cane catena

Reato tenere il cane alla catena sotto il sole Cane alla catena, sotto il sole e senza acqua: la condotta configura il reato di abbandono di animali art. 727 c.p.

Cane alla catena: reato di abbandono art. 727 c.p.

Reato tenere il cane alla catena. E’ integrato, infatti, il reato di abbandono di animali di cui all’art. 727 del codice penale che punisce chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito le abitudini della cattività. Alla stessa pena  è soggetto anche chiunque detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.

Il reato di abbandono si configura quindi anche quando un soggetto detenga un cane di grossa taglia a una catena di metallo pesante corte corta e stretta, in scarse condizioni igieniche, sotto il sole e senza acqua. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 38792/2024.

Tenere il cane alla catena sotto il sole senza acqua è reato

Il tribunale condanna un soggetto per il reato di abbandono di animale. Per l’autorità giudicante l’uomo è responsabile penalmente per aver detenuto un cane di razza Rottweiler in condizioni incompatibili con la sua natura, produttive di gravi sofferenze e in condizioni igieniche precarie.

L’uomo deteneva infatti l’animale legato a una corda corta e fissa tanto da provocargli uno strozzamento. Il cane inoltre si trovava esposto in pieno sole, ma la ciotola dell’acqua era vuota.

L’imputato contesta la sanzione, la somma quantificata a titolo di risarcimento in favore della parte civile e la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.

Negata la sospensione condizionale: condotta grave

Per la Cassazione il ricorso deve essere respinto. Il primo motivo appare del tutto infondato così come la seconda doglianza nella quale l’imputato ha lamentato il mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena.

La Cassazione al riguardo precisa che il giudice di merito ha motivato la decisione in maniera congrua ed esente da vizi logici. Lo stesso ha infatti valorizzato la gravità della condotta dell’imputato.

Nella sentenza impugnata è descritta la detenzione sotto il sole di un cane di grossa taglia al quale è stata fatta indossare una catena di metallo pesante, del tutto priva di moschettoni rotanti e attorcigliata attorno al collo. L’animale detenuto in simili condizioni era impossibilitato a muoversi, quindi non poteva raggiungere un riparo. L’animale inoltre non aveva a sua disposizione neppure una ciotola  piena d’acqua per abbeverarsi.

 

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non bastano i viaggi

Non bastano i viaggi col compagno per l’addio all’assegno Revoca assegno divorzile: non provano la una nuova famiglia di fatto della ex moglie i viaggi e le vacanze con il nuovo compagno

Revoca assegno divorzile

Non bastano i viaggi col compagno, per disporre la revoca dell’assegno divorzile. Non provano, infatti, la nuova famiglia di fatto nè i viaggi e le vacanze estive della coppia formata dalla ex moglie e dal nuovo compagno, nè la frequentazione domestica e la corresponsione di somme di denaro nel periodo in cui l’ex marito non le versava gli assegni. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 27043/2024.

Assegno divorzile: la Corte lo dimezza

Un ex marito si rivolge al Tribunale per chiedere la revoca dell’assegno di divorzio di 1000 euro mensili spettante all’ex moglie. L’autorità giudiziaria accoglie il ricorso con decreto. La Corte d’appello accoglie invece parzialmente il reclamo della ex moglie e riduce l’assegno a 500,00 euro a partire dal 22 giugno 2017.

Nuova famiglia di fatto giustifica revoca?

L’ex marito ricorre la decisione in Cassazione. L’uomo contesta alla Corte d’appello di non aver valorizzato l’esistenza della nuova famiglia di fatto della ex moglie solo a causa della non coabitazione. Nel secondo motivo lamenta la mancata valutazione di plurimi elementi indiziari che dimostrano l’esistenza della suddetta famiglia di fatto. Con il terzo motivo evidenzia la non contestazione da parte della ex moglie della relazione con il nuovo compagno dal 2010.

La revoca dell’assegno non è automatica

La Cassazione esamina i tre motivi di doglianza e li respinge perchè inammissibili.

Gli Ermellini ricordano che secondo il più recente orientamento la nuova stabile convivenza di fatto dell’ex partner, giudizialmente accertata, incide sul diritto all’assegno di divorzio, sulla sua revisione e sulla sua quantificazione. Il nuovo progetto di vita intrapreso con il terzo e i reciproci doveri di assistenza morale e materiale non determinano però automaticamente e integralmente la perdita dell’assegno divorzile. La coabitazione assume valenza indiziaria per dimostrare il rapporto di fatto, l’assenza di coabitazione, al contrario, non è decisiva ai fini della revoca. In assenza della stabile coabitazione occorre quindi accertare l’effettivo legame di convivenza per appurare se lo stesso costituisca un ostacolo al diritto all’assegno divorzile.

Viaggi e vacanze non provano la nuova famiglia di fatto

La Corte d’appello ha negato la revoca dell’assegno di divorzio perché dagli elementi emersi non è stata documentata con certezza la formazione di una nuova famiglia di fatto da parte della ex moglie. Pacificamente assente la stabile convivenza (…) non documentano con sufficiente certezza la formazione di una famiglia di fatto, non essendo prova sufficiente di una sostanziale comunione e condivisione di vita e di impegni economici i viaggi e le vacanze estive della coppia, la frequentazione domestica documentata, né la dizione di somme di denaro nel periodo (marzo 2010-2018) in cui (lex marito) non le versava gli assegni.” 

La Corte di merito quindi, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha valorizzato solo la mancata coabitazione. Dal corredo probatorio complessivo la Corte ha dedotto la mancata dimostrazione della nuova famiglia di fatto dell’ex moglie. I motivi di doglianza del marito non colgono nel segno perché sono diretti in modo improprio a ottenere una rivisitazione dei fatti nel merito, ossia dei fatti storici e dei risultati istruttori.

 

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gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio anche per lo straniero senza codice fiscale Il gratuito patrocinio spetta all’extracomunitario privo di codice fiscale Italiano se fornisce i propri dati anagrafici

Gratuito patrocinio: spetta anche allo straniero privo di codice fiscale

Il gratuito patrocinio è previsto per il cittadino extracomunitario non residente anche se non possiede il codice fiscale italiano. E’ infatti sufficiente che costui fornisca i propri dati anagrafici e dichiari il suo domicilio estero. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 38751/2024.

Rigetto istanza patrocinio gratuito: codice fiscale mancante

Il Giudice unico del Tribunale di Milano rigetta la richiesta di ammissione al gratuito patrocinio avanzata da un cittadino extracomunitario. Il Giudice ha rilevato la mancata indicazione del codice fiscale. Quello fornito era stato ricavato infatti da un applicativo e il difensore non ha depositato la documentazione richiesta a integrazione. Il richiedente contesta la decisione al Tribunale, che però la rigetta. Il richiedente non ha fornito il codice fiscale e non ha indicato il suo domicilio fiscale stabile in Italia. In questo modo è impossibile controllare la sua situazione reddituale, presupposto fondamentale per l’ammissione al patrocinio gratuito.

Dati anagrafici e domicilio fiscale sostituiscono il codice fiscale

L’istante nel ricorre in Cassazione sostiene che per i soggetti che non risiedono nel territorio dello Stato l’obbligo di indicare il codice fiscale deve intendersi adempiuto con l’indicazione dei dati  anagrafici e del domicilio o sede legale all’estero. Dati che lo stesso ha fornito mediante autocertificazione.

Patrocinio per l’extracomunitario se fornisce i dati anagrafici

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso perché fondato.

L’articolo 6 comma 2 del d.p.r. n. 605/1973 dispone che lobbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con l’indicazione dei dati di cui allart. 4 dello stesso d.p.r. con leccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale allestero.” 

Il richiamato art. 4 richiede, per l’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche il cognome, il nome, il luogo e la data di nascita, il sesso e il domicilio fiscale.

Nel caso di specie il ricorrente ha dichiarato di non possedere il codice fiscale, ma di aver indicato i dati anagrafici e il proprio domicilio fiscale all’estero. Dalle norme analizzate non emerge l’onere per il cittadino straniero non residente di procurarsi un codice fiscale italiano per provare la richiesta di ammissione al patrocinio gratuito, fermo restando l’obbligo di allegare il reddito prodotto, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi presentata nel paese di residenza.

 

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errore medico

Errore medico e danno da perdita della capacità lavorativa Danno da perdita della capacità lavorativa presumibile dall’elevata invalidità permanente anche se riconducibile alla nascita

Capacità lavorativa: il danno è presumibile dai postumi permanenti

Errore medico: il danno da perdita della capacità lavorativa si presume dall’alta percentuale dei postumi permanenti invalidanti riportati al momento della nascita e il giudice può liquidarlo affidandosi a criteri equitativi. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 27353/2024.  

Risarcimento per lesione della capacità lavorativa anche se risalenti al parto

I genitori di una minore chiedono il risarcimento dei danni arrecati alla figlia dalla Asl a causa della condotta tenuta dal personale dipendente della divisione di ostetricia al momento del parto.

Il Tribunale accoglie in parte la domanda. La decisione viene appellata e la Corte conferma la decisione del Giudice di primo grado. L’autorità giudiziaria dell’appello riconosce  il risarcimento dei danni per il danno biologico permanente nella percentuale del 25% a causa dei danni riportati alla parte sinistra del corpo. La Corte però nega il risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla perdita della capacità lavorativa.

Serve una prova rigorosa

Per la Corte d’appello il mancato riconoscimento di questa voce di danno dipende dal fatto che il minore non percepisce redditi, i guadagni sono quindi assenti. Esiste pertanto un’incertezza sulla qualificazione e quantificazione delle varie voci di danno non superabile se non con una prova particolarmente rigorosa, caratterizzandosi il pregiudizio in questione come danno da perdita di chance lavorativa.” La prova dei postumi invalidanti non è sufficiente a dimostrare anche la perdita di futuri, possibili e maggiori guadagni.

Lesione altamente menomante: il danno è presunto

Parte soccombente nel ricorrere in Cassazione contesta la motivazione meramente apparente della decisione della Corte d’Appello in relazione alla mancata prova della perdita della capacità lavorativa. Con il secondo motivo contesta il rigetto della richiesta risarcitoria connessa alla perdita della capacità lavorativa specifica. In giudizio sono emersi indici presuntivi come il danno permanente del 25% e la “natura altamente menomante della lesione”. Trattasi di elementi che per la ricorrente dimostrano in via presuntiva la sussistenza del danno da perdita della capacità lavorativa e delle condizioni per liquidarlo nella misura pari al triplo della pensione sociale.

Elevata invalidità permanente, menomazione capacità lavorativa

La Cassazione accoglie il ricorso dopo l’esame congiunto dei due motivi di ricorso. Gli Ermellini sulla prova necessaria al riconoscimento del danno da perdita della capacità lavorativa ricordano che nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa ed il danno che necessariamente da essa consegue, li giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi. La liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dellinfortunio.”

La Corte d’appello nel rigettare le richieste risarcitorie della ricorrente ha completamente disatteso questo principio. Essa ha preteso la prova rigorosa della alterazione in peius della capacità di guadagno in un soggetto minorenne, con postumi permanenti del 25%,  un danno biologico altamente rilevante a fini presuntivi.

 

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Sospeso l’avvocato che non consegna l’atto di citazione al collega La mancata consegna dell'atto di citazione e della relata al collega avvocato configura un illecito disciplinare

Illecito deontologico per l’avvocato

Sospeso l’avvocato che non consegna l’atto di citazione al collega. La mancata consegna dell’atto corredato della relata di notifica origina un illecito deontologico. L’avvocato in questo modo viene meno, infatti, ai doveri di probità e lealtà. La Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. Cass-27284-2024 respinge il ricorso della professionista incolpata e fornisce alcune importanti precisazioni anche sulla prescrizione dell’illecito disciplinare. Al CNF il compito di rideterminare la sanzione.

Mancata consegna atto di citazione e relata

Un Comune, a mezzo difensore, si rivolge al Consiglio dell’ordine degli Avvocati competente per denunciare la condotta dell’avvocato della controparte in un giudizio risarcitorio.

Detto avvocato avrebbe infatti dichiarato che l’atto di citazione predisposto sarebbe stato consegnato a mani dall’ufficiale giudiziario, anche se la stessa si è limitata a inviare al collega solo la copia della prima pagina dell’atto, senza la relativa relata di notifica. Dal controllo del fascicolo d’ufficio è emerso infatti che nessun atto di citazione era stato notificato da parte dall’avvocata incolpata.

Avvocata non consegna atto di citazione al collega: sospesa dall’attività

Il Consiglio distrettuale di disciplina sottopone l’avvocata a un procedimento disciplinare. Tra i vari capi di incolpazione figura la violazione dei doveri di proibita, dignità, decorso e indipendenza  previsti dall’articolo 9 del Codice deontologico Forense. La professionista sarebbe responsabile di non aver consegnato al collega l’atto di citazione e la relativa relata di notifica. Con questa condotta la stessa avrebbe violato il dovere di correttezza e lealtà e l’obbligo di collaborazione nei confronti dei colleghi, che si realizza anche attraverso lo scambio di atti, documenti e informazioni.

All’esito del procedimento il Consiglio di disciplina condanna la professionista in relazione ad alcuni capi di incolpazione e la sanziona con la sospensione dall’esercizio della professione per la durata di tre anni. Il CNF però ridetermina la sanzione della sospensione dall’attività riducendola a un anno.

Non punibile la professionista che esercita il diritto di difesa

L’incolpata ricorre in Cassazione affermando nel primo motivo di ricorso la prescrizione dell’illecito contestato al capo 2). Con il secondo motivo contesta invece la violazione dell’art. 24 della Costituzione, affermando che se la stessa avesse consegnato al collega copia dell’atto corredato della relativa notifica avrebbe fornito la prova dell’avvenuta falsificazione dell’atto, pregiudicando così il suo diritto di difesa in un eventuale procedimento disciplinare, che sarebbe potuto originare proprio dalla consegna dell’atto falso.

La ricorrente invoca quindi la causa di giustificazione contemplata dall’art. 51 c.p, che non punisce il fatto commesso nell’esercizio di un diritto, che nel caso di specie si identifica con i diritto di non rendere dichiarazioni, scritte o reali, contenenti elementi auto-indizianti.

Illecito disciplinare la mancata consegna al collega dell’atto

Gli Ermellini dichiarano il motivo ammissibile perché la prescrizione dellazione disciplinare nei confronti degli avvocati è rilevabile anche dufficio in ogni stato e grado del processo, qualora non comporti indagini fattuali che sarebbero precluse in sede di legittimità, tanto più ove se ne deduca la maturazione successivamente allintroduzione del giudizio di merito a quo.”

In relazione al capo 2 di incolpazione si è verificata in effetti la prescrizione. Per la Cassazione però il motivo è infondato e va respinto.

La Cassazione ritiene infine che anche il secondo motivo sollevato sia del tutto infondato. Questo alla luce di diverse disposizioni nazionali e internazionali richiamate da alcune pronunce della Corte Costituzionale e della stessa Cassazione. L’illecito disciplinare oggetto di giudizio è estraneo al perimetro di applicazione del diritto al silenzio, che vale nei procedimenti amministrativi idonei a sfociare in sanzioni amministrative punitive. La garanzia però opera solo nell’ambito del rapporto tra il potenziale incolpato e l’autorità titolare dei procedimenti amministrativi finalizzati alla scopetta di illeciti, individuazione di responsabili e irrogazione di sanzioni punitive. Nel caso si specie però la contestata mancata consegna dell’atto si è manifestata nei confronti dell’avvocato di controparte, nell’ambito del rapporto di colleganza, non verso un autorità munita di poteri di vigilanza.

 

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opposizione a decreto ingiuntivo

Opposizione a decreto ingiuntivo: la domanda è modificabile Opposizione a decreto ingiuntivo: la domanda è modificabile anche se nasce da una mera eccezione e non da una riconvenzionale

Domanda modificabile anche se sorge da un’opposizione

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto può proporre domande aggiuntive/alternative a quella principale anche se controparte non ha proposto una domanda riconvenzionale, ma si è limitata a sollevare delle eccezioni. Lo hanno chiarito le SU nella sentenza n. 26727/2024.

Opposizione decreto ingiuntivo: domande alternative dell’opposta

Una S.r.l chiede e ottiene un decreto ingiuntivo nei confronti di una Asl e della Regione Lazio per la somma di 800.000,00 euro. Le ingiunte si oppongono e dalle due opposizione scaturiscono due cause di cognizione. Nella comparsa di costituzione e risposta la S.r.l chiede il rigetto dell’opposizione in via principale. In via subordinata invece chiede che le opponenti la tengano indenne con conseguente condanna al pagamento di 909.000,00 euro. In via ulteriormente subordinata chiede invece di accertare l’ingiustificato arricchimento, con condanna al pagamento dello stesso importo.

Inammissibili le domande art. 1137 c.c. e art. 2041 c.c.

Il Tribunale accoglie le opposizioni, ma rigetta le domande ulteriori avanzate dalla società. Questa  ricorre in appello, ma anche in questa sede l’autorità giudiziaria, dopo aver riunito le cause, rigetta le istanze avanzate dall’opposta.

Per la Corte di appello le richieste di pagamento avanzate con le domande subordinate in base agli articoli 1337 c.c. e 2041 c.c sono inammissibili perché non scaturiscono da una domanda riconvenzionale presentata dalle convenute Asl e Regione.

Cassazione: ammissibili domande alternative nell’opposizione a decreto ingiuntivo

La società soccombente a questo punto ricorre in Cassazione. La prima sezione però si rivolge alle SU per chiarire se nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il convenuto opposto possa vantare una domanda nuova, ossia diversa da quella del pagamento avanzata con il decreto ingiuntivo, anche qualora l’opponente non abbia formulato una domanda riconvenzionale, ma abbia solo sollevato eccezioni e chiesto la revoca del decreto ingiuntivo.

Le Sezioni Unite rispondono a questa richiesta di chiarimenti affermando il seguente principio di diritto: “nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la proposizione da parte dell’opposto nella comparsa di risposta di domande alternative a quella introdotta in via monitoria è ammissibile se tali domande trovano il loro fondamento nel medesimo interesse che aveva sostenuto la proposizione della originaria domanda nel ricorso diretto all’ingiunzione.”

Domande ammissibili se rapportate allo stesso interesse

La Cassazione in un passaggio della motivazione precisa infatti che il soggetto opposto non è legittimato a proporre solo domande reattive, ossia riconvenzionali in senso stretto. Lo stesso può anche proporre domande aggiuntive/alternative, spesso in via subordinata, ma ammissibili “perché rapportate al medesimo interesse”.

Nel caso di specie pertanto, sono ammissibili le domande proposte dall’opposto ai sensi degli articoli 1337 c.c e  2041 c.c. A livello generale/astratto le stesse trovano fondamento nell’interesse originario corrispondente all’azione di adempimento contrattuale. Il petitum di queste domande risulta corrispondente almeno in parte alla domanda avanzata in origine.

Come chiarito dalla SU n. 12310/2015 “l’interesse è il presupposto legittimante l’introduzione di una domanda alternativa, introduzione che non può essere inibita (…) dalla diversità/novità in sé di causa petendi e petitum rispetto alla prospettazione originaria.”

 

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testamento no interpretazione

Testamento: no all’interpretazione troppo “tecnica” No a un’interpretazione troppo tecnica del testamento, occorre valutare cultura, mentalità e ambiente di vita del de cuius

Disputa tra eredi e interpretazione del testamento

Testamento, no a un’interpretazione troppo “tecnica”, quando si deve individuare la volontà espressa dalla de cuius. Si deve andare oltre il dato letterale se si vogliono rispettare i veri desideri della testatrice. A tal fine è necessario tenere conto anche della sua cultura, della sua mentalità e dell’ambiente in cui è vissuta. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 26951/2024.

Riparto delle quote tra eredi come da supplemento della CTU

Gli eredi testamentari di una donna agiscono in giudizio affinché il giudice dichiari la validità di tre schede testamentarie redatte dalla de cuius. Gli stessi chiedono anche l’accertamento, la dichiarazione di apertura della successione e lo scioglimento della comunione ereditaria per procedere alla formazione del progetto divisionale e all’attribuzione a ciascuno della quota spettante.

Gli attori nell’agire in giudizio contestano all’esecutore di aver svincolato dei buoni fruttiferi per pagare il premio unico di una assicurazione. Gli stessi criticano poi la condotta del nipote, unico erede testamentario. Costui infatti avrebbe annullato una polizza, per mettere a sua disposizione la liquidazione e stipularne una nuova intestata a se stesso. Detta somma però, per gli attori, doveva essere restituita alla massa ereditaria e distribuita tra gli eredi.

Il giudice di primo grado stabilisce che il riparto dell’eredità debba avvenire nel rispetto delle quote indicate nel supplemento della CTU. La decisione viene appellata, ma la Corte respinge l’appello. Si giunge così in sede di Cassazione.

Errata l’interpretazione troppo tecnica del giudice di primo grado

Il ricorrente solleva 5 motivi di doglianza, lamentando in sostanza l’errata interpretazione delle disposizioni testamentarie e la conseguente errata attribuzione delle quote della de cuius.

La Cassazione, tra tutti i motivi sollevati, accoglie solo il secondo perché fondato. Dichiara invece infondati il quarto e il quinto, inammissibili il primo e il terzo.

Per verificare però la fondatezza del secondo motivo gli Ermellini fanno riferimento alla quarta censura in appello. In questa censura l’appellante ha contestato al giudice di primo grado l’errata applicazione delle norme sull’interpretazione del testamento.

Occorre andare oltre il significato delle parole

Per l’appellante, nel rispetto della volontà della testatrice, il giudice avrebbe dovuto andareoltre il significato letterale delle espressioni adoperate (logicamente non avrebbe senso pensare che il de cuius sia sempre un tecnico del diritto da cui si possa pretendere l’uso, con cognizione di causa, del linguaggio giuridico)” e di valorizzare, riconoscendo all’interprete ampia libertà d’indagine, una valutazione globale della volontà del de cuius, tenendo conto di elementi di carattere sia testuale che extratestuale“, come /a cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore medesimo.

Tenendo conto di questi elementi l’appellante ha fornito in effetti una diversa lettura delle schede testamentarie. D’altro canto il giudice  ha ignorato il rapporto particolare, anche di natura lavorativa, che legava l’appellante alla de cuius, così come la cultura modesta della donna, tutti elementi che avrebbero dovuto condurre a una lettura non troppo tecnica delle espressioni usate.

 

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giurista risponde

Responsabilità del proprietario del fondo per danni cagionati da escavazioni La responsabilità del proprietario per i danni cagionati da escavazioni od opere realizzate nel sottosuolo ha natura colposa, ex art. 840 c.c. o carattere oggettivo, ai sensi dell’art. 2053 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

La responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazioni, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo ma richiede una condotta colposa. Ne deriva che, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere, di regola, l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera. Ciò salvo che non risulti accertato che il proprietario committente, avendo – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro. In tale ultimo caso la responsabilità dell’appaltatore verso il terzo danneggiato può aggiungersi a quella del proprietario ma non sostituirla o eliminarla (Cass., sez. II, 2 febbraio 2024, n. 3092).

La sentenza in commento risolve il problema dei rapporti tra l’art. 840 c.c. e l’art. 2053 c.c., tracciando la linea di confine tra l’intervento della responsabilità a titolo colposo del proprietario o la sua qualificazione in termini di responsabilità oggettiva.

L’art. 840 c.c. – nel riconoscere la facoltà del proprietario di realizzare escavazioni od opere nell’ambito di tutta l’estensione della proprietà e, dunque, anche nel sottosuolo – postula l’accertamento della condotta colposa del proprietario in ipotesi di evento dannoso.

L’art. 2053 c.c., secondo un criterio di imputazione oggettivo, attribuisce la responsabilità al proprietario per i danni cagionati dalla rovina di un edificio o di una costruzione, salva la prova dell’assenza di difetti di manutenzione o di vizi di costruzione (così anche Cass. 21 febbraio 2023, n. 5368).

Nella fattispecie in esame, i proprietari di un immobile danneggiato dal crollo di un muro di contenimento sotterraneo (c.d. diaframma), costruito nell’ambito dei lavori di ristrutturazione del fondo adiacente, formulavano domanda risarcitoria tanto nei confronti della ditta appaltatrice dell’opera quanto nei riguardi, in via oggettiva ai sensi dell’art. 2053 c.c., della società proprietaria del fondo danneggiante. Tale ultima domanda giudiziale si basava sul presupposto che la caduta dell’opera sotterranea integrasse la nozione di rovina di edificio, di cui alla citata norma, essendo il diaframma un’opera non provvisionale ma definitiva, la cui distruzione qualificava in termini oggettivi la responsabilità del proprietario.

Nei primi due gradi di giudizio, veniva esclusa la responsabilità della società proprietaria del fondo danneggiante ai sensi dell’art. 2053 c.c., oltre che la responsabilità del progettista dell’opera e della direzione dei lavori per ragioni probatorie.

I danni causati durante l’esecuzione dell’opera sotterranea venivano imputati, nella specie, alla sola responsabilità della ditta appaltatrice, con esclusione di un accertamento della condotta colposa del proprietario committente ex art. 840 c.c., trattandosi di lavori di opere nel sottosuolo della proprietà.

Con ricorso in Cassazione, i proprietari del fondo danneggiato hanno lamentato, tra le altre, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2053 c.c. per mancata osservanza, nel giudizio di merito, del regime di responsabilità speciale previsto dalla citata norma.

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha precisato che l’applicazione della disciplina per responsabilità colposa del proprietario ex art. 840 c.c. si applica tanto alle ipotesi di danno derivante da mera escavazione del sottosuolo quanto a quelle di realizzazione di opere sotterranee, in un’ottica di uniformità di trattamento postulato dalla norma.

Entrambe le attività sono espressione dell’esercizio di facoltà proprietarie, che incontrano il solo limite dell’impossibilità di causare danni al vicino. Se, nell’esercizio di tali facoltà, si producono danni ai vicini, in violazione del disposto di cui all’art. 840 c.c., il proprietario è obbligato al risarcimento del danno, anche in via solidale con l’impresa appaltatrice dei lavori, ove sia provata la sua ingerenza nei lavori medesimi.

Se, invece, l’evento lesivo è frutto della rovina di un edificio o di una costruzione, preesistenti o successivi all’attività di escavazione o al compimento di opere nel sottosuolo, il proprietario risponderà in via oggettiva del danno, ai sensi dell’art. 2053 c.c., prescindendo dall’eventuale condotta colposa.

La Corte ha affidato ad un momento temporale – il crollo dell’opera sotterranea durante o dopo la sua costruzione – e, dunque, all’esercizio in atto delle facoltà proprietarie il discrimen per l’applicazione dei due diversi criteri di imputazione della responsabilità del proprietario (così anche Cass. 17 ottobre 2006, n. 22226).

Nel caso di specie, il diaframma di contenimento sotterraneo, costruito per evitare movimentazione di terreno durante l’attività di ristrutturazione, si configura come un’opera, se non provvisionale, priva di autonomia funzionale. Correttamente, pertanto, il Giudice di merito ha fatto applicazione del criterio di imputazione soggettivo di cui all’art. 840 c.c. – e non di quello oggettivo di cui all’art. 2053 c.c. – e del correlato principio per cui la responsabilità del proprietario-committente esige l’accertamento, non configurato nella specie, della condotta di ingerenza colposa nei lavori appaltati.

Contributo in tema di “Responsabilità del proprietario del fondo”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

processo tributario

Processo tributario: contributo unificato sul valore della lite In assenza del valore della lite nel ricorso, il calcolo del contributo unificato va effettuato con riguardo a ciascun atto impugnato

Processo tributario e contributo unificato

Nel processo tributario, il contributo unificato si calcola sul valore della lite che corrisponde al valore dell’atto impugnato. E nel caso di assenza dell’indicazione del valore nelle conclusioni del ricorso, il calcolo del contributo unificato va effettuato con riguardo ad ogni atto impugnato. Lo ha chiarito la sezione tributaria della Cassazione con l’ordinanza n. 25625/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la CTP di Caserta accoglieva il ricorso proposto da un contribuente avverso l’avviso di irrogazione sanzioni per insufficiente pagamento del contributo unificato con riferimento ad un atto di pignoramento presso terzi. Il Mef impugnava la decisione e la CTR Campania rigettava il gravame, evidenziando che il valore della lite doveva identificarsi con quello dell’atto di pignoramento, e non con il valore della pretesa tributaria che aveva dato origine al detto pignoramento, vale a dire con il totale dei tributi (derivanti, nel caso di specie, da due cartelle di pagamento e da un atto di accertamento) dei quali il contribuente risultava debitore.

Il ministero adiva la Cassazione, deducendo che erroneamente la CTR aveva ritenuto che “l’Ufficio avesse richiesto il versamento del contributo unificato anche con riferimento al prodromico avviso di accertamento (anziché sulla base del solo atto di pignoramento) e per aver determinato il valore della lite sulla base dell’importo del credito non tributario vantato dal contribuente nei confronti del terzo pignorato (così come risultante dall’atto di pignoramento), anziché della pretesa tributaria (tributi dovuti dal contribuente a titolo di Irap e Irpef ed addizionali per li periodo d’imposta 2013) sulla scorta della quale era stata azionata la procedura di pignoramento”.

La decisione

Per la S.C., il motivo è fondato.
L’art. 12, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, ricorda preliminarmente la Corte, recita: “per le controversie di valore fino a tremila euro le parti possono stare in giudizio senza assistenza tecnica. Per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni il valore è costituito dalla somma di queste”. Ora, l’art. 12, aggiungono dal Palazzaccio, “è norma che introduce una disciplina speciale rispetto a quella prevista dai giudizi civili, con conseguente inapplicabilità della disposizione generale di rinvio al codice di procedura civile stabilita dall’art. 1 d.Igs. n. 546 del 1992, cio in ragione della specificità del processo tributario”.

Il contributo unificato, che ha natura tributaria, “deve essere versato al momento del deposito dell’atto introduttivo del giudizio tributario dinanzi alla competente Commissione Tributaria. L’importo del contributo unificato tributario deve essere stabilito in relazione al valore della controversia che si intende instaurare che, per il processo tributario, corrisponde al valore dell’atto impugnato” aggiungono i giudici.

Per cui, “il valore della controversia, ai sensi dell’art. 12, comma 2, del d.Igs. n. 546 del 1992, è l’importo del tributo, al netto degli interessi e degli eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 16283 del 10/06/2021)”.

Nel caso di specie, la pretesa tributaria, al netto di interessi e sanzioni, ammontava ad euro 88.879,00, sul quale importo andava calcolato il contributo unificato dovuto.
In particolare, concludono da piazza Cavour, “in assenza di una indicazione del valore della lite nelle conclusioni del ricorso, il calcolo del contributo unificato deve essere effettuato con riguardo a ciascun atto impugnato ed il relativo importo deve risultare dalla sommatoria dei contributi dovuti con riferimento ad ogni atto impugnato sulla base del valore di ognuno di essi (cfr. Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 37386 del 21/12/2022)”.

Alla stregua delle considerazioni svolte, la S.C. accoglie il ricorso e decide la causa nel merito rigettando il ricorso originario del contribuente.

Allegati

mantenimento ai figli

Mantenimento ai figli: può essere versato in ritardo Non è punibile per la Cassazione la violazione degli obblighi di mantenimento della prole se si tratta di un inadempimento occasionale

Tenuità del fatto

Mantenimento ai figli, se versato in ritardo e l’inadempimento è occasionale scatta la causa di non punibilità. Questo quanto emerge dalla sentenza n. 21068/2024 con cui la sesta sezione penale della Cassazione ha accolto il ricorso di una donna condannata in appello per il reato di cui all’art. 570-bis c.p.

La vicenda

Avverso tale sentenza, la ricorrente adiva il Palazzaccio lamentando travisamento della prova da parte della corte territoriale che aveva negato la produzione della documentazione attestante l’adempimento tardivo, dalla quale emergeva che la ricorrente aveva versato gli assegni di mantenimento in precedenza rimasti inadempiuti, provvedendo anche al regolare adempimento per le scadenze successive.
Sostiene la difesa che copia di tutti i bonifici era stata depositata alle udienze dibattimentali, sicchè il giudice di appello era incorso in un palese travisamento della prova, avendo ritenuto che la prova documentale non era stata mai prodotta in giudizio.
Con il secondo motivo, deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in merito all’esclusione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, sottolineando come la Corte d’appello era stata fuorviata dal fatto di non aver riconosciuto l’adempimento tardivo, a fronte del quale le gravità della condotta avrebbe sicuramente meritato una diversa considerazione.

Produzione documentale

Per la S.C. il ricorso è fondato.
In relazione al primo motivo, a fronte della puntuale indicazione della produzione documentale, la Corte d’appello ha totalmente omesso l’esame della questione, limitandosi ad affermare che si trattava di una mera deduzione difensiva e senza verificare e confutare il dato specifico allegato dalla ricorrente. Per cui, nella specie, “il giudice di appello è incorso in un vizio di motivazione apparente, posto che a fronte della specificità del motivo dedotto in appello, la negazione della circostanza avrebbe reso necessaria l’esposizione delle ragioni per cui non poteva ritenersi fornita la prova documentale, procedendo in primo luogo alla verifica dell’effettività della produzione e, in caso di positivo riscontro, alla valutazione nel merito della documentazione”.
Tali doverosi passaggi sono stati del tutto pretermessi, “il che – proseguono i giudici – inficia di per sé la tenuta della motivazione, soprattutto ove si consideri la necessità di valutare la gravità e rilevanza dell’inadempimento”.
Secondo la più recente giurisprudenza, infatti, “la condotta incriminata dall’art. 570-bis cod. pen. non è integrata da qualsiasi forma di inadempimento civilistico, ma necessita di un inadempimento serio e sufficientemente protratto, o destinato a protrarsi, per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla entità dei mezzi economici che il soggetto obbligato deve fornire (Sez.6, n. 47158 del 20/10/2022, Rv. 284023)”.

Particolare tenuità del fatto

L’omessa valutazione del tardivo adempimento incide direttamente anche sull’ulteriore profilo dedotto dalla ricorrente, relativo al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
“La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. – ricordano dalla S.C. – è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, a condizione che l’omessa corresponsione del contributo al mantenimento abbia avuto carattere di mera occasionalità (Sez.6, n. 5774 del 28/1/2020, Rv. 278213)”.
L’applicazione di tale principio al caso di specie, imponeva, dunque, “la necessaria verifica della dedotta corresponsione, sia pur tardiva, degli assegni di mantenimento stabiliti in favore della prole, al fine di verificare se le concrete modalità della condotta potessero o meno dar luogo all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen.”.
Anche con riguardo a tale profilo, pertanto, concludono gli Ermellini, “si rende necessario l’annullamento con rinvio, al fine di integrare le lacune valutative e motivazioni in cui è incorsa la sentenza impugnata”.

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