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Compensi avvocato: il giudice non può tagliare oltre il 50% La Cassazione ribadisce che il giudice non può ridurre i compensi dell’avvocato oltre il 50% dei parametri medi previsti, anche in caso di cause semplici

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Compensi avvocato: il principio della Cassazione

Compensi avvocato: con la sentenza n. 19049 depositata l’11 luglio 2025, la Sezione lavoro della Cassazione ha stabilito un principio di diritto rilevante in materia di liquidazione delle spese processuali. In particolare, ha affermato la Corte, il giudice non può in alcun caso ridurre oltre il 50% i valori medi previsti dalle tabelle ministeriali, anche quando la causa sia ritenuta di particolare semplicità. La pronuncia conferma l’orientamento già espresso in precedenti arresti (Cass. nn. 9815/2023 e 30154/2024) e si inserisce nel quadro della disciplina dell’equo compenso.

Il caso concreto: compenso liquidato al di sotto dei minimi

La vicenda trae origine da una causa in materia previdenziale instaurata da una donna contro l’INPS per il riconoscimento di un assegno mensile di assistenza. Il Tribunale di Cosenza, pur riconoscendo il diritto della ricorrente, aveva liquidato all’avvocato difensore un compenso di appena 1.932,00 euro, motivando tale riduzione con la “particolare semplicità della controversia”.

La professionista ha impugnato la decisione, lamentando la violazione del D.M. n. 55/2014, aggiornato prima dal D.M. n. 37/2018 e poi dal D.M. n. 147/2022, i quali prevedono soglie inderogabili per la determinazione del compenso forense in assenza di specifico accordo tra le parti.

Compensi avvocato: i limiti alla discrezionalità del giudice

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo che, nel determinare le spese processuali a carico della parte soccombente, il giudice non può scendere sotto il limite del 50% dei valori medi tabellari, anche se la causa appare semplice. Tale vincolo si applica in particolare nei casi di liquidazione giudiziale, cioè in assenza di un accordo tra avvocato e cliente.

Come chiarito dalla Corte, la discrezionalità del giudice è dunque delimitata:

  • può aumentare i valori medi oltre l’80% nei casi previsti;

  • può ridurre i valori medi fino al 50%, eccezionalmente fino al 70% per la sola fase istruttoria;

  • non può mai scendere sotto i minimi, pena la violazione del principio di equo compenso.

Equo compenso e funzione pubblica della soglia minima

La sentenza richiama anche la normativa sull’equo compenso, sottolineando come i parametri ministeriali costituiscano uno strumento di garanzia dell’autonomia del professionista e della qualità della prestazione, assolvendo una funzione di interesse pubblico. In particolare, l’art. 13-bis della legge professionale forense vieta compensi inadeguati e impone al giudice, in caso di squilibrio, di rideterminare il compenso secondo i criteri regolamentari.

La Corte aggiunge che il sistema italiano non si pone in contrasto con i principi dell’Unione europea: la normativa non impone tariffe rigide tra le parti, ma soltanto nei casi di liquidazione giudiziale a danno della parte soccombente. Le parti restano libere di pattuire compensi anche inferiori ai minimi, fuori dall’ambito giudiziale.

Giurisprudenza europea e compatibilità con il diritto UE

La Suprema Corte ha infine affrontato il tema della compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’Unione europea, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia del 25 gennaio 2024, causa C-438/22, in cui veniva dichiarata contraria alla concorrenza una normativa bulgara che impediva di pattuire compensi inferiori a soglie fissate per regolamento.

La Cassazione esclude analogie con il caso italiano, evidenziando tre differenze fondamentali:

  1. Le tariffe sono fissate per decreto ministeriale previa consultazione del Consiglio di Stato.

  2. La inderogabilità riguarda solo la liquidazione giudiziale, non gli accordi tra privati.

  3. L’individuazione di soglie minime è legittima perché risponde a finalità di tutela dell’interesse pubblico.

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