giurista risponde

Furto lieve per stato di necessità L’ipotesi di furto lieve per bisogno può essere riconosciuta in presenza di una situazione di grave indigenza, anche se il valore della merce sottratta supera quello comunemente considerato “tenue”?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di Cassazione ha precisato che il delitto di furto lieve, motivato da esigenze di necessità, può essere riconosciuto nei casi in cui l’oggetto sottratto abbia un valore modesto e sia destinato a soddisfare una necessità grave e urgente. Tale principio stabilisce che, per qualificare l’imputazione come furto lieve anziché come furto comune, non è sufficiente un generico stato di bisogno o di miseria da parte del colpevole; è, invece, necessaria una condizione di urgenza, per la quale non vi siano alternative praticabili se non la sottrazione dell’oggetto stesso (Cass. sez. V, 19 maggio 2014, n. 32937). (Cass., sez. IV, 6 novembre 2024, n. 40685).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva confermato la condanna per tentato furto di generi alimentari e prodotti per la cura personale, ritenendo non sussistente lo stato di necessità invocato dalla ricorrente. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando che la Corte d’Appello non aveva adeguatamente valutato le circostanze oggettive che attestavano un grave stato di malnutrizione e indigenza della ricorrente, la quale era stata descritta come una persona senza fissa dimora e in condizioni di estrema vulnerabilità.

La Corte ha evidenziato che la semplice valutazione del valore dei beni sottratti, superando i cento euro, non è sufficiente per escludere l’ipotesi di furto lieve per necessità, in quanto la merce era destinata a soddisfare un’urgenza alimentare. Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviando il caso alla Corte d’Appello affinché riesamini la situazione in conformità ai principi giuridici esposti. La Corte ha ribadito che l’analisi del comportamento dell’imputato deve tener conto delle specifiche circostanze di vita e delle necessità in cui si trova.

In conclusione, la decisione della Cassazione evidenzia l’importanza di un’analisi approfondita delle condizioni di fatto che possono giustificare una condotta di furto lieve per bisogno, richiamando l’attenzione sulla differenza tra lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. e l’ipotesi di furto lieve per bisogno di cui all’art. 626 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

mutuo solutorio

Mutuo solutorio valido: lo dice la Cassazione Sezioni Unite: valido il mutuo solutorio, è presente la disponibilità delle somme in favore del mutuatario

Mutuo solutorio valido: presente la datio rei giudica

Il mutuo solutorio, contratto per estinguere un debito precedente con la banca è legittimo e produce la “datio rei giuridica” che caratterizza il mutuo, anche se le somme accreditate sul conto vengono immediatamente e automaticamente impiegate dall’istituto di credito per estinguere gli obblighi precedenti. Lo hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 5841/2025.

Decreto ingiuntivo pagamento mutui: opposizione

Un istituto di credito ottiene un decreto ingiuntivo perché ha concesso diversi mutui ai medesimi soggetti e gli stessi non sono ancora rientrati nel pagamento. I clienti però si oppongono al decreto ingiuntivo, contestando la richiesta di pagamento. Per gli opponenti la condotta della banca deve ritenersi illegittima perché la stessa ha solo “apparentemente” erogato le somme concesse a titolo di mutuo. Le somme infatti non sono mai uscite dalle casse dell’istituto poiché utilizzate per estinguere i mutui e le aperture di credito concesse in precedenza.

Il Giudice di primo grado accoglie in parte l’opposizione e limita l’efficacia del titolo esecutivo a un determinato importo. La Corte d’Appello invece rigetta l’appello sollevato dai clienti della banca.

Nella sentenza il giudice di secondo grado precisa infatti che: il fatto che l’importo erogato fosse stato utilizzato per estinguere i precedenti debiti ipotecari era legittimo e non privava il mutuo della sua causa in concreto.”

Le parti soccombenti però non desistono e ricorrono in Cassazione precisando che nel caso di specie non si è verificata la tradito della somma con conseguente disponibilità delle stesse sul conto. La banca si sarebbe infatti riappropriata delle somme e dall’estratto conto si evince chiaramente un mero giroconto bancario e non l’erogazione di un mutuo.

Dubbi interpretativi sul mutuo solutorio

La seconda sezione della Cassazione nell’ordinanza interlocutoria rileva che i primi due motivi del ricorso sollevano questioni decisive sul mutuo solutorio, sul quale la giurisprudenza della stessa Corte non risulta uniforme.

Nel caso di specie ci si chiede se il ripianamento delle passività pregresse, effettuato dalla banca in modo autonomo e immediato mediante operazione di giroconto, come contestato dai ricorrenti, possa soddisfare il requisito della disponibilità giuridica della somma in favore del mutuatario. In particolare, ci si domanda se tale ripianamento possa configurare una modalità di utilizzo dell’importo mutuato, effettivamente entrato nella disponibilità del mutuatario.

Le Su dovrebbero quindi rispondere ai seguenti quesiti:

  • il mutuo solutorio è valido?
  • in caso di risposta positiva al primo quesito il contratto costituisce titolo esecutivo?
  • in caso di risposta affermativa ai due quesiti precedenti infine è valido anche il ripianamento delle passività di mutuo eseguito con un mero giroconto “autonomo e immediato” ossia senza il consenso del mutuatario?

Mutuo solutorio: tesi contrapposte

La Corte di Cassazione a SU prima di decidere ricorda le affermazioni dei due opposti orientamenti.

  • Per il primo orientamento il mutuo solutorio è valido, l’accredito delle somme sul conto integra la datio rei del mutuo, l’effettività della tradito è dimostrata dall’utilizzo del denaro per estinguere il debito esistente, per cui il patrimonio del debitore viene purgato da una posta negativa. Il ripianamento delle passività rappresenta infatti uno dei modi con i quali la somma erogata a mutuo può essere impiegata e tale utilizzo non è illecito. Il mutuo solutorio quindi consiste in una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente o un pactum de non petendo.
  • Per l’orientamento opposto invece per il perfezionamento del mutuo è necessario che si verifichi il passaggio effettivo delle somme dal mutuante al mutuatario perché in questo modo si verifica l’effettiva acquisizione delle somme. Tale ipotesi non può verificarsi infatti se la banca impiega subito le somme per ripianare il mutuo precedente. In sostanza senza un trasferimento effettivo della proprietà delle somme non c’è acquisizione delle stesse e quindi non c’è l’obbligo di restituirle.

La soluzione delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite pongono fine al contrasto affermando che il contratto di mutuo si perfeziona e l’obbligo di restituzione sorge in capo al mutuatario nel momento in cui la somma mutuata, pur non essendo materialmente consegnata, è resa giuridicamente disponibile al mutuatario tramite accredito sul conto corrente. Non è rilevante che tali somme siano immediatamente utilizzate per saldare debiti pregressi con la banca mutuante, poiché tale destinazione è il risultato di atti dispositivi distinti e separati dal contratto stesso. Anche in caso di tale utilizzo, il contratto di mutuo, noto come mutuo solutorio, costituisce un valido titolo esecutivo se rispetta i requisiti dell’articolo 474 del codice di procedura civile.

 

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rapporto nonni-nipoti

Rapporto nonni-nipoti: un genitore può chiedere di regolarlo Rapporto nonni-nipoti: se nel corso della separazione giudiziale un genitore si oppone l’altro può chiedere che venga regolato

Regolamentato il rapporto nonni-nipoti

La Cassazione, con l’ordinanza n. 3539/2025, ha chiarito che in un giudizio di separazione, un genitore può chiedere al giudice di regolamentare il rapporto nonni -nipoti, se l’altro genitore li impedisce. Questo diritto esiste nonostante l’articolo 317-bis del Codice civile, che riconosce ai nonni il diritto di vedere i nipoti e di rivolgersi direttamente al Tribunale per i Minorenni. Per la Cassazione i genitori, responsabili legali dei figli, possono agire per tutelare l’interesse dei minori a mantenere rapporti con i nonni, anche durante una separazione.

Inammissibile la richiesta sul rapporto con i nonni

Una separazione giudiziale si conclude in primo grado con l’affido congiunto dei minori con domicilio prevalente presso la madre e con la regolamentazione del diritto di visita del padre. Il giudice obbliga inoltre il padre a versare l’importo mensile di 650 euro per il contributo al mantenimento dei figli e della moglie.

L’uomo ricorre la decisione in sede di appello dolendosi delle decisioni e della mancata pronuncia sulla domanda relativa alla conservazione dei rapporti dei minori con i parenti e nonni della linea paterna. La Corte d’appello dichiarata inammissibile questa richiesta poiché solo i parenti pretermessi possono formulare detta richiesta.

Ricorso per regolazione rapporti nonni-nipoti

Il padre e marito ricorre la decisione in Cassazione e con il quarto motivo contesta le conclusioni a cui è giunta la Corte d’Appello nel punto in cui gli ha negato la possibilità di chiedere la regolamentazione dei rapporti dei figli con i nonni e i parenti della linea paterna.

Diritto al rapporto dei minori con gli ascendenti

Per la Cassazione questo motivo di ricorso è fondato. Gli Ermellini ricordano a tale fine che l’articolo 317 bis del codice civile riconosce agli ascendenti il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. Se tale diritto viene impedito, l’ascendente può rivolgersi al giudice, ricordando che, in ogni caso, la legge pone l’interesse del minore al di sopra di ogni altro diritto.

Questa norma quindi non si applica nei giudizi di separazione o divorzio, dove i genitori rappresentano esclusivamente i figli. Sono gli ascendenti a dover avviare un procedimento separato se vogliono conservare la relazione con i minori.

La Cassazione ricorda di aver già chiarito che il diritto dei nipoti a mantenere rapporti con gli ascendenti non modifica i giudizi di separazione o divorzio. I nonni non possono infatti intervenire in queste  cause per sostenere le ragioni dell’uno o dell’altro genitore. Solo i genitori possono agire per questioni relative alla responsabilità genitoriale.

Tutela rapporto con i minori

Se poi la questione di tutelare il rapporto con i minori sorge, come nel caso di specie, nel corso della procedura di separazione esche l’altro genitore ostacola questa relazione, allora l’altro genitore può richiedere la regolamentazione dei rapporti tra nipoti e ascendenti.

La Cassazione ricorda che la Corte Costituzionale ha stabilito che le controversie relative all’articolo 317 bis del codice civile, che riguardano il diritto degli ascendenti a conservare rapporti significativi con i nipoti minorenni, sono di competenza del Tribunale per i Minorenni e che pertanto non è possibile unire tali controversie ai giudizi di separazione o divorzio.

Le parti e gli interessi in gioco sono diversi e unendoli si rischierebbe di aumentare la conflittualità tra i coniugi e di complicare l’ascolto dei minori.

In conclusione, nei giudizi di separazione, il genitore può chiedere la regolamentazione dei rapporti tra nipoti e ascendenti se l’altro genitore lo ostacola.

 

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manleva

Manleva: breve guida La manleva: definizione, applicazione, differenze rispetto al contratto di fideiussione e di assicurazione e giurisprudenza

Cos’è la manleva

La manleva è un accordo con cui una parte (manlevante) si impegna a tenere indenne un’altra parte (manlevato) dalle conseguenze pregiudizievoli di un determinato evento. Questo istituto giuridico trova ampia applicazione nei contratti, nei rapporti di lavoro e nelle transazioni commerciali, garantendo la tutela patrimoniale del soggetto manlevato.

Differenza tra manleva e fideiussione

Sebbene entrambe le figure mirino a proteggere un soggetto da obblighi economici, la fideiussione e la manleva presentano differenze sostanziali:

  • Natura dell’obbligo: la fideiussione è un contratto accessorio che garantisce un’obbligazione principale, mentre la manleva non è necessariamente legata a un’obbligazione preesistente.
  • Coinvolgimento delle parti: il fideiussore si obbliga nei confronti del creditore del debitore principale, mentre il manlevante assume direttamente su di sé le conseguenze patrimoniali dell’evento oggetto di manleva.
  • Ambito di applicazione: la fideiussione è regolata espressamente dal Codice Civile (art. 1936 c.c.), mentre la manleva trova fondamento nella libera contrattazione tra le parti.

Differenza tra manleva e assicurazione

La manleva ha finalità simili con l’assicurazione, ma anche rispetto a questo istituto presenta differenze importanti.

  • Rapporto giuridico: l’assicurazione è un contratto regolato dal Codice Civile (art. 1882 c.c.), mentre la manleva è un accordo tra privati che non necessita di una forma specifica.
  • Premio e rischio: nel contratto assicurativo, l’assicurato paga un premio in cambio della copertura di un rischio. Il manlevante invece assume un obbligo senza la previsione di un corrispettivo automatico.
  • Intervento di terzi: l’assicurazione prevede la partecipazione di una compagnia assicurativa, la manleva invece è un accordo diretto tra due parti.

Quando e come si applica

La manleva si applica in diversi ambiti.

  • Contratti commerciali: un’azienda può manlevare un fornitore da eventuali richieste di risarcimento.
  • Rapporti di lavoro: un datore di lavoro può essere manlevato da responsabilità per atti compiuti dai dipendenti.
  • Procedure legali: una parte può essere manlevata dagli oneri derivanti da una causa legale.

L’applicazione dell’istituto avviene mediante un accordo scritto, in cui si specificano:

  • le parti coinvolte (manlevante e manlevato);
  • il tipo di rischio o responsabilità coperta;
  • l’ambito temporale e territoriale di validità.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha consolidato diversi principi, chiarendo il valore legale e l’applicabilità dell’istituto:

  • Cassazione n. 37709/2021: l’accordo concluso tra le parti configura un c.d. patto di manleva, contratto atipico, dal quale scaturisce l’obbligo del mallevadore di tenere indenne il manlevato dalle conseguenze patrimoniali dannose di eventi o di atti il cui verificarsi sia del tutto eventuale.
  • Cassazione n. 29416/2024: la formulazione di una domanda di garanzia (per manleva o regresso) nei confronti di un terzo di cui si richieda la chiamata in causa esula, per consolidato indirizzo di nomofilachia, dal novero delle ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché resta connotato da discrezionalità il provvedimento del giudice che detta istanza di evocazione del terzo, pur tempestivamente formulata, accolga o rigetti la richiesta.
  • Cassazione n. 20152/2017: la clausola di manleva è una disposizione contrattuale utilizzata per trasferire a un terzo le conseguenze risarcitorie derivanti dall’inadempimento di un’obbligazione contrattuale. Tale soggetto assume l’onere di manlevare e tenere indenne il creditore da eventuali danni o pretese risarcitorie. Nel caso di clausole di questo tipo inserite nei contratti di assicurazione, è necessaria un’esplicita approvazione nel rispetto dell’articolo 1341 del Codice Civile.

 

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Assunzione sostanza stupefacente: responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte Come viene a configurarsi l’elemento soggettivo colposo dello spacciatore in relazione alla morte dell’assuntore di sostanza stupefacente?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il processo di causalità tra consegna della droga e morte, ma anche che il decesso sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che, quindi, sia accertata nei suoi confronti la presenza, in concreto, dell’elemento soggettivo colposo, correlata alla violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma che incrimina il reato-base e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assuma la sostanza drogante, calibrate secondo la figura di un agente – modello che si trovi nella specifica situazione di quello “reale” ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto da quest’ultimo conosciute e conoscibili (Cass., sez. V, 14 novembre 2024, n. 41898).

In seguito ad una sentenza di proscioglimento per omissione di soccorso e contestuale condanna in appello ai sensi del reato ex art. 586 c.p. e cessione di sostanze stupefacenti, veniva presentato ricorso presso il Supremo Consesso per due ordini di motivi. Da una parte, violazione di legge per l’affermazione di responsabilità ex art. 586 c.p. per il mancato riconoscimento dell’elemento soggettivo colposo per la morte della persona offesa, assuntrice abituale di sostanza stupefacente; il secondo, invece, si limitava al vizio di legge per il trattamento sanzionatorio complessivo e il riconoscimento della recidiva. Il caso concerneva la responsabilità penale di uno spacciatore per la morte dell’assuntrice per la cessione di una dose, dopo che i due avevano trascorso insieme la notte a bere e consumare eroina, tanto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero riconosceva tra le cause del decesso un sovradosaggio acuto di oppiacei.

In merito al riconoscimento della colpa in capo all’imputato, il quesito veniva ritenuto fondato da parte del Supremo Consesso.

Il grado di colpa esigibile e il relativo accertamento necessario venivano illustrati dalla Corte partendo dalla interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla sentenza di Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676 (cd. Ronci). Quest’ultima si occupava di illustrare la compatibilità tra il reato di morte come conseguenza di altro delitto e il principio di colpevolezza, aderendo alla tesi già discussa in giurisprudenza della responsabilità per colpa in concreto.

Partendo dall’accertamento, questo deve necessariamente svolgersi mediante un giudizio di prognosi postuma, focalizzata sul frangente in cui è avvenuto il fatto. Oggetti dell’accertamento sono il nesso di causalità tra la consegna della droga e l’evento morte, ma anche e soprattutto la concreta rimproverabilità del decesso in capo allo spacciatore. Quest’ultima può ritenersi presente qualora la sussistenza dell’elemento soggettivo colposo risulti correlato alla violazione di una regola precauzionale differente a quella incriminante il reato – base e in presenza di un concreto coefficiente di prevedibilità ed evitabilità del rischio per il bene (ndr. vita dell’assuntore). Il parametro di valutazione è quello del comportamento dell’agente – modello, basato su tutte le circostanze del caso concreto dall’autore conosciute e conoscibili. Su queste fondamenta si è poi incardinata tutta la giurisprudenza successiva in materia di imputazione dell’omicidio dell’assuntore di sostanza stupefacente nei confronti dello spacciatore ex art. 586 c.p. (da ult. Cass. 19 settembre 2018, n. 49573).

L’analisi della Corte di legittimità prosegue riconoscendo il reato di morte come conseguenza di altro delitto quale forma di delitto aggravato dall’evento. Essa assume i contorni di una forma speciale di aberratio delicti ex art. 83, comma 2 c.p.: l’evento-morte, non voluto, viene imputato a titolo di colpa nell’ambito di un concorso formale di reati, in quanto derivante dalla commissione di una diversa condotta voluta e prevista ex se costituente reato. Tale circostanza impone che la valutazione del coefficiente psicologico colposo richiesto debba essere riferita al momento dell’evento morte, seppur collegato oggettivamente al precedente delitto doloso, poiché è dall’evento che viene ricavata la regola precauzionale violata.

Due sono gli elementi che confluiscono nella ricostruzione del fatto di reato: da una parte, l’agire prodromico all’evento che deve essere assistito dalla coscienza e volontà degli elementi essenziali del reato; dall’altra, l’accertamento della colpa, la quale deve essere proiettata nella fase consequenziale alla consumazione del delitto doloso. Pertanto, l’accertamento appena accennato va legato al momento della cessione della dose di sostanza stupefacente e non, come veniva realizzato dal giudice di merito nel caso di specie, nell’arco temporale tra questa e il decesso per non aver prestato assistenza alla vittima.

D’altra parte, la giurisprudenza di merito non ha valorizzato altri elementi ragionevolmente sintomatici della prevedibilità in concreto; indici di colpa possono risultare, sempre per giurisprudenza di legittimità consolidata, nella cessione contestuale o ravvicinata di più dosi alla medesima persona, nella consegna di una dose in elevata concentrazione o nella cessione a soggetto in evidente stato di alterazione da alcol (Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676).

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c. Il debitore adempiente può invocare la tutela di cui all’art. 1189 c.c. quando sussiste una situazione in cui il pagamento avvenga in conflitto tra i creditori?

Quesito con risposta a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone

 

Poiché l’art. 1189 c.c. è diretto a tutelare il solo debitore che paghi il creditore che appia “univocamente” tale, cioè la situazione in cui il pagamento avvenga in mancanza di un conflitto, noto al debitore, sulla relativa legittimazione, tale disposizione non è, di regola, applicabile nel caso in cui siano espressamente rivolte al debitore, prima del pagamento, pretese contrastanti da diversi potenziali aventi diritto (disponendo del resto il debitore di diversi e adeguati strumenti di tutela della sua posizione, per tale eventualità), salvo solo il caso eccezionale in cui alcune di suddette pretese appaiono, già prima facie, manifestamente infondate e pretestuose ovvero vi sia un ordine giudiziale che imponga il pagamento in favore di uno dei pretendenti (Cass., sez. III, 23 ottobre 2024, n. 27439 (pagamento al creditore apparente).

Nel caso di specie, il Supremo Consesso compie una precisa ricognizione del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c., che disciplina il pagamento effettuato dal debitore nei confronti di colui che appare essere il creditore (creditore apparente). In virtù di tale articolo, il legislatore ha stabilito che il debitore è liberato dall’adempimento dell’obbligazione allorquando dia prova di aver eseguito la prestazione nei confronti di un soggetto che, senza essere il creditore o, comunque, un soggetto legittimato ex art. 1188 c.c., appaia essere legittimato in base a circostanze univoche e dimostra, altresì, di essere stato in buona fede. Di talché, dall’analisi della disposizione in esame emerge che affinché l’adempimento in favore di un soggetto diverso da quello legittimato a riceverlo determini la liberazione ex art. 1189 c.c., occorre che ricorrano due distinti presupposti: uno di carattere soggettivo (la buona fede del debitore) e l’altro di carattere oggettivo (le circostanze univoche che facciano apparire il ricevente come soggetto legittimato). La ratio della norma è, dunque, quella di tutelare l’affidamento incolpevole del debitore che in buona fede ritiene di adempiere la sua obbligazione, pagando il creditore legittimato a riceve la prestazione (e non il creditore apparente).

Sulla base di tale analisi, i giudici della Corte di Cassazione, nella sentenza oggetto di attenzione, hanno ravvisato la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1189 c.c., da parte dei giudici della Corte d’Appello di Milano, poiché questi non avevano valutato, nell’individuare l’effettivo titolare del diritto di pagamento, una pluralità di circostanze di fatto, tra cui l’esistenza di più creditori rispetto al premo assicurativo. Invero, nel momento in cui vengono avanzate più pretese in ordine al pagamento dell’obbligazione, tra loro contrastanti e ad opera di soggetti diversi, è palese la sussistenza di una controversia in punto di autenticità delle sottoscrizioni (precedente effettuate) e, quindi, di riflesso, anche sulla autenticità della titolarità del diritto al pagamento.

Ciò posto, la Corte di Cassazione stabilisce che la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano sia inficiata da un vizio c.d. di sussunzione, poiché ha ricondotto nell’alveo del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c. una fattispecie concreta che, in realtà, non rientra in tale campo applicazione. Difatti, la disciplina enucleabile dall’art. 1189 c.c. non è passibile di applicazione allorquando, in primo luogo, siano avanzate – espressamente – al debitore pretese tra loro contrastanti e provenienti da soggetti in conflitto tra loro circa l’adempimento di un’obbligazione e, in secondo luogo, quando non sussistono circostanze oggettive ovvero univoche che inducono il debitore ad effettuare il pagamento nei confronti di uno dei “creditori”.

La Corte di Cassazione, conclude, stabilendo che in tali casi viene in soccorso, non già l’art. 1189 c.c., ma l’art. 687 c.p.c. La norma, nello specifico, disciplina il c.d. sequestro conservativo. Di tale autonoma figura di sequestro ci si può avvalere allorché tra le parti del rapporto sinallagmatico sorga una controversia circa i diritti e gli obblighi nascenti dallo stesso rapporto, così come nell’ipotesi in cui, avendo il debitore chiesto un accertamento negativo del proprio obbligo, intenda medio tempore sottrarsi alle conseguenze negative dell’inadempimento, ossia alla mora debendi.

Sulla base di tali principi, i giudici di legittimità, nel caso attenzionato, accolgono il ricorso incidentale avanzato dagli eredi dello stipulante la polizza assicurativa e cassano la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviano alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

 

(*Contributo in tema di “Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c.”, a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

sospeso l'avvocato

Sospeso l’avvocato che difende i coniugi e poi assiste uno contro l’altro La Cassazione afferma che va sospeso l'avvocato che rappresenta entrambi i coniugi e poi ne assiste uno contro l'altro in violazione dell'art. 68 CDF

La Cassazione sulla Deontologia Forense

Sospeso l’avvocato che inizialmente rappresenta entrambi i coniugi durante una separazione e successivamente assiste solo uno dei due in procedure legali contro l’altro. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4844/2025 depositata martedì 25 febbraio 2025.

Sospeso l’avvocato per violazione deontologica

La sentenza n. 4844/2025 della Cassazione conclude una procedura avviata da una donna che ha segnalato come l’avvocato attualmente rappresentante del marito in azioni legali contro di lei fosse lo stesso che aveva assistito entrambi durante la separazione.

Il CDD ha sanzionato l’avvocato, ma questi ha contestato la decisione davanti al CNF, che ha comunque confermato la decisione riducendo però la sospensione a un anno.

L’avvocato ha impugnato nuovamente presso la Corte di Cassazione.

L’art. 68 del CDF

La S.C. ha ritenuto legittime le conclusioni del CNF sulla base dei documenti forniti, confermando così l’infrazione disciplinare prevista dall’articolo 68 del Codice deontologico Forense. Tale norma vieta espressamente di accettare incarichi contro una parte già assistita in passato: in particolare, il comma 4 vieta all’avvocato che abbia rappresentato congiuntamente coniugi o conviventi in controversie familiari di assisterne solo uno nei successivi conflitti tra i due.

 

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decoro architettonico

Il decoro architettonico Decoro architettonico: definizione, normativa di riferimento, caratteristiche, possibili alterazioni e giurisprudenza di rilievo

Cos’è il decoro architettonico?

Il decoro architettonico è l’insieme delle linee estetiche e stilistiche che caratterizzano un edificio, conferendogli un aspetto armonico e uniforme. In ambito condominiale esso rappresenta un valore da tutelare, in quanto incide sull’armonia dell’edificio e sul valore economico delle singole unità immobiliari.

Normativa di riferimento

Il Codice Civile non fornisce una definizione specifica di decoro architettonico, ma la sua tutela emerge da diversi articoli:

  • 1120 c.c.: vieta le innovazioni che possano alterare il decoro architettonico dell’edificio;
  • 1122 c.c.: stabilisce che i condomini non possano compiere opere che danneggino il decoro architettonico;
  • 1102 c.c.: disciplina l’uso delle parti comuni, prevedendo che ogni condomino possa servirsi delle stesse, purché non ne alteri la destinazione o, secondo alcune pronunce dei giudici di merito e di legittimità, il decoro.

La giurisprudenza ha avuto un ruolo fondamentale nella definizione dei confini di questa tutela, stabilendo criteri e principi per valutare quando si verifichi un’alterazione dello stesso.

Caratteristiche del decoro architettonico

Le principali caratteristiche del decoro architettonico sono:

  1. uniformità stilistica: la facciata e le parti comuni devono mantenere un aspetto armonioso;
  2. coerenza estetica: qualsiasi intervento deve rispettare le linee originarie dell’edificio;
  3. impatto visivo: l’alterazione viene valutata in base all’impatto che una modifica ha sull’aspetto dell’edificio nel suo complesso.

Quando c’è alterazione del decoro architettonico?

L’alterazione si verifica quando un’opera o una modifica effettuata da un singolo condomino incide negativamente sull’armonia estetica dell’edificio. Alcuni esempi tipici includono:

  • la chiusura di balconi con infissi di colore o materiale difforme rispetto agli altri;
  • l’installazione di condizionatori o antenne in posizioni visibili e disarmoniche;
  • la modifica della facciata con verniciature o rivestimenti non coerenti con lo stile originale;
  • l’installazione di tende, infissi o inferriate in contrasto con le linee estetiche dell’edificio.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha emesso diverse sentenze in materia di decoro architettonico, chiarendo i criteri per determinare l’esistenza di un’alterazione:

Cassazione civile n. 851/2007: Il decoro architettonico di un edificio condominiale, tutelato dall’art. 1120 c.c., si riferisce all’estetica complessiva derivante dall’insieme delle linee e delle strutture che definiscono l’armonia e l’identità dello stabile. Pertanto, qualora interventi innovativi ne compromettano l’integrità, la tutela opera indipendentemente dalla loro visibilità o dal punto di osservazione, poiché mira a preservare le caratteristiche architettoniche unitarie dell’edificio, a prescindere da circostanze contingenti.

Cassazione civile n. 10350/2011:  Mentre l’aspetto architettonico, disciplinato dall’art. 1127 c.c in relazione al diritto di sopraelevazione dei condomini, implica una valutazione della compatibilità con lo stile dell’edificio (Cass., sez. 2, n. 1025/2004), il decoro, tutelato dall’art. 1120 c.c., si manifesta nell’armonia complessiva delle linee e delle strutture, garantendo un’estetica coerente e unitaria dell’immobile (Cass., sez. 2, n. 10350/2011).

Cassazione civile n. 27527/2005: il decoro architettonico di un edificio si riferisce alla sua estetica complessiva, determinata dall’insieme delle linee, delle strutture e degli elementi ornamentali che ne caratterizzano l’aspetto, conferendogli un’identità armonica e riconoscibile. Esso non si limita alla semplice bellezza dell’edificio, ma rappresenta un principio di coerenza stilistica che garantisce l’unitarietà visiva delle sue parti. Esso si manifesta nella fusione equilibrata degli elementi costruttivi e decorativi, che insieme definiscono la fisionomia dell’immobile. La sua tutela ha lo scopo di preservare questa armonia estetica nel tempo, evitando alterazioni che possano comprometterne l’integrità visiva e il valore sia architettonico che economico.

 

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giurista risponde

Somministrazione del vaccino e responsabilità ASL Esiste un nesso causale tra l’esecuzione delle vaccinazioni e l’autismo?

Quesito con risposta a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone

 

 

Va negata l’esistenza di un nesso causale tra la somministrazione di un vaccino e i problemi fisici e psicofisici riconducibili allo spettro dell’autismo, sulla base delle più accreditate ricerche scientifiche (Cass., sez. III, ord. 7 novembre 2024, n. 28691).

Nel caso oggetto di attenzione, il Supremo Consesso analizza una relativa al rapporto tra il consenso informato e la somministrazione di un vaccino non obbligatorio a un soggetto minorenne e l’insorgenza, all’indomani, di una progressiva e grave regressione psico-fisica, culminata in una forma di autismo.

I ricorrenti lamentavano, in uno dei quattro motivi, che la Corte d’Appello di Bari aveva accolto solo le doglianze in merito al mancato consenso informato e non anche quelle relative al risarcimento dei danni da somministrazione del vaccino, senza, per altro, tener conto del fatto che, se adeguatamente informati, non avrebbero acconsentito alla somministrazione dello stesso vaccino al figlio (minorenne).

I giudici di legittimità sul punto, riprendendo e condividendo il percorso logico-argomentativo sviluppato dai giudici della Corte d’Appello di Bari, asseriscono che il motivo sollevato dai ricorrenti è infondato. Innanzitutto, si riconosce il capo all’ASL un deficit informativo circa i rischi di eventuali reazioni fisiche conseguenti la somministrazione del vaccino. Tuttavia, si rileva che sulla base delle più accreditate ricerche scientifiche non si può determinare alcuna relazione di causalità tra la somministrazione del vaccino e le successive patologie fisiche e psico-fisiche riconducibili allo spettro dell’autismo.

Sulla base di tale conclusione scientifica, è stata esclusa ogni relazione casuale tra l’iniezione del vaccino e la sindrome di autismo. Si è negato, così, l’an del diritto al risarcimento e correttamente non si è sviluppata alcuna istruttoria in ordine al quantum debeatur.

 

(*Contributo a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

bene culturale

Bene culturale: la definizione della Cassazione La Cassazione definisce il bene culturale ai fini penali, in tema di delitti contro il patrimonio culturale

Bene culturale, cosa si intende

In mancanza di una definizione legislativa di bene culturale, anche dopo l’introduzione nel codice penale dei delitti contro il patrimonio culturale (artt. 518-bis e ss. c.p.), deve ritenersi sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche oggettive del bene stesso (come la tipologia, la rarità, la localizzazione, ecc.). Questo è quanto affermato dalla terza sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 44354/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Firenze, rigettava l’istanza di riesame avverso il decreto di sequestro probatorio emesso dal Procuratore della Repubblica e avente ad oggetto una “lettera autografa” indirizzata a un vescovo del 1500, ipotizzandosi il reato di cui all’art. 518 quater c.p.

Avverso tale provvedimento, l’imputato, a mezzo dei difensori di fiducia, proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra l’altro, l’insussistenza del reato presupposto e la mancata indicazione delle ragioni per le quali la missiva costituiva “un bene mobile di interesse religioso appartenente a enti e istituzioni ecclesiastiche”.

Bene culturale secondo la giurisprudenza

Per gli Ermellini, il ricorso è inammissibile per carenza d’interesse. Preliminarmente, però i giudici ricordano che “in mancanza di una definizione legislativa del bene culturale, la giurisprudenza ha adottato un approccio di tipo sostanziale ritenendo che l’accertamento dell’interesse culturale prescinda da un’espressa dichiarazione amministrativa reputandosi sufficiente che la ‘culturalità’ sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni (cfr., ex plurimis, n. 24988 del 16/7/2020), quali la tipologia, la localizzazione, la rarità o altri analoghi criteri”.
Tale orientamento, per la S.C., “appare in linea con la definizione di bene culturale che si rinviene nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulle infrazioni relative ai beni culturali, cui la legge n. 22/2022, che ha introdotto nel codice penale gli artt. 518 bis e ss., costituisce strumento attuativo, che prescinde dalla preventiva dichiarazione di interesse culturale da parte dell’organo amministrativo”.

La Convenzione (lett. h del comma 2 dell’art. 2), inoltre riconduce alla categoria dei beni culturali i “manoscritti rari e incunaboli, libri antichi, documenti e pubblicazioni di particolare interesse (storico, artistico, scientifico, letterario, ecc.) singolarmente o in collezioni”.

La decisione

Nel caso di specie, la motivazione del Tribunale del riesame, che è giunto alla conclusione secondo cui, “a prescindere dal luogo del rinvenimento”, alla missiva consegnata ai Carabinieri può astrattamente attribuirsi la natura di “bene archivistico protetto e tutelato dalla Soprintendenza Archivistica per l’Umbria” si sottrae, quindi, alle censure difensive collocandosi nel solco segnato dal consolidato orientamento di legittimità innanzi indicato. Per cui, il ricorso è dichiarato inammissibile.

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