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Ddl Sicurezza: dall’UE l’invito a modificare il testo Ddl Sicurezza: il Commissario per i Diritti Umani Europeo invita i senatori a rivedere il testo, troppi limiti alla libertà di pensiero

Ddl Sicurezza: l’invito dell’UE

Il Ddl Sicurezza continua a sollevare polemiche e opposizioni, con rilievi significativi provenienti dal Consiglio d’Europa e dalla politica italiana. Michael O’Flaherty, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, ha espresso preoccupazioni in una lettera indirizzata al Presidente del Senato, Ignazio La Russa.

O’Flaherty sottolinea come diversi articoli del Ddl limitino il diritto alla manifestazione e alla libertà di espressione ed esorta i senatori a modificare profondamente il testo prima di procedere all’approvazione.

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Le disposizioni sotto accusa del Ddl Sicurezza

Gli articoli contestati includono:

  • Articolo 11: introduce un’aggravante per reati commessi vicino a infrastrutture ferroviarie.
  • Articolo 13: estende il Daspo urbano e amplia l’arresto in flagranza differita.
  • Articolo 14: trasforma in reato penale il blocco stradale o ferroviario attuato con il corpo.
  • Articolo 24: aggrava le pene per imbrattamento di beni pubblici, con reclusione fino a tre anni in caso di recidiva.
  • Articolo 26: introduce un’aggravante per istigazione a disobbedire alle leggi e nuovi reati per disordini in carceri e centri di accoglienza.
  • Articolo 27: colpisce le proteste violente di stranieri irregolari nei centri di trattenimento.

Secondo il Consiglio d’Europa, queste norme, formulate in termini vaghi, potrebbero portare a un’applicazione arbitraria, minando il legittimo esercizio dei diritti fondamentali.

La risposta istituzionale e le reazioni

La Russa ha trasmesso la lettera alle commissioni competenti. La sua reazione pubblica ha definito l’intervento di O’Flaherty come un’ingerenza inaccettabile. Intanto, le opposizioni si sono schierate contro il Ddl, con oltre 1.500 emendamenti presentati e manifestazioni che hanno visto migliaia di partecipanti. La Rete nazionale “No Ddl Sicurezza” annuncia ulteriori proteste.

Ddl sicurezza: un percorso accidentato

Il Ddl, composto da 38 articoli, è stato approvato alla Camera nel settembre 2023, ma incontra difficoltà al Senato. Restano da discutere i due terzi del testo, comprese norme controverse come il divieto di vendere SIM ai migranti senza permesso di soggiorno e lo stop al rinvio della pena per madri con figli minori. Segnalazioni critiche sono giunte anche dal Quirinale, rendendo necessario un rinvio della discussione a gennaio 2025.

Il Ddl Sicurezza rappresenta un banco di prova per il Governo, che cerca di bilanciare misure restrittive e rispetto dei diritti fondamentali. Le pressioni del Consiglio d’Europa e le critiche interne rendono indispensabile una revisione del testo per garantire la conformità agli standard democratici e costituzionali.

 

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rito abbreviato

Rito abbreviato: la rinuncia all’impugnazione apre alla sospensione La Consulta ha stabilito che la rinuncia all'impugnazione della condanna nel giudizio abbreviato può aprire la strada alla sospensione condizionale della pena

Rito abbreviato e rinuncia all’impugnazione

Il condannato in esito a rito abbreviato che non abbia proposto impugnazione deve poter essere ammesso alla sospensione condizionale e alla non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando per effetto della diminuzione di un sesto prevista dalla “riforma Cartabia” la pena inflittagli non superi i due anni di reclusione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 208/2024, che ha ritenuto fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP del Tribunale di Nola sulla nuova disciplina introdotta dalla riforma.

La questione

Una persona condannata, con rito abbreviato, a due anni e quattro mesi di reclusione aveva rinunciato all’impugnazione, ottenendo così l’ulteriore sconto di un sesto della pena ora previsto dal nuovo comma 2-bis dell’articolo 442 del codice di procedura penale. Il giudice dell’esecuzione aveva quindi ridotto la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione. Il condannato aveva però anche chiesto al giudice i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, che in via generale possono essere concessi quando la pena concretamente inflitta resti al di sotto del tetto di due anni di reclusione.

Il giudice aveva però osservato che la riforma non attribuisce espressamente questo potere al giudice dell’esecuzione. Ritenendo che tale mancata previsione non fosse compatibile con il principio di eguaglianza e la finalità rieducativa della pena, il giudicante aveva investito della questione la Corte costituzionale.

I chiarimenti della Consulta

La Consulta ha chiarito, anzitutto, che i principi costituzionali evocati dal giudice impongono effettivamente di riconoscere al giudice dell’esecuzione il potere di valutare se sussistano i presupposti per la concessione dei due benefici, ogniqualvolta la pena da eseguire sia ridotta entro il limite dei due anni per effetto della riduzione prevista dalla riforma.

La Corte ha sottolineato la funzionalità alla finalità rieducativa della pena dei benefici in esame, entrambi di antica tradizione nel nostro ordinamento.

In particolare, “la sospensione condizionale mira, da un lato, ad evitare gli effetti criminogeni e desocializzanti della pena detentiva breve. Dall’altro, essa intende prevenire la commissione di nuovi reati da parte del condannato attraverso la minaccia di revoca del beneficio, e a favorirne il percorso di risocializzazione attraverso gli obblighi riparatori, ripristinatori o di recupero che possono essere associati al beneficio”.

In conformità al principio costituzionale della finalità rieducativa, il legislatore ha previsto in generale che le pene detentive non superiori a due anni possano essere sospese.

Ciò deve valere, ha ritenuto la Corte, anche quando la determinazione finale della pena costituisca il risultato degli sconti di pena stabiliti dal legislatore in cambio di scelte processuali, con cui l’imputato volontariamente rinuncia a garanzie che formano parte integrante dei suoi diritti costituzionali di difesa in giudizio (come il diritto di proporre appello contro la sentenza di condanna che lo riguarda), fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso.

La decisione

Secondo la Corte, il giudice avrebbe potuto concedere i benefici al condannato anche sulla base della legge oggi vigente, interpretata in conformità ai principi costituzionali. Poiché, tuttavia, due recentissime pronunce della Corte di cassazione hanno interpretato in senso opposto la disciplina normativa, la Corte costituzionale ha ritenuto opportuno intervenire per assicurare la certezza del diritto in materia processuale, dichiarando costituzionalmente illegittima la mancata espressa previsione della possibilità per il giudice dell’esecuzione di concedere i due benefici, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena originariamente determinata era superiore ai relativi limiti di legge.

Edilizia residenziale pubblica

Edilizia residenziale pubblica: meno vincoli all’esecuzione forzata Per la Consulta è incostituzionale l'improcedibilità prevista per l'esecuzione forzata su immobili di edilizia pubblica nei confronti del costruttore privato

Esecuzione forzata edilizia residenziale pubblica

Edilizia residenziale pubblica: “è incostituzionale l’improcedibilità prevista – nell’ambito dell’esecuzione forzata su immobili destinati all’edilizia residenziale pubblica convenzionata – per il caso in cui il creditore fondiario non risponda a particolari requisiti o non partecipi alla procedura”. È quanto si legge nella sentenza numero 211/2024, con cui la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 1, comma 378, della legge 30 dicembre 2020, numero 178.

La norma

La norma censurata prevedeva che il giudice dell’esecuzione dovesse verificare d’ufficio in capo al creditore fondiario procedente la sussistenza dei seguenti requisiti: rispondenza del contratto di mutuo ai criteri stabiliti dalla legge numero 457 del 1978 (articolo 44) e inserimento dell’istituto di credito nell’elenco delle banche convenzionate presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Dopo aver constatato che il citato elenco non risulta ancora istituito e dopo aver preso atto che la formulazione della disposizione ha generato interpretazioni significativamente diverse, la Corte ha reputato “irragionevole e sproporzionata la norma censurata, ricostruita dal rimettente in maniera da abbracciare tanto una ratio sanzionatoria, quanto una supposta funzione di tutela della garanzia dello Stato”.

La Corte ha ritenuto, anzitutto, incostituzionale la disciplina, “là dove prevede la sanzione della improcedibilità per il creditore che non abbia rispettato i requisiti indicati nel richiamato articolo 44 della legge numero 457 del 1978, in presenza dei quali gode della garanzia dello Stato. Se dal mancato rispetto dei citati requisiti si fa discendere anche la perdita della garanzia dello Stato, risulta, infatti, sproporzionato inibire in aggiunta l’accesso alla tutela esecutiva. Se, invece, si esclude la perdita della garanzia dello Stato, l’improcedibilità determina solo l’irragionevole effetto di far valere la garanzia dello Stato al di fuori della procedura, anziché nell’ambito della stessa, ove la garanzia opera in via sussidiaria”.

Parimenti, irragionevole, oltre che sproporzionata, è la norma se interpretata nel senso di estendere l’improcedibilità anche ai casi in cui il creditore fondiario neppure partecipi alla procedura concernente i richiamati immobili.

La decisione

La Consulta rileva, infatti, che il creditore fondiario viene per legge avvisato dell’avvio della procedura concernente il bene su cui grava il suo diritto di ipoteca e rispetto al quale gode della garanzia dello Stato. Pertanto, se non interviene, è solo su di lui che dovrebbero riverberarsi le conseguenze della sua stessa inerzia. Viceversa, è irragionevole correlare all’inerzia del creditore fondiario l’improcedibilità per gli altri creditori, consentendo, al contempo, al debitore di assicurarsi, con il solo pagamento delle rate del mutuo fondiario, una temporanea impignorabilità del bene. Infine ha ribadito il giudice delle leggi che “restano fermi gli strumenti preposti alla tutela della finalità abitativa, vale a dire l’improcedibilità in caso di mancato avviso al comune e all’ente finanziatore circa la pendenza della procedura e il rispetto degli oneri reali in capo all’assegnatario della vendita forzata”.

società a responsabilità limitata

Società a responsabilità limitata (s.r.l.) Disciplina e vantaggi della s.r.l.: il modello organizzativo, il capitale sociale, i conferimenti dei soci e il regime fiscale

Cos’è una società a responsabilità limitata

La società a responsabilità limitata, anche detta s.r.l., è una società di capitali e rappresenta uno dei modelli societari più diffusamente adottati in Italia, in virtù della sua particolare disciplina legislativa che offre ampia flessibilità organizzativa ai soci.

Cosa rischiano i soci di una SRL?

La principale caratteristica della s.r.l. è l’autonomia patrimoniale perfetta: i soci, pertanto, rispondono delle obbligazioni sociali solo nei limiti della quota da ciascuno conferita e non con il proprio patrimonio personale, come invece accade nelle società di persone.

I creditori di una società a responsabilità limitata, quindi, possono rivalersi sul patrimonio sociale, ma non possono aggredire quello personale dei soci.

È evidente come sia questo uno dei principali motivi per cui la s.r.l. rappresenta un modello molto appetibile per chi vuole avviare un’impresa in forma societaria. Altri vantaggi rilevano sotto il profilo economico, organizzativo e fiscale.

A differenza di quanto accade in altre società di capitali, le partecipazioni di una s.r.l. non possono essere rappresentate da azioni.

Qual è il capitale minimo per costituire una SRL?

Il capitale sociale della società a responsabilità limitata può essere anche inferiore a 10.000 euro e, grazie a recenti modifiche legislative, è persino possibile costituire una s.r.l. con capitale iniziale pari a 1 euro.

Quando il capitale sociale è inferiore a 10.000 euro è necessario che le quote dei soci siano in denaro e siano versate per l’intero.

Particolare importanza ha la disciplina delle riserve, che devono essere accantonate fino a quando la somma tra capitale e riserve non raggiunga i 10.000 euro. In particolare, ogni anno, il 20% degli utili deve necessariamente essere imputato a riserva (e quindi non distribuito né riportato all’esercizio successivo) fino al raggiungimento di tale limite.

Diversamente, in una s.r.l. con capitale pari o superiore a 10.000 euro, sono ammessi anche i conferimenti in natura (ad esempio crediti o prestazioni d’opera, il cui valore va certificato con perizia di stima) ed occorre versare il 25% dei conferimenti in denaro e per l’intero quelli in natura.

Come si costituisce una s.r.l.

La s.r.l. si costituisce con atto costitutivo redatto con atto pubblico presso un notaio e viene ad esistenza al momento dell’iscrizione presso il Registro delle Imprese della Camera di commercio territorialmente competente.

È possibile anche che si configuri una società a responsabilità limitata unipersonale. In questo caso, il socio unico della s.r.l. unipersonale deve versare per intero il capitale ed adempiere a particolari obblighi pubblicitari al momento dell’iscrizione (e di ogni altro significativo cambiamento successivo), depositando presso il Registro delle Imprese una dichiarazione contenente l’indicazione di nome, cognome, denominazione e sede societaria, in mancanza della quale il socio unico potrebbe essere chiamato a rispondere illimitatamente con il proprio patrimonio personale dei debiti societari.

Gli organi della società a responsabilità limitata

Dal punto di vista organizzativo, la s.r.l. prevede un’assemblea, un organo di amministrazione e, se previsto dalla legge, un organo di controllo.

L’assemblea è la sede naturale nella quale i soci prendono le loro decisioni, ma l’atto costitutivo può prevedere metodi diversi con cui i soci possono manifestare il proprio voto (ad esempio, con consultazioni scritte).

L’organo amministrativo può essere rappresentato da un consiglio di amministrazione o da un amministratore unico. Il consiglio di amministrazione può funzionare congiuntamente (agendo di comune accordo) o disgiuntamente (con particolari poteri in capo al singolo amministratore). Sono ammessi anche modelli di amministrazione mista, con i quali gli amministratori agiscono talvolta congiuntamente e talvolta autonomamente, a seconda del tipo di attività da compiere.

Come detto, quando il socio amministratore, in virtù del suo potere di rappresentanza, agisca in nome e per conto della società, risponde nei limiti della quota conferita.

L’organo di controllo, che può anche essere costituito da una singola persona, funge da revisore dei conti.

SRL semplificata (s.r.l.s.)

La s.r.l. può anche configurarsi in forma semplificata (s.r.l.s.): in questo caso ai vantaggi economici (si risparmia, per lo più, sui costi notarili iniziali di costituzione) fanno da contraltare i limiti al capitale sociale, che può essere di massimo 10.000 euro; inoltre, possono essere soci della società a responsabilità limitata semplificata solo persone fisiche, e non anche persone giuridiche, come invece accade nella s.r.l. ordinaria.

Il regime fiscale della Società a responsabilità limitata

Dal punto di vista fiscale, la s.r.l. sconta la soggezione all’IRES (imposta sul reddito delle società), che presenta un’aliquota fissa, spesso più conveniente dell’aliquota che una persona fisica pagherebbe a titolo di Irpef se esercitasse l’attività d’impresa in forma non societaria.

In più, la società a responsabilità limitata è soggetta all’imposta regionale dell’Irap. Gli utili distribuiti ai soci al netto delle suddette imposte sono, altresì, soggetti all’imposta sui redditi.

società di avvocati

Società di avvocati: vietati gli investitori finanziari Società di avvocati: la Corte UE vieta la detenzione di quote da parte di investitori finanziari, la professione deve essere indipendente

Società di avvocati e investitori finanziari

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ribadito l’importanza dell’indipendenza degli avvocati con una sentenza del 19 dicembre 2024. Nella causa C-295/23, la Corte ha stabilito che gli investitori finanziari non possono detenere partecipazioni in società di avvocati, sancendo un principio fondamentale per la tutela della professione forense.

La decisione mira infatti a proteggere l’integrità e l’indipendenza della professione legale, valori essenziali per garantire la fiducia dei clienti. Secondo la Corte, solo chi esercita la professione di avvocato può detenere quote in una società legale. Questa limitazione è giustificata da motivi imperativi di interesse generale, che prevalgono sulla libertà di stabilimento e sulla libera circolazione dei capitali.

 Società di avvocati tedesca e Ordine Forense di Monaco

La sentenza nasce da una controversia tra una società di avvocati tedesca e l’Ordine forense di Monaco. La società aveva ceduto il 51% delle proprie quote a un investitore austriaco non autorizzato a offrire servizi legali. L’Ordine di Monaco ha annullato l’iscrizione della società all’albo, sostenendo che solo i professionisti legali possono possedere quote di una società di avvocati in Germania. La società ha contestato la decisione, ritenendo il divieto contrario alla direttiva 2006/123/CE, che vieta requisiti discriminatori per l’accesso alle attività di servizi. La Corte UE però ha ritenuto la restrizione proporzionata e giustificata al fine di salvaguardare l’indipendenza professionale.

Indipendenza: tutela dei clienti e rispetto della deontologia

La Corte ha sottolineato che l’indipendenza è essenziale per garantire il rispetto degli obblighi deontologici e la tutela dei clienti. La presenza di investitori finanziari potrebbe compromettere queste prerogative. Interessi economici esterni rischiano di prevalere sugli interessi dei clienti, alterando la missione primaria dell’avvocato. Gli avvocati devono agire esclusivamente per il bene del cliente e rispettare il segreto professionale. L’ingresso di investitori puramente finanziari potrebbe mettere a rischio questi doveri.

Restrizioni: proporzionalità e non discriminazione

La Corte ha specificato anche che le restrizioni devono rispettare i principi di proporzionalità e non discriminazione. Le normative nazionali non possono discriminare società estere o basarsi sulla cittadinanza dei soci. Devono essere applicate in modo uniforme a tutti i soggetti che non siano avvocati. Inoltre, queste limitazioni devono essere proporzionate, ovvero strettamente necessarie a garantire l’obiettivo perseguito. Nonostante ciò, in questo caso, la Corte ha confermato che il divieto agli investitori finanziari è conforme al diritto dell’UE.

Stati Membri: quali implicazioni?

La sentenza avrà effetti significativi sui sistemi normativi nazionali. Paesi con regole più flessibili per le partecipazioni nelle società legali potrebbero doverle rivedere. L’obiettivo è evitare che soggetti esterni alla professione possano influenzare le decisioni operative delle società di avvocati. In Italia, la normativa già impone che i soci delle STP (società tra professionisti) siano iscritti agli albi professionali. Tuttavia, il dibattito sull’ammissione di soci finanziari è ancora acceso.

 

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lecito dare cibo

Lecito dare cibo ai gatti randagi Illegittima l'ordinanza che vieta ai cittadini di dare cibo agli animali randagi. Vanno però rimossi i contenitori utilizzati

Illegittimo divieto di sfamare randagi

Lecito dare cibo ai gatti randagi. Illegittima, dunque, l’ordinanza che vieta ai cittadini di somministrare alimenti a questi animali. Chi li sfama però deve utilizzare appositi contenitori e rimuoverli successivamente. La mancata rimozione costituisce abbandono di rifiuti e può essere sanzionata.Lo ha affermato il TAR Sicilia nella sentenza n. 3844/2024.

La vicenda

L’ordinanza contestata vietava indiscriminatamente la somministrazione di cibo ad animali vaganti, come cani e gatti, oltre ad altri animali selvatici. Una delle associazioni per la protezione degli animali ha impugnato il provvedimento, sottolineando che il divieto contrasta con le normative nazionali e regionali per la tutela degli animali d’affezione. Secondo l’associazione, la misura era eccessiva, priva di fondamento logico e in contrasto con il principio di protezione degli animali sancito dalla legge.

Crudele esporre i randagi alla fame

Il TAR ha sottolineato che il randagismo è un problema sociale da affrontare con umanità e rispetto per gli animali. Privare i randagi del cibo fornito da cittadini sensibili alle loro condizioni significa esporli alla fame e a comportamenti potenzialmente pericolosi, come rovistare nei rifiuti o diventare aggressivi per sopravvivere. Questo approccio, secondo il giudice amministrativo, risulta crudele e contrario alla legge.

Inoltre, nessuna norma vieta di alimentare animali randagi nei luoghi dove trovano rifugio. Al contrario, la legge quadro nazionale del 1991 promuove la tutela degli animali d’affezione e condanna ogni atto di crudeltà, maltrattamento o abbandono. Questi principi mirano a favorire una convivenza equilibrata tra esseri umani e animali, tutelando anche la salute pubblica e l’ambiente.

Ordinanza illegittima e ingiustificata

Il TAR ha anche evidenziato l’assenza di ragioni straordinarie che potessero giustificare l’adozione dell’ordinanza. Non sono emerse situazioni di emergenza igienico-sanitaria o pericoli per la pubblica incolumità tali da richiedere un intervento straordinario. Secondo il giudice, le circostanze citate erano fisiologiche e prevedibili. Inoltre, con le dovute precauzioni, non rappresentavano un rischio immediato per l’igiene pubblica.

La sentenza ribadisce quindi che è possibile alimentare i randagi, ma occorre rispettare alcune regole. Gli alimenti devono essere posti in contenitori idonei, che devono poi essere rimossi per evitare la dispersione di rifiuti. La mancata osservanza di questo obbligo può essere sanzionata, poiché si configura come abbandono di rifiuti. Il TAR in questo modo afferma i principi di tutela degli animali sanciti dalla legge. Cani e gatti randagi non possono essere lasciati morire di fame o essere abbandonati a sé stessi. Le autorità devono promuovere soluzioni rispettose e conformi alle normative vigenti, evitando misure che ignorano il benessere degli animali e i diritti dei cittadini.Occorre quindi un approccio equilibrato e responsabile nella gestione del randagismo, in linea sia con il quadro normativo italiano che con il senso civico.

 

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Portale libretto famiglia

Portale Libretto Famiglia: tutto quello che c’è da sapere Portale Libretto Famiglia: disponibile sul sito INPS e sulla APP INPS Mobile il servizio dedicato agli utenti

Portale Libretto Famiglia: cos’è

L’INPS ha lanciato il nuovo portale dedicato al Libretto Famiglia, disponibile sulla piattaforma telematica e sull’app “INPS Mobile”. L’accesso è semplice: basta utilizzare una identità digitale (SPID, CIE o CNS) e cercare “Prestazioni di lavoro occasionale: Libretto Famiglia” sul sito INPS.

Per tutti i dettagli leggi il messaggio INPS n. 4360 del 19.12.2024

Cosa offre il nuovo portale libretto famiglia

Gli utenti possono registrarsi come utilizzatori del Libretto Famiglia e accedere alla “Scrivania Utilizzatore”. Questo spazio consente di:

  • visualizzare i lavoratori associati;
  • consultare le ultime prestazioni registrate;
  • monitorare le attività in corso;
  • controllare il portafoglio elettronico, con i limiti economici.

La “Scrivania Utilizzatore” offre una panoramica completa, rendendo più agevole la gestione delle prestazioni occasionali. La sezione “Documenti” fornisce un manuale utente aggiornato per orientarsi tra le funzionalità del portale.

Libretto di famiglia: come funziona

Si ricorda brevemente che il Libretto Famiglia è stato pensato per gestire piccoli lavori domestici, assistenza domiciliare o insegnamento privato.

Le prestazioni occasionali di soggetti privati verso altri soggetti privati devono ritenersi escluse dalle attività di impresa e alle regole che ne conseguono se rispettano i seguenti limiti annuali:

  • un massimo di 5.000 euro per prestatore (sommando tutti gli utilizzatori);
  • un massimo 10.000 euro per utilizzatore (sommando tutti i prestatori);
  • fino a 2.500 euro per singolo prestatore presso lo stesso utilizzatore.

Il compenso per ogni ora di lavoro è fissato a 10 euro, non frazionabili.

Al termine di ogni prestazione, entro il terzo giorno del mese successivo, l’utilizzatore deve comunicare:

  • i dati del prestatore;
  • il luogo, durata e ambito della prestazione;
  • il costo complessivo.

Queste operazioni possono essere fatte tramite il portale o il Contact Center INPS. 

App “INPS Mobile”

Il servizio è disponibile anche su app per dispositivi Android e iOS. Gli utenti possono gestire le operazioni del Libretto Famiglia direttamente dal proprio smartphone, purché abbiano SPID di livello 2 o CIE 3.0. Grazie a questo nuovo strumento, l’INPS punta a semplificare la gestione del lavoro occasionale, offrendo un’esperienza multicanale e accessibile a tutti.

 

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chatgpt garante

ChatGpt: Garante Privacy multa Openai Il Garante Privacy ha chiuso l'istruttoria nei confronti di Openai che dovrà realizzare una campagna informativa di 6 mesi e pagare una sanzione di 15 milioni di euro

ChatGPT, istruttoria Garante Privacy

ChatGPT il Garante per la protezione dei dati personali ha adottato nei giorni scorsi un provvedimento correttivo e sanzionatorio nei confronti di OpenAI in relazione alla gestione del servizio ChatGPT.

Le violazioni

Il provvedimento, che accerta le violazioni a suo tempo contestate alla società californiana, arriva all’esito di un’istruttoria avviata nel marzo del 2023 e dopo che l’EDPB (Comitato europeo per la protezione dei dati) ha pubblicato il parere con il quale identifica un approccio comune ad alcune delle più rilevanti questioni relative al trattamento dei dati personali nel contesto della progettazione, sviluppo e distribuzione di servizi basati sull’intelligenza artificiale.

IA generativa

Secondo il Garante la società statunitense, che ha creato e gestisce il chatbot di intelligenza artificiale generativa, oltre a non aver notificato all’Autorità la violazione dei dati subita nel marzo 2023, ha trattato i dati personali degli utenti per addestrare ChatGPT senza aver prima individuato un’adeguata base giuridica e ha violato il principio di trasparenza e i relativi obblighi informativi nei confronti degli utenti. Per di più, OpenAI non ha previsto meccanismi per la verifica dell’età, con il conseguente rischio di esporre i minori di 13 anni a risposte inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza.

Campagna informativa di 6 mesi

L’Autorità, con l’obiettivo di garantire, innanzitutto, un’effettiva trasparenza del trattamento dei dati personali, ha ordinato a OpenAI, utilizzando per la prima volta i nuovi poteri previsti dall’articolo 166, comma 7 del Codice Privacy, di realizzare una campagna di comunicazione istituzionale di 6 mesi su radio, televisione, giornali e Internet.

I contenuti, da concordare con l’Autorità, dovranno promuovere la comprensione e la consapevolezza del pubblico sul funzionamento di ChatGPT, in particolare sulla raccolta dei dati di utenti e non-utenti per l’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa e i diritti esercitabili dagli interessati, inclusi quelli di opposizione, rettifica e cancellazione.

Grazie a tale campagna di comunicazione, gli utenti e i non-utenti di ChatGPT dovranno essere sensibilizzati su come opporsi all’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa con i propri dati personali e, quindi, essere effettivamente posti nelle condizioni di esercitare i propri diritti ai sensi del GDPR.

Sanzione di 15 milioni di euro

Il Garante ha comminato a OpenAI una sanzione di quindici milioni di euro calcolata anche tenendo conto dell’atteggiamento collaborativo della società.

Infine, tenuto conto che la società, nel corso dell’istruttoria, ha stabilito in Irlanda il proprio quartier generale europeo, il Garante, in ottemperanza alla regola del c.d. one stop shop, ha trasmesso gli atti del procedimento all’Autorità di protezione dati irlandese (DPC), divenuta autorità di controllo capofila ai sensi del GDPR, affinché prosegua l’istruttoria in relazione a eventuali violazioni di natura continuativa non esauritesi prima dell’apertura dello stabilimento europeo.

fermo amministrativo

Fermo amministrativo illegittimo: l’ansia non è risarcibile Fermo amministrativo illegittimo: la Cassazione esclude il risarcimento per il danno non patrimoniale

Fermo amministrativo illegittimo e risarcimento danno

Il fermo amministrativo è l’oggetto dell’ordinanza n. 27343/2024 della Corte di Cassazione. Gli Ermellini si sono dovuti occupare in particolare della legittimità del fermo e della possibilità di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dal proprietario del veicolo.

Violata l’ordinanza di sospensione

Si ricorda brevemente che il fermo amministrativo è un provvedimento che impedisce l’utilizzo di un veicolo per il mancato pagamento di tributi o altre somme. In questo caso specifico, un cittadino ha contestato la legittimità del fermo amministrativo sul suo veicolo. Il provvedimento era stato emesso infatti in violazione di un’ordinanza giurisdizionale che ne disponeva la sospensione. Il ricorrente ha chiesto quindi il risarcimento per il danno subito a causa dell’illegittimità del fermo disposto. Il Giudice però ha respinto la richiesta, ritenendo che non fosse stata fornita la prova necessaria.

Ansia e preoccupazioni non sono risarcibili

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione impugnata e ha sottolineato che il danno non patrimoniale, derivante da un fermo amministrativo illegittimo, non è automaticamente risarcibile. È necessario dimostrare che il fermo ha comportato una vera e propria impossibilità di utilizzare il veicolo. In altre parole, il danno deve essere provato in modo specifico. Non è sufficiente lamentarsi di disagi o fastidi. Elementi come ansie o preoccupazioni non costituiscono un danno risarcibile. La responsabilità civile, infatti, non deve essere utilizzata come strumento sanzionatorio. Questo principio è fondamentale per garantire che sia applicata in modo equo e giusto.

Onere della prova a carico dell’attore

Un aspetto cruciale della sentenza riguarda l’onere della prova. La Cassazione ha ribadito che spetta sempre all’attore fornire la prova del danno subito. Se la persona non dimostra in modo adeguato il danno, la sua richiesta deve essere respinta. La semplice indisponibilità del veicolo non basta; è necessario dimostrare anche eventuali spese sostenute per un mezzo sostitutivo o la perdita di guadagni. La Corte ha anche evidenziato che non esistono danni in re ipsa. Il danno deve sempre essere correlato a conseguenze concrete e dimostrabili. Questo principio garantisce che il sistema giuridico non si basi su richieste infondate.

Danno non patrimoniale e lesione di diritti

La Cassazione ha esaminato anche la richiesta risarcitoria del lamentato danno non patrimoniale, legato alla lesione di diritti fondamentali. Secondo la Corte, il risarcimento per danno non patrimoniale è possibile solo in circostanze specifiche. È necessario che ci sia una lesione grave, che superi una soglia minima di tollerabilità. Inoltre, il danno non deve essere futile o limitarsi a meri disagi. Nel caso in esame, il ricorrente non ha presentato prove sufficienti per dimostrare la gravità del danno non patrimoniale. Ha descritto solo disagi generici e preoccupazioni, che non giustificano un risarcimento. La Corte ha quindi ritenuto che tali disagi non fossero meritevoli di tutela risarcitoria.

La decisione della Corte di Cassazione chiarisce in sostanza che il fermo amministrativo illegittimo non comporta automaticamente il diritto al risarcimento. È fondamentale fornire prove concrete e dettagliate in caso di richieste risarcitorie.

 

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giurista risponde

Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria Quali effetti si producono sul testamento in caso di apposizione di onere o condizione sospensiva non avveratasi per esclusiva volontà del disponente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

In materia successoria, ove il testatore, dopo avere apposto una condizione sospensiva alla disposizione testamentaria, dipendente anche dalla sua volontà, ne impedisca l’avveramento, la disposizione testamentaria, ove non revocata, resta pienamente efficace (Cass., sez. II, ord. 18 settembre 2024, n. 25116).

Il caso di specie origina da un testamento olografo con cui il testatore istituisce come eredi universali due nipoti chiedendo loro di occuparsi del suo accudimento, nel paese natio, fintantoché in vita.

A seguito di impugnazione dell’anzidetto atto mortis causa, l’adito Tribunale, nel rigettare le domande principali e quelle riconvenzionali, escluse che con il testamento fosse stato istituito un patto successorio vietato dalla legge e che lo stesso fosse viziato da errore, violenza o dolo.

Quanto all’impegno per l’accudimento, sostenne che si ebbe a trattare di un mero desiderio, privo d’efficacia condizionante e che la conclusione non sarebbe mutata pur ove lo si fosse considerato come onere, trattandosi di adempimento, originariamente possibile, successivamente divenuto impossibile per decisione del testatore, il quale aveva categoricamente rifiutato di trasferirsi nel paese natio e di essere accudito dai nipoti.

Anche la Corte di appello territoriale rigettò l’impugnazione, sia pure modificando e integrando la motivazione del giudice di primo grado: non può trattarsi di onere per la ragione decisiva che esso presuppone l’avvenuta delazione. Invero, nel caso in esame, si trattava di prestare assistenza al testatore in vita.

Dal complessivo vaglio probatorio doveva escludersi che il testatore volesse esprimere un mero desiderio privo di rilevanza giuridica. Si trattava, invece, di condizione sospensiva, divenuta impossibile per successivo volere dello stesso disponente, ma non originariamente tale; da qui la non applicabilità dell’art. 634, comma 2, c.c., con il risultato che doveva trovare applicazione l’art. 1359 c.c., riferibile anche alla condotta di colui che abbia dimostrato, con una condotta successiva, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, con la conseguenza che la stessa deve ritenersi adempiuta (così anche Cass., sez. II, 18 novembre 2011, n. 24325; Cass. 20 luglio 2004, n. 13457).

Viene proposto ricorso per Cassazione in cui i ricorrenti assumono che la Corte aveva violato la regola ermeneutica sopra richiamata.

In materia testamentaria, secondo i ricorrenti, con i dovuti adattamenti era applicabile l’art. 1362 c.c., così da evitare che la volontà del testatore venisse prevaricata dall’interprete.

In altri termini, il contenuto letterale deve confrontarsi con il comportamento tenuto dal testatore successivamente alla stesura della scheda: seguendo gli indicati criteri, in alcun modo si sarebbe potuti giungere ad affermare la soddisfazione del disponente col solo e mero fatto dell’assunzione dell’obbligazione di assistenza, non seguita dall’effettiva prestazione, cioè il materiale accudimento.

Con il secondo motivo viene denunciata errata applicazione dell’art. 1359 c.c. in quanto non attinente alla fattispecie in esame, trattandosi di evento possibile, futuro e incerto alla data di redazione del testamento, norma posta a tutela di posizioni giuridiche attive, quali l’aspettativa dell’altro contraente, situazione che non ricorreva affatto nel caso di specie.

La censura è stata rigettata: la previsione normativa anzidetta dispone che la condizione debba considerarsi avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa; regola i rapporti fra le parti di un contratto, così da impedire che la parte che resterebbe favorita dal non avveramento, si adoperi, ai danni dell’altra parte, perché ciò avvenga.

La natura di negozio giuridico unilaterale del testamento rende impraticabile l’estensione della regola.

Il Codice civile ha raccolto l’eredità della cd. regola sabiniana, diretta a salvaguardare la volontà testamentaria. L’art. 634 c.c., invero, prevede una disciplina diversa rispetto a quella contemplata per i contratti dall’art. 1354 c.c., diretta a salvaguardare la volontà del disponente; volontà che deve soccombere nel solo caso preveduto dall’art. 626 c.c. (motivo illecito che è stato causa esclusiva della disposizione testamentaria).

L’art. 634 c.c. salvaguarda la volontà del testatore, considerando come non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume.

La condizione apposta al testamento in oggetto non rientra in alcuna delle anzidette categorie e se ne distingue nettamente sotto altro profilo: il mancato avveramento della condizione si è verificato per volere dello stesso disponente, il quale non ha voluto essere assistito in vita dai nominati nipoti. Trattasi, pertanto, di una condizione revocata per volontà dello stesso testatore. È stato proprio il testatore a impedire l’avveramento della condizione e, nonostante ciò, ha mantenuto ferma la nomina a eredi universali dei nipoti: proprio il “favor testamenti” impone comunque la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la revoca, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.

In ragione delle motivazioni esposte, il ricorso è stato rigettato.

(*Contributo in tema di “Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)