concorso in magistratura

Concorso in magistratura: 350 posti, come partecipare Concorso in magistratura: pubblicato il decreto che bandisce il concorso per 350 magistrati ordinari, domande ammesse fino al 17 gennaio 2025

Concorso in magistratura: 350 Posti

Il Ministero della Giustizia ha bandito un concorso in magistratura per 350 posti da magistrato ordinario. La procedura è regolata dal Decreto Ministeriale del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 17 dicembre 2024.

Presentazione delle domande

I candidati possono inviare la domanda dalle ore 12:00 del 17 dicembre 2024 fino alle ore 12:00 del 17 gennaio 2025. La partecipazione avviene esclusivamente online tramite il portale del Ministero della Giustizia. Per l’accesso è necessario autenticarsi con SPID di secondo livello, Carta d’Identità Elettronica o CNS. La compilazione del modulo prevede il pagamento di un contributo di segreteria pari a 50 euro tramite PagoPA.

Requisiti di partecipazione

I candidati devono soddisfare i seguenti requisiti generali:

  • cittadinanza italiana e pieno esercizio dei diritti civili;
  • condotta morale incensurabile;
  • idoneità fisica all’impiego;
  • regolarità con gli obblighi di leva, se previsti;
  • non essere stati dichiarati inidonei per quattro concorsi precedenti.

Inoltre, è necessario possedere una laurea in giurisprudenza (corso di almeno quattro anni) o rientrare in specifiche categorie professionali, come magistrati onorari con sei anni di servizio, abilitati alla professione forense, o dipendenti pubblici con qualifiche dirigenziali.

Prove concorso in magistratura

Il concorso comprende una prova scritta e una prova orale.

Prova scritta concorso in magistratura

I candidati redigeranno tre elaborati su diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, ciascuno della durata di otto ore.

Prova orale concorso in magistratura

L’esame orale include materie giuridiche come diritto civile, diritto penale, procedura civile, diritto costituzionale e comunitario. Inoltre, si verifica la conoscenza di una lingua straniera scelta tra inglese, francese, spagnolo e tedesco.

Graduatoria e comunicazioni

La graduatoria finale viene redatta in base ai punteggi delle prove. A parità di punteggio, prevalgono titoli di preferenza come la minore età anagrafica o il servizio lodevole nella pubblica amministrazione.

Il diario delle prove scritte sarà pubblicato l’11 marzo 2025 sulla Gazzetta Ufficiale e sul sito del Ministero della Giustizia. Eventuali aggiornamenti seguiranno le stesse modalità.

 

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innovazioni in condominio

Innovazioni in condominio Cosa sono le innovazioni condominiali, quali sono le maggioranze necessarie per deliberarle e quali diritti ha il condomino dissenziente

Cosa sono le innovazioni in condominio

Le innovazioni in condominio sono quegli interventi che migliorano o rendono più comode da utilizzare le cose comuni.

Trattandosi di interventi che vanno oltre la semplice manutenzione del bene, mutandone, invece, in qualche modo la natura o la destinazione sostanziale, le innovazioni sono soggette ad una particolare disciplina codicistica e possono essere deliberate solo con maggioranze qualificate, individuate dall’art. 1120 del codice civile.

Quale maggioranza per le innovazioni?

Nel dettaglio, per l’approvazione di un intervento innovativo sulle parti comuni è necessario il voto della maggioranza degli intervenuti in assemblea, che rappresenti almeno i due terzi del valore dell’edificio.

La legge n. 220 del 2012, però, ha introdotto alcune ipotesi, corrispondenti ad innovazioni oggettivamente meritevoli di apprezzamento, per le quali è sufficiente, per l’approvazione assembleare, la consueta maggioranza di cui all’art. 1136 c.c. secondo comma (cioè la maggioranza degli intervenuti che rappresenti la metà del valore dell’edificio).

Le ipotesi

Tali ipotesi sono le seguenti:

  • interventi che migliorino la sicurezza e la salubrità dell’edificio o dei suoi impianti;
  • interventi tesi all’eliminazione delle barriere architettoniche;
  • innovazioni mirate al miglioramento dell’efficienza energetica dell’edificio;
  • realizzazione di posti auto al servizio delle unità immobiliari;
  • realizzazione di impianti di produzione di energia con fonti rinnovabili;
  • realizzazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva, anche via satellite o cavo.

Richiesta di innovazioni in condominio

La richiesta di realizzazione di un intervento che costituisca innovazione condominiale può provenire anche da un singolo condomino.

A fronte di tale richiesta, l’amministratore è tenuto a convocare apposita assemblea entro trenta giorni.

Il proponente deve indicare il contenuto specifico della propria istanza, descrivendo anche le possibili modalità di esecuzione dell’intervento. Se l’amministratore non ritiene sufficientemente precisa la richiesta, deve chiedere le opportune integrazioni al condomino.

Quali sono le innovazioni vietate ex art. 1120 c.c.

Un aspetto importante della disciplina relativa alle innovazioni condominiali è quello individuato dall’ultimo comma dell’art. 1120 c.c., che vieta tutti quegli interventi suscettibili di mettere in pericolo la stabilità o la sicurezza del fabbricato o che ne ledano il decoro architettonico (peggiorandone, cioè, il suo aspetto estetico e il suo carattere di pregio).

Altrettanto vietate, in base alla norma appena citata,  sono le innovazioni che renderebbero inservibili alcune parti comuni anche per un solo condomino.

Quali sono le innovazioni voluttuarie

La disciplina codicistica delle innovazioni condominiali è completata dalle disposizioni dell’art. 1121 c.c., secondo il quale ciascun condomino ha il diritto di essere esonerato dalla relativa spesa, quando l’innovazione comporti una spesa molto gravosa o sia da considerare innovazione voluttuaria rispetto alle condizioni dell’edificio.

Resta fermo il diritto dell’esonerato e dei suoi eredi, in qualunque tempo, di decidere di partecipare ai vantaggi offerti dall’opera, versando in un momento successivo gli importi corrispondenti alle spese di esecuzione e manutenzione.

L’esonero di cui sopra, però, è previsto solo se l’innovazione consista in opere o impianti che possono essere utilizzati separatamente dai vari condomini. Diversamente, in caso di opera non suscettibile di utilizzo separato, la sua realizzazione non è consentita, a meno che la maggioranza dei condomini che la desiderano non intendano sopportarne integralmente la spesa.

In chiusura, va segnalato che molti degli aspetti sopra descritti coinvolgono la discrezionalità dell’interprete (e cioè dei condomini, dell’amministratore e dello stesso giudice, qualora dalla realizzazione dell’innovazione derivi una controversia legale). Starà a questi ultimi, cioè, di volta in volta, cercare di capire, innanzitutto, se l’intervento rappresenti un’innovazione (secondo quanto si è detto in apertura di articolo) o una mera modifica; se esso sia suscettibile di utilizzo separato (si pensi a un impianto centralizzato), o meno (ad esempio, un c.d. cappotto termico).

Ancora, sarà il condomino a dover dimostrare in giudizio se l’innovazione comporti una spesa che possa considerarsi voluttuaria (prevedendo, ad esempio, l’installazione di finiture o l’utilizzo di materiali di particolare pregio); e, infine, se l’innovazione leda i suoi diritti di singolo condomino, rendendogli inservibile una parte comune (si pensi all’installazione di un manufatto che oscuri una finestra della sua unità immobiliare).

abitazione signorile o popolare

Abitazione signorile o popolare: classamento ai fini delle imposte Imposte ipotecarie e catastali: per determinarle è necessario il classamento e a tal fine rilevano le opinioni comuni

Abitazione signorile o popolare e imposte

Abitazione signorile o popolare: in materia di imposte ipotecarie e catastali, la recente sentenza n. 31725/2024 della Corte di Cassazione chiarisce un principio importante sul classamento delle abitazioni. La classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare“, in assenza di specifiche definizioni legislative, dipende dalle opinioni comuni prevalenti in un determinato contesto storico e territoriale.

Imposte ipotecarie e catastali: classamento immobile

La pronuncia pone fine a una vicenda che ha inizio quando un contribuente contesta il classamento di un immobile. L’immobile, inizialmente classificato nella categoria A/1 (abitazione signorile), è infatti ritenuto dal proprietario privo delle caratteristiche di lusso necessarie per inquadrarlo in detta categoria. Per questo presenta un’istanza per il riclassamento dell’immobile in categoria A/2 (abitazione civile), ma l’Agenzia delle Entrate respinge la richiesta. Il contribuente ricorre quindi alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) che però rigetta il ricorso. Secondo la CTP, per ottenere una revisione del classamento è necessaria una modifica sostanziale dell’immobile o una richiesta di revisione formale avanzata dal Comune. La situazione, secondo la Commissione, non rientra nelle ipotesi previste dalla normativa.

In seguito la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Liguria ribalta la decisione. La CTR  evidenzia diverse carenze nell’immobile che lo rendono non conforme alla categoria A/1:

  • superficie reale inferiore a quella indicata dall’Agenzia delle Entrate;
  • mancanza di caratteristiche di pregio, come ottima esposizione e finiture di lusso;
  • vani con altezze ridotte e locali igienici piccoli e privi di finestre;
  • posizione dell’immobile in una zona non di assoluto pregio.

Revisione classamento: serve una prova concreta e attuale

L’Agenzia delle Entrate impugna la decisione della CTR in Cassazione. L’ente sostiene che, secondo l’articolo 38 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), la revisione del classamento dovrebbe essere basata su una prova concreta e attuale di una riduzione della redditività dell’immobile. La CTR però, a detta dell’Agenzia, ha ignorato questo requisito fondamentale.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’Agenzia, dichiarandolo inammissibile. I giudici  chiariscono che la CTR ha fondato la propria decisione su elementi oggettivi legati allo stato effettivo dell’immobile. La questione della redditività ex articolo 38 TUIR non è applicabile al caso in esame, poiché quella norma riguarda l’imposizione fiscale sui redditi, mentre la controversia verte sulla corretta attribuzione della categoria catastale.

L’importanza delle opinioni comuni per il classamento

Un punto centrale della sentenza riguarda la qualificazione delle abitazioni. La Cassazione ribadisce che la classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare” non deriva da un criterio legislativo rigido. Essa deve riflettere piuttosto le opinioni comuni di un determinato contesto spazio-temporale. Questa posizione conferma un principio fondamentale nel diritto catastale: il procedimento di classamento è di tipo accertativo e deve tenere conto della realtà fattuale dell’immobile. L’assenza di caratteristiche di lusso pertanto, come finiture pregiate o posizione esclusiva, rende non giustificabile l’attribuzione della categoria A/1.

Per la Corte quindi il contribuente ha il diritto di richiedere, in qualsiasi momento, la correzione dei dati catastali. Questo principio, già affermato in precedenti sentenze, si fonda sul fatto che la rendita catastale non ha natura definitiva. Essa può essere modificata quando emergono nuove informazioni o errori nei dati dichiarati. Negare al contribuente la possibilità di correggere gli errori originari equivale a cristallizzare un’imposizione fiscale distorta e questo contrasta con il principio di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della Costituzione italiana.

 

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responsabilità precontrattuale

Responsabilità precontrattuale: risarcito l’interesse negativo Responsabilità precontrattuale: se una delle parti si ritira dall’accordo l’altra parte ha diritto al risarcimento del danno emergente

Responsabilità precontrattuale e danno emergente

La responsabilità precontrattuale ricollegabile al contratto non concluso comporta il risarcimento del danno emergente (interesse negativo) non delle utilità (interesse positivo) che il contraente adempiente avrebbe conseguito se l’altra parte avesse concluso l’accordo. Lo ha precisato il Consiglio di Stato nella sentenza n. 8668/2024, ribadendo anche l’importanza della prova del danno richiesto.

Procedura di gara annullata

Una società specializzata nella gestione di impianti di depurazione propone alla Regione Campania un progetto per il completamento e la gestione dell’impianto di depurazione di Napoli Est. Dopo una serie di valutazioni positive e l’assegnazione di un termine per adeguare la proposta, la Regione  avvia una procedura di gara. In seguito a una rivalutazione delle proprie priorità in materia di depurazione, la Regione decide però di revocare la delibera iniziale, che aveva ammesso la proposta della società e, di conseguenza, annulla la procedura di gara. La società, sentendosi danneggiata da queste decisioni, presenta ricorso al TAR, sostenendo che l’amministrazione aveva agito illegittimamente. La società chiede quindi il risarcimento dei danni. Il TAR respinge il ricorso, ma la società  presenta appello, di cui la Regione chiede il respingimento.

Richiesta risarcitoria legittima

Una sezione del Consiglio di Stato riconosce la responsabilità precontrattuale della Regione Campania per aver interrotto un accordo contrattuale in corso, causando un danno economico alla società. Legittima quindi la richiesta risarcitoria. Viene però ordinata una perizia contabile per accertare i costi sostenuti dalla società per il progetto, definire il valore dell’investimento, e gli altri costi sostenuti.

Il Consiglio di Stato in via definitiva rileva che la controversia verte sul risarcimento del danno subito dalla società a seguito dell’annullamento, da parte della Regione Campania, di una gara d’appalto per la gestione di un impianto di depurazione. Il focus della vicenda richiede nello specifico la verifica della sussistenza del danno da lesione dellinteresse negativo (danno emergente) derivante dalla accertata responsabilità contrattuale. Respinta invece la richiesta risarcitoria derivante da lucro cessante.

Responsabilità precontrattuale: il danno richiesto va provato

Per accertare il danno emergente il perito stima alcuni costi, come quelli per le fideiussioni, ma trova difficoltà nel quantificare con precisione i costi di preparazione del progetto a causa della mancanza di documentazione dettagliata e del tempo trascorso. La società giustifica questa mancanza di documentazione dettagliata sostenendo che gran parte dei costi risalgono a prima del 2003 e che, a causa dei termini di conservazione previsti dalla legge, non è più in possesso di tutta la documentazione. La società propone quindi un metodo di calcolo alternativo.

Il Consiglio di Stato ritiene che sia però necessario stabilire se questo metodo di calcolo sia sufficiente a dimostrare in modo convincente l’entità del danno subito dalla società, in assenza di una documentazione contabile più precisa. La Regione, dal canto suo, contesta la validità del metodo proposto e ritiene che la società non abbia fornito prove sufficienti per quantificare il danno. Il giudice dell’appello ritiene quindi opportuno valutare le argomentazioni di entrambe le parti e decidere se il metodo proposto dalla società sia accettabile per determinare l’ammontare del risarcimento.

Danno emergente: risarcito nei limiti della spesa provata

Fatta questa premessa il Consiglio di Stato precisa che la responsabilità precontrattuale si basa sul principio di buona fede e correttezza nelle trattative. Essa tutela il contraente leso da comportamenti scorretti altrui, limitando il risarcimento all’interesse negativo.

Nel caso in esame, il Collegio esclude tuttavia il risarcimento di spese relative alla predisposizione del progetto, perché non supportate da documentazione probatoria adeguata. Non è sufficiente infatti fornire un principio di prova generico; è necessario dimostrare in modo rigoroso il danno subito, come stabilito dall’art. 2697 c.c. e ribadito da recenti decisioni (Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092).

Il verificatore non ha riscontrato prove documentali sufficienti per diverse voci di costo, tra cui spese per consulenze (€ 178.000), trasferte (€ 4.000), e redazione del progetto (€ 900.000). Questi importi non risultano verificabili né giustificabili con documenti amministrativi o contabili. Inoltre, non emergono elementi che attestino il loro riconoscimento da parte della Regione Campania.

L’unica eccezione riguarda i costi della polizza fideiussoria, pari a 62.100. Per tale voce di costo, la documentazione depositata ha dimostrato l’effettivo sostenimento della spesa, consentendo al Collegio di riconoscere il risarcimento.

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società per azioni

Società per azioni Guida alla società per azioni: cosa sono le azioni, a quanto ammonta il capitale minimo e quali sono i sistemi di gestione

Cos’è una società per azioni

La società per azioni è un modello di società di capitali solitamente utilizzato per imprese di grandi dimensioni, le cui quote di partecipazione sociale sono rappresentate da azioni.
Nell’ordinamento italiano le s.p.a. devono avere un capitale minimo di 50.000 euro; tale capitale è suddiviso in un certo numero di parti, ognuna delle quali rappresenta un’azione. Il numero complessivo di cui si compone il capitale sociale e il valore di ciascuna azione (uguale per tutte le azioni) sono indicate nell’atto costitutivo della società.

I vantaggi della s.p.a.

La s.p.a. è dotata di personalità giuridica distinta da quella dei suoi soci ed ha autonomia patrimoniale perfetta.
Ciò significa che i creditori della società possono far valere le proprie ragioni solo sul patrimonio sociale, senza avere la possibilità di aggredire il patrimonio personale dei singoli soci.

L’atto costitutivo delle spa

La società per azioni nasce con un contratto o con atto unilaterale cui deve seguire la stipula dell’atto costitutivo e dello statuto. Questi ultimi atti devono necessariamente essere formalizzati con atto pubblico presso lo studio di un notaio, il quale poi provvede all’iscrizione della s.p.a. presso il Registro delle Imprese.
Nell’atto costitutivo devono essere indicati, tra l’altro, la denominazione della società, l’ammontare del capitale sottoscritto, il numero di azioni in cui lo stesso si suddivide ed il relativo valore, le generalità dei soci e il numero di azioni ad essi attribuito e il sistema di gestione adottato.
Il capitale sociale deve essere sottoscritto per intero al momento della costituzione (la sottoscrizione rappresenta l’impegno giuridico a versare il capitale dichiarato), ma è sufficiente il versamento iniziale del solo 25% dei conferimenti in denaro.
È possibile, inoltre, partecipare alla società per azioni effettuando conferimenti in natura (ad esempio crediti, beni immobili, etc.), che devono essere accompagnati da apposita perizia di stima da allegare all’atto costitutivo.

Che cos’è un’azione

L’azione, dunque, rappresenta la partecipazione del socio ed è incorporata in un documento chiamato titolo azionario, liberamente trasferibile (cioè, ogni socio può cedere le proprie azioni senza necessità di ottenere il consenso degli altri soci).
Le società di maggiori dimensioni possono fare ricorso al mercato per reperire più diffusamente i capitali di rischio e collocare le azioni societarie. Per le società che scelgono di quotarsi in borsa sono previsti particolari obblighi di trasparenza a tutela dei risparmiatori (l’autorità amministrativa cui è demandata la vigilanza in materia è la Consob).
Le azioni ordinarie conferiscono al titolare il diritto di voto, il diritto alla partecipazione agli utili e il diritto alla partecipazione alla divisione del patrimonio sociale in occasione della liquidazione.
Altri tipi di azione sono le azioni privilegiate e le azioni di risparmio, cui corrispondono maggiori benefici economici ma più limitati diritti di voto.
Le s.p.a. possono anche emettere obbligazioni, per reperire più facilmente capitale di rischio. Le obbligazioni danno diritto alla restituzione del capitale e al percepimento degli interessi, ma non conferiscono poteri di voto.

I sistemi di gestione delle società per azioni

Il sistema di gestione tradizionale della s.p.a. è composto da tre organi: l’assemblea dei soci, l’organo di amministrazione e l’organo di controllo.
All’assemblea sono demandate alcune importanti decisioni, come la nomina degli amministratori e l’approvazione del bilancio (il “peso” del voto di ogni socio dipende dal numero di azioni da questi posseduto). L’organo di amministrazione (collegio o amministratore unico) provvede alla gestione della società, mentre al collegio sindacale sono demandati poteri di supervisione in particolar modo in materia di conti.
È possibile per i soci decidere di adottare sistemi di gestione diversi da quello tradizionale, indicando tale scelta nell’atto costitutivo.
In particolare, è possibile scegliere il c.d. sistema dualistico, in cui sono presenti solo l’organo di amministrazione e quello di controllo; a quest’ultimo sono demandati i poteri solitamente riservati all’assemblea dei soci.
Il c.d. sistema monistico, invece, prevede la presenza del solo organo di amministrazione, al cui interno è nominato un comitato di controllo.

foglio di via

Foglio di via, nessuna convalida del giudice Per la Corte Costituzionale, il foglio di via del Questore non richiede la convalida da parte del giudice

Foglio di via e convalida

La misura di prevenzione del foglio di via, disposta dal questore nei confronti di persone pericolose per la sicurezza pubblica, non restringe la libertà personale dell’interessato, ma limita la sua libertà di circolazione. Pertanto, essa non richiede l’intervento di un giudice, come prescritto invece dall’articolo 13 della Costituzione per ogni misura restrittiva della libertà personale. Spetterà poi al giudice amministrativo e al giudice penale verificarne la legittimità e proporzionalità nel singolo caso concreto, rispettivamente quando l’interessato proponga ricorso contro il provvedimento del questore, o sia imputato in sede penale per la violazione degli obblighi stabiliti nel provvedimento. Lo ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza numero 203/2024, con la quale sono state dichiarate non fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Taranto sull’articolo 2 del codice antimafia.

Il caso

Nel caso in esame, un uomo era stato rinviato a giudizio per avere fatto più volte ritorno nel Comune di Taranto, dal quale era stato allontanato mediante foglio di via, motivato dal questore sulla base della sua pericolosità sociale. Prima di pronunciarsi sulla responsabilità penale dell’imputato per la violazione delle prescrizioni imposte con la misura, il giudice si è però interrogato sulla legittimità costituzionale dell’articolo 2 del codice antimafia. Quest’ultimo attribuisce al questore il potere di disporre la misura senza prevedere la sua necessaria convalida da parte di un giudice.

La restrizione della libertà personale

La Corte ha anzitutto ricordato che una restrizione della libertà personale si verifica quando la persona subisce una coazione nel proprio corpo, come nel caso di arresto o di detenzione, o ancora nel caso di un trattamento medico coattivo. Si ha, inoltre, restrizione della libertà personale quando il soggetto venga sottoposto a misure che presuppongano un giudizio di “degradazione giuridica” e impongano obblighi di intensità tale da poter essere equiparati all’assoggettamento della persona all’altrui potere. In numerose decisioni, a partire dal 1956, la Corte ha ritenuto che quest’ultima situazione si verifichi in conseguenza di misure di prevenzione che impongano all’interessato obblighi di rimanere in un luogo determinato, ovvero di recarsi periodicamente presso un ufficio di polizia.

La giurisprudenza

Viceversa, la Corte ha sinora sempre escluso che il semplice divieto di recarsi in un luogo determinato ponga in causa le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. In questo caso, infatti, la persona resta libera di andare in qualsiasi altro luogo desideri, tranne quello dal quale è interdetta. Con la sentenza in esame, la Consulta ha ritenuto di dover confermare la propria costante giurisprudenza, alla quale del resto il legislatore si è da tempo orientato nel configurare la disciplina delle misure di prevenzione e dei cosiddetti “DASPO”.

E ciò nella consapevolezza che il tendenziale rispetto dei propri precedenti è una delle condizioni essenziali per l’autorevolezza delle decisioni di ogni giurisdizione superiore, compresa la Corte costituzionale.

La decisione

Peraltro, la Consulta ha sottolineato che”gli effetti del foglio di via possono risultare assai gravosi per il destinatario, ad esempio quando gli venga vietato l’ingresso nell’intero capoluogo di provincia nella quale risiede”. Tuttavia, l’ordinamento italiano dispone “di strumenti efficaci per garantire una tutela effettiva ai diritti fondamentali del destinatario contro i pericoli di uso arbitrario di queste misure, ad esempio quale strumento di repressione del dissenso politico e delle legittime forme di protesta protette dalla Costituzione”.

Da un lato, il ricorso al giudice amministrativo è certamente idoneo ad assicurare una tutela immediata ed effettiva contro eventuali provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali dell’interessato.

Dall’altro, lo stesso giudice penale, nei procedimenti per violazione degli obblighi inerenti a una misura di prevenzione, ha il dovere di verificarne preliminarmente la legittimità.

La verifica di legittimità compiuta dall’uno e dall’altro giudice, infine, comprende necessariamente anche una valutazione di proporzionalità tra le finalità di tutela perseguite dall’autorità di polizia e la concreta incidenza della singola misura sulla libertà di circolazione dell’interessato, nonché sull’intera gamma dei suoi diritti fondamentali comunque incisi dal provvedimento.

assegno di divorzio

Assegno di divorzio: vale anche il sacrificio della moglie straniera Assegno di divorzio: nel riconoscerlo e quantificarlo non si può ignorare il sacrificio della moglie che ha lasciato paese e carriera

Assegno di divorzio

L’assegno di divorzio deve tenere conto del sacrificio compiuto dalla moglie che ha lasciato il suo Paese d’origine per seguire il marito. Questo sacrificio assume un ruolo di rilievo nella valutazione dell’assegno divorzile, confermando il principio perequativo-compensativo. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 31709/2024.

Valorizzato il contributo della moglie alla carriera del marito

Il Giudice di primo grado, in una causa di divorzio, riconosce alla ex moglie un assegno divorzile di 750 euro mensili, annualmente rivalutabile. Il Tribunale nella decisione valorizza la situazione economica delle parti e altri elementi cruciali. Tra questi emerge il sacrificio della donna, che ha lasciato il Turkmenistan, rinunciando a un incarico presso il Ministero dell’Economia, per trasferirsi in Italia e dedicarsi alla famiglia.

Il marito, professionista affermato con una carriera di lunga durata, nel tempo ha accumulato notevoli risorse economiche anche grazie al supporto della moglie. Il giudice ha infatti sottolineato che le conoscenze linguistiche della donna hanno senza dubbio favorito le attività professionali del coniuge. Il giudice dell’impugnazione conferma la decisione del Tribunale. Entrambi i coniugi però impugnano la sentenza: il marito contesta l’esistenza dei presupposti per l’assegno, mentre la moglie chiede un importo maggiore, pari a 5.000 euro mensili.

Il ruolo compensativo dell’assegno divorzile

La Cassazione rigetta il ricorso del marito, riconoscendo ancora una volta la funzione perequativa-compensativa dell’assegno divorzile. L’assegno spetta in presenza di uno squilibrio reddituale tra le parti e quando il coniuge richiedente dimostra l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive. Nel caso di specie la moglie ha dimostrato di non avere un’occupazione stabile e di trovarsi in una fase avanzata della vita, con difficoltà di reinserimento lavorativo. La rinuncia al proprio lavoro nel Paese d’origine rappresenta un sacrificio significativo, adottato per condividere un progetto familiare comune.

Il sacrificio della moglie: un elemento determinante

Secondo la Corte di Cassazione, il sacrificio compiuto dalla moglie assume in effetti un peso decisivo nella valutazione dell’assegno divorzile. Abbandonare il proprio Paese d’origine e un’occupazione stabile per seguire il marito rappresenta una scelta che ha influenzato profondamente la vita della donna. Tale scelta, condivisa da entrambi i coniugi, non può essere ignorata al momento della quantificazione dell’assegno. La decisione si colloca nel solco dei principi espressi dalle Sezioni Unite nel 2018 (sentenza n. 18287), secondo cui l’assegno di divorzio ha una duplice funzione: assistenziale e compensativa. Quest’ultima serve a riequilibrare i sacrifici fatti dal coniuge economicamente più debole durante la vita matrimoniale.

Criteri di valutazione ed equilibrio patrimoniale

La Corte d’Appello aveva comunque già valutato con attenzione lo squilibrio reddituale esistente tra le parti. Pur considerando i prelievi della moglie dal conto cointestato per un totale di 160.000 euro, aveva ritenuto che tale somma non fosse sufficiente a compensare lo squilibrio patrimoniale. L’importanza della valutazione globale della situazione economica dei coniugi al fine di determinare l’assegno di divorzio emerge chiaramente dalla sentenza.

indegnità a succedere

Indegnità a succedere Indegnità a succedere: analisi dell'istituto ex art. 463 c.c. che esclude dalla successione chi ha compiuto atti gravi contro il de cuius o persone a lui vicine

Indegnità a succedere: cos’è

L’indegnità a succedere è una causa di esclusione dalla successione, sancita dall’articolo 463 del Codice Civile italiano. In base a questo istituto una persona, normalmente chiamata a succedere, viene privata del diritto di ereditare, a causa di comportamenti gravemente lesivi nei confronti del defunto o di persone a lui vicine. In questo articolo, esploreremo nel dettaglio l’articolo 463 del Codice Civile, i suoi effetti sulla successione, e le principali pronunce giuridiche che hanno interpretato e applicato questa norma, per fornire una panoramica chiara e completa dell’istituto.

Quando si verifica l’indegnità a succedere

L’indegnità a succedere si verifica quando una persona, pur avendo diritto all’eredità come successibile, viene esclusa dalla successione a causa comportamenti gravi o immorali della stessa nei confronti del defunto. Il Codice Civile italiano prevede che alcune azioni, particolarmente gravi, possano privare un soggetto della capacità di ereditare.

L’istituto ha quindi natura punitiva e preventivo-sociale. Esso impedisce a chi ha compiuto atti gravi di godere dei benefici derivanti dalla morte di chi ha danneggiato.

Articolo 463 c.c.: cosa prevede

L’articolo 463 c.c. stabilisce che una persona è indegna a succedere se, con azioni od omissioni, ha compiuto atti gravi di rilievo penale e civile. L’indegnità colpisce infatti:

  • chi, con volontà, ha ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente dello stesso, in assenza di una delle cause che ne escludono la punibilità;
  • chi ha commesso, in danno di uno dei suddetti soggetti, un fatto a cui la legge dichiara applicabile le disposizioni sull’omicidio;
  • chi ha denunciato una delle persone suddette per un reato punibile con l’ergastolo o la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denuncia è stata dichiarata poi calunniosa nell’abito del giudizio penale; chi ha testimoniato contro le stesse persone imputate per i predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata falsa nel giudizio penale;
  • chi è decaduto dalla responsabilità genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta e non è stato reintegrato nella stessa alla data di apertura della successione;
  • chi ha indotto con dolo o violenza la persona a fare, revocare o mutare il testamento;
  • chi ha soppresso, celato, o alterato il testamento che regolerebbe la successione;
  • chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso.

Indegnità a succedere: cosa dice la giurisprudenza

La giurisprudenza ha avuto e ha ancora un ruolo fondamentale nell’interpretare e applicare l’articolo 463 del Codice Civile. Diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno infatti contribuito a chiarire l’ambito e i limiti dell’indegnità a succedere. Vediamo alcune delle principali pronunce.

Indegno chi contravviene ai doveri di assistenza familiare

La sentenza della Cassazione Civile n. 19547/2008 ha stabilito che l’indegnità a succedere non si limita ai casi di omicidio o tentato omicidio. Essa si realizza in tutti i casi in cui il comportamento del successibile contravvenga ai doveri di rispetto e di assistenza familiare. Il caso riguardava un figlio che, pur non avendo ucciso il padre, aveva compiuto atti di grave maltrattamento psicologico e fisico nei suoi confronti. La Corte ha ritenuto che tali azioni giustificassero l’esclusione dalla successione. A conclusioni similari è giunta, sempre la Cassazione, nella sentenza n. 10591/2012. La Corte ha escluso infatti dalla successione una persona che, pur non avendo compiuto atti di violenza fisica diretta, aveva continuato a trattare il padre malato in modo indegno e disumano, causando  allo stesso un grave danno psicologico. La decisione della Cassazione ha sancito quindi che l’indegnità può derivare da atti non necessariamente violenti, ma comunque lesivi della dignità del defunto.

Indegno chi commette violenza economica

Gli Ermellini, nella sentenza n. 5935/2018 si sono occupati invece della questione della violenza economica come causa di indegnità a succedere. Un coniuge che aveva abusato della posizione di potere economico nei confronti del defunto, sottraendo beni o controllando in modo oppressivo le risorse finanziarie, è stato ritenuto indegno a succedere. La Corte ha interpretato l’indegnità come una misura che tutela non solo la vita fisica del defunto, ma anche il suo patrimonio e la sua integrità morale.

Dichiarazione di indegnità

L’indegnità a succedere non si verifica in ogni caso automaticamente: deve essere accertata in giudizio. Per dichiarare una persona indegna di succedere è necessario infatti che il tribunale prenda una decisione formale in seguito a una causa avviata da un altro soggetto che vanta diritti sull’eredità. Chi ha interesse a escludere un successibile dalla successione può quindi ricorrere al tribunale per ottenere una sentenza di indegnità, che ha natura costituiva.

Effetti dell’indegnità a succedere

La sentenza di indegnità comporta l’esclusione dalla successione del soggetto indegno, che perde quindi il diritto a ricevere beni e diritti rientranti nell’eredità del defunto.

La persona indegna non eredita nulla dal defunto, neppure legati o donazioni disposti in suo favore dal de cuius. Il patrimonio del defunto verrà quindi suddiviso tra quei soggetti che, per legge o per testamento, possono succedere al de cuius.

Riabilitazione dell’indegno

L’articolo 466 c.c prevede però che, chi è stato dichiarato indegno, possa essere riammesso a succedere se lo stesso è stato riabilitato espressamente per mezzo di un atto pubblico o di un testamento. Se poi l’indegno che non è stato riabilitato espressamente, è stato incluso nel testamento e il testatore conosceva la causa di indegnità, allora l’indegno può essere ammesso a succedere nei limiti della disposizione testamentaria in suo favore.

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nuove licenze ncc

Nuove licenze NCC autorizzate dalle Regioni Le Regioni possono autorizzare nuove licenze di NCC ma devono rispettare l'obbligo della pubblica gara

Licenze NCC autorizzate dalle Regioni

Nuove licenze NCC autorizzate dalle Regioni. Ok dalla Corte Costituzionale purchè si rispetti l’obbligo della pubblica gara. Questo quanto precisato con la sentenza n. 206/2024.

La «rigida previsione contenuta nella risalente disciplina introdotta nel 1992», che assegna solo ai comuni la possibilità di indire pubblici concorsi per il rilascio delle autorizzazioni al servizio di noleggio con conducente (NCC), deve ritenersi «cedevole rispetto a successive leggi regionali che definiscano un assetto più articolato e attuale, in funzione della tutela di un livello di interessi che riguarda importanti potenzialità di sviluppo dell’intero territorio regionale». Si legge nel documento con cui la Consulta – dopo la pronuncia numero 137 del 2024, con cui è stata dichiarata, a seguito di autorimessione, l’illegittimità costituzionale del divieto di rilascio di nuove autorizzazioni per il servizio di NCC, previsto dall’articolo 10-bis, comma 6, del decreto-legge numero 135 del 2018 – è tornata a giudicare il ricorso del governo avverso l’articolo 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Calabria numero 16 del 2023.

Duplice portata normativa

Tale disposizione – ha precisato la sentenza – riveste una duplice portata normativa: da un lato, infatti, alloca anche alla Regione Calabria la funzione relativa al rilascio delle autorizzazioni per il servizio di NCC, dall’altro la disciplina attraverso una assegnazione diretta di tali autorizzazioni alla Ferrovie della Calabria srl. In riferimento al primo aspetto, la sentenza ha chiarito che «il principio di sussidiarietà non si oppone, ma anzi conferma la possibilità per la Regione di introdurre, nell’ambito della propria competenza legislativa residuale in materia di trasporto pubblico locale, norme che integrano, nel territorio regionale, quelle statali vigenti che declinano il livello di governo di allocazione della funzione di rilascio di autorizzazione al NCC».

Potenziare il sistema del trasporto

Dal momento che è la «quasi totale assenza di vettori» il motivo che ha spinto il legislatore regionale ad intervenire, la norma risulta funzionale a potenziare il sistema complessivo del trasporto non di linea, che «concorr[e] a dare “effettività” alla libertà di circolazione».

La sentenza ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale della previsione del rilascio delle autorizzazioni a svolgere il servizio di NCC direttamente a Ferrovie della Calabria srl: tale disciplina viola, infatti, l’obbligo del pubblico concorso previsto dall’articolo 8, comma 1, della legge numero 21 del 1992 e si pone pertanto in contrasto con la competenza statale in materia di «tutela della concorrenza», che assume carattere trasversale e prevalente, fungendo «da limite alla disciplina che le Regioni possono dettare nelle materie di loro competenza, concorrente o residuale», «sia pure nei limiti strettamente necessari per assicurare gli interessi alla cui garanzia la competenza statale esclusiva è diretta».

giurista risponde

Diniego di accesso e segreto professionale È legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale che rientra tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990 (Cons. Stato, sez. VII, 19 settembre 2024, n. 7658).

È opportuno preliminarmente ricordare che l’art. 24 della legge sul procedimento amministrativo disciplina i casi di esclusione del diritto di accesso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della L. 801/1977, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo; b) nei procedimenti tributari; c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.

Il secondo comma dell’art. 24 prevede che, le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale facendolo rientrare tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, rendendo, pertanto, superflua la mancata formalizzazione della opposizione del professionista interessato.

Infatti, il segreto professionale è posto a tutela, oltre che degli assistiti, anche della libertà di scienza che, nell’esercizio dell’attività professionale, deve essere garantita ai prestatori d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2239 c.c. e dell’art. 33 Cost. Tale libertà potrebbe risultare gravemente compromessa qualora non si garantisse la riservatezza delle valutazioni, dei giudizi e delle opinioni espresse nel corso dell’attività professionale.

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)