contenuto del ricorso non può essere richiesta dal giudice, salvo specifica eccezione della controparte.

Giudizio da rifare

Rilevata l’erroneità del ragionamento del giudice di merito, la Cassazione ha rinviato il procedimento al Tribunale di Teramo, in diversa composizione, affinché valuti:

  • la tempestività della reazione della parte al rifiuto;

  • la legittimità delle ragioni del rigetto indicate dalla cancelleria.

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spese processuali

Spese processuali anche se il reato è prescritto La sentenza della Cassazione chiarisce che la prescrizione non evita la condanna dell’imputato alle spese della parte civile

Spese processuali e prescrizione

Con la sentenza n. 18619/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito un importante principio in materia di spese processuali in caso di estinzione del reato per prescrizione, affermando che l’imputato può essere comunque condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, anche se non vi è stata pronuncia di colpevolezza.

Il fatto

Nel caso esaminato, il tribunale di merito aveva dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Nonostante ciò, il giudice aveva condannato l’imputato al pagamento delle spese legali sostenute dalla parte civile costituitasi nel processo. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che, venendo meno l’accertamento della responsabilità penale, non vi fosse legittimazione a imporre il pagamento delle spese a suo carico.

La motivazione della Corte

La Cassazione ha rigettato il ricorso e ha riaffermato che:

“Nell’ipotesi di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può comunque essere condannato al pagamento delle spese in favore della parte civile, non essendo la prescrizione indice di soccombenza”.

Secondo la Corte, la prescrizione non implica una pronuncia di assoluzione né tantomeno una valutazione favorevole in ordine alla fondatezza delle difese dell’imputato. Anzi, nel processo penale, la decisione di non proseguire per intervenuta estinzione del reato non impedisce al giudice di decidere sulle spese processuali, tenendo conto del comportamento complessivo delle parti.

Il principio di diritto affermato

Il principio sancito dalla sentenza è il seguente:

Anche in caso di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può essere condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, soprattutto quando quest’ultima si sia costituita tempestivamente e la sua pretesa risarcitoria non sia risultata temeraria o strumentale.

Ciò si fonda sull’interpretazione sistematica dell’art. 541 c.p.p., secondo cui il giudice, nel disporre la condanna alle spese, può tener conto dell’andamento processuale e delle risultanze probatorie, pur senza emettere un giudizio di responsabilità.

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giurista risponde

Infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie Può ritenersi integrato il delitto di patrocinio infedele di cui all’art. 380 c.p. al cospetto della violazione di doveri professionali dai quali non consegua alcun nocumento?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

In tema di reati contro l’attività giudiziaria, il reato di patrocinio infedele non è integrato dalla sola violazione dei doveri professionali, occorrendo anche la verificazione di un nocumento agli interessi della parte, che può essere costituito dal mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero da situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione. – Cass., sez. VI, 28 gennaio 2025, n. 3431.

Con sent. 3431/2025, la Suprema Corte – chiamata a pronunciarsi in tema di patrocinio infedele previsto e punito dall’art. 380 c.p. – conformandosi all’orientamento giurisprudenziale in seno alla stessa consolidatosi, è tornata a sancire la necessità, ai fini dell’integrazione del delitto di cui trattasi, della sussistenza di un concreto nocumento cagionato all’assistito al cospetto della condotta che si assume infedele del patrocinatore.

La pronuncia originava dal ricorso promosso dall’imputato avverso la sentenza emessa in grado d’appello confermativa della condanna di primo grado, con la quale veniva riconosciuta la responsabilità penale del prefato accusato di aver abbandonato la difesa del proprio assistito (omettendo di comparire e costituirsi in giudizio). Ebbene, la difesa ricorreva per Cassazione eccependo violazione di legge ed erronea affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art. 380 c.p. per insussistenza degli elementi strutturali del reato (sub species dell’elemento soggettivo e oggettivo), atteso che:

  • nell’ambito dei tre procedimenti penali oggetto d’imputazione, l’assistito veniva prosciolto e che all’odierno ricorrente alcun emolumento veniva corrisposto;
  • con riferimento al procedimento di natura civile, al ricorrente non veniva conferito mandato alle liti, difettando così il presupposto di legittimazione del difensore a costituirsi in giudizio.

Alcun pregiudizio subiva la persona offesa, ravvisandosi l’assenza nocumento da intendersi non necessariamente in senso civilistico quale danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto conseguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Cass., sez. V, 3 febbraio 2017, n. 22978; Cass., sez. II, 14 febbraio 2019, n. 12361). Pertanto, nell’accogliere il ricorso, la Corte di legittimità ha sancito l’impossibilità di sussumere il concreto nell’alveo della fattispecie incriminatrice in esame partendo proprio dalla definizione del nocumento quale elemento costitutivo indefettibile della sussistenza dell’illecito penale. In plurimi arresti, infatti, il Supremo Consesso ha sancito il principio secondo il quale la sola violazione dei doveri professionali gravanti in capo al patrocinatore non sarebbe sufficiente ad integrare gli estremi del delitto de quo, essendo necessario che dalla stessa derivi la verificazione dell’evento ovverossia di un nocumento agli interessi della parte ravvisabile anche al cospetto del mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero di situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione (Cass., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 8617; Cass. pen. 7 novembre 2019, n. 5764; Cass., sez. VI, 16 giugno 2015, n. 26542).

 

(*Contributo in tema di “Il delitto di infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie ”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

detrazione per figli a carico

Figlio maggiorenne: il genitore affidatario mantiene la detrazione La Cassazione conferma: la detrazione per figli a carico resta invariata al raggiungimento della maggiore età, senza bisogno di un nuovo accordo tra genitori separati

Detrazione per figli a carico maggiorenni

Detrazione per figli a carico: con l’ordinanza n. 15224/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha stabilito un principio rilevante per le famiglie separate: il genitore affidatario può continuare a beneficiare della detrazione fiscale per i figli a carico anche dopo il compimento del diciottesimo anno di età del figlio, nella stessa misura prevista durante la minore età, senza necessità di stipulare un nuovo accordo con l’altro genitore.

Cartella esattoriale per detrazione “non condivisa”

Una madre, affidataria esclusiva dei figli, aveva fruito per intero della detrazione fiscale nella dichiarazione dei redditi, anche dopo che i figli avevano raggiunto la maggiore età. L’Agenzia delle Entrate le aveva contestato la mancata ripartizione del beneficio con l’ex coniuge, notificandole una cartella esattoriale da oltre mille euro.

La Commissione Tributaria Provinciale le aveva dato ragione, ma in appello la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva ribaltato il verdetto, affermando che – con la maggiore età dei figli – era necessario un nuovo accordo tra gli ex coniugi per regolare le detrazioni. La madre ha quindi presentato ricorso in Cassazione.

Nessuna norma impone un nuovo accordo

La Corte ha accolto il ricorso, censurando la tesi dell’Agenzia delle Entrate e della CTR. I giudici hanno chiarito che non esiste alcuna disposizione di legge che richieda un accordo tra genitori separati per continuare a fruire della detrazione al compimento della maggiore età del figlio.

Anzi, la Cassazione ha richiamato la prassi amministrativa della stessa Agenzia delle Entrate, la quale – con la circolare n. 15/E del 2007 e la successiva n. 34/E del 2008 – aveva già affermato che, in assenza di un diverso accordo, le detrazioni restano ripartite come in precedenza.

Detrazione per figli a carico: il principio della Cassazione

La Suprema Corte ha enunciato con chiarezza il seguente principio di diritto: “La detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest’ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori”.

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Rimborso spese legali

Rimborso spese legali negato al dipendente che si sceglie l’avvocato La Cassazione chiarisce: nessun rimborso delle spese legali per il dipendente comunale che sceglie da solo l'avvocato

Rimborso spese legali dipendenti pubblici

Con l’ordinanza n. 15279 depositata il 9 giugno 2025, la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di pubblico impiego contrattualizzato, affrontando il tema del rimborso delle spese legali sostenute da un dirigente di un ente locale assolto in sede penale per fatti connessi all’attività istituzionale.

La decisione

Secondo la Suprema Corte, l’amministrazione non è obbligata a sostenere o rimborsare i costi della difesa tecnica se il dipendente ha provveduto autonomamente a nominare un legale di fiducia, senza averne prima informato l’ente di appartenenza o limitandosi a comunicare successivamente la nomina.

La decisione afferma il principio per cui, nei rapporti di pubblico impiego, la copertura delle spese legali da parte dell’amministrazione richiede una preventiva condivisione della scelta del difensore, oppure la possibilità, per l’ente, di valutarne la congruità. In mancanza di tale condizione, ogni spesa resta a carico personale del dipendente, anche se poi assolto nel merito.

Questo orientamento risponde all’esigenza di garantire un corretto bilanciamento tra la tutela del dipendente pubblico e l’interesse dell’amministrazione a un controllo preventivo sulla spesa.

Il principio

La Suprema Corte in definitiva ha affermato che: «In tema di pubblico impiego contrattualizzato e di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi dal dipendente di un ente locale nell’espletamento del servizio e in adempimento di obblighi di ufficio, l’amministrazione pubblica non è tenuta a rimborsarlo delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ove egli abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all’amministrazione stessa, o qualora, dopo avere effettuato la nomina, si limiti a comunicarla al detto ente».

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diffamazione

Diffamazione: l’uso del condizionale non basta per evitarla Cassazione: non basta il condizionale per evitare la diffamazione se la notizia è falsa e non verificata

Diffamazione online

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14196 del 2025, ha stabilito un principio rilevante in materia di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca: l’impiego di forme verbali al condizionale non è sufficiente a escludere la lesione della reputazione altrui, qualora le informazioni diffuse siano false, offensive e prive di verifica.

Secondo i giudici di legittimità, non si può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca – neppure nella sua forma putativa – quando l’articolo diffonde insinuazioni suggestive e ambigue, presentando fatti non veri come se fossero plausibili, soprattutto se associati ad accadimenti reali.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, un giornalista era stato condannato per aver pubblicato un articolo in cui un appartenente alla Guardia di Finanza veniva indicato come “in combutta coi narcos” in relazione a un’operazione antidroga. La notizia, veicolata attraverso un blog, utilizzava il condizionale per insinuare il coinvolgimento dell’agente, ma non era fondata su riscontri oggettivi né su fonti attendibili.

La difesa aveva sostenuto che l’uso del condizionale escludesse l’intento diffamatorio, ma la Cassazione ha chiarito che tale forma linguistica non esclude la responsabilità, quando le espressioni sono idonee a indurre il lettore a ritenere veritiera una notizia falsa.

Cronaca e verità: i limiti dell’art. 21 Cost.

Il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, incontra limiti precisi, fissati dalla giurisprudenza consolidata:

  1. Verità oggettiva della notizia, o quantomeno verità putativa, purché frutto di adeguate verifiche;

  2. Interesse pubblico alla diffusione del fatto;

  3. Continenza espositiva, ovvero modalità sobrie e rispettose nella narrazione.

L’assenza di uno di questi presupposti rende il contenuto potenzialmente diffamatorio e non giustificabile. L’utilizzo di un linguaggio allusivo o insinuante – anche se formalmente prudente – non è idoneo a scriminare la condotta lesiva.

La posizione della Cassazione

Nel testo della pronuncia, la Corte sottolinea che la carica offensiva di un’esposizione redazionale che mescoli fatti veri e non veri, con l’uso di espressioni ambigue e condizionali, è persino superiore rispetto a forme dubitative o interrogative. L’ambiguità narrativa può infatti generare nel lettore medio la convinzione di trovarsi di fronte a una verità oggettiva.

In assenza di verifica delle fonti e di riscontri concreti, il condizionale non solo non attenua, ma rafforza la responsabilità del cronista, specialmente quando si attribuiscono fatti penalmente rilevanti a soggetti determinati.

patrocinio infedele

Patrocinio infedele Patrocinio infedele: quando l’avvocato risponde penalmente – guida completa all’art. 380 c.p.

Cos’è il patrocinio infedele

Il reato di patrocinio infedele si configura quando l’avvocato, agendo con dolo, viola consapevolmente i doveri di fedeltà e lealtà nei confronti del proprio assistito, arrecandogli un danno giuridicamente rilevante. Si tratta di una fattispecie che tutela l’integrità del rapporto fiduciario tra difensore e cliente, ponendosi al crocevia tra diritto penale, deontologia forense e responsabilità professionale.

Normativa di riferimento: art. 380 codice penale

Il testo dell’art. 380 c.p. recita: “Il patrocinatore (…) che,  rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516.”

Il legislatore con questa norma intende colpire penalmente le condotte scorrette e sleali del difensore, che tradiscono gli interessi del proprio cliente con comportamenti fraudolenti.

Quando si configura il reato di patrocinio infedele

Il reato si perfeziona quando sussistono due elementi fondamentali:

  • un comportamento sleale o doloso dell’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva o di assistenza;
  • la lesione dei diritti della parte assistita, cagionata da tale comportamento.

Non si tratta di una semplice negligenza o imperizia, ma di una vera e propria infedeltà dolosa, come ad esempio:

  • la mancata presentazione intenzionale a un’udienza rilevante;
  • l’acquiescenza consapevole a provvedimenti sfavorevoli;
  • l’omissione di atti fondamentali per interesse proprio (es. favorire la controparte);
  • la comunicazione fraudolenta di informazioni al cliente, al solo fine di indurlo a rinunciare a un diritto.

Elemento oggettivo del reato

Sul piano oggettivo, il reato di patrocinio infedele richiede:

  • un atto o comportamento attivo od omissivo del difensore;
  • che tale condotta abbia precluso o danneggiato i diritti della parte;
  • che la condotta sia fraudolenta, ossia accompagnata da un elemento di inganno o dissimulazione.

Elemento soggettivo: il dolo specifico

Affinché si configuri il reato è sufficiente la presenza del dolo generico, ovvero  la rappresentazione e la volontà, anche eventuale, delle conseguenze dell’evento.

L’avvocato non risponde penalmente se:

  • agisce in buona fede;
  • commette un errore tecnico con colpa;
  • svolge l’attività con imperizia o superficialità, ma senza volontà fraudolenta.

Il momento consumativo del reato

Il reato si consuma nel momento in cui si materializza la lesione degli interessi del cliente. Non è sufficiente che si realizzi la mera lesione dell’interesse al regolare funzionamento della giustizia.

Procedibilità, competenza e pena

  • Procedibilità: il reato è procedibile d’ufficio.
  • Competenza: spetta al Tribunale in composizione monocratica.
  • Pena prevista: reclusione da uno a tre anni e multa don inferiore a 516,00 euro.

Violazione grave del rapporto fiduciario

Il patrocinio infedele costituisce una delle violazioni più gravi che un avvocato possa commettere nei confronti del proprio cliente. La norma mira a tutelare la fiducia nella funzione difensiva, cardine del giusto processo. La responsabilità penale si affianca a quella disciplinare e civile, e può comportare radiazione dall’albo, sanzioni economiche e pregiudizi irreparabili per la parte lesa.

Giurisprudenza rilevante sul patrocinio infedele

La Cassazione penale è intervenuta più e più volte per chiarire alcuni aspetti importanti del reato.

Cassazione n. 13084/2025: Nell’accertare il reato di infedele patrocinio, il giudice non può limitarsi a esaminare singoli atti isolati. È invece essenziale contestualizzare l’intera attività professionale svolta dall’avvocato, inserendola nella linea difensiva complessiva e nella strategia processuale adottata per raggiungere gli obiettivi del cliente. Questo approccio permette di valutare se il patrocinatore abbia intenzionalmente tradito il suo obbligo di curare gli interessi della parte, in conformità con il mandato ricevuto, le regole professionali e le incombenze processuali.

Cassazione n. 341/2025: il reato di patrocinio infedele ai sensi dell’articolo 380 del Codice Penale non si configura con la sola violazione dei doveri professionali. È infatti necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, il quale può manifestarsi come il mancato ottenimento di risultati favorevoli o la creazione di situazioni processuali pregiudizievoli, anche se queste si presentano in una fase intermedia del procedimento, ritardandone o impedendone il prosieguo. Questo nocumento, inteso come conseguenza della violazione dei doveri professionali, costituisce l’evento del reato. Tale evento non è necessariamente un danno patrimoniale in senso civilistico, ma può consistere anche nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, inclusi quelli di natura morale, che sarebbero derivati da un esercizio corretto e leale del patrocinio legale.

Cassazione n. 25766/2023: Il delitto di patrocinio infedele, delineato dall’articolo 380 del Codice Penale, si perfeziona nel momento in cui il professionista compie un’azione o un’omissione che, oltre a rappresentare un’infedeltà ai suoi doveri professionali, risulta capace di arrecare un nocumento agli interessi della parte che sta rappresentando, assistendo o difendendo.

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