giurista risponde

Diritto di critica e diffamazione Il diritto di critica di cui all’art. 21 Cost. può comportare l’applicazione dell’istituto della scriminante di cui all’art. 51 c.p. in relazione al delitto di diffamazione qualora, fatto riferimento ad un fatto preciso, non ci si attenga al criterio di verità?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 51 c.p. quale scriminate in relazione al delitto di diffamazione è soggetta al rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva; pertanto, i fatti narrati debbono essere veri o apparire ragionevolmente come tali al soggetto agente (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2352 (Diritto di critica e diffamazione).

La sentenza impugnata, nel ricondurre la condotta dell’imputato nella sfera applicativa dell’esercizio del diritto di libera espressione del pensiero ex art. 51 c.p., ha dato continuità al più che costante orientamento del Supremo Collegio secondo cui, pur essendo sussistenti gli elementi oggettivi del diffamazione, le condotte che rappresentano esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, qualora le stesse non si risolvano in uno strumento di avvilimento della dignità delle persone o in un mezzo per perseguire altre finalità illecite, risultano essere scriminate ai sensi dell’art. 51 c.p.

Tale orientamento, inizialmente era applicato alla categoria dei giornalisti, ove però si faceva un diverso bilanciamento tra interessi costituzionalmente garantiti, essendo tale categoria assolutamente peculiare. Invero, più che il “diritto di critica”, veniva invocato il diverso “diritto di cronaca”. Tuttavia, la lettura del diritto di critica, con il mutare anche del contesto sociale è andato via via espandendosi, tale espansione ha portato il Supremo Collegio, anche recentemente ad affermare che il diritto di critica si esplica nella formulazione di un giudizio di valore ed è tutelato direttamente dall’art. 21 Cost. non solo con riferimento ai giornalisti o a chi fa informazione professionalmente, essendo riservato a ciascun individuo uti civis (ex multis Cass., sez. V, 20 marzo 2019, n. 32829).

Tuttavia, com’è noto, ogni diritto ha delle modalità a mezzo delle quali può essere esplicato oltre le quali non può debordare poiché va a confliggere con altri diritti costituzionalmente garantiti. Diversamente si sarebbe davanti a quello che in dottrina viene definito “diritto tiranno” che, come ricordato dalla Consulta con la Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, non esiste né potrebbe esistere nell’Ordinamento. Invero, nella predetta sentenza si legge: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sent. 264/2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.” Nel caso di specie il “diritto di critica” garantito dall’art. 21 Cost. trova il proprio contraltare nel “diritto all’onore ed alla reputazione” come corollario dell’art. 2 Cost. In applicazione di questo bilanciamento il Supremo Collegio ha ritenuto che, in tema di diffamazione, il diritto di critica può essere evocato quale scriminate ex art. 51 c.p.; purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. Pertanto, non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che l’offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.

In particolare, il requisito della continenza ha una duplice connotazione: continenza sostanziale che attiene alla natura dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione; continenza formale concernente il modo con cui il racconto sul fatto è reso, ovvero il giudizio critico è esternato. Tale requisito necessita di una forma espositiva corretta che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione, pur non essendo lo stesso incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti. Al tempo stesso, per delimitare il perimetro applicativo della scriminante, risulta imprescindibile contestualizzare le espressioni rectius valutarle in relazione al contesto spazio/temporale e dialettico nel quale sono state profferite, così da verificare il requisito di pertinenza. Debbono quindi essere valutati sia la diversità dei contesti, sia la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta. Invero, determinati ruoli possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che, nonostante le doglianze difensive sulla non verità del fatto, fossero stati rispettati tutti i requisiti per il corretto estrinsecarsi del “diritto di critica” tra cui quello di verità, di conseguenza la condotta delittuosa risulta scriminata ex art. 51 c.p.. Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata mandando assolto l’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Diritto di critica e diffamazione”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

crudeltà

Le lesioni inflitte con crudeltà sono procedibili d’ufficio Per la Cassazione, le lesioni inflitte con crudeltà non si estinguono per remissione di querela, in quanto procedibili d’ufficio

Aggravante della crudeltà

Il reato di lesioni commesso con crudeltà (nella specie sigaretta spenta sul braccio della vittima) non si estingue per effetto della remissione di querela, in quanto procedibile d’ufficio. Lo rammenta la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 19050/2025, dando ragione al procuratore che aveva impugnato la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Castrovillari dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine al delitto di lesioni personali aggravate dalla crudeltà, di cui agli art. 582, 585, 57 e 61 n. 4, cod. pen. per essere lo stesso estinto per remissione tacita di querela.

Proponeva ricorso per cassazione li Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro, deducendo che li reato di lesioni personali come contestato, ossia, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 4 cod. pen. per essere stato il fatto commesso con l’uso della crudeltà, è procedibile d’ufficio, di modo che il giudice censurato avrebbe errato nell’averlo dichiarato estinto per remissione di querela. Peraltro, la circostanza aggravante contestata sarebbe in astratto configurabile, avuto riguardo alle modalità della condotta dell’imputato, che spegnendo una sigaretta sull’avambraccio sinistro della parte offesa, le aveva inflitto sofferenze aggiuntive rispetto a quelle necessariamente discendenti dalla realizzazione del reato.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

“La lettura dell’imputazione – affermano i giudici preliminarmente – riportata nell’incipit della sentenza impugnata dà conto di come oggetto dell’addebito mosso a siano le lesioni personali di cui agli artt. 582 e 585 cod. pen. in relazione all’art, 577 e 61 n. 4 cod. pen., aggravate dall’«avere agito con crudeltà verso la persona offesa»”.

Il testo della disposizione di cui all’art. 582, comma 2, cod. pen., in tema di lesioni personali, ordinariamente perseguibili a querela di parte, ricordano dal Palazzaccio, stabilisce che «Si procede tuttavia d’ufficio se ricorre taluna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 583, 583-quater, secondo comma, primo periodo, e 585, ad eccezione di quelle indicate nel primo comma, numero 1), e nel secondo comma dell’articolo 577».

Nel caso al vaglio, “il reato contestato all’imputato non poteva essere dichiarato estinto per remissione di querela: l’elemento accessorio della crudeltà non rientra, infatti, nel novero delle eccezioni alla procedibilità d’ufficio delle lesioni personali pur aggravate”. Per cui, la sentenza impugnata va annullata. Parola al giudice del rinvio.

 

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giurista risponde

Responsabilità di danno circolazione veicoli e presunzione di corresponsabilità Nella responsabilità di danno per la circolazione di veicoli, al fine di superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”?

Quesito con risposta a cura di Francesca Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di responsabilità civile da sinistro stradale, l’accertamento in concreto di una condotta di guida gravemente colposa da parte di uno dei conducenti coinvolti solleva l’altro dall’onere di vincere la presunzione di pari responsabilità, di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., solo quando la colpa concreta dell’uno sia stata tale da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro. Ne deriva che non è possibile attribuire l’intera responsabilità a uno solo dei conducenti ove non sia possibile stabilire in concreto se l’altro abbia avuto la possibilità, almeno teorica, di evitare la collisione. (Cass., sez. III, 20 novembre 2024, n. 29927 – Responsabilità di danno per la circolazione di veicoli e presunzione di corresponsabilità).

Nel caso in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’operatività della presunzione del concorso di colpa paritario dei conducenti di veicoli in caso di sinistro stradale, sancita dall’art. 2054, comma 2, c.c. In particolare, il Giudice di prime cure ha attribuito alla vittima il concorso di colpa nella causazione dell’evento di danno e, ai sensi dell’art. 1227, comma 1 c.c., ne ha stimato il danno risarcibile. La Corte di appello, in sede di impugnazione, ha diversamente opinato sulla questione, stabilendo che la vittima non abbia concorso a cagionare il danno e, pertanto, ha incrementato la misura della liquidazione. Ad avviso del Collegio giudicante, infatti, opererebbe il consolidato principio secondo cui per superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”, anche quando non sia esattamente nota la condotta del conducente antagonista.

La Suprema Corte ha tuttavia precisato che tale principio non basta l’accertamento della colpa grave di uno solo dei conducenti coinvolti, per ritenere l’altro liberato dalla presunzione di pari colpa. Il superamento della presunzione di pari responsabilità, infatti, avviene nell’unico caso in cui la condotta colposa avrebbe comunque provocato il sinistro, quale che fosse stata la condotta dell’antagonista, e cioè quando colpa concreta dell’uno sia stata tale, da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro.

Nella fattispecie concreta – invero – non si è potuto stabilire in concreto quale sia stata la condotta tenuta dall’altro conducente coinvolto, ma la sussistenza della mera possibilità, anche teorica, di evitare la collisione, esclude l’automatica applicazione dell’art. 2054, comma 2, c.c.

Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte territoriale per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Responsabilità di danno per la circolazione di veicoli e presunzione di corresponsabilità”, a cura di Francesca Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

contributo unificato

Contributo unificato errato? Scatta la compensazione delle spese La Cassazione chiarisce che un errore nella determinazione del contributo unificato da parte dell'avvocato può giustificare la compensazione delle spese processuali

Contributo unificato errato e spese processuali

Un errore nella determinazione del contributo unificato può giustificare la compensazione integrale delle spese processuali. A stabilirlo è la Cassazione, terza sezione civile, con l’ordinanza n. 13145/2025, depositata il 20 maggio 2025.

La vicenda processuale

Nel giudizio d’appello, la parte ricorrente aveva erroneamente indicato come valore della controversia la somma di € 1.200,71, ai fini del pagamento del contributo unificato. Secondo la ricorrente, tale importo non avrebbe dovuto influenzare il valore effettivo della domanda. Riteneva che la liquidazione delle spese fosse stata operata su un errato scaglione tariffario.

Tuttavia, la Corte aveva condannato la parte a rimborsare € 1.378, oltre accessori. La ricorrente chiedeva invece che fosse applicato lo scaglione inferiore (fino a € 1.100), con liquidazione delle spese pari a € 332 oltre CPA, IVA e accessori.

Il principio di diritto espresso dalla Cassazione

Secondo la S.C., la dichiarazione del difensore relativa al contributo unificato non incide sul valore della causa, trattandosi di un’informazione rivolta al funzionario di cancelleria. Però, qualora l’indicazione erronea del valore sia tale da indurre in errore il giudice nella liquidazione delle spese, può costituire una “grave ed eccezionale ragione” per disporre la compensazione delle spese processuali, ex art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.

La Corte ha inoltre ribadito che, ai fini della determinazione del valore della causa:

  • in primo grado, rileva la somma domandata o accordata;

  • in appello, conta solo la parte della pretesa ancora oggetto di contestazione o l’eventuale differenza accordata rispetto alla sentenza impugnata.

Nel caso concreto, la Cassazione ha accolto il ricorso in relazione al capo relativo alle spese del giudizio di appello, rideterminando i compensi per le quattro fasi indicate nel D.M. parametri forensi, oltre accessori.

Tuttavia, nonostante l’accoglimento parziale del ricorso, le spese del giudizio di legittimità sono state integralmente compensate. Secondo la Corte, non è equo che i costi dell’impugnazione, resa necessaria da un errore della parte, gravino sulla controparte che non ha nemmeno resistito all’impugnazione stessa.

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violenza domestica

Violenza domestica: la Cassazione valorizza gli indizi La Cassazione chiarisce che anche un solo episodio di violenza domestica può giustificare la separazione con addebito. Fondamentali anche gli indizi e le testimonianze indirette

Violenza domestica e separazione

In ambito familiare, ai fini della ricostruzione dei fatti nei procedimenti giudiziari – in particolare nelle cause di separazione personale tra coniugi – il giudice non può limitarsi a considerare solo le prove dirette e palesi. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10021/2025, affermando che la valutazione degli indizi è essenziale per accertare episodi di violenza domestica.

Un solo episodio può bastare per l’addebito

La vicenda trae origine da una causa di separazione in cui il Tribunale aveva addebitato la crisi coniugale al marito, ritenuto responsabile di atti di violenza contro la moglie. La Corte d’appello, tuttavia, aveva annullato tale addebito, non ravvisando prove sufficienti delle condotte contestate. Contro questa decisione la moglie ha proposto ricorso in Cassazione, che ha accolto la doglianza, cassando la sentenza impugnata e rinviando la questione a una diversa composizione della Corte territoriale.

La Suprema Corte ha ribadito un principio fermo nella sua giurisprudenza: anche un solo episodio accertato di percosse può giustificare la separazione con addebito, in quanto comportamento lesivo della dignità personale e tale da compromettere in modo irreversibile l’equilibrio della relazione coniugale.

Indizi strumenti fondamentali per accertare la verità

Nel confermare la centralità dell’approccio indiziario, la Cassazione evidenzia come, soprattutto nei procedimenti familiari, spesso legati a dinamiche intime e riservate, il giudice debba fondare il proprio convincimento anche su elementi indiretti. Tra questi:

  • le testimonianze de relato, provenienti dalla parte che denuncia i fatti;

  • le relazioni dei Servizi sociali, spesso fondamentali per rilevare situazioni di maltrattamento o disagio familiare.

La Corte sottolinea che queste fonti possono rappresentare indizi rilevanti, da valutare congiuntamente per ricostruire episodi di violenza fisica o psicologica difficilmente documentabili con prove dirette, come spesso accade nei contesti di abuso domestico.

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pagamento ferie

Pagamento ferie: per la Cassazione ha natura retributiva La Cassazione chiarisce che il pagamento delle ferie ha natura retributiva, non risarcitoria. La quantificazione è demandata alla contrattazione collettiva, nel rispetto dell’art. 36 Cost. e della Direttiva 2003/88/CE

Natura retributiva del pagamento ferie

Con l’ordinanza n. 13042/2025, la sezione lavoro della Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica del compenso spettante per le ferie maturate e non godute, ribadendo un principio di rilievo sistematico: il pagamento delle ferie ha natura retributiva e non risarcitoria.

Pagamento ferie affidato alla contrattazione collettiva

In assenza di una disciplina legislativa specifica, spiega la Corte, la quantificazione della retribuzione da corrispondere durante il periodo di ferie rientra nell’ambito della contrattazione collettiva, la quale può legittimamente escludere o includere specifiche voci retributive, purché tale regolamentazione non violi l’art. 36 della Costituzione.

Questa impostazione rispetta i parametri imposti dal diritto dell’Unione europea, in particolare dall’art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, come interpretata dalla Corte di giustizia UE, secondo cui il trattamento economico durante le ferie deve riflettere la retribuzione ordinaria del lavoratore, onde evitare che egli sia disincentivato dal fruire del periodo di riposo annuale.

Le caratteristiche della retribuzione feriale

Secondo la Suprema Corte, affinché un emolumento possa essere incluso nel trattamento economico per ferie, deve rispettare due criteri fondamentali:

  • Deve avere natura retributiva, escludendosi quindi importi a titolo di risarcimento del danno o rimborso spese;

  • Deve essere collegato all’esecuzione della prestazione lavorativa o essere correlato allo status professionale e personale del lavoratore.

In sostanza, devono essere ricompresi quegli elementi della retribuzione che, per caratteristiche e modalità di erogazione, sono costanti e ricorrenti, rappresentando una componente stabile del trattamento economico del lavoratore.

Rilevanza del trattamento mensile

Ai fini della valutazione dell’importo spettante durante le ferie, rileva il parametro della retribuzione mensile, trattandosi del periodo normalmente interessato dalla fruizione del diritto al riposo. Il riferimento alla retribuzione annua, chiarisce la Corte, sarebbe fuorviante e non coerente con le finalità della normativa europea.

giurista risponde

Sperequazione economica e trattamento pensionistico Il differente trattamento pensionistico delle parti riconducibile a rinunce, anche professionali, del coniuge economicamente più debole, integra lo squilibrio economico patrimoniale richiesto dall’art. 5, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio? Nella durata del rapporto matrimoniale va computata anche la relazione more uxorio antecedente al matrimonio?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

La sperequazione economica di non modesta entità fra i coniugi all’esito di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti (riferita, in particolare, ai redditi pensionistici), in presenza di un significativo apporto dato dal coniuge più debole in costanza di matrimonio all’incremento delle prospettive pensionistiche dell’altro, giustifica il riconoscimento dell’assegno divorzile (Sperequazione economica e trattamento pensionistico).

Per la determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, si deve tener conto anche della convivenza prematrimoniale se essa ha avuto connotati di stabilità e continuità e ha comportato reciproche contribuzioni economiche, dimostrando una relazione di continuità con il matrimonio giuridico (Cass., sez. I, 28 novembre 2024, n. 30602).

L’ordinanza in commento ribadisce alcuni principi ormai consolidati in materia di attribuzione dell’assegno divorzile.

Nel caso di specie, in primo grado era stato riconosciuto in favore dell’ex moglie un assegno di divorzio, in considerazione della sussistenza di uno squilibrio economico fra gli ex coniugi emergente dal raffronto dei loro redditi da pensione, nonché della riconducibilità di detto squilibrio a sacrifici e rinunce professionali della moglie che avevano reso possibile la progressione di carriera del marito, con conseguente ottenimento, da parte di quest’ultimo, di un miglior trattamento previdenziale. Nello specifico, il Tribunale aveva valorizzato la circostanza che l’ex moglie, in costanza di matrimonio, avesse seguito il marito in una missione all’estero durata circa tre anni, mettendosi in aspettativa dal proprio lavoro.

La decisione veniva poi confermata in appello sulla base del dato non contestato della disparità dei redditi pensionistici degli ex coniugi, nonché della presenza di sacrifici e rinunce, anche professionali, dell’ex moglie.

L’ex marito ha proposto ricorso per cassazione lamentando, da un lato, l’erronea valutazione, da parte dei giudici di merito, della capacità reddituale delle parti e, dall’altro lato, l’omessa considerazione della breve durata del vincolo coniugale.

Con riferimento al primo profilo, il percorso motivazione della Corte di cassazione ha preso le mosse dai principi affermati da Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, la quale, in tema di assegno divorzile, nel comporre il contrasto giurisprudenziale tra la lettura incentrata sul tenore di vita analogo e quella favorevole all’utilizzo del principio di autoresponsabilità, ha chiarito che gli indicatori contenuti nell’art. 5, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, assumono una posizione equiordinata nell’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi e all’incapacità di procurarseli e costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sull’attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.

In quest’ottica l’ordinanza in commento ha ribadito che l’adeguatezza dei mezzi deve essere accertata effettuando una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che consideri anche il contributo fornito dal coniuge che richiede l’assegno alla formazione del patrimonio familiare e/o di quello personale dell’altro coniuge.

In altri termini, la pronuncia in esame ha ricordato che ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile occorre verificare che lo squilibrio economico fra le parti presente al momento del divorzio dipenda causalmente dalle scelte comuni di conduzione della vita familiare e dai sacrifici sopportati dal coniuge richiedente l’assegno a favore delle esigenze della famiglia.

La Corte ha poi richiamato altri precedenti (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9004; Cass. 17 febbraio 2021, n. 4215; Cass. 30 agosto 2019, n. 21926), anche questi incentrati sulla composita funzione (assistenziale, perequativa e compensativa) dell’assegno divorzile e sulla necessità che, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti riconducibile a scelte comuni, l’assegno assicuri all’ex coniuge richiedente un livello reddituale adeguato al contributo fornito in costanza di matrimonio.

Svolta tale premessa, la Corte di cassazione ha rigettato i primi due motivi di ricorso, affermando come la Corte d’appello avesse correttamente accertato sia la sussistenza dello squilibrio economico tra le parti, in ragione del non contestato differente trattamento pensionistico degli ex coniugi, sia la riconducibilità dello squilibrio stesso a sacrifici, anche professionali, del coniuge richiedente l’assegno.

Con riferimento alla doglianza relativa all’erronea valutazione della durata del vincolo matrimoniale, la Corte ha invece ribadito il principio affermato da Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2023, n. 35385, secondo cui, allorquando vi sia una continuità tra la convivenza prematrimoniale e la vita matrimoniale, ai fini della verifica dell’apporto fornito dal coniuge richiedente l’assegno alla formazione del patrimonio della famiglia e/o di quello personale dei coniugi, occorre considerare anche il periodo della convivenza more uxorio.

 

(*Contributo in tema di “Sperequazione economica e trattamento pensionistico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

avvocato imputato

L’avvocato imputato non può difendersi da solo La Cassazione stabilisce che l’avvocato imputato non può difendersi da solo in un processo penale: serve sempre un difensore terzo

Autodifesa avvocato imputato

Avvocato imputato: con l’ordinanza n. 18353/2025, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione penale ha riaffermato un principio consolidato: l’autodifesa tecnica non è ammessa nel processo penale, nemmeno quando l’imputato è un avvocato iscritto all’albo speciale per il patrocinio in Cassazione. In caso di accusa penale, anche il legale indagato deve nominare un difensore terzo, non potendo rappresentarsi autonomamente in giudizio.

Il caso: autodifesa cassazionista accusata di stalking

La pronuncia trae origine dal ricorso presentato da un’avvocata cassazionista imputata per atti persecutori nei confronti dell’ex coniuge e della figlia. La donna aveva proposto ricorso personalmente, senza la nomina di un difensore, invocando il proprio diritto all’autodifesa come previsto, in via generale, dall’art. 13, comma 1, della legge n. 247/2012 (ordinamento forense).

Tuttavia, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, rilevando la mancanza di un difensore formalmente nominato, condizione necessaria nei procedimenti penali.

Nessuna autodifesa tecnica nel processo penale

La Corte ha precisato che nel processo penale l’autodifesa non è ammessa in forma esclusiva. Sebbene l’art. 13, comma 1, della legge forense consenta all’avvocato di agire in proprio, tale disposizione non trova applicazione automatica nel giudizio penale, dove vigono regole speciali a tutela dell’effettività del diritto di difesa. L’articolo citato, infatti, deve essere coordinato con le specifiche norme procedurali di ciascun rito.

In particolare, nel procedimento penale, è essenziale garantire terzietà, oggettività e distacco nella strategia difensiva, obiettivi che sarebbero compromessi dalla coincidenza tra imputato e difensore. L’assenza di un filtro critico rispetto alla propria posizione può compromettere l’efficace contrapposizione tra difesa e accusa, principio cardine del giusto processo ex art. 111 Cost.

Incompatibilità con la logica del processo penale

La Cassazione esclude espressamente ogni interpretazione estensiva dell’art. 13 legge 247/2012 e dell’art. 86 c.p.c., quest’ultimo relativo esclusivamente al processo civile, dove è consentito alla parte munita dei requisiti di stare in giudizio senza il ministero di altro difensore. In ambito penale, al contrario, la natura degli interessi coinvolti, potenzialmente afflittivi per la libertà personale, impone la presenza di una difesa tecnica autonoma, distinta dalla persona dell’imputato.

La previsione non è soltanto formale: è funzionale a evitare conflitti interni e a preservare l’obiettività del contraddittorio, garantendo così i diritti dell’imputato in una prospettiva pienamente difensiva.

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pro soluto e pro solvendo

Cessione pro solvendo e pro soluto Cessione pro solvendo e pro soluto: definizioni, differenze e giurisprudenza rilevante

Cos’è la cessione del credito?

La cessione del credito è un istituto giuridico contemplato dal codice civile (artt. 1260-1267) e può avvenire nelle forme pro soluto e pro solvendo. Essa si caratterizza per la presenza di tre soggetti: un creditore (cedente), che trasferisce a un terzo (cessionario) il proprio diritto di credito nei confronti di un debitore (debitor debitoris). Il cessionario acquisisce così il diritto di riscuotere il credito, che può essere relativo a una somma di denaro o a un’altra prestazione, al posto del cedente.

La cessione del credito può avvenire pro solvendo o pro soluto, a seconda delle condizioni stabilite tra le parti.

Cessione pro solvendo

La cessione pro solvendo è una forma di cessione del credito mediante la quale il cedente si impegna a garantire il pagamento del credito da parte del debitore originario nel caso in cui il cessionario non riesca a incassare il credito ceduto. In altre parole, se il debitore non paga, il cedente sarà responsabile del pagamento del credito nei confronti del cessionario.

Questo tipo di cessione prevede che il rischio di insolvenza del debitore venga trasferito al cedente, anche se come ultima risorsa. Il cessionario, infatti, dovrà tentare di recuperare il credito direttamente dal debitore, se poi il recupero non avviene, potrà chiedere il risarcimento al cedente.

Normativa sulla cessione pro solvendo

Il riferimento normativo del Codice Civile italiano per la cessione pro solvendo è rinvenibile nella disciplina della cessione del credito. Essa si basa sul contratto di cessione, che regola in modo convenzionale le responsabilità tra cedente e cessionario. La cessione del credito è regolata dagli articoli 1260 e seguenti del Codice Civile. La forma pro-solvendo è un accordo negoziale, che deve essere espressamente previsto nel contratto di cessione.

Cessione pro soluto

La cessione pro soluto, al contrario, è una forma di cessione del credito in cui il cessionario acquista il credito senza che il cedente abbia alcuna responsabilità se il credito non viene pagato dal debitore. In questo caso, il rischio di insolvenza viene completamente trasferito al cessionario. Se il debitore non paga, è il cessionario che subisce la perdita, senza poter rivalersi sul cedente.

La cessione pro soluto è più vantaggiosa per il cessionario, poiché elimina il rischio di mancato pagamento da parte del debitore. D’altra parte, però, il cessionario potrebbe richiedere una valutazione più accurata del credito prima di accettare una cessione pro soluto, dato che dovrà farsi carico del rischio d’insolvenza.

Normativa sulla cessione pro soluto

Analogamente alla cessione pro solvendo, la cessione pro soluto si fonda sul contratto di cessione del credito, ma l’accordo esplicito tra le parti stabilisce che il rischio di insolvenza viene trasferito al cessionario. La normativa di riferimento è quella relativa alla cessione del credito.

Differenze tra cessione pro solvendo e pro soluto

La differenza fondamentale tra le due forme di cessione del credito risiede nella responsabilità per il pagamento del credito. Mentre nella cessione pro solvendo il cedente è responsabile del pagamento nel caso in cui il debitore non adempia, nella cessione pro soluto il rischio di insolvenza è completamente a carico del cessionario.

Caratteristica

Cessione pro solvendo

Cessione pro soluto

Responsabilità in caso di insolvenza

Il cedente è responsabile se il debitore non paga

Il cessionario assume il rischio di insolvenza

Rischio d’insolvenza

A carico del cedente in caso di mancato pagamento

A carico del cessionario

Garanzia di incasso

Il cessionario ha una garanzia implicita dalla responsabilità del cedente

Il cessionario non ha garanzie dal cedente

Utilizzo comune

Usato quando il cedente vuole mantenere una certa protezione

Usato quando il cessionario è disposto a prendere un rischio maggiore

Vantaggi e svantaggi

Ecco un riepilogo dei vantaggi e degli svantaggi delle due tipologie di cessione:

Vantaggi della cessione pro solvendo

  • Protezione per il cessionario: il rischio di insolvenza del debitore è mitigato dalla garanzia del cedente.
  • Maggiore sicurezza per il cessionario: poiché il cedente si fa carico del rischio, il cessionario può essere più incline ad accettare la cessione.

Svantaggi della cessione pro solvendo

  • Maggiore onere per il cedente: il cedente si assume una maggiore responsabilità, che può portare a complicazioni in caso di mancato pagamento da parte del debitore.

Vantaggi della cessione pro soluto

  • Rischio completamente a carico del cessionario: il cedente non è responsabile del mancato pagamento del debitore.
  • Possibile maggior margine di guadagno per il cessionario: il cessionario può acquistare il credito a un prezzo inferiore rispetto alla cessione pro solvendo.

Svantaggi della cessione pro soluto

  • Maggiore rischio per il cessionario: il cessionario non può rivalersi sul cedente in caso di insolvenza del debitore, ed è quindi esposto a un rischio maggiore.

Giurisprudenza sulla cessione del credito

La giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti importanti relativi alla cessione pro solvendo e pro soluto. Ecco alcune sentenze rilevanti:

Cassazione n. 8803/2024: la cessione del credito, quale negozio a causa variabile, può essere stipulata anche a fine di garanzia e senza che venga meno l’immediato effetto traslativo della titolarità del credito tipico di ogni cessione, in quanto è proprio mediante tale effetto traslativo che si attua la garanzia, pure quando la cessione sia pro solvendo e non già pro soluto, con mancato trasferimento al cessionario, pertanto, del rischio d’insolvenza del debitore ceduto; diversamente, qualora la cessione abbia ad oggetto crediti futuri, l’effetto traslativo si produce solamente quando il credito viene ad esistenza, mentre tale effetto non si produce affatto nell’ipotesi in cui sia desumibile dal contratto la volontà del cedente di non privarsi della titolarità del credito e di realizzare solamente effetti minori, quali l’attribuzione al cessionario della mera legittimazione alla riscossione del credito.

Tribunale di Viterbo sentenza 21/08/2019: Nella cessione pro soluto, l’esistenza del credito in capo al cedente è un presupposto fondamentale per il trasferimento della titolarità al cessionario. Un credito è considerato inesistente quando non appartiene al cedente ma a un terzo, oppure quando il titolo su cui si fonda è inesistente o affetto da nullità, o ancora se, pur essendo esistito, si è estinto prima del perfezionamento della cessione.

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convivenza more uxorio

Convivenza more uxorio: nessun rimborso per il mutuo dopo la separazione Convivenza more uxorio: i pagamenti per il mutuo sono un'obbligazione naturale, rimborso impossibile dopo la fine della relazione

Convivenza more uxorio e restituzione mutuo

L’ordinanza n. 11337/2025 della Cassazione ribadisce un principio chiave sui mutui per l’acquisto della casa quando finisce la convivenza more uxorio. I pagamenti effettuati da un partner all’altro durante la convivenza stabile sono adempimento di un’obbligazione naturale. Di conseguenza, una volta terminata la relazione, non è possibile chiedere la restituzione di queste somme. La Cassazione equipara infatti questi trasferimenti di denaro a un dovere morale e sociale insito nel rapporto di convivenza. La possibilità di un’azione di rimborso basata sull’ingiustificato arricchimento o su altre pretese restitutorie è quindi impossibile.

Obbligazione naturale nella convivenza more uxorio

Il Tribunale di Brescia condanna una donna a pagare 12.000 euro al suo ex convivente per lo “squilibrio economico” creatosi durante la loro convivenza more uxorio (dal 2012 al febbraio 2015). L’uomo sosteneva infatti di aver pagato le spese, le bollette e il mutuo della casa di proprietà della donna per tre anni (circa 28.800 euro), oltre ad aver comprato mobili e versato 10.000 euro per un’auto usata dalla compagna, la quale all’epoca era studentessa e non percepiva stipendio. L’uomo, rimasto senza abitazione dopo la fine della relazione, chiedeva la restituzione di 20.000 euro, invocando i principi di proporzionalità e adeguatezza e l’ingiustificato arricchimento.

Obbligazioni naturali? Nessun rimborso

La Corte d’appello di Brescia però riforma la sentenza, rigettando la domanda dell’uomo e condannandolo alle spese. I versamenti di denaro effettuati dall’uomo durante la convivenza costituiscono adempimento di un’obbligazione naturale e come tale non ripetibile.

Esborsi sproporzionati e indebito arricchimento

L’uomo ricorre quindi in Cassazione, sollevando due motivi di doglianza.

Obbligazioni naturali solo per le spese ordinarie

Con il primo lamenta la nullità della sentenza e la violazione di varie norme civilistiche (artt. 2 Cost., 2034, 2041, 2043 c.c. e artt. 116, 232 c.p.c.). La Corte d’appello ha dato per provate le sue elargizioni, ma non ha considerato la sproporzione tra i suoi esborsi (25.400 euro), le sue condizioni economiche di operaio e l’indebito arricchimento della compagna. La Corte erra quando afferma che i suoi versamenti rientravano nell’assistenza morale e materiale dovuta in un rapporto affettivo consolidato. Questa ricostruzione è valida solo per le spese ordinarie, ma non per i bonifici periodici destinati al pagamento del mutuo e per l’acquisto di beni che hanno arricchito la donna. E’ necessaria una disamina sulla proporzionalità delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.

Omesso esame della consistenza patrimoniale

Con il secondo motivo l’uomo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia la sua consistenza patrimoniale. Afferma infatti di aver provato, tramite estratti conto, di percepire uno stipendio di circa 1.700 euro mensili, unica sua entrata, e che i bonifici non erano mensili, ma periodici, indicando una natura straordinaria e non di canone o spese di vita. Sottolinea inoltre che al termine della convivenza era rimasto senza risorse, mentre la compagna si era arricchita grazie al pagamento del mutuo e dei beni acquistati da lui.

Nessun rimborso per le obbligazioni naturali

La Corte di Cassazione però rigetta il ricorso. Quanto al primo motivo, ribadisce che l’azione di arricchimento senza causa non è invocabile quando l’arricchimento deriva dall’adempimento di un’obbligazione naturale. Dalla convivenza nascon0 infatti  doveri morali e sociali. I versamenti di denaro tra conviventi sono generalmente considerati adempimenti doverosi nell’ambito di un rapporto affettivo consolidato. Esso infatti implica collaborazione e assistenza materiale e morale. L’ingiustizia dell’arricchimento può configurarsi quando le prestazioni di un convivente a favore dell’altro esulano dal mero adempimento di tali obbligazioni, superando i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali dei conviventi.

Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto che l’importo versato dall’uomo per il mutuo (circa 666 euro al mese) fosse proporzionato, equiparabile a un canone di locazione e quindi rientrante nella collaborazione e assistenza dovuta in un rapporto affettivo. La valutazione della Corte d’Appello è plausibile in relazione alla proporzionalità e all’adeguatezza del contributo, rimessa al suo esclusivo apprezzamento. Gli Ermellini confermano quindi il principio secondo cui l’attribuzione patrimoniale al convivente configura adempimento di obbligazione naturale se il giudice di merito, con un giudizio di fatto insindacabile in Cassazione, la ritiene adeguata e proporzionata alle circostanze e alle condizioni del solvens.

Estratti conto insufficienti come prova

Quanto al secondo motivo, la Cassazione lo dichiara inammissibile. Il ricorrente lamenta la mancata considerazione degli estratti conto attestanti il suo stipendio. La Cassazione però ha evidenziato che la Corte d’appello ha basato il suo giudizio di proporzionalità sull’ammontare non contestato dei versamenti per il mutuo. Nel caso di specie mancano “più compiute allegazioni” sulla situazione reddituale complessiva dell’uomo. La mera produzione di estratti conto, da cui si potrebbero desumere alcune entrate, non è sufficiente a provare l’esclusività di tali entrate ai fini della composizione del reddito. Pertanto, la doglianza sulla mancata considerazione dei soli estratti conto non superava la ratio decidendi della sentenza impugnata.

 

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