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Furto d’uso: connessione internet fraudolenta L’utilizzo di una connessione ad Internet fraudolenta può essere sussunta nella fattispecie di furto d’uso?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Integra furto d’uso la condotta di chi utilizza in modo fraudolento la connessione Internet intestata ad un altro soggetto. Nel momento in cui attraverso l’allaccio abusivo al box telefonico della persona offesa, l’imputato utilizza la connessione Internet che a tale linea fa capo, utilizza detto bene sottraendolo dalla disponibilità del titolare, il quale non riesce difatti a navigare. Pertanto, è evidente, in ragione della non riconducibilità al concetto di energia della connessione Internet, la perfetta corrispondenza del paradigma del furto d’uso di linea telefonica (Cass., sez. I, 15 novembre 2024, n. 42127).

La presente analisi della Corte di legittimità riguarda la sussunzione o meno di un utilizzo fraudolento ad una connessione Internet nelle maglie della fattispecie del furto d’uso (art. 626 c.p.).

Nel confermare la qualifica data dai precedenti gradi di giudizio, la Corte riprende la ricostruzione logico – sistematica fornita dalla Corte d’Appello; in particolare, nell’unico motivo di doglianza presentato dal difensore dell’imputato veniva contestata l’estensione della giurisprudenza in materia di peculato d’uso per l’utilizzo di apparecchiature telefoniche di servizio alla fattispecie in esame. Lo stesso contestava che la connessione Internet, connessione caratterizzata dal pagamento di un canone mensile non legato al consumo effettivo, potesse rientrare nella nozione di energia ex art. 624, comma 2 c.p. e conseguentemente essere oggetto di appropriazione, sottrazione o detenzione.

La Corte confermava la definizione fornita dalla Corte d’Appello di linea telefonica sulla base dei principi forniti nella sentenza Cass. pen., Sez. Un., 2 maggio 2013, n. 19054 (cd. Vattani) in materia di peculato d’uso e utilizzo del telefono d’ufficio per ragioni personali. La connessione Internet, infatti, non risultava per la Corte suscettibile di una condotta appropriativa e non poteva, pertanto, essere oggetto di furto, non rientrando nella nozione di energia, ma solo di furto d’uso. Si evidenziava come, nonostante non si fosse verificato alcun danno economicamente apprezzabile stante i costi in misura fissa, si fossero comunque verificati una serie di disagi, dati dall’impossibilità per la persona offesa di connettersi alla rete. In particolare, nel richiamo tratto dalla sentenza cd. Vattani, le energie suscettibili di condotta appropriativa ex art. 624 c.p. sono solo quelle possedenti una forza misurabile in denaro e che vengono captate dall’uomo mediante l’apprestamento di mezzi idonei, così da essere impiegate a fini pratici. Non è questo il caso: tali energie non possono essere oggetto di appropriazione, non preesistendo, ma vengono prodotte all’attivazione della connessione, propagandosi. Pertanto, è consequenziale la loro rispondenza al requisito previsto. Tali principi sono stati, poi, ripresi in materia di connessione a rete Internet dalle sentenze Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2014, n. 50944 e Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 2013, n. 34524.

Alla luce della perfetta sovrapponibilità tra le due condotte materiali e una differenza solo in merito al soggetto – agente della condotta, i principi fino ad ora descritti in materia di peculato d’uso venivano ritenuti dai giudici di merito estendibili alla fattispecie del furto d’uso. A fortiori, veniva citata testualmente la stessa sentenza Vattani “Quanto in particolare al peculato d’uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d’uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall’altro, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto” (Cass. pen., Sez. Un., 2 maggio 2013, n. 19054). Si rammenti, inoltre, che per sua definizione codicistica il furto d’uso si contraddistingue per lo scopo di fare un uso momentaneo della cosa per poi essere immediatamente restituita, condotta perfettamente sovrapponibile a quella del peculato d’uso. Inoltre, le energie che si sviluppano da una connessione Internet non sono suscettibili di sottrazione: ad essere oggetto della condotta materiale è la linea telefonica in quanto mezzo attraverso il quale si realizza la connessione. Per questi motivi, la condotta tenuta dall’imputato veniva ritenuta perfettamente sussumibile nella fattispecie astratta del furto d’uso, considerando anche le modalità di allaccio e le conseguenze di tale condotta.

 

(*Contributo in tema di “Furto d’uso: connessione internet fraudolenta”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

rimborso spese processuali

Rimborso spese processuali per chi chiama in giudizio ingiustamente Scatta il rimborso spese processuali per chi chiama in giudizio un soggetto non necessario. Il principio stabilito dalla Cassazione

Rimborso spese processuali

Scatta il rimborso spese processuali per chi chiama in giudizio un soggetto non necessario. Con l’ordinanza n. 28019/2024, la Corte di Cassazione, Sezione III, ha chiarito che l’ingiustificata evocazione in giudizio di un soggetto comporta l’obbligo, per la parte risultata soccombente, di rimborsare le spese sostenute da quest’ultimo per la propria costituzione e difesa.

La vicenda

La vicenda riguardava delle polizze fideiussorie delle quali si contestava la nullità delle appendici di obbligazione accessorie per falsità della firma. Parte attrice citava in giudizio la compagnia assicurativa e tutti i coobbligati, chiedendo accertarsi l’inesistenza dell’obbligazione principale nei confronti della compagnia stessa e di quella eventuale di regresso verso gli altri (asseriti) coobbligati. Si costituiva in giudizio uno dei coobbligati rilevando che le polizze, sebbene contemplassero il suo nominativo, non recavano la sua firma e chiedeva il rigetto delle domande, sollevando eccezione di difetto di legittimazione passiva.

La questione approdava innanzi al Palazzaccio dove si lamentava tra l’altro, violazione del principio di soccombenza e causalità atteso che le spese di lite avrebbero dovuto essere poste a carico di parte attrice e/o della parte convenuta, anche in solido tra di loro.

Disciplina spese processuali

La S.C., per ragioni di ordine logico, esamina prioritariamente tale doglianza ritenendola fondata e meritevole di accoglimento.

In proposito, affermano da piazza Cavour, “va richiamato in tema di disciplina delle spese processuali il principio affermato in via generale, secondo cui la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità in virtù del quale non è esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (in quanto trasgressivo di norme di diritto sostanziale), abbia provocato la necessità del processo”. Essa prescinde, pertanto, “dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dall’avere il giudice esercitato i suoi poteri officiosi (Cass. n. 21823/2021)”.

Nella stessa prospettiva, è stato altresì evidenziato che “l’ingiustificata o comunque non necessaria evocazione in giudizio di un soggetto, anche se non destinatario di alcuna domanda, impone alla parte che l’abbia effettuata, ove sia risultata soccombente, di rimborsare al chiamato le spese processuali sostenute in funzione della costituzione e difesa nel giudizio medesimo”. Atteso che, “ove questi non scelga di restare contumace (assumendo il rischio di provvedimenti pregiudizievoli nei suoi confronti), la sua costituzione in giudizio a mezzo di un difensore (con i consequenziali oneri economici) trova il proprio presupposto nel fatto stesso di essere stato evocato in giudizio, e non già in quello di essersi vista indirizzare una specifica domanda (Cass. 36182/2022)”.

La decisione

La Corte d’appello, nella decisione impugnata, non si è posta in conformità ai ricordati principi, osserva la S.C.

Invero, “va precisato che a norma dell’art. 91 c.p.c. non rileva, ai fini della pronuncia sulle spese, ‘l’interesse’ ad agire evocato dalla corte di merito nella motivazione sopra riportata, bensì la soccombenza, intesa quale situazione processuale che si determina allorquando le domande proposte in giudizio da una parte non siano state accolte, totalmente o parzialmente, anche per motivi diversi dal merito”.

Pertanto, il vizio denunciato sussiste, “tenuto conto che risultano violati, nel senso sopra ricordato, il principio di soccombenza e quello di causalità, dal momento che è stata la parte attrice e la parte convenuta, attraverso le loro rispettive condotte processuali, a provocare la necessità del giudizio”.

Dall’accoglimento del secondo motivo, discende l’assorbimento del primo motivo. Il ricorso è accolto.

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orari di silenzio

Orari di silenzio in condominio Orari di silenzio in condominio: cosa prevede la legge e i regolamenti condominiali,  le sanzioni applicabili e la giurisprudenza

Orari di silenzio in condominio: disciplina

Gli orari di silenzio in condominio rappresentano una delle principali cause di controversie tra vicini. Il rispetto della quiete è disciplinato principalmente dai regolamenti condominiali e, in loro assenza, trova fondamento nella normativa generale, in particolare nell’articolo 844 del Codice civile, che regola le immissioni moleste.

Nel tempo, la giurisprudenza ha chiarito i confini tra il diritto al riposo e la tollerabilità dei rumori, stabilendo importanti principi per la convivenza civile all’interno dei condomini. Vediamo quindi quali sono gli orari di silenzio, cosa prevedono i regolamenti condominiali, cosa dice la legge e cosa affermano le sentenze della Cassazione più recenti.

Quali sono gli orari di silenzio in condominio?

Gli orari di riposo non sono stabiliti da una normativa unica nazionale ma derivano:

  • Dai regolamenti condominiali.
  • Dai regolamenti comunali (ordinanze locali).
  • Dalla disciplina generale sulle immissioni sonore contenuta nell’ 844 c.c..

Orari di silenzio comunemente adottati nei regolamenti condominiali:

  • Mattina: dalle 13:00 alle 16:00 (fascia del riposo pomeridiano).
  • Sera: dalle 22:00 alle 08:00 (fascia del riposo notturno).

Questi orari possono variare in base al regolamento comunale o alle delibere dellassemblea condominiale, purché non ledano i diritti fondamentali dei condomini.

Cosa prevedono i regolamenti sugli orari di riposo

I regolamenti condominiali sono il principale strumento per disciplinare la convivenza tra vicini. Possono essere di due tipi:

  1. Regolamento contrattuale: approvato all’unanimità o inserito nell’atto di acquisto dell’immobile, ha valore vincolante per tutti i condomini.
  2. Regolamento assembleare: approvato con la maggioranza prevista dall’ 1136 c.c., può stabilire regole comportamentali come gli orari di riposo.

Cosa può vietare il regolamento condominiale?

  • Luso di elettrodomestici rumorosi (lavatrice, aspirapolvere) negli orari di riposo;
  • lavori di ristrutturazione in fasce orarie sensibili;
  • la musica ad alto volume e feste serali oltre una certa ora;
  • le attività rumorose nei giardini (taglio erba e siepi) o nei terrazzi durante il riposo pomeridiano.

Cosa prevede la legge: l’art. 844 c.c.

In assenza di regole specifiche nel regolamento condominiale, interviene l’art. 844 del Codice civile, che disciplina le immissioni di rumori, fumi, odori e vibrazioni tra fondi confinanti.

L’articolo stabilisce che:

  • le immissioni non devono superare la normale tollerabilità;
  • per valutare la tollerabilità, si tiene conto della situazione locale e delle condizioni ambientali.

Il concetto di normale tollerabilità” è relativo, e la sua valutazione spetta al giudice, che considera il contesto (es. centro città o zona residenziale).

Sanzioni per il mancato rispetto degli orari di silenzio

Il mancato rispetto degli orari di riposo può comportare:

  • Sanzioni pecuniarie fino a 200 euro (art. 70 disposizioni attuative c.c.), aumentabili fino a 800 euro per recidiva.
  • Azione civile per risarcimento danni (art. 2043 c.c.) se il disturbo ha causato danni alla salute o psicofisici.
  • Azione penale per disturbo della quiete pubblica (art. 659 c.p.), se il rumore disturba più persone o l’intero stabile.

Consigli pratici per la convivenza pacifica

  • Conoscere il regolamento condominiale: verificare sempre cosa prevedono le regole del condominio sugli orari di silenzio.
  • Comunicare prima di fare lavori: avvisare i vicini per tempo.
  • Mediazione: prima di procedere legalmente, tentare la via della conciliazione.
  • Limitare il rumore serale: ridurre il volume di TV, musica e conversazioni sul balcone dopo le 22.

Cosa dice la giurisprudenza sugli orari di silenzio

Negli anni, la Corte di Cassazione ha più volte chiarito l’applicazione dell’art. 844 c.c. in ambito condominiale. Ecco alcune sentenze rilevanti:

Limite di tollerabilità relativo

Cassazione n. 27036/2022: “il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (cd. criterio comparativo), sicché la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata.”

Disturbo delle occupazioni e del riposo

Cassazione n. 2071/2024: “in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il reato di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995.”

Reato di disturbo: non serve la perizia o la consulenza

Cassazione 7717/2024: “perché sussista la contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio (Sez.1,n 45616 del 14/10/2013, Rv.257345 – 01); l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ma ben può il giudice fondare il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità.”

 

 

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danno da demansionamento

Danno da demansionamento: l’aggiornamento tecnologico incide Danno da demansionamento: è compito del lavoratore dimostrare il danno subito, su cui incide il mancato aggiornamento tecnologico

Danno da demansionamento

La Corte Suprema di Cassazione, con l’ordinanza n. 3400/2025, afferma che la mancanza di aggiornamenti tecnologici influisce sul danno da demansionamento. Tale incidenza è maggiore nei settori caratterizzati da rapidi progressi tecnologici. Il giudice, nel calcolare il risarcimento per il danno subito, deve considerare questo aspetto insieme ad altri parametri. Il lavoratore però ha l’onere di provare il danno da demansionamento, anche con elementi indiziari che siano gravi, precisi e coerenti.

Reintegrazione nel livello e risarcimento del danno

Il Tribunale, in qualità di giudice di primo grado, accoglie le richieste di un lavoratore contro la società datrice che lo ha declassato. L’autorità giudiziaria ordina alla società di reintegrare il dipendente nelle mansioni precedenti e risarcirlo per il danno subito alla sua professionalità.

La Corte d’appello conferma la decisione iniziale. In primo grado è stato accertato l’inquadramento al V livello del dipendente, così come le sue elevate competenze, l’autonomia decisionale e la gestione delle risorse assegnate, assenti nelle caratteristiche tipiche dell’operatore specialista in customer care. Il giudice di primo grado quindi ha giustamente valutato e corretto l’inquadramento del dipendente al III livello. Il lavoratore da parte sua ha invece adempiuto all’onere della prova a suo carico. Il demansionamento è durato tre anni, per cui risulta appropriata anche la valutazione equitativa del danno di 1000 euro mensili. La società datrice decide tuttavia di contestare la decisione ricorrendo alla Corte di Cassazione.

Impatto del mancato aggiornamento tecnologico

La Cassazione però respinge il ricorso, ritenendo inammissibili e infondate le obiezioni sollevate. La Corte territoriale ha valutato correttamente le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore senza riscontrare in esse le caratteristiche tipiche del V livello rispetto al III livello. In materia di dequalificazione professionale, la Cassazione respinge anche il secondo motivo d’appello ricordando che “è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti dei lavoratori tutelati costituzionalmente”, valutando anche la persistenza della condotta lesiva, la sua durata e ripetizione delle condizioni di disagio professionale e personale e l’inerzia del datore di lavoro verso le richieste del dipendente, anche senza intenzione deliberata di declassare o svalutare i compiti del dipendente. La prova del danno deve essere fornita dal dipendente anche attraverso indizi gravi, precisi e coerenti capaci di dimostrare aspetti come qualità e quantità del lavoro svolto, tipo di professionalità richiesta, durata del demansionamento o nuova collocazione assunta successivamente.

L’importanza degli aggiornamenti tecnologici

Nel caso specifico, la Cassazione ritiene che la Corte d’appello abbia qualificato correttamente i comportamenti della società datrice e il conseguente danno da demansionamento subito dal lavoratore a causa della condotta reiterata dell’azienda e della privazione degli aggiornamenti tecnologici necessari. Corretta anche la quantificazione equitativa del danno poiché ben motivata, in linea con i criteri applicati e non sproporzionata per eccesso e per difetto. L’importo mensile risarcitorio è stato determinato valutando l’oggettiva differenza tra le mansioni eseguite dal dipendente prima e dopo aprile 2018. Da quel momento infatti il lavoratore è stato effettivamente assegnato a mansioni inferiori dopo aver ottemperato a un ordine giudiziale per riassegnazione delle mansioni.

 

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gioco delle tre carte

Gioco delle tre carte: è azzardo e non truffa Il gioco delle tre carte integra il reato di gioco d'azzardo (art. 718 c.p.) ma non quello di truffa (art. 640 c.p.)

Gioco delle tre carte: quale reato

Il gioco delle tre carte integra il reato di gioco d’azzardo (art. 718 c.p.) ma non quello di truffa (art. 640 c.p.). Lo ha precisato la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 43873/2024.

La vicenda

A ricorrere per cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la decisione di primo grado, è un uomo condannato per il reato di cui all’art. 718 cod. pen., per aver, in luogo pubblico e avendo allestito un banchetto, tenuto un gioco d’azzardo, consistito nel maneggiare delle campanelle allo scopo di far puntare denaro ai viaggiatori in transito e agli avventori del bar.

Il ricorso

Il ricorrente affida il ricorso ad un unico motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio della motivazione, posto che la Corte territoriale ha disatteso le doglianze formulate con i motivi di appello, con le quali aveva rappresentato che il gioco delle tre carte o delle tre campanelle non possa essere qualificato come gioco d’azzardo connotato da aleatorietà, ma come gioco d’abilità del gestore o dello scommettitore, nè sono necessari, per la sua realizzazione, artifizi e raggiri.  Rappresenta, inoltre, di aver tenuto il banchetto ove si effettuava il gioco in modo occasionale, senza alcuna organizzazione.

Reato ex art. 718 c.p.

Per gli Ermellini, il ricorso, tuttavia, è manifestamente infondato.
In giurisprudenza, premettono, si è affermato che il gioco dei “tre campanelli” e quelli similari delle “tre tavolette” o delle “tre carte” “non configura il reato di truffa ma quello di
cui all’art. 718 cod. pen., in ragione del fatto che la condotta del soggetto che dirige li gioco non realizza alcun artificio o raggiro ma costituisce una caratteristica del gioco che rientra nell’ambito dei fatti notori, purché all’abilità ed alla destrezza di chi esegue il gioco non si aggiunga anche una fraudolenta attività del medesimo (Sez. 2, n. 48159 del 17/07/2019, Rv. 277805; Sez. 3, n. 19985 del 2020)”.
Si è quindi affermato, proseguono dalla S.C., “che, in tema esercizio abusivo dell’attività di pubblica scommessa su giochi di abilità, è necessaria la presenza di una struttura organizzativa costituita da mezzi e persone, anche se di natura non stabile e complessa (Sez. F, n. 26321 del 02/09/2020)”.

La decisione

Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che il ricorrente si era posizionato
presso un’area di servizio, aveva allestito un banchetto amovibile su cui conduceva il gioco delle
tre campanelle, era circondato da un capannello di persone, e ha affermato che il condurre in luogo pubblico il suddetto gioco, non richiedendo la predisposizione di attività specifiche di inganno, non integri il reato di truffa ma deve considerarsi come un gioco d’azzardo in quanto il partecipe al gioco può ottenere la vincita della somma in modo del tutto aleatorio, a prescindere da ogni abilità.

Il ricorso, dunque, è inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

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giurista risponde

Atti persecutori in presenza di minori e circostanza aggravante L’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., è compatibile con il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. quando tale condotta viene perpetrata in presenza di un minore?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di cassazione, nella sentenza in esame, ha affrontato il tema dell’applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., al delitto di atti persecutori. La Corte di Appello di Roma aveva confermato la condanna per atti persecutori aggravati, ritenendo correttamente contestata l’aggravante in considerazione della presenza del figlio minore durante la commissione del reato. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso per cassazione limitatamente alla questione dell’aggravante, annullando la sentenza impugnata senza rinvio in quanto tale aggravante non è applicabile al reato di atti persecutori (Cass., sez. V, 31 ottobre 2024, n. 40301).

In particolare, la Corte ha richiamato la giurisprudenza consolidata, evidenziando che l’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., fa riferimento a delitti contro la vita e l’incolumità personale, escludendo esplicitamente il reato di atti persecutori, che è considerato un reato contro la libertà morale. La Corte ha sottolineato che la precisa formulazione della norma non lascia margini di interpretazione, confermando che la protezione offerta ai minori che assistono a condotte delittuose non si estende ai reati di atti persecutori.

Nel caso specifico, i giudici di merito non avevano affrontato adeguatamente il profilo giuridico sollevato dalla difesa riguardo all’applicabilità dell’aggravante, limitandosi a elencare gli episodi di atti persecutori assistiti dal minore, senza entrare nel merito dell’interpretazione della norma. Pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata dovesse essere annullata in relazione all’aggravante contestata, con conseguente necessità di una nuova valutazione del trattamento sanzionatorio, alla luce della caducazione dell’aggravante stessa.

In conclusione, la Corte ha ribadito che la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p. non può essere applicata al delitto di atti persecutori, confermando una visione restrittiva della norma e garantendo così una corretta interpretazione della tutela giuridica in materia di reati contro la libertà morale.

 

(*Contributo a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

agevolazione prima casa

Agevolazione prima casa anche per l’immobile inagibile La Cassazione ha chiarito che l'agevolazione prima casa può applicarsi anche all'acquisto di un immobile inagibile purchè destinato all'uso abitativo

Agevolazione prima casa

Con l’ordinanza n. 3913/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha chiarito che l’agevolazione fiscale per l’acquisto della “prima casa” può applicarsi anche agli immobili inagibili (fabbricati collabenti), purché destinati all’uso abitativo dopo idonei interventi edilizi.

La vicenda

Nella vicenda, un’acquirente chiedeva di usufruire dell’agevolazione prima casa versando l’imposta di registro nella misura ridotta del 2%. L’Agenzia delle Entrate emanava avviso di accertamento sostenendo che l’agevolazione si applicasse solo agli immobili abitativi, anche in costruzione, escludendo quelli inagibili.

La questione approdava in Cassazione, la quale ha respinto la tesi del fisco, affermando che la possibilità di destinare l’immobile all’uso abitativo prevale sull’attuale stato di inagibilità.

Fabbricati collabenti

Secondo la S.C., infatti, lo stato di collabenza (dei fabbricati F/2) produce improduttività di reddito ma non fa venir meno in capo all’immobile la tipologia normativa di “fabbricato”. Per quanto oggettivamente inidonei a soddisfare attuali esigenze abitative, ritiene la Corte che “né l’assenza di attualità di destinazione ad abitazione né l’attribuzione della categoria catastale F/2 rappresentano ostacoli alla possibilità di accesso alle agevolazioni prima casa; e, tanto risulta confermato dal tenore del precetto normativo che esclude l’usufruibilità dei benefici fiscali unicamente per i fabbricati classificati in categoria A/1, A/8 e A/9, senza ulteriori limitazioni per altre categorie catastali suscettibili di concreta finalizzazione abitativa e, dunque, né per i fabbricati in corso di costruzione ovvero da ultimare né per i fabbricati collabenti”.

Nessuna idoneità abitativa immediata

La circostanza che il cespite presenti caratteristiche di degrado tali da esigere importanti opere edili di intervento ovvero la previa demolizione e successiva ricostruzione, “se destinato a finalità abitativa, non può limitare l’accesso al beneficio fiscale, tanto più se tali benefici risultino accessibili per gli immobili ancoa da ultimare, risultando rilevante solo che l’immobile sia strutturalmente destinato ad uso abitativo, non essendo richiesto che esso sia già idoneo al momento dell’acquisto (Cass. n. 3804/2003, Cass. n. 18300/2004)”.

Peraltro, ciò soddisfa, proseguono da piazza Cavour, “l’esigenza perseguita dal legislatore di incoraggiare sia lo sviluppo dell’edilizia abitativa mediante l’incremento quantitativo delle costruzioni sia interventi di restauro e risanamento conservativo volti a preservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, nonché la commercializzazione degli immobili da
recuperare”.

Il principio di diritto

Per cui rigettando il ricorso dell’amministrazione finanziaria, la S.C. ha affermato ilo seguente principio di diritto: “In materia di agevolazione ‘prima casa’ (art. 1 Nota Il bis della Tariffa, parte
prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986), posto che la norma agevolativa non esige l’idoneità abitativa dell’immobile già al momento dell’acquisto, il beneficio può essere riconosciuto anche all’acquirente di immobile collabente, non ostandovi la classificazione del fabbricato in categoria catastale F/2, ed invece rilevando al suscettibilità dell’immobile acquistato ad essere destinato, con i dovuti interventi edilizi, all’uso abitativo”.

 

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ascensore in condominio

Ascensore in condominio: necessario un bilanciamento dei diritti Ascensore in condominio: necessario bilanciare i diritti dei disabili con quelli dei condomini al godimento delle parti comuni

Ascensore in condominio

L’installazione di un ascensore in condominio comporta numerosi vantaggi, soprattutto per le persone con difficoltà motorie. Quest’opera migliora infatti senza dubbio l’accessibilità all’edificio condominiale. Occorre tuttavia considerare anche la presenza di criticità.  L’installazione di un ascensore può incidere infatti sul decoro architettonico dell’edificio, ridurre lo spazio disponibile nelle scale o nei pianerottoli e generare costi di manutenzione elevati. Occorre quindi bilanciare il diritto all’accessibilità con il rispetto delle parti comuni e dei diritti degli altri condomini. La normativa tutela le persone con disabilità, ma impone limiti per garantire che nessun condomino subisca danni o pregiudizi eccessivi. La solidarietà condominiale è fondamentale, ma non deve trasformarsi in un’imposizione unilaterale. Nel caso deciso dal Tribunale di Nocera Inferiore con la sentenza n. 396/2025 la realizzazione dell’ascensore è possibile perché la riduzione del vano scale di 30 centimetri non è tale da rendere inservibili le scale interessate dall’opera.

Ascensore in condominio: un equilibrio tra diritti

L’installazione di un ascensore in un condominio è un’opera essenziale per garantire l’accessibilità alle persone con disabilità e agli anziani. Per la Cassazione l’ascensore è equiparabile agli impianti di luce, acqua e riscaldamento, poiché migliora la vivibilità degli appartamenti. La realizzazione di tale opera però deve rispettare il principio di solidarietà condominiale a tutela dei singoli condomini, ma anche dei disabili che hanno diritto alla eliminazione delle barriere architettoniche.

La legge n. 13 del 1989 stabilisce regole specifiche per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati. Secondo l’articolo 2 di questa legge, le innovazioni volte a eliminare tali barriere possono essere approvate con una maggioranza non qualificata dell’assemblea condominiale. Questo semplifica l’iter decisionale, facilitando l’adozione di soluzioni a beneficio delle persone con disabilità e degli anziani. Tuttavia, la normativa impone anche alcuni limiti. L’articolo 1120 del Codice Civile vieta innovazioni che rendano inutilizzabili alcune aree comuni dell’edificio. Ad esempio, se l’installazione dell’ascensore riduce drasticamente la larghezza delle scale o compromette l’accesso ad altri spazi comuni, l’opera può essere contestata e considerata illegittima.

Limiti all’installazione dell’ascensore

L’ascensore deve garantire un equilibrio tra l’interesse all’accessibilità e il diritto di tutti i condomini a utilizzare gli spazi comuni. La Cassazione ha chiarito che l’installazione non può privare neanche un solo condomino del diritto al godimento delle parti comuni dell’edificio. Questo significa che, se un condomino dimostra che l’ascensore limita in modo significativo il suo accesso o il suo utilizzo delle scale, la richiesta può essere bloccata o deve essere trovata una soluzione alternativa.

La giurisprudenza ha confermato questa posizione in diverse sentenze. Nel caso di specie il Tribunale ha rilevato che una riduzione delle scale da 1,10 metri a 0,80 metri come conseguenza della installazione dell’ascensore, non rende le scale del tutto inservibili, purché rimanga garantito un accesso sicuro. Tuttavia, ogni caso va valutato singolarmente, considerando le specificità dell’edificio e delle esigenze dei condomini.

Esonero dalle spese per i dissenzienti

Un aspetto cruciale della sentenza riguarda anche la ripartizione delle spese. L’articolo 1121 del Codice Civile prevede infatti che se l’innovazione comporta una spesa molto elevata o ha carattere voluttuario (non essenziale), i condomini che non intendono trarne vantaggio dall’opera, ovvero l’ascensore, possono rifiutarsi di partecipare alle spese.

I condomini dissenzienti devono quindi essere esonerati dai costi se dichiarano espressamente il loro dissenso prima dell’inizio dei lavori. Ovviamente chi decide di non partecipare alla spesa non potrà usufruire dell’ascensore, salvo successiva richiesta di adesione con il pagamento della propria quota.

 

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mantenimento al figlio maggiorenne

Mantenimento al figlio maggiorenne che si disinteressa del padre Mantenimento al figlio maggiorenne: dovuto se non è economicamente autosufficiente, non rileva che si disinteressi del padre

Mantenimento al figlio maggiorenne

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 3552/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di mantenimento al figlio maggiorenne non autosufficiente. L’obbligo del genitore non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma richiede un’accurata verifica della situazione economica e lavorativa del figlio, anche se questo non dimostra interesse per il genitore obbligato.

Revoca del mantenimento del figlio maggiorenne

Un padre chiede la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne perché economicamente indipendente. L’uomo lamenta inoltre il disinteresse del figlio per il suo stato di salute, a causa del quale, da anni subisce interventi chirurgici. Il Tribunale respinge la richiesta, perché di fatto il giovane non ha ancora raggiunto un’indipendenza economica stabile. La Corte d’Appello conferma in gran parte la decisione, sottolineando che l’obbligo di mantenimento si protrae in assenza di autosufficienza economica.

Non rileva il rapporto affettivo

La Cassazione ritiene inammissibile il ricorso del padre, evidenziando alcuni aspetti del diritto al mantenimento dei figli.

Il genitore deve continuare a garantire il supporto economico fino a quando il figlio non ottiene un’adeguata autosufficienza finanziaria. Il giudice deve verificare l’effettivo inserimento nel mondo del lavoro, valutando il tipo di occupazione, la stabilità del reddito e le prospettive future del giovane. Il diritto del figlio a ricevere l’assegno non dipende dalla qualità del rapporto con il genitore obbligato. L’eventuale distanza affettiva non costituisce infatti motivo valido per interrompere il sostegno economico. Per ottenere la revoca dell’assegno, il genitore deve provare piuttosto un significativo peggioramento delle proprie condizioni finanziarie. Nel caso in esame, però tale prova non è stata fornita.

Autosufficienza economica

La decisione della Cassazione conferma un orientamento consolidato. Il mantenimento del figlio maggiorenne resta cioè un obbligo fino a quando non si accerta una reale autosufficienza economica. Il disinteresse affettivo vero il genitore obbligato non incide sulla persistenza dell’assegno, poiché il diritto al mantenimento è di natura patrimoniale e non morale. I genitori che desiderano ottenere la revoca dell’assegno devono dimostrare con prove concrete il raggiungimento dell’autonomia economica del figlio. Inoltre, eventuali difficoltà finanziarie del genitore devono essere adeguatamente documentate per incidere sulla decisione del giudice.

La Cassazione ribadisce in sostanza il principio di responsabilità genitoriale, sottolineando l’importanza di garantire ai figli le condizioni necessarie per una reale indipendenza economica, a prescindere dalla relazione affettiva con gli stessi.

 

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licenziato chi usa

Licenziato chi usa l’auto aziendale per fini privati La Cassazione ha chiarito che può essere legittimamente licenziato chi utilizza l'auto aziendale per scopi privati durante l'orario lavorativo

Uso privato dell’auto aziendale

La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3607/2025, ha chiarito che il prestatore di lavoro può essere legittimamente licenziato chi usa l’auto aziendale per scopi privati durante l’orario lavorativo.

La vicenda

I fatti hanno per protagonista un dipendente – di una società consortile operante nel trattamento delle acque reflue civili e industriali) che per fini extra-lavorativi in orario di lavoro, in più episodi utilizzava il mezzo aziendale, riducendo così in modo fraudolento il tempo della prestazione lavorativa e creando una “situazione di apparenza lavorativa”.

Veniva aperto procedimento disciplinare a seguito del quale all’uomo veniva irrogato licenziamento.

Il ricorso in Cassazione

Da qui l’impugnativa che veniva rigettata sia in primo che in secondo grado e il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale il lavoratore lamenta diverse doglianze, tra cui l’illegittimità dell’attività investigativa svolta dall’azienda, per avere incaricato un’agenzia privata per controllare le mansioni svolte dallo stesso all’esterno dell’impianto contra legem (artt. 2, 3, 4 legge n. 300/1970). Sostiene, inoltre, che dal controllo investigativo non è emersa alcuna fattispecie penalmente rilevante e non sono state individuate condotte riconducibili a
responsabilità aquiliana. Infine, violazione della privacy e omesso esame di fatti decisivi, per mancata considerazione della genericità e faziosità della relazione investigativa, svolta da agenzia privata retribuita dal datore di lavoro.

La relazione investigativa

Sul fronte dei controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, la Corte ritiene che la sentenza impugnata sia conforme alla costante giurisprudenza di legittimità (richiamata espressamente in motivazione), secondo cui tali controlli “sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 St. lav. (v. Cass. n. 6174/2019, П. 4670/2019, п. 15094/2018, п. 8373/2018); cfr. anche Cass. n. 6468/2024, n. 10636/2017).
Nella fattispecie di causa il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa, bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro, nonostante la timbratura del badge.

No alla violazione della privacy

Neppure sussiste, proseguono dal Palazzaccio, la lamentata violazione della privacy del dipendente, seguito nei suoi spostamenti, in quanto il controllo era effettuato in luoghi pubblici e finalizzato ad accertare le cause dell’allontanamento. “L’attività fraudolenta è stata ravvisata nella falsa attestazione della presenza in servizio e nell’utilizzo personale del mezzo aziendale, nonostante il lavoratore fosse autorizzato a usare detto mezzo solo per motivi attinenti all’attività lavorativa; ciò prescinde dall’integrazione di una fattispecie di reato o dalla quantificazione del danno, comunque riscontrabile nell’utilizzo improprio della vettura e
dell’orario lavorativo retribuito”.

Dichiarate inammissibili anche le altre doglianze, il ricorso è, pertanto, rigettato e il licenziamento confermato.

 

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