responsabilità comune custodia

Il Comune è responsabile delle strade in custodia La Cassazione ha ribadito che il Comune ha una responsabilità oggettiva da cose in custodia rispetto alla strada comunale ed è pertanto tenuto a risarcire i danni che da essa derivano

Ciclista inciampa nella feritoia: il caso

Nella vicenda in esame un ciclista, nel percorrere un tratto di strada comunale, era incappato con una ruota in una fessura posta al di sotto del manto stradale e, cadendo a terra, aveva riportato alcune lesioni personali.

A seguito del suddetto episodio, il danneggiato aveva convenuto il giudizio il Comune ritenuto responsabile del tratto stradale in questione ed aveva domandato il risarcimento dei danni subiti.

Il Giudice di merito aveva concluso il proprio esame condannando il Comune al risarcimento del danno patito dal ciclista.

Avverso tale decisione il Comune aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Nesso causale

La Suprema Corte, con ordinanza n. 12988-2024, ha rigettato il ricorso proposto dal Comune.

In particolare, la Cassazione, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha anzitutto affermato che le argomentazioni elaborate dalla Corte d’appello in punto di nesso causale tra la fessura nel manto stradale e l’evento dannoso, nonché la ritenuta assenza di un concorso del danneggiato alla causazione dell’evento lesivo, sono conformi al consolidato orientamento interpretativo formatosi in ordine alla responsabilità da cose in custodia di cui all’art. 2051 c.c.

Per quanto nello specifico attiene alla responsabilità ex art 2051 c.c., la Corte ha affermato che la giurisprudenza è costante nel ritenere che essa abbia natura oggettiva “e può essere esclusa o dalla prova del caso fortuito (…), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo”.

Nella medesima direzione argomentativa muove l’affermazione della Corte secondo cui “l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito (…) si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse in modo immanente alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, (…), ravvisandosi il presupposto di operatività della fattispecie, consistente nella relazione di fatto tra un soggetto e la cosa”.

In questo senso, la Corte ritiene che sia corretto riconoscere un onere di custodia in capo al Comune ricorrente, posto che, nel caso di specie, il sinistro era avvenuto in una strada comunale aperta al pubblico ed anzi molto frequentata.

Sulla scorta delle suddette argomentazioni e per quanto qui rileva, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso del Comune.

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Cassazione: multe nulle se l’autovelox non è omologato Le sanzioni erogate per la violazione del limite di velocità rilevate con l’autovelox sono nulle se l’apparecchio non è omologato ma solo approvato

Autovelox non omologati

La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza storica sulle apparecchiature autovelox utilizzate per rilevare le infrazioni di velocità.

Secondo l’ordinanza 10505-2024 del 18 aprile 2024, che ha destato parecchio clamore in tutto il territorio nazionale, le multe comminate con apparecchiature autovelox prive di omologazione sono da considerarsi nulle.

Questa decisione chiarisce inoltre la differenza tra omologazione e approvazione delle apparecchiature, sollevando importanti questioni sul sistema sanzionatorio stradale.

Violazione limite di velocità con autovelox non omologato

La vicenda ha inizio con il ricorso di un conducente al Giudice di Pace, che accoglie l’opposizione al verbale di accertamento della Polizia con cui gli era stata contesta la violazione dell’articolo 142 comma 8, per avere superato il limite di velocità di 90 Km/h. Rilievo che era stato effettuato per mezzo di un dispositivo autovelox fisso.

Il Comune appellava la decisione, ma il Tribunale la respingeva perché l’apparecchiatura con cui era stata rilevata la violazione del limite di velocità non risultata omologata. Il Tribunale precisava al riguardo che “l’accertamento dell’indicata infrazione era avvenuto con la citata apparecchiatura elettronica senza che fosse stata preventivamente omologata ai sensi di legge, non risultando rilevante allo scopo la mera approvazione preventiva di tale mezzo di rilevazione, siccome non equipollente all’omologazione ministeriale, posto che quest’ultima autorizza la riproduzione in serie del prototipo di un apparecchio testato in laboratorio, mentre la semplice approvazione è riconducibile ad un procedimento di tipo semplificato che non richiede la comparazione del prototipo con caratteristiche ritenute fondamentali o previste da particolari previsioni del regolamento.”

Il Comune soccombente, insoddisfatto dell’esito del giudizio, impugnava la decisione in Cassazione, che incentra la motivazione della sentenza proprio sulla differenza tra omologazione e approvazione.

Differenze tra omologazione e approvazione

La Cassazione, rigettando la tesi dell’Ente Territoriale ricorrente, precisa che l’articolo 142, comma 6 del Codice della Strada (c.d.s) è chiaro e decisivo nel ritenere idonee solo le apparecchiature “debitamente omologate” per l’accertamento strumentale della velocità. L’articolo 192 del regolamento di attuazione del c.d.s. (d.P.R. n. 495/1992) distingue invece le attività di omologazione e approvazione, specificando che l’omologazione è un procedimento tecnico-amministrativo che garantisce la funzionalità e la precisione degli autovelox. L’approvazione, invece, è un processo meno rigoroso, che non richiede test dettagliati.

Importanza della prova della corretta funzionalità

Secondo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, la Pubblica Amministrazione (P.A) deve fornire prova della corretta funzionalità degli autovelox attraverso certificazioni di omologazione e conformità. Questo obbligo deriva dalla necessità di garantire che gli strumenti utilizzati per le sanzioni stradali siano tecnicamente affidabili e precisi. La Corte Costituzionale aveva già sottolineato questa necessità nella sentenza 113/2015 e la Cassazione con la presente ordinanza  rafforza  ulteriormente questa posizione.

Implicazioni della decisione della Cassazione sulle multe

La decisione della Cassazione ha risvolti pratici significativi. In pratica, tutti gli autovelox privi di omologazione e certificazione metrologica sono considerati illegali. Questo implica che molte delle sanzioni attualmente emesse possono essere contestate e annullate, se le apparecchiature utilizzate non rispettano i requisiti stabiliti dalla normativa.

La pronuncia rappresenta un importante passo avanti nella regolamentazione delle sanzioni stradali e nella garanzia della correttezza dei procedimenti sanzionatori. Essa rafforza l’obbligo per la P.A di utilizzare solo apparecchiature omologate e conformi alle normative tecniche, ponendo un freno all’uso indiscriminato di autovelox non certificati. Questo intervento giuridico mira a tutelare i diritti degli automobilisti, assicurando che le sanzioni siano comminate solo sulla base di rilevamenti accurati e legalmente validi.

 

 

 

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arretrati giustizia pnrr

PNRR: calano arretrato e durata dei processi Il ministero della Giustizia informa che i dati 2023 confermano il trend di calo della durata dei processi e dello smaltimento dell'arretrato

PNRR riduzione durata processi e arretrato

Prosegue la riduzione della durata dei processi e dell’arretrato, in linea con gli obiettivi concordati con l’Europa.  Questo il quadro che emerge dalla Relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori PNRR, aggiornata al 2023, curata dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa (DgSTat) del Dipartimento per la transizione digitale della giustizia l’analisi statistica e le politiche di coesione del Ministero della Giustizia e pubblicata da via Arenula sul proprio sito.

Riduzione tempi civile e penale

I dati annuali del disposition time confermano la tendenza osservata nel I semestre, al netto di fisiologiche oscillazioni dovute all’effetto del periodo feriale.

A fine 2023 la riduzione rispetto al 2019 (anno base di riferimento del PNRR) era pari a:

-17,4% nel settore civile

-25,0% in quello penale

Una diminuzione più consistente nel settore penale (-16,6%), ma apprezzabile anche in quello civile (-6,4%) confrontando i dati del 2022.

Nel penale il risultato complessivo si conferma in linea con il target PNRR (-25% entro giugno 2026) anche in termini di aumento dei procedimenti definiti (+3,9% rispetto al 2019) che nell’ultimo ha avuto una accelerazione (+7 ,6% rispetto al 2022) grazie anche all’impatto della Cartabia.

Anche sul fronte Cassazione, il disposition time 2023 ha raggiunto i 110 giorni, un valore inferiore alla media dei paesi del Consiglio d’Europa.

Più contenuto il calo in civile ma comunque positivo l’aumento dei procedimenti definiti (pari all’1,6%). Non bene le definizioni in tribunale e in Corte d’appello, dato che, precisa il ministero, “andrà monitorato nella prospettiva del raggiungimento dell’obiettivo concordato di riduzione del disposition time complessivo del 40% entro giugno 2026”.

Smaltimento arretrato

Sul fronte arretrato, gli accordi rimodulati, tra via Arenula e Commissione Europea, prevedono “un obiettivo  intermedio  di  riduzione del  95%  dell’arretrato 2019  entro  il 31.12.2024 e un obiettivo finale di riduzione, entro il 30.06.2026, del 90% dei procedimenti civili pendenti al 31.12.2022, iscritti dal 01.01.2017 presso i Tribunali e dal 01.01.2018 presso le Corti di Appello”.

Lo smaltimento delle pendenze rilevanti ai fini del raggiungimento dell’obiettivo intermedio a fine 2023 (-85% in tribunale e – 97,1% in Corte d’appello) risulta più che completato per le Corti di Appello e quasi completato per i Tribunali. Il trend tuttavia, specifica via Arenula, “per garantire il raggiungimento degli obiettivi finali – deve essere mantenuto con – una dinamica di smaltimento robusta” anche nei prossimi anni.

La riduzione dell’arretrato “cosiddetto Pinto” rispetto al 2019 è pari al 24,7% in Tribunale ed al 37,7% in Corte di Appello.

Prossimo aggiornamento ottobre 2024

Complessivamente, dunque, i dati confermano, conclude il ministero, “lo sforzo importante che gli uffici giudiziari stanno compiendo nell’abbattimento delle pendenze e dell’arretrato, frutto anche dei cambiamenti organizzativi attuati con l’arrivo degli addetti all’Ufficio per il processo”.

La Relazione viene inviata alla Commissione europea due volte all’anno e i dati sono pubblicati sul sito del Ministero della giustizia. Il prossimo aggiornamento, relativo al I semestre 2024, sarà ora pubblicato ad ottobre.

codice rosso arresto

Codice rosso: arresto in flagranza differito Per la Cassazione, l’aumento dei casi di violenza domestica giustifica l’ampliamento della misura dell’arresto in flagranza differita ai reati di maltrattamenti in famiglia

Contestazione dell’arresto in flagranza differito

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta di annullamento, avanzata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo, dell’ordinanza del Gip con cui non veniva convalidato l’arresto in flagranza differita per il reato di cui all’art. 572 c.p. commesso dall’imputato in danno della compagna convivente.

Con il ricorso in esame il Procuratore aveva in particolare contestato la valutazione compiuta nell’ordinanza in ordine alla prova che, secondo il Gip, non presentava il carattere dell’evidenza con riferimento agli elementi costitutivi del reato, l’abitualità della condotta e la sistematica sottoposizione della compagna a sofferenze, privazioni, umiliazioni, così come riferite dalla persona offesa e da sua figlia.

Arresto in flagranza differito e prova video-fotografica

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16668-2024, ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata, dichiarando la legittimità dell’arresto compiuto.

Nella specie la Corte ha ritenuto che il ricorso sia fondato vista “l’erronea applicazione della legge penale con riferimento alla individuazione delle condizioni che legittimano l’arresto in flagranza differita in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia (…)”.

La Suprema Corte ha anzitutto ripercorso il quadro normativo di riferimento, interessato dal recente intervento operato dalla legge n. 168 del 2023 ove, all’articolo 10 è stata ridefinita, anche in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia, la nozione di ‘flagranza’, estendendola a chi appare colpevole sulla base di documentazione video-fotografica.

Ciò posto, la Corte ha dunque specificato che “La misura precautelare dell’arresto in flagranza differita, in funzione di tutela della vita e dell’integrità fisica delle persone vittime di violenza domestica o di condotte di stalking (…) appare ancorata alla emersione, attraverso un documento autoevidente, quale la documentazione risultante da ripresa video- fotografica e da dispositivi di comunicazione (..), di episodi di violenza, minaccia o aggressione alla persona” tali da integrare il reato di maltrattamenti in famiglia.

L’arresto, ha precisato il Giudice di legittimità, si risolve nell’eccezionale attribuzione alla polizia giudiziaria del potere di privare della libertà una persona e si giustifica come misure “immediata” che presuppone lo stato di flagranza, vale a dire la contestualità eziologica, di tempo e di spazio “tra il delitto e la privazione della libertà personale e trova concorrente giustificazione nella altissima probabilità (…) della colpevolezza dell’arrestato”.

L’aumento esponenziale dei casi di violenza domestica, ha proseguito la Corte, giustifica l’ampliamento della misura dell’arresto in flagranza differita ai reati di maltrattamenti in famiglia, pur essendo “indiscutibile che il ricorso a tale misura precautelare si pone in contrasto con la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi procede all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato se interpretate, stictu sensu, alla stregua della contestualità eziologica, temporale e spaziale tra il delitto e la privazione della libertà personale”.

Posto quanto sopra, nel caso di maltrattamenti in famiglia, il Giudice di legittimità ha pertanto evidenziato l’importanza di valorizzare elementi quali la documentazione video, testimoniante gli episodi di aggressione denunciati dalla persona offesa.

La decisione della Cassazione

Applicando i suddetti principi al caso in esame, la Corte ha dunque ritenuto che l’arresto in flagranza differita dell’imputato fosse valido, poiché compiuto dalla polizia giudiziaria sulla base di elementi documentali quali in particolare il suddetto filmato che riproduceva episodi di violenza dell’uomo dei confronti della convivente. Posto quanto sopra il Giudice di legittimità ha annullato l’ordinanza impugnata con la quale, come detto, non veniva convalidato l’arresto dell’imputato.

 

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cartella clinica

Cartella clinica mancante: è prova a favore del paziente La Cassazione ricorda che l'incompletezza della cartella clinica può dimostrare l'esistenza di un nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente

Danno da responsabilità medica

Nel caso che ci occupa la Corte d’appello di Lecce aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta dai familiari danneggiati che avevano invocato la condanna della struttura ospedaliera al risarcimento del danno da loro subìto in conseguenza della morte della loro madre.

In particolare, la Corte di merito, sulla scorta delle risultanze della CTU espletata in primo grado, aveva ritenuto che i danneggiati non avessero provato il nesso causale tra il decesso della madre e l’ipotizzata negligenza od imperizia del personale sanitario e aveva altresì escluso in radice la condotta inadempiente di tale personale.

Invero, la Corte salentina aveva ritenuto che la “evidente carenza della cartella clinica” e la mancanza di un referto potessero essere surrogati dal “quadro probatorio ed indiziario univocamente favorevole all’assenza di responsabilità medica e di nesso causale”.

Avverso tale decisione i danneggiati avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Prova del nesso causale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11224-2024, ha accolto il ricorso proposto e ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello.

Per quanto qui rileva, i ricorrenti hanno contestato l’esclusione della prova del nesso causale tra il decesso della loro madre e la dedotta condotta negligente o imperita dei sanitari e, ciò nonostante, le carenze della cartella clinica e la lacunosità della documentazione sanitaria.

La Cassazione ha ritenuto che il Giudice di merito “non ha attribuito alcun peso alla circostanza, reiteratamente e vigorosamente evidenziata nella relazione di CTU, che la documentazione sanitaria, nonché carente, era quasi del tutto inesistente, riducendosi alla consulenza cardiologica acquisita in Pronto Soccorso e al certificato di morte, cosicché non solo non si era potuta adeguatamente ricostruire l’evoluzione clinica della patologia che aveva afflitto (la paziente deceduta) (né si era potuto fare piena luce sull’attività clinica, diagnostica e strumentale svolta dai sanitari), ma la stessa causa del decesso era rimasta incerta”.

Sul punto, la Corte ha infatti evidenziato come le informazioni, normalmente desumibili dalla cartella clinica, in ordine all’evoluzione della patologia, all’attività diagnostica, clinica e strumentale espletata dai sanitari e, soprattutto, sulla causa del decesso del paziente “sono fondamentali per la formulazione del giudizio sulla sussistenza del nesso causale tra il decesso medesimo e l’ipotizzata negligenza o imperizia dei medici”.

La Corte d’appello, dunque, secondo il Giudice di legittimità ha “violato il principio – fondato sul rilievo che la carenza della documentazione sanitaria acquisibile presso la struttura non può ridondare a detrimento del paziente – secondo cui, in tema di responsabilità medica, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido legame causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente allorché proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione”.

Sulla scorta di tali ragioni, la Corte ha dunque accolto le doglianze formulate dai ricorrenti sul punto.

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super interessi

Super interessi: spettano se il giudice lo specifica La Cassazione sui super interessi, ossia gli interessi maggiorati di cui all’art. 1284 co. 4 c.c., chiarisce che spettano se il giudice li indica specificamente nel titolo esecutivo

Interessi maggiorati art. 1284 comma 4 c.c.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 12449-2024 chiarisce sinteticamente che gli interessi maggiorati o i super interessi previsti dall’articolo 1284 comma 4 c.c. spettano se il giudice di cognizione che emette il titolo esecutivo specifica se e in che misura spettano dopo aver valutato i presupposti richiesti dalla norma, ossia la natura della fonte dell’obbligazione, l’accordo delle parti sulla misura degli stessi e la domanda giudiziale per stabilirne la decorrenza.

Super interessi: omissione del giudice di cognizione

Il Tribunale di Milano dispone il rinvio pregiudiziale degli atti chiedendo alla Cassazione di risolvere la seguente questione di diritto: “se in tema di esecuzione forzata, anche solo minacciata, fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso ad indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’articolo 1284 1° comma codice civile o, a partire dalla stessa data di proposizione della domanda, possono ritenersi liquidati quelli di cui al 4° comma del predetto articolo”.

Super interessi: il contrasto interpretativo

Sulla questione giuridica proposta dal Tribunale milanese era in effetti presente un contrasto interpretativo.

Secondo un indirizzo della Cassazione, in presenza di una esecuzione forzata, se il giudice della cognizione abbia omesso di specificare il tipo di interessi da applicare, occorre procedere alla liquidazione dei soli interessi legali art. 1284 comma 1 c.c, stante la portata generale di questa regola.

Un altro indirizzo sostenuto in particolare dalla sezione Lavoro della Cassazione, i commi 4 e 5 dell’art. 1284 c.c determinano la misura degli interessi legali  se il credito viene riconosciuto da una sentenza, anche dopo un giudizio arbitrale, anche se la sentenza nulla specifica in merito al saggio di interesse applicabile.

Il giudice deve indicare nel titolo i super interessi

La Cassazione rileva che la questione di diritto si pone perché il giudice dell’esecuzione non ha poteri di integrazione o di cognizione deve limitarsi ad attuare il contenuto del titolo esecutivo, è questa la questione su cui incentra il ragionamento la Corte di Cassazione.

Occorre però partire dall’analisi dell’articolo 1284 comma 4 c., che così dispone. “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Dalla formulazione della disposizione emerge che alcuni elementi della norma sono suscettibili di valutazione. La fattispecie costitutiva che regola la spettanza dei super interessi è autonoma rispetto alla prima parte della noma dedicata agli interessi legali.

Il giudice della cognizione, quando emette il titolo esecutivo deve quindi valutare i seguenti presupposti applicativi:

  • la natura della fonte dell’obbligazione perché in base alla natura del credito lo stesso può essere produttivo o non produttivo dei super interessi;
  • la determinazione contrattuale della misura degli interessi;
  • identificazione della domanda giudiziale per stabilire la decorrenza degli interessi.

Il giudice di cognizione che emetta un titolo esecutivo contente l’indicazione generica di “interessi legali” non è idonea a integrare il corretto accertamento dei presupposti appena elencati. Il titolo esecutivo giudiziale deve quindi contenere specificamente se e in che misura spettano gli interessi maggiorati.

Il principio di diritto delle Sezioni Unite

Questo infine il principio di diritto enunciato dalle SU:

“Ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. 

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Decreto ingiuntivo: fino a 10mila euro lo emette l’avvocato E' quanto prevede la proposta di legge all'esame della Commissione Giustizia della Camera che riconosce agli avvocati il potere di emettere decreti ingiuntivi semplificati per crediti fino a 10mila euro

Decreto ingiuntivo semplificato: finalità

Il procedimento di ingiunzione semplificato è oggetto della proposta di legge C.1374 presentata il 10 agosto 2023 dal deputato D’Orso Valentina, assegnata alla II Commissione Giustizia della Camera.

La proposta nasce dalla necessità di sopperire alla graduale chiusura di diversi uffici dei giudici di pace, che comporterà un inevitabile sovraccarico di lavoro per gli uffici limitrofi che resteranno aperti.

Ingiunzioni di pagamento: potere agli avvocati

Il decreto ingiuntivo semplificato si inserisce nel solco di quei provvedimenti per i quali non è necessario il vaglio preventivo dell’autorità giudiziaria, come avvenuto con la Direttiva sul credito ipotecario n. 2014/17/UE, che si è ispirata alla disciplina vigente negli Stati Uniti e nel Regno Unito e che è stata recepita con il decreto legislativo n. 72/2016.

La proposta vuole infatti conferire agli avvocati il potere di emettere ingiunzioni di pagamento per crediti di importo non superiore a 10.000 euro.

Decreto ingiuntivo semplificato nel codice di procedura civile

La novità legislativa proposta comporta l’introduzione degli articoli 656 bis, 656 ter, 656 quater, 656 quinques e 656 sexies  all’interno del nuovo capo I bis del codice di procedura civile dedicato al procedimento di ingiunzione semplificato.

Per quanto compatibili si applicheranno al procedimento anche gli articoli 645, 648, 649, 650, 652, 653 e 654 c.p.c

In base al nuovo articolo 656 bis, l’avvocato munito di mandato professionale, su richiesta del suo assistito, creditore di un importo non superiore a 10.000 euro, potrà emettere un atto di ingiunzione per intimarne il pagamento al debitore nel termine di 40 giorni.

Il provvedimento dovrà contenere anche l’avvertimento al debitore di poter fare opposizione al decreto stesso sempre nel termine di 40 giorni e che, in mancanza di opposizione, il decreto verrà dichiarato esecutivo dal giudice.

In questo modo il creditore potrà procedere all’esecuzione forzata nei confronti del debitore:

  • se il credito risulta da una prova scritta;
  • se il credito riguarda onorari dovuti per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborsi ad avvocati, ufficiali giudiziari, cancellieri o altri soggetti che abbiano fornito la propria opera in occasione di un processo;
  • se il credito fa riferimento a diritti, onorari e rimborsi spettanti a notai o professionisti che esercitino arti o professioni per i quali esistono tariffe legali approvate.

Quando l’avvocato predispone il decreto indica anche le spese e gli onorari a lui dovuti applicando i parametri professionali previsti e intimando al debitore di procedere al pagamento anche di questi importi.

La sussistenza dei requisiti indicati dall’articolo 656 bis è molto importante, l’articolo 656 sexies considera infatti illecito disciplinare l’omissione dolosa o con colpa grave della verifica dei requisiti di legge richiesti per l’emanazione del decreto ingiuntivo semplificato.

Opposizione a decreto ingiuntivo

Il debitore che intende fare opposizione al decreto ingiuntivo deve proporla al giudice competente con atto di citazione notificato presso l’avvocato che ha emesso il decreto.

Nel corso della prima udienza il giudice dovrà verificare che il decreto sia stato emesso in presenza dei requisiti richiesti dall’articolo 656 bis. La loro assenza comporterà la dichiarazione di nullità dell’atto e la condanna del creditore al pagamento delle spese legali maturate fino a quel momento in favore del debitore, oltre al pagamento di una somma alla Cassa delle Ammende di importo pari al doppio del contributo unificato dovuto per la domanda da proporre in via ordinaria.

Esecutorietà del decreto ingiuntivo semplificato

La mancata opposizione al decreto ingiuntivo nel termine di 40 giorni o la mancata costituzione del debitore opponente nel giudizio di opposizione comporta invece la dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo da parte del giudice, se il creditore ne fa istanza e se il decreto presenta tutti i requisiti richiesti dall’articolo 656 bis.

L’istanza del creditore, contenuta in un ricorso, deve indicare i documenti probatori che giustificano il diritto di credito vantato e deve essere depositata insieme al decreto di ingiunzione, ai documenti probatori e a una dichiarazione con cui conferma l’intero credito o uno di importo inferiore, se il debitore gli ha corrisposto delle somme dopo la notifica dell’ingiunzione.

Quando l’ingiunzione diventa esecutiva, l’opposizione non può essere né proposta né proseguita a meno che, ai sensi dell’art. 650 c.p.c, il debitore dimostri non averne avuto tempestiva conoscenza a causa di una notifica irregolare, di un caso fortuito o di una forza maggiore.

Se risulta o è probabile che il debitore non abbia ricevuto l’ingiunzione, il giudice dispone il rinnovo della notifica.

Atto di ingiunzione nullo

Come anticipato, l’atto di ingiunzione è dichiarato nullo con decreto del giudice quando viene emanato in assenza dei requisiti richiesti dall’articolo 656 bis. La nullità non impedisce tuttavia al creditore di proporre la domanda per il recupero del credito in via ordinaria.

Può accadere comunque che dopo l’ingiunzione il debitore corrisponda una parte delle somme indicate del decreto al creditore. In questo caso il giudice ordinerà al creditore di restituirle e lo condannerà al pagamento di una somma alla Cassa delle Ammende, pari al doppio della somma dovuta a titolo di contributo unificato per la proposizione della domanda ordinaria.

 

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giurista risponde

Legittimità costituzionale art. 649 c.p.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge. – Corte Cost. 16 giugno 2022, n. 149.

La L. 633/1941, in materia di diritto d’autore, disciplina un doppio binario sanzionatorio per le medesime condotte illecite: da un lato, l’art. 171ter contempla un illecito penale; dall’altro, l’art. 174bis prevede un illecito amministrativo. Questo duplice apparato sanzionatorio ha portato a sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. e all’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU. Il giudice remittente non pone in discussione la coesistenza delle due norme sanzionatorie, né la loro concreta applicabilità, ma si limita ad invocare un rimedio idoneo ad evitare lo svolgimento o la prosecuzione di un giudizio penale, allorché l’imputato sia già stato sanzionato in via definitiva per il medesimo fatto con la sanzione amministrativa prevista dall’art. 174bis della L. 633/1941. Tale rimedio viene individuato dal giudice remittente nella pronuncia di proscioglimento o non luogo a procedere, già prevista in via generale dall’art. 649 c.p.p., per il caso in cui l’imputato sia già stato giudicato penalmente, in via definitiva, per il medesimo fatto.

La Corte ha ritenuto la questione fondata. Il diritto al ne bis in idem mira a tutelare l’imputato non solo contro la prospettiva dell’inflizione di una seconda pena, ma ancor prima contro l’eventualità di subire un secondo processo per il medesimo fatto, a prescindere dall’esito di quest’ultimo che potrebbe anche essersi concluso con un’assoluzione. I presupposti per l’operatività del ne bis in idem sono: la sussistenza di un idem factum, identificato nei medesimi fatti materiali sui quali si fondano le due accuse penali, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica; la sussistenza di una previa decisione che riguardi il merito della responsabilità penale dell’imputato e sia divenuta irrevocabile; la sussistenza di un bis, ossia di un secondo procedimento o processo di carattere penale per i medesimi fatti. Inoltre, la costante giurisprudenza europea (Corte EDU, Zolotoukhine c. Russia, 10 febbraio 2009; Corte EDU, A e B c. Norvegia, 15 novembre 2016) afferma non sia decisiva la qualificazione della procedura e della sanzione come “penale” da parte dell’ordinamento nazionale, ma la sua natura sostanzialmente “punitiva” da apprezzarsi sulla base dei criteri Engel. La Corte EDU ha affermato, nella citata pronuncia A e B c. Norvegia, che non necessariamente dà luogo ad una violazione del ne bis in idem l’inizio o la prosecuzione di un secondo procedimento di carattere sostanzialmente punitivo, in relazione a un fatto per il quale una persona sia già stata giudicata, in via definitiva, nell’ambito di un diverso procedimento, anch’esso di carattere sostanzialmente punitivo. Una tale violazione è infatti esclusa qualora tra i due procedimenti vi sia una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”. Al fine di ravvisare la suddetta connessione è necessario verificare: se i diversi procedimenti perseguano scopi complementari; se la duplicità dei procedimenti in conseguenza della stessa condotta sia prevedibile; se i due procedimenti siano condotti in modo tale da evitare la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove; se siano previsti dei meccanismi che consentano nel secondo procedimento di tenere in considerazione la sanzione inflitta nel primo.

Nel caso in esame è indubbia la natura punitiva delle sanzioni amministrative, previste dall’art. 174bis della L. 633/1941, alla luce dei criteri Engel e della stessa giurisprudenza costituzionale. La Corte sostiene che non vi sia alcun dubbio sul fatto che il sistema normativo, previsto dalla L. 633/1941, consenta al destinatario dei suoi precetti di prevedere la possibilità di essere assoggettato a due procedimenti distinti e a due conseguenti classi di sanzioni. Tuttavia, deve escludersi che i due procedimenti perseguano scopi complementari o riguardino diversi aspetti del comportamento illecito. La sanzione amministrativa persegue l’intenzione di potenziare l’efficacia general-preventiva dei divieti già contenuti nella legge. Quanto alle condotte sanzionate, gli artt. 171ter e 174bis della L. 633/1941 puniscono i medesimi fatti, con l’eccezione delle condotte colpose aventi rilevanza solo amministrativa. Il sistema normativo non prevede alcun meccanismo volto ad evitare duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove e ad assicurare una coordinazione temporale fra i procedimenti. Non è previsto, inoltre, alcun meccanismo che consenta al giudice penale di tenere conto della sanzione amministrativa già irrogata per i medesimi fatti. Da tutto ciò discende che il sistema del doppio binario in esame non è congegnato in maniera tale da assicurare una risposta sanzionatoria unitaria agli illeciti in materia di violazioni del diritto d’autore. I due procedimenti seguono percorsi autonomi che non si intersecano né si coordinano, creando così le condizioni per il verificarsi di violazioni sistemiche del diritto al ne bis in idem.

Per questi motivi i giudici costituzionali – rilevata la violazione del ne bis in idem – hanno reputato di potervi porre parzialmente rimedio mediante la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p. Ciononostante, la Corte si è dichiarata consapevole della circostanza che il rimedio adottato non sia in grado di scongiurare le violazioni del ne bis in idem nell’ipotesi in cui sia dapprima divenuta definitiva la sanzione penale ed il cittadino venga sottoposto successivamente a procedimento amministrativo. Di conseguenza, la Consulta ha auspicato una rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio ad opera del legislatore, in modo tale da adeguarli ai principi enunciati dalla giurisprudenza sovranazionale e nazionale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 43/2018; Corte cost. 222/2019; Corte cost. 145/2020
supercondominio convocazione assemblea

Supercondominio e convocazione assemblea La convocazione dell’assemblea e la distinzione tra gestione ordinaria e straordinaria nel supercondominio

Il supercondominio

In genere le norme del condominio sono applicabili anche alle fattispecie di supercondominio previste nell’art. 1117 bis c.c. ma il nuovo art. 67 disp. att. c.c. disciplina in maniera particolare l’assemblea di quel supercondominio che ha più di 60 partecipanti,  che da adesso in poi definiremo “complesso”, con modalità diverse per la convocazione e la partecipazione all’assemblea distinguendole in assemblea ordinaria e straordinaria, e istituendo una nuova figura quella del rappresentante.

E’ opportuno riportare quanto dispone l’art. 67 comma II e III delle disposizioni di attuazione del codice civile “Nei casi di cui all’articolo 1117-bis del codice, quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, del codice, il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore…..”.

La convocazione dell’assemblea del condominio complesso

Quindi, relativamente alla convocazione dell’assemblea del condominio complesso si configurano due diversi tipi di assemblea distinte a seconda della materia da trattare:  ordinaria o straordinaria.

  • Se all’ordine del giorno ci sono solo questioni di gestione ordinaria o la nomina dell’amministratore vanno convocati tutti e soli i rappresentanti dei condomìni.  L’amministratore del supercondominio dovrà inviare la convocazione a ciascun rappresentante. Quest’ultimo comunica tempestivamente all’amministratore del proprio condominio la convocazione con l’ordine del giorno. L’amministratore riferisce in assemblea la quale a sua volta decide sui punti all’odg e conferisce il mandato al rappresentante in ordine alle decisioni da assumere. Una volta conclusa l’assemblea il rappresentante comunicherà quanto deciso trasmettendo copia della delibera assunta all’amministratore del condominio che a sua volta la comunicherà ai  condomini;
  • Se, invece, all’ordine del giorno ci sono solo questioni di natura straordinaria occorrerà convocare tutti i partecipanti al supercondominio, cioè tutti i condomini di tutti i fabbricati che lo compongono.

Posizione del problema

Ora se l’art. 67 in esame ha testualmente disposto che: “quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, del codice, il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore“ e la dizione letteralmente può definirsi chiara con riferimento alla nomina dell’amministratore, non lo è altrettanto quando ci riferiamo alla sua prima parte e cioè alla cd. “gestione ordinaria”.

Solitamente si intende per gestione ordinaria l’approvazione del bilancio preventivo e del rendiconto. Il problema si pone allorchè siano da porre all’ordine del giorno quelli che solitamente definiamo lavori straordinari.

Una piccola riflessione sulla distinzione tra lavori ordinari e quelli straordinari ci aiuterà nel dare (speriamo) la giusta soluzione al problema.

La differenza in questione è rilevante anche in altre sedi come quella del giusto riparto tra gli oneri spettanti all’usufruttuario e quelli spettanti al proprietario; tra quelli spettanti al proprietario e quelli spettanti al conduttore e adesso tra l’assemblea di tutti i condomini e quella dei rappresentanti nel supercondominio.

Il codice all’art. 1136 II comma c.c. prevede che i lavori straordinari di notevole entità debbano essere approvati con la maggioranza dei presenti e almeno 500 millesimi. Nulla dice a proposito di quelli di non notevole entità. Per tale motivo per questi ultimi si ritiene che sia sufficiente la maggioranza dei presenti che rappresenti almeno un terzo dei millesimi. Quindi non solo occorrerà distinguere tra lavori straordinari e non ma all’interno di quelli straordinari anche tra quelli di notevole entità e non.

Al riguardo, ci si rifà all’insegnamento affermato nella sentenza della Cassazione n. 27540 del 10 dicembre 2013, laddove testualmente:  “Nella decisione impugnata la distinzione tra le spese di manutenzione ordinaria e di manutenzione straordinaria risulta correttamente affidata ai profili della normalità e/o prevedibilità dell’intervento e dell’entità materiale della spesa, con il necessario adeguamento della nozione civilistica di riparazioni straordinarie di cui all’articolo 1005 cod. civ. allo statuto del rapporto di locazione, quale consacrato, nella specie, nell’accordo in deroga. Invero per spese straordinarie, facenti carico al locatore, devono intendersi le opere che non si rendono prevedibilmente o normalmente necessarie in dipendenza del godimento normale della cosa nell’ambito dell’ordinaria durata del rapporto locatizio e che presentano un costo sproporzionato rispetto al corrispettivo della locazione; rientrando nella categoria anche le opere di manutenzione di notevole entità, finalizzate non già alla mera conservazione del bene, ma ad evitarne il degrado edilizio e caratterizzate dalla natura particolarmente onerosa dell’intervento manutentivo”.

Manutenzione ordinaria e straordinaria

Per cui si può affermare che la manutenzione ordinaria sia quella “diretta ad eliminare guasti della cosa o che comunque abbia carattere di periodica ricorrenza e di prevedibilità, essendo connotata inoltre da una sostanziale modicità  della spesa” e inquadrando, invece, nell’ambito della manutenzione straordinaria “quelle riparazioni non prevedibili e di costo non modico, ovvero anche quelle “di una certa urgenza e di una certa entità necessarie al fine di conservare o di restituire alla cosa la sua integrità ed efficienza”. 

Delineata così la distinzione tra spese di manutenzione ordinaria e straordinaria essa sembra reggere anche alla luce delle difficoltà presenti nelle norme che regolano il condominio e che normalmente si accompagnano alla loro approvazione, spesso attuata specialmente per le spese di modesta entità direttamente con l’approvazione del rendiconto e/o a ratifica dell’operato dell’amministratore anche quando non rivestono carattere di urgenza e necessità.

 

 

 

 

Licenziamento per esubero personale

Licenziamento per esubero personale Nel licenziamento per esubero del personale, i dipendenti da licenziare devono essere scelti in base ai criteri di buona fede e correttezza. Cenni sul repechage

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il licenziamento per esubero di personale è una delle possibili ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, secondo cui il licenziamento per giustificato motivo può essere determinato anche da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Tale forma di recesso unilaterale dal rapporto di lavoro rientra tra le facoltà dell’imprenditore, che però può esercitarla entro determinati limiti.

I presupposti del licenziamento per esubero personale

Innanzitutto, va evidenziato che il giustificato motivo oggettivo ricorrente in questa ipotesi non è da ricondurre necessariamente a uno stato di crisi dell’impresa, che può anche non sussistere.

I motivi della scelta imprenditoriale, infatti, ben possono ricondursi a esigenze del datore di lavoro riferibili alla riorganizzazione aziendale, alla soppressione di sedi o rami d’azienda o al ridursi della produttività dell’attività.

Esubero personale: la scelta dei dipendenti da licenziare

Uno degli aspetti cruciali in tema di licenziamento per esubero del personale è rappresentato dalla scelta, da parte del datore, del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare.

In caso di omogeneità di mansioni ricoperte da parte di più dipendenti, la scelta dei lavoratori da licenziare deve essere compiuta dal datore di lavoro attenendosi ai criteri di buona fede e correttezza.

Sebbene i contorni di tali criteri risultino spesso sfumati, la giurisprudenza ha chiarito che è possibile fare riferimento ai criteri individuati dalla disciplina in tema di licenziamento collettivo. Quest’ultima prevede che, se l’accordo sindacale non individua altri criteri, la scelta dei dipendenti da licenziare deve essere effettuata tenendo conto dell’anzianità di servizio e dei carichi di famiglia.

In base a tali criteri, quindi, a parità di mansioni, verrà licenziato il dipendente con minore anzianità di servizio e con un minor numero di familiari a carico.

Come ricorda la Corte di Cassazione, del resto, “la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza e buona fede” (Cass. n. 31490/2018 e n. 19732/2018).

Licenziamento per esubero e repechage

Un altro aspetto cruciale della disciplina del licenziamento per esubero del personale è rappresentato dal c.d. repechage, o ripescaggio, e cioè quella particolare soluzione per cui il datore di lavoro è tenuto a mantenere il rapporto di lavoro in essere con il dipendente, se è possibile adibire quest’ultimo ad una diversa posizione lavorativa, pur con differenti mansioni e retribuzione da quelle precedenti.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha evidenziato di recente che il datore, nell’assolvimento dell’obbligo di repechage, deve prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora occupate al momento del licenziamento, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo al recesso. In altre parole, nella ricerca di posizioni nelle quali adibire il lavoratore in esubero, l’azienda deve prendere in considerazione anche quelle attualmente ricoperte da dipendenti che abbiano già dato il preavviso di dimissioni (Cass. sent. n. 12132/2023).

Esubero personale e offerta di part-time

Un’altra interessante pronuncia della Cassazione in tema di licenziamento per esubero del personale ricorda che, in un contesto di riorganizzazione aziendale per esubero del personale, può costituire giustificato motivo oggettivo per il licenziamento il rifiuto da parte del dipendente di accettare la trasformazione del proprio rapporto di lavoro da full-time a part-time.

In generale, infatti, il rifiuto del part-time non costituisce di per sé giustificato motivo per il licenziamento, ma la presenza di ragioni oggettive che giustifichino la richiesta datoriale rende giustificabile anche il licenziamento, in caso di rifiuto della stessa (Cass. ord. n. 12244/2023).