dichiarazione sostitutiva atto notorio

Dichiarazione sostitutiva di atto notorio Con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio si comunicano alla PA stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato

Cos’è la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Sono molte le occasioni in cui in cittadino si interfaccia con la Pubblica Amministrazione: ad esempio, per richiedere un’autorizzazione, partecipare a un concorso o presentare un’istanza per ottenere benefici economici.

Sovente, l’ente pubblico ha necessità di ottenere delle informazioni dal cittadino e queste, in un’ottica di semplificazione dell’attività della pubblica amministrazione, possono essere fornite tramite dichiarazione sostitutiva di atto notorio, con cui si comunicano fatti, stati o qualità personali, senza necessità di ricorrere all’attestazione da parte di pubblico ufficiale e ai costi che il suo intervento comporterebbe.

Il contenuto della dichiarazione sostitutiva di atto notorio

I mezzi più frequenti con cui comunicare delle informazioni alla p.a. sono le dichiarazioni in autocertificazione e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

Quest’ultima, in particolare, è prevista e disciplinata dall’art. 47 del D.P.R. 445 del 2000 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa).

Tale articolo, rubricato “dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà”, dispone che l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo.

La norma in esame, al secondo comma, specifica anche che la dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.

In altre parole, con la dichiarazione sostitutiva il cittadino può fornire autonomamente determinate informazioni, senza perciò ricorrere all’intervento di un pubblico ufficiale (ad esempio, un notaio) per ottenere il c.d. atto notorio.

Differenza tra autocertificazione e dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà possono, pertanto, attestarsi tutti quei fatti, stati e qualità personali che non possono attestarsi con l’analogo, ma differente, mezzo della dichiarazione in autocertificazione (cfr. art. 47, comma terzo).

Quest’ultima, infatti, a norma dell’art. 46 del medesimo DPR, è una dichiarazione sostitutiva di certificazione con la quale possono essere comprovati stati, qualità personali e fatti che solitamente vengono certificati dalla pubblica amministrazione, come data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato di famiglia, iscrizione in albi, titolo di studio, qualifica professionale, situazione reddituale etc.

Pertanto, a differenza della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, che prende il posto dell’atto notorio formato e rilasciato dal pubblico ufficiale, l’autocertificazione consente, invece, di evitare la richiesta di rilascio della certificazione da parte dell’ente pubblico.

La sottoscrizione della dichiarazione ex art. 47 DPR 445/2000

Si è detto che la dichiarazione sostituiva di atto notorio prevista dall’art. 47 del DPR 445/2000 dev’essere sottoscritta dal richiedente.

Al riguardo, va precisato che, a norma dell’art. 38, comma 3, “le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”.

Pertanto, se la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non avviene davanti al pubblico dipendente, deve esservi allegata a una fotocopia del documento d’identità in corso di validità. Di regola, quindi non è necessaria l’autenticazione della firma.

Inoltre, il primo comma dell’art. 38 dispone che “tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via telematica”, sempre in ossequio ai principi di semplificazione e rapidità dell’attività pubblica e dei rapporti tra cittadino e p.a.

Sanzioni in tema di autocertificazione e dichiarazioni sostitutive

Infine, va ricordato che con la dichiarazione ex art. 47 il cittadino deve rendere dichiarazioni che corrispondano al vero.

Qualora, invece, a seguito di controlli risulti la mendacità di quanto comunicato alla p.a., è possibile che il cittadino incorra in sanzioni penali, a norma dell’art. 76 del citato decreto, che al primo comma dispone che “chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia”, specificando al comma terzo che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 (…) sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.

riscatto laurea

Riscatto laurea Il riscatto della laurea consente di riscattare gli anni degli studi universitari a fini pensionistici, non tutti però ne beneficiano 

Riscatto laurea: cos’è e a cosa serve

Il riscatto della laurea rappresenta un’opportunità significativa per molti lavoratori che desiderano migliorare la propria situazione previdenziale e quindi la propria pensione.

Questa pratica consente di considerare il periodo degli studi universitari conclusi con il conseguimento dei relativi titoli (diploma universitario, diploma di laurea, diploma di specializzazione, dottorato di ricerca, laurea triennale, specialistica, magistrale, diploma Istituti AFAM)  come tempo contributivo, pagando i contributi volontari all’INPS o all’ente previdenziale competente. In questo modo è possibile raggiungere più rapidamente il requisito contributivo richiesto per andare in pensione con la possibilità, quindi, di accorciare i tempi per andare in pensione.

Il riscatto di laurea però non è una possibilità offerta ai neolaureati, ma si estende a tutti coloro che sono in possesso di un titolo di studio universitario, indipendentemente dall’età o dallo stato occupazionale, presentandosi come un’opzione vantaggiosa sia per i lavoratori dipendenti che per i liberi professionisti.

La normativa vigente prevede diverse modalità di riscatto, inclusa quella agevolata, destinata a specifiche categorie. 

Il processo di valutazione per procedere al riscatto richiede un’attenta analisi dei costi e dei potenziali benefici pensionistici, considerando le variabili quali l’età del richiedente, il reddito e gli anni di studi da riscattare.

Riscatto ordinario e riscatto agevolato

Le tipologie di riscatto a cui è possibile accadere sono due, il riscatto ordinario e quello agevolato.

Il riscatto ordinario del corso della laurea per gli iscritti all’INPS è disciplinato dal decreto legislativo n. 187/1997 e l’onere del riscatto varia a seconda che il periodo da riscattare sia anteriore o precedente al 1996, anno in cui al regime retributivo è succeduto quello contributivo per il calcolo della pensione.

Il riscatto agevolato, istituito con la legge n. 26/2019, riguarda i periodi collocati nel periodo contributivo e offre ai dipendenti pubblici e privati, così come agli autonomi e ai liberi professionisti, la possibilità di riscattare gli anni di studio a condizioni particolarmente vantaggiose.

A chi conviene il riscatto della laurea

Il riscatto della laurea è stato vantaggioso fino al 2021, a partire dal 2022 infatti, il valore di 5.240,00 euro per il riscatto agevolato di un anno di laurea, ha iniziato ad aumentare gradualmente. Al momento per riscattare 5 anni di studio occorre sborsare più di 30.000 euro.

Tutta colpa dell’inflazione degli ultimi anni. In una situazione del genere occorre quindi valutare se il riscatto rappresenta effettivamente un aiuto per andare in pensione in anticipo e fare quindi due conti per verificarne la convenienza economica.

Per chi è vantaggioso

I soggetti per i quali il riscatto agevolato rappresenta un vantaggio sono i lavoratori che hanno iniziato a studiare e a versare i contributi previdenziali a partire dal 1996, soprattutto se lavoratori dipendenti con stipendi piuttosto alti.

Possono beneficiare del riscatto pensionistico anche le donne. Grazie alla pensione anticipata il riscatto rappresenta senza dubbio un aiuto per andare prima in pensione perché aiuta a raggiungere prima i requisiti contributivi.

I lavoratori di età compresa tra i 55 e i 60 anni che sono entrati nel mondo del lavoro molto presto grazie al riscatto della laurea possono andare in pensione con un anticipo superiore ai 5 anni.

Per chi non è vantaggioso

Il riscatto agevolato non conviene invece a chi ha iniziato a versare i contributi prima del 1995. L’esercizio della opzione contributiva irrevocabile con il ricalcolo dell’assegno pensionistico determina una diminuzione importante della pensione. Molto meglio pensare al riscatto tradizionale, senza dubbio più oneroso e collegato all’aumento attesa dell’assegno pensionistico.

Il riscatto non è vantaggioso per chi ha iniziato a lavorare tardi, ossia poco prima o intorno ai 30 anni, perché si rischia di andare in pensione più tardi.

I lavoratori di età compresa tra i 30 e i 50 anni, che hanno iniziato a lavorare all’età di 24 anni e hanno un trattamento pensionistico contributivo, se decideranno di andare in pensione con due anni di anticipo si ritroveranno una pensione ridotta nella misura del 10%.

Maltrattamenti in famiglia: rileva anche il disprezzo La Cassazione ha precisato che nel reato di maltrattamenti in famiglia rientrano anche gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità della vittima, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali

Atti di vessazione del marito nei confronti della moglie

Nella vicenda in esame, la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto il marito responsabile dei reati di cui agli artt. 572 e 609-bis c.p. nei confronti della moglie convivente, condannando l’imputato alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione.

Avverso la suddetta decisione il marito aveva proposto ricorso dinanzi al giudice di legittimità.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18031-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Reato di maltrattamenti in famiglia

Per quanto specificatamente attiene al reato di maltrattamenti in famiglia, addebitato al ricorrente dai Giudici di merito, la Suprema Corte ha evidenziato che la fattispecie in questione “consiste nella condotta di sottoposizione della vittima ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita”.

A tal proposito, la Corte ha altresì precisato che “nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia (..) non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano un vere e proprie sofferenze morali”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha dunque ritenuto che i Giudici di merito avessero correttamente valutato che la convivenza coniugale tra l’imputato e la vittima era stata caratterizzata dalla ripetitività di condotte vessatorie perpetrate dal marito a carico della moglie e che le stesse fossero di natura abusante, umiliante e violenta, con la conseguenza che la condotta posta in essere dall’imputato aveva integrato il reato di maltrattamenti in famiglia.

Allegati

assegno divorzio sospensione termini

Assegno di divorzio: scatta la sospensione dei termini Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che nei procedimenti in cui si discute del contributo di mantenimento o dell’assegno divorzile è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale

Esonero dall’assegno di mantenimento

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli aveva escluso che permanesse in capo all’ex marito il dovere di versare l’assegno di mantenimento alla madre in favore delle figlie, laureate e maggiorenni, poiché il venir meno della convivenza delle figlie con la madre aveva costituito una condizione determinativa del venir meno della legittimazione di quest’ultima ad ottenere il versamento dell’assegno di mantenimento della prole da parte del padre.

La sospensione dei termini processuali

Avverso la decisione adottata dal giudice di merito, il padre aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La sezione ordinaria della Corte investita del ricorso, valutata la questione pregiudiziale relativa alla tempestività del mezzo, aveva chiesto l’assegnazione della questione alle Sezioni Unite.

Il tema pregiudiziale prendeva avvio dal fatto che il ricorso era stato proposto diversi mesi dopo rispetto alla data di notifica dello stesso alla controparte, facendo emergere il dubbio interpretativo se “alle liti in materia di mantenimento per i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti sia applicabile, o meno, la sospensione dei termini processuali prevista dagli artt. 3 della legge n. 742 del 1969 e 92, primo comma, dell’ord. giud.”.

La sezione rimettente ha evidenziato come, la soluzione interpretativa che si intende adottare nel caso di specie è condizionata dal significato da attribuire alla locuzione “cause civili relative ad alimenti” contenuta dalla suddetta norma e relativa agli affari civili da trattare anche durante il periodo feriale, poiché sottratti alla sospensione dei termini.

Il contrasto giurisprudenziale

Invero, sull’argomento è stato registrato un contrasto giurisprudenziale in seno alla Corte stessa, a seguito di un recente intervento del Giudice di legittimità, il quale ha stabilito che, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori, non è applicabile la sospensione feriale dei termini processuali e che le stesse sarebbero pertanto assimilabili ai contenziosi in materia di alimenti non soggette alle pause processuali obbligatorie.

La Suprema Corte, nella sua massima composizione, dopo aver ripercorso gli orientamenti giurisprudenziali e la normativa di riferimento ha affermato che “Poiché l’assegno divorzile non si può equiparare all’assegno alimentare, essendo diverse la natura e le finalità proprie dei due tipi di assegno, in nessuna delle controversie concernenti l’assegno divorzile può trovare applicazione l’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale prevista dall’articolo 3 della legge n. 742 del 1969, in relazione all’articolo 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, riguardo alle cause relative agli alimenti”.

Secondo l’opposta interpretazione, invece, la normativa emergenziale, introdotta a seguito della pandemia Covid-19, avrebbe sottratto entrambe le suddette fattispecie alla sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale.

Le Sezioni Unite non hanno tuttavia condiviso tale orientamento in quanto “nell’elenco delle cause alle quali la sospensione non è applicabile non compaiono quelle relative ad alimenti”; quest’ultime, spiega la Corte, sono infatti distinte dalle cause di separazione o di divorzio, le quali certamente rispondono alle necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, ma in un’accezione più ampia da quella sottesa alla prestazione alimentare strettamente intesa.

La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione

Rispetto alle differenze sopra evidenziate, la Corte ha dunque ritenuto che la normativa emergenziale, pur facendo riferimento alle “cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile”, oltre ad avere natura transitoria era anche destinata a stabilire quali fossero le eccezioni alla generale regola della sospensione processuale durante il periodo feriale, configurandosi in questo senso come una normativa specifica e a termine con l’esclusiva finalità di tutelare la salute pubblica in un particolare momento storico.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 12946-2024, ha dunque dichiarato inammissibile il ricorso e ha rimesso gli atti alla prima sezione civile per l’esame dei singoli motivi.

Allegati

affitti brevi

Affitti brevi: la guida La normativa italiana ed europea sugli affitti brevi in Italia. Finalità ed effetti delle regole sulla gestione delle locazioni turistiche brevi

Disciplina affitti brevi in Italia

Nel panorama immobiliare italiano, gli affitti brevi hanno guadagnato un’importanza crescente negli ultimi anni, diventando una modalità di locazione sempre più apprezzata sia dai turisti che dai proprietari di immobili.

La risposta del legislatore italiano a questo fenomeno in rapida espansione si è concretizzata attraverso normative volte a fornire un quadro legale chiaro a chi desidera affittare il proprio immobile per periodi brevi.

Queste le norme di riferimento dell’ordinamento italiano per gli affitti brevi:

  • Il comma 1 dell’articolo 4 del decreto legge n. 50/2017, che definisce le locazioni brevi a uso abitativo come quelle che hanno una durata non superiore ai 30 giorni e che includono il servizio di pulizia dei locali. Il locatore è una persona fisica, che non esercita la locazione in forma di impresa e che si avvale di soggetti che svolgono attività di intermediazione immobiliare o che gestiscono portali telematici per mettere in contatto persone in cerca di un alloggio per le vacanze con chi dispone di immobili da locare per periodi brevi.
  • Il comma 2 dell’articolo 4, modificato di recente dalla legge di bilancio 2024 (legge n. 213/2023), che prevede le percentuali di imposta. Sulla proprietà del primo immobile la percentuale dell’aliquota è del 21%. Dal secondo al quarto immobile invece il locatore è gravato da un’aliquota del 26%
  • Il decreto anticipi n. 145/2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 191/2023, nel nuovo articolo 13-ter, prevede nuovi obblighi per i proprietari delle unità abitative destinate alle locazioni brevi e per i proprietari delle strutture turistico ricettive, sia alberghiere che extra-alberghiere. Gli obblighi consistono nel comunicare in modalità telematica al Ministero del Turismo i dati catastali dell’immobile locato, la presenza dei necessari requisiti tecnici di sicurezza degli impianti (per la rilevazione di gas combustibili e del monossido di carbonio) e degli estintori portatili.

Regolamento UE locazioni brevi

A livello europeo il Regolamento Europeo sulla Raccolta e sulla condivisione dei dati, che ha dato vita al Codice Unico Europeo, ha ricevuto il via libera dal Consiglio il 18 marzo 2024.

Il Regolamento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UE del 29 aprile 2024, sarà in vigore dal 20 maggio 2026.

Grazie a questa fonte sarà possibile avere una banca dati europea in cui confluiranno i dati dei locatori, degli immobili locati e delle prenotazioni.

Banca Dati unica

In attesa della Banca Dati Europea, il Ministero del Turismo ha predisposto un decreto che porterà alla creazione di una Banca Dati Unica. Il testo ha già ricevuto il parere positivo della Commissione Politiche del turismo della Conferenza delle Regioni e Province Autonome.

La fase pilota vedrà coinvolte le Regioni dotate di una tecnologia più avanzata per poi passare gradualmente alla creazione di un Registro Unico, con l’obiettivo di contrastare l’evasione fiscale e garantire la massima trasparenza.

L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza potranno effettuare i controlli necessari grazie alla possibilità di incrociare i dati e intercettare le situazioni a rischio.

Il Codice Identificativo Nazionale

Il censimento degli immobili destinati alle locazioni turistiche previsto dal decreto anticipi è finalizzato al rilascio del CIN, il Codice identificativo nazionale, che il locatore dovrà esporre all’esterno dell’immobile locato e che dovrà sempre comparire negli annunci.

Il CIN sarà fondamentale anche per l’identificazione degli immobili destinati alla locazione turistica all’interno della banca dati unica.

La piena operatività del CIN è prevista per il mese di settembre 2024, dopo che sarà operativa la Banca Dati Unica. Il Codice verrà assegnato mediante procedura telematica, come contemplata dall’art. 13 ter del DL n. 145/2023.

Il locatore di immobili destinati agli affitti brevi senza CIN sarà soggetto a una multa massima di 8.000 euro, mentre l’inserimento degli annunci senza CIN sarà punito con una sanzione fino a 5000 euro.

Normativa affitti brevi: finalità ed effetti

Le normative analizzate si pongono l’obiettivo di bilanciare le esigenze di flessibilità nel mercato degli affitti temporanei con la necessità di garantire sicurezza, trasparenza ed equità sia per i locatori che per gli inquilini.

Con la definizione di specifici obblighi fiscali e amministrativi per i proprietari, l’Italia si sta muovendo verso un sistema più organizzato, che promette di apportare benefici significativi all’economia locale, pur affrontando le sfide legate al fenomeno delle locazioni turistiche.

In questo contesto, comprendere in dettaglio le nuove disposizioni legislative è fondamentale per tutti i soggetti coinvolti, per navigare con successo nel mercato degli affitti brevi.

Nel contesto degli affitti brevi in Italia, l’arrivo della proposta europea rappresenta una svolta significativa in grado di garantire equità nel mercato, proteggere i diritti dei consumatori e assicurare condizioni di concorrenza leali tra i fornitori di alloggi.

In Italia, dove il settore degli affitti brevi è fiorente ma anche fonte di controversie, soprattutto nelle città d’arte e nelle località turistiche, la nuova normativa potrebbe avere impatti rilevanti. Gli operatori del settore dovranno adeguarsi a standard più stringenti in termini di sicurezza, trasparenza e rispetto delle normative locali, inclusi eventuali limiti agli affitti brevi imposti per preservare il tessuto residenziale.

esame avvocato

Esame avvocato L’esame avvocato si compone di fase scritta e orale e ha ad oggetto sia materie di diritto sostanziale che di diritto processuale

Esame avvocato cos’è e come funziona

L’esame avvocato è la prova necessaria ai laureati in giurisprudenza per conseguire l’abilitazione all’esercizio della professione forense.

Per parteciparvi, occorre prima aver terminato il periodo di tirocinio prescritto dalla legge presso studi legali e uffici giudiziari.

Come si svolge l’esame avvocato 2024

La disciplina dell’esame di avvocato è stata, negli anni recenti, oggetto di discussioni e modifiche, originate dal periodo emergenziale del 2020.

Quest’anno, la prova scritta dell’esame per l’abilitazione alla professione di avvocato si è svolta a dicembre, con la redazione di pareri in ambito di diritto civile e diritto penale e la redazione di un atto di diritto civile, penale o amministrativo.

Il tasso degli elaborati considerati idonei al superamento della prova scritta è stato del 55%, un dato definito “confortante” dal presidente della commissione centrale dell’esame.

La prova orale si svolge a partire dal mese di maggio 2024 ed è disciplinata sul modello dell’orale “rafforzato” proprio del periodo emergenziale, modalità di cui è caldeggiata, da parte di alcune associazioni di categoria, la riproposizione anche per l’anno a venire.

Le tre fasi della prova orale dell’esame avvocato

La prova orale dell’esame avvocato si compone di tre fasi, da svolgersi senza soluzione di continuità in un’unica seduta. La durata complessiva della prova per il candidato dev’essere al massimo pari a circa un’ora e mezzo.

La prova orale comincia con la somministrazione al candidato di un caso pratico da discutere davanti ai commissari d’esame. Attraverso la soluzione proposta dal candidato, è possibile valutare le sue conoscenze di diritto sostanziale e processuale, nella materia che quest’ultimo ha scelto prima dello svolgimento dell’esame, tra diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo.

La seconda fase consiste nel classico esame, attraverso le domande della commissione, delle conoscenze e delle capacità di esposizione da parte del candidato. Oggetto delle domande sono le materie scelte tra diritto civile, penale (anche negli aspetti processuali) e amministrativo.

Infine, al candidato dell’esame avvocato vengono sottoposti dei quesiti riguardanti l’ordinamento forense e la deontologia della professione.

L’esame è superato nel momento in cui il candidato ottenga nella prova orale un voto di almeno 105 punti, con un minimo di 18 punti in ciascuna materia (non viene, cioè, ammessa la compensazione dei punteggi per le materie in cui il candidato non ottenga almeno 18 punti).

Criteri di valutazione candidati all’esame di abilitazione avvocato

Attraverso una circolare ministeriale, sono stati chiariti anche i criteri di valutazione dell’esame avvocato, che devono essere quelli della chiarezza espositiva e della logicità dei ragionamenti, oltre alla dimostrazione da parte del candidato della concreta capacità di soluzione delle questioni giuridiche e del possesso di un’idonea conoscenza della teoria relativa agli istituti giuridici oggetto di esame.

Vengono, inoltre, ritenuti oggetto di valutazione anche la capacità di operare collegamenti interdisciplinari in occasione dell’esposizione dei vari argomenti, oltre alla necessaria capacità di sintesi.

Rapporto avvocatura 2024 Cassa Forense, in collaborazione con il Censis, ha realizzato, come ogni anno, il rapporto sull'avvocatura 2024

Rapporto avvocatura 2024: i numeri

Lieve diminuzione degli avvocati anche nel 2023 ma anche maggiore familiarità con la tecnologia e l’intelligenza artificiale, che è vista come un’opportunità e non come una minaccia. gLavorare insieme ai colleghi in studi aggregati è ritenuto utile per fare di più e meglio, ma evidenziata anche stanchezza nel rincorrere le continue riforme legislative e preoccupazione per le difficoltà causate dalla burocrazia e dal ritardo nei pagamenti dei loro compensi. Questo dicono i numeri del Rapporto sull’Avvocatura 2024, realizzato come di consueto da Cassa Forense in collaborazione con il Censis e presentato l’8 maggio scorso.

Meno avvocati iscritti alla Cassa

Entrando nel dettaglio, gli iscritti alla Cassa Forense alla data del 31 dicembre 2023 sono 236.946, uomini poco più di 125 mila e donne 111.500. Il numero scende rispetto all’anno precedente, confermando il trend (-1,3%). Permane il saldo negativo tra iscrizioni e cancellazioni: nel 2023 si registrano 8.043 avvocati in meno rispetto all’anno precedente. Le cancellazioni riguardano in particolare le donne con meno di 15 anni di anzianità di iscrizione (54,2%).

Età media avvocati in aumento

L’età media degli avvocati aumenta, è passata da 42,3 anni nel 2002 a 48,3 anni nel 2023. Il fenomeno rispecchia quello dell’invecchiamento generale della popolazione. Aumenta il numero delle giovani avvocate: tra le diverse fasce d’età, la maggior parte delle donne si trova infatti nelle fasce più giovani: il 57,5% degli avvocati sotto i 34 anni e il 55,3% tra i 35 e i 44 anni. Al contrario, più della metà degli iscritti tra i 55 e i 64 anni è composta da uomini (59,9%) come per la maggior parte degli over 65 anni (75,3%). Il più giovane iscritto alla Cassa è un praticante di 22 anni, il più anziano ha 101 anni.

Il 5,7% degli avvocati svolge la professione in monocommittenza, ossia in regime di collaborazione esclusiva. Le proposte di legge per fare decadere l’incompatibilità tra professione forense e lavoro parasubordinato, svolto in esclusiva presso uno studio legale trova il favore del 73,6% degli avvocati.

Reddito avvocati

Il reddito complessivo Irpef aumenta del 5,1%, quello medio annuo per avvocato è di 44.654 euro. Tra il reddito medio degli uomini e quello delle donne ci sono più di 30 mila euro di differenza (e sono le donne a guadagnare di meno). E’ tra le avvocate che si registra il maggior tasso di crescita, 7,1% contro il 4,2% degli uomini. Sono le professioniste tra i 35 e 39 anni di età a incrementare di più i guadagni (11,6%), seguite da quelle della fascia 40-44 anni di età (9,1%). Restano sotto la media i redditi delle donne appartenenti alle classi di età maggiore, a partire dalle professioniste con un’età fra i 45 e i 49 anni (6,2%).

Circa il 70% dei professionisti dichiara un reddito professionale complessivo inferiore a 35 mila euro. Ampia è la distanza che separa in media i redditi di chi esercita la professione nel Nord rispetto al Sud del Paese.

Dal punto di vista economico, la graduatoria per livello di reddito medio acquisito nel 2023 pone al primo posto la Lombardia, con 77.598 euro annui, dato questo che si ottiene dalla media di 45.406 euro dichiarati dalle donne avvocato lombarde e dei 112.408 euro dichiarati dai colleghi uomini.

Le controversie giudiziali rappresentano il 59,3% del fatturato complessivo. Il restante 40,8% proviene dall’attività stragiudiziale.

Avvocati e intelligenza artificiale

Gli avvocati non temono l’Intelligenza Artificiale, indicata solo dal 6% come fattore di rischio professionale ma l’eccesso di adempimenti burocratici, amministrativi e fiscali (37% tra gli uomini e 38,5% tra le donne), il ritardo dei pagamenti da parte degli assistiti (31,5% tra gli uomini e 40,4% tra le donne) e l’eccesso di offerta di servizi legali a causa dell’alto numero di avvocati che esercitano la professione (35,3% tra gli uomini e 28,3% tra le donne).

superamento prezzo medicinali

Medicinali e superamento prezzo medio europeo L'intervento della Corte Costituzionale sul regime di sorveglianza sul superamento del prezzo medio europeo

Regime sorveglianza prezzi medicinali

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 77-2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 2 dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, asseritamente tesi a fornire l’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge n. 537 del 1993 (che ha introdotto un regime di sorveglianza dei prezzi dei medicinali) e volti a incidere su giudizi di cui era parte la pubblica amministrazione anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.

Superamento media europea prezzi medicinali

Il predetto comma 12 prevedeva un intervento da parte dell’autorità preposta in caso di superamento della cosiddetta «media europea» dei prezzi dei medicinali, assumendo come parametro di riferimento il concetto del «prezzo medio europeo», la cui determinazione era rimessa al CIPE. Quest’ultimo, con la deliberazione del 25 febbraio 1994 disponeva che il prezzo medio europeo venisse determinato prendendo a riferimento i prezzi praticati da soli 4 paesi europei e che la media fosse calcolata utilizzando i tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete, come determinati annualmente dallo stesso CIPE.

La suddetta deliberazione veniva successivamente annullata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 118 del 1997, ritenendo illegittimo il criterio di determinazione del prezzo sulla base dei prezzi praticati in soli quattro paesi e con riferimento a un tasso di conversione diverso dal tasso di cambio ufficiale. Prima del passaggio in giudicato di tale decisione, con l’art. 36 della legge n. 449 del 1997 veniva introdotta una nuova disciplina del prezzo dei medicinali, che prendeva in considerazione, ai fini del calcolo del prezzo medio degli stessi, i prezzi praticati in tutti i paesi dell’Unione europea, con applicazione dei tassi di cambio ufficiali, rimettendo al CIPE di provvedere alla definizione di nuovi criteri per il calcolo del prezzo medio europeo.

Con i primi due commi dello stesso articolo veniva, inoltre, disciplinato in via transitoria – nelle more dell’adozione della nuova deliberazione da parte del CIPE – il regime dei prezzi dei medicinali, disponendo una sanatoria della precedente disciplina prevista dal citato comma 12.

Efficacia retroattiva

La Consulta ha affermato che i suddetti primi due commi dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, asseritamente tesi a fornire l’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge n. 537 del 1993, erano invece volti a incidere su giudizi di cui era parte la pubblica amministrazione, al fine di condizionarne l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.

Nell’accogliere le questioni sollevate, il giudice delle leggi ha richiamato la propria precedente giurisprudenza sulla centralità del principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, con la conseguente necessità che una norma avente comunque efficacia retroattiva sia sottoposta ad uno scrutinio particolarmente rigoroso; e ciò tanto più se l’intervento legislativo retroattivo incide su giudizi ancora in corso, in cui per giunta sia coinvolta un’amministrazione pubblica.

Nel caso esaminato dalla Corte, l’uso improprio della funzione legislativa – tale perché esercitata allo scopo di influire sul contenzioso in corso, vanificandone, nelle intenzioni, gli effetti sfavorevoli – “è affermato sulla base di due significative circostanze, l’una attinente alla complessiva vicenda processuale, l’altra concernente la stessa portata normativa dell’intervento. Sul piano della vicenda processuale, è stata ritenuta significativa la tempistica dell’intervento legislativo, collocato a ben quattro anni di distanza dalla disposizione oggetto della presunta interpretazione, quando era già in corso un nutrito contenzioso, alimentato da trentanove aziende farmaceutiche, che aveva dato luogo all’annullamento, con sentenza n. 118 del 1997 del Consiglio di Stato, della deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994”.

Il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. proposto dall’Avvocatura generale dello Stato aveva impedito il passaggio in giudicato della predetta sentenza posta dalla parte privata a fondamento della pretesa risarcitoria nel giudizio a quo e dai lavori preparatori non era possibile evincere ragioni giustificatrici dell’intervento legislativo retroattivo diverse dall’esigenza di “sterilizzare” gli effetti della predetta sentenza del Consiglio di Stato allo scopo di evitare future azioni di risarcimento dei danni. Sul piano sostanziale, infine, è stato sottolineato che il legislatore, nel disciplinare pro futuro la determinazione dei prezzi dei farmaci, con il comma 3 del medesimo art. 36 della legge n. 449 del 1997 ha delineato un sistema esattamente conforme a quanto deciso con la sentenza n. 118 del 1997.

Allegati

visura catastale e ispezione ipotecaria

Visura catastale e ispezione ipotecaria online L'Agenzia delle Entrate ha reso disponibili i servizi a pagamento della visura catastale e dell'ispezione ipotecaria online

Visura catastale e ispezione ipotecaria a pagamento

I servizi a pagamento “Visura catastale” e “Ispezione Ipotecaria” offerti dall’Agenzia delle Entrate a pagamento sono disponibili nell’area riservata del sito, previa autenticazione con le credenziali Spid, Cie o Cns. Per raggiungere i servizi all’interno dell’area riservata basta selezionare dal menù “Servizi” la voce “Consultazioni visure, planimetrie e ispezioni ipotecarie degli immobili”.

Visura catastale online

La visura catastale, si ricorda, permette la consultazione degli atti e dei documenti catastali consentendo di acquisire i dati identificativi e reddituali degli immobili, i dati anagrafici delle persone intestatarie, i dati grafici dei terreni e l’elaborato planimetrico. Sul sito dell’Agenzia delle Entrate è possibile richiedere visure attuali e visure storiche in due formati differenti: analitico e sintetico.

Il servizio di visura catastale online consente l’accesso alla banca dati catastale e ipotecaria relativamente agli immobili di cui il soggetto richiedente risulti titolare, anche per quota, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento e ottenere a titolo gratuito e in esenzione da tributi, su file in formato pdf, visure attuali e storiche dell’unità immobiliare, visure della mappa, visure planimetriche e ispezioni ipotecarie.

Il servizio di Visura catastale telematica consente l’accesso telematico alle banche dati catastali anche se il richiedente non è titolare neanche in parte dell’immobile.

In tal caso, la visura erogata è un servizio a pagamento, il cui costo è calcolato applicando la tariffa vigente diminuita del 10 per cento, perché riferita a visure erogate per via telematica , e aumentata del 50 per cento, trattandosi di visure fornite non su base convenzionale. In particolare, nel caso di

  • visura per soggetto, l’importo è di 1,35 euro per ogni 10 unità immobiliari, o frazione di 10
  • visura, attuale o storica, per immobile, l’importo è di 1,35 euro
  • visura della mappa, l’importo è di 1,35 euro.

Il pagamento, contestuale alla richiesta del servizio, è effettuato attraverso il sistema pagoPA e le commissioni applicate sono variabili in base al Prestatore di Servizi di Pagamento (PSP) e allo strumento di pagamento scelto.
I documenti richiesti sono disponibili fino a 10 giorni dal pagamento. Trascorso questo tempo, non sarà più possibile visualizzarli e prelevarli.

Anche per utilizzare tale servizio, specifica l’agenzia, è necessario effettuare l’accesso ai servizi online dell’Agenzia tramite un’identità SPID, una Carta di identità elettronica (CIE) o una Carta Nazionale dei Servizi (CNS).

Ispezione ipotecaria online

L’ispezione ipotecaria consente di consultare registri, note e titoli depositati presso i Servizi di pubblicità immobiliare dell’Agenzia.  L’ispezione può riguardare ogni nominativo censito e viene richiesta presso gli uffici provinciali – Territorio (con esclusione delle sedi di Trento, Bolzano, Trieste e Gorizia nelle quali vige il sistema del libro fondiario).

In alternativa è possibile utilizzare il servizio online, limitatamente alle informazioni archiviate in formato elettronico. In particolare, è possibile ispezionare telematicamente, oltre a tutte le note di trascrizione ed iscrizione e le domande di annotazione presentate dall’inizio del periodo informatizzato (data variabile da ufficio a ufficio), anche le note di trascrizione cartacee recuperate e disponibili in formato immagine.

Con il servizio telematico “Consultazione personale” è possibile consultare la banca dati ipotecaria, a titolo gratuito e in esenzione da tributi, relativamente agli immobili di cui il soggetto richiedente risulti titolare, anche per quota, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento.

Il servizio di Ispezione ipotecaria telematica consente l’accesso telematico alle banche dati ipotecarie anche se il richiedente non è titolare neanche in parte dell’immobile. Anche in questo caso, il servizio è disponibile previo pagamento. Il costo è calcolato applicando la tariffa vigente diminuita del 10 per cento, perché riferita a ispezioni erogate per via telematica (tabella tasse ipotecarie – pdf), e aumentata del 50 per cento, trattandosi di ispezioni fornite non su base convenzionale.
Pertanto, per ogni nominativo e per ogni immobile oggetto della ricerca sono dovuti 9,45 euro. Se nell’elenco sintetico relativo al soggetto sono presenti più di 30 formalità, sono corrisposti ulteriori 4,73 euro per ogni gruppo di 15 formalità.

Per ogni formalità consultata sono dovuti 5,40 euro.

Per utilizzare il servizio, è sempre necessario effettuare l’accesso ai servizi online dell’Agenzia tramite un’identità SPID, una Carta di identità elettronica (CIE) o una Carta Nazionale dei Servizi (CNS).

videosorveglianza condominio

Videosorveglianza in condominio Le regole da rispettare per l'installazione di un impianto di videosorveglianza in condominio

La delibera assembleare

Con la legge n. 220/2012 (riforma del condominio), è stato introdotto l’art. 1122 ter c.c., secondo cui “le deliberazioni concernenti l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 c.c.”, ossia la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.

Premesso che, secondo il GDPR artt. 5 e 6,  l’autorizzazione al trattamento dei dati o è concessa direttamente dalla legge ovvero vi è il consenso dell’interessato, la fonte normativa di cui all’art. 1122 ter c.c. stabilisce che per poter trattare i dati ( e per dati occorre intendere anche le immagini in quanto loro mezzo è possibile identificare inequivocabilmente una singola persona)) a mezzo l’installazione di un impianto di sorveglianza occorre una delibera assembleare assunta con la maggioranza di cui all’art. 1136 II comma c.c. Quest’ultima  (la delibera) funge quindi da fonte della legittimazione all’installazione concretizzando il consenso specificatamente richiesto.  In mancanza, il trattamento deve ritenersi illecito. (E’ quanto ha deciso il Garante con il provvedimento del 16 dicembre 2023 ritenendo illecita l’installazione di telecamere in un condominio in mancanza di autorizzazione assembleare e conseguentemente ha qualificato come titolare l’amministratore e come tale gli ha irrogato la sanzione di € 1.000,00).

I requisiti della delibera

L’analisi di quale sia la corretta procedura per l’installazione delle telecamere in un condominio non può non tenere contro oltre che del dato normativo del codice civile e del cd. GDPR (D.Lgs. n. 679/2016) anche dell’analisi dei casi fatta dalla giurisprudenza e delle elaborazioni e provvedimenti del Garante.

Ciò posto, la prima considerazione a farsi è quella relative alle esigenze ed ai diritti che in tale fattispecie debbono porsi in correlazione:

  • da un lato la tutela del patrimonio, dei beni e della proprietà condominiale, nonché la tutela dell’integrità fisica delle persone e,
  • dall’altro, al diritto della riservatezza, alla difesa della vita privata (vedi articolo 8 Convenzione europea diritti dell’uomo) ed alla protezione dei dati personali.

ll dibattito si è sempre sviluppato, pertanto lungo la direttiva delle condizioni di liceità dell’installazione di tali impianti, in relazione alle finalità di protezione della compagine condominiale, nel rispetto del diritto alla riservatezza.

A dirla con la Suprema Corte (Cass. Ord. n. 14969 del 11 maggio 2022) l’installazione di questi impianti “è ammissibile solo in relazione all’esigenza di preservare la sicurezza di persona e la tutela di beni da concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da illeciti già verificatisi”. Né “deve avere una funzione meramente sostitutiva rispetto ad altre misure di norma utilizzate per preservare la sicurezza delle persone e dei beni con valutazione da eseguire in base agli elementi specifici di ciascuna situazione”.

In virtù di detti presupposti la delibera in questione è da definirsi a contenuto vincolato. Nel senso che essa dovrà necessariamente prevedere:

  • L’autorizzazione all’installazione delle telecamere per il controllo dei soli spazi comuni
  • Modalità e finalità del trattamento

In pratica nella stessa delibera di autorizzazione occorrerà prendere posizione indicando preliminarmente le finalità del trattamento (che possono riassumersi nella tutela del patrimonio comune e anche della singola proprietà da atti vandalici e da furti oltre che della tutela dei condomini da atti lesivi della persona fisica e di rapina, ecc.), ma occorrerà anche dare atto concretamente di precedenti specifici che giustificano il ricorso alla detta installazione di telecamere.

  • Tempi di conservazione delle immagini

Usualmente tra le 24 e le 48 ore salvo necessità specifiche da indicarsi e giammai in maniera superiore ai 7 giorni. Oltre i quali è necessaria l’autorizzazione del Garante.

  • Individuazione dei soggetti autorizzati alla loro visione

La detta delibera dovrà altresì indicare il responsabile dei dati. Usualmente l’amministratore cui dovrà essere però conferito apposito incarico. In maniera da renderlo “responsabile”.

Anche nel caso di nomina di una ditta esterna specializzata nel trattamento dei dati come responsabile occorrerà che l’assemblea autorizzi espressamente l’amministratore a detta nomina del responsabile esterno ai sensi e conformemente a quanto disposto dall’art. 28 del GDPR dovrà essere indicato un soggetto che presenti garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del Regolamento e garantisca la tutela dei diritti degli interessati.

  • Le telecamere

Tutto ciò non sarà sufficiente, però, qualora il condominio (in viste di datore di lavoro) sia parte di un rapporto di lavoro subordinato con un dipendente (portiere, custode, giardiniere, etc.). In questi casi, infatti, occorrerà tener conto del particolare status di contraente debole, caratteristico del dipendente. A questo proposito, è opportuno, preliminarmente, precisare che, in presenza di un dipendente del condominio, prima di procedere alla deliberata installazione, prima di procedere alla deliberata installazione occorrerà presentare anche l’istanza per l’autorizzazione dell’installazione dell’impianto all’ispettorato del lavoro territorialmente competente, ai sensi dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (producendo una relazione ove saranno indicati i motivi di sicurezza che hanno indotto alla richiesta di installazione dell’impianto).

Tra l’altro, lo stesso Statuto dei lavoratori, prevede che “il mancato rispetto della norma in materia di videosorveglianza, è punito con ammenda da euro 154 a euro 1540, o l’arresto da 15 gg ad un anno”.

Sul punto, è intervenuta la Corte di Cassazione precisando, con sentenza n. 38882/2018, che non è sufficiente il consenso prestato dal lavoratore in condominio, essendo necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Sul punto si rinvia ad una più ampia disamina che di seguito si pubblica.

Impianto di videosorveglianza: le regole da seguire

Ad ogni modo, una volta installato correttamente l’impianto di videosorveglianza, sarà necessario rispettare alcune regole fondamentali, anche alla luce della normativa Europea in materia di protezione dei dati.

La prima regola da seguire riguarda l’obbligo di segnalare la presenza dell’impianto. E’ necessario, infatti, segnalare la presenza di telecamere con appositi cartelli ed è necessario farlo subito prima dell’accesso all’area ripresa (quindi apporre il cartello sul cancello o portone di ingresso al fabbricato). Trattasi della cd. informativa di primo livello. Poi sul cartello si darà atto che la più estesa informativa (di secondo livello) contenente anche la specifica dei diritti dell’interessato può essere visionata presso lo studio dell’amministratore o richiesta direttamente in copia allo stesso.

Secondo le linee guida del Garante per la protezione dei dati personali, nonché del Comitato Europeo per la protezione dei dati in merito al trattamento dei dati personali effettuato tramite dispositivi video, questo adempimento equivale ad informare, ai sensi degli artt. 13 e 14 del GDPR ed in quanto tale il cartello esposto dovrà indicare una serie di elementi volti a fornire informazioni precise a chi accede all’edificio ed in particolare:

  • nominativo e dati di contatto del Responsabile del trattamento dei dati;
  • finalità del trattamento dei dati;
  • periodo di conservazione dei dati;
  • indicazione dei diritti degli interessati anche con rinvio ad un’informazione di secondo livello.

La seconda regola riguarda la corretta impostazione dell’impianto ed in particolare il suo angolo di campo. Infatti l’impianto dovrà inquadrare esclusivamente le aree comuni dell’edificio (accessi all’edificio, garage, giardini, pianerottoli, ecc.) e le aree pertinenti l’edificio stesso in cui è installato. In questo senso, laddove vi sia una ditta esterna che si è occupata dell’installazione, dovrà assicurare che sia rispettato questo adempimento per evitare la ripresa dei luoghi circostanti e di particolari che non sono rilevanti (strade pubbliche, edifici circostanti, esercizi commerciali, ecc.) in modo da evitare che il titolare del trattamento possa incorrere in sanzioni.

Discorso non diverso vale anche per la videosorveglianza privata, che (anche in assenza di specifico cartello-informativa) deve comunque avere un angolo visuale diretto a non oltrepassare la linea di confine con l’abitazione altrui (configurandosi altrimenti il reato di intrusione illecita nella vita privata altrui, sanzionabile ai sensi dell’art. 615 c.p.).

Sul punto, la Corte di Cassazione già nel 2006 precisò che l’impianto di videosorveglianza installato ad uso esclusivo del singolo condomino all’ interno della sua proprietà, ma con angolo visuale diretto alle aree condominiali antistanti all’ingresso della proprietà privata, non integrerà il reato di cui all’art. 615 c.p. essendo tali aree destinate all’utilizzo da parte di un numero indifferenziato di persone, dovendosi in ogni caso rispettare i limiti previsti in materia di impianti di videosorveglianza condominiali.

La terza regola riguarda, invece, i tempi di conservazione delle immagini: in questo caso, in assenza di riferimenti normativi, il Garante per la protezione dei dati personali ha precisato che le immagini non potranno essere conversate più a lungo di quanto necessario per le finalità per le quali sono acquisite (in funzione del principio di minimizzazione dei dati) ed ha indicato un termine limite di 24/48 ore. Chiaramente questo riferimento temporale vale per quegli impianti che effettuano registrazioni e che nella maggior parte dei casi presentano al loro interno una scatola nera per la cancellazione automatica delle stesse al termine indicato; diversamente, nel caso di impianti che effettuano solo monitoraggio in tempo reale, non sarà necessaria alcuna indicazione del relativo periodo temporale.

Qualora, nel caso di conclamate esigenze di sicurezza, il titolare del trattamento volesse prolungare i tempi di conservazione delle immagini, in alcun caso potrà farlo arbitrariamente, essendo in tal senso necessario inoltrare un’istanza al garante per la protezione dei dati agli indirizzi: mail: protocollo@garanteprotezionedeidatipersonali.it pec: protocollo@pec.garanteprotezionedeidatipersonali.it., indicando oltre ai motivi specifici e i rischi reali che giustifichino richiesta, anche una documentazione che possa descrivere il luogo in esame, allegando se necessario una piantina planimetrica e i relativi supporti fotografici. Ricevuta la richiesta, il Garante procederà ad una verifica preliminare ed entro un termine di 180 giorni, a seconda delle valutazioni effettuate, concederà o negherà il prolungamento dei tempi di conservazione delle immagini.

Accesso alle informazioni

Infine, una domanda: qualora il singolo condomino voglia accedere alle registrazioni, cosa dovrà fare?

E’ sicuramente diritto del condomino chiedere di visionare le registrazioni, ma in tal senso sarà necessario rispettare alcune condizioni:

  1. sussistenza di una circostanza grave (furto, rapina, danneggiamento, etc.) che riguardi la proprietà privata o le parti comuni dell’edificio;
  2. presentazione di specifica denuncia alle autorità competenti;
  3. formulazione di richiesta scritta rivolta all’amministrazione (a mezzo raccomandata a/r o pec), allegando copia della relativa denuncia.

Nella richiesta, oltre alle generalità dell’interessato e ad una breve descrizione dell’accaduto, sarà necessario indicare almeno orientativamente il giorno e la fascia oraria in cui è avvenuto il fatto. Ciò in quanto, oltre ad agevolare le indagini per le autorità competenti, tale indicazione consentirà di rispettare in pieno il principio di minimizzazione dei dati, per cui si accederà soltanto al frame relativo al giorno e ora indicati, con oscuramento delle restanti immagini.

Videosorveglianza in presenza del dipendente

L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori Legge n. 300 del 1970 – Titolo I – Della libertà e dignità del lavoratore recita:

  1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.
  2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
  3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Obblighi normativi e esclusioni

L’obbligo normativo sorge nel momento in cui il datore di lavoro intende installare un impianto audiovisivo o delle telecamere ed abbia dei dipendenti. Il comma secondo del novellato articolo quattro della legge numero 300 del 1970 esclude, invece, l’applicabilità del comma uno: quindi della necessità di autorizzazione ministeriale o accordo sindacale agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

Vi è poi la circolare numero 2 del 7 novembre 2016 dell’Istituto nazionale del lavoro la quale ha precisato che possono considerarsi strumenti di lavoro gli apparecchi, i dispositivi e gli apparati di congegni che costituiscono un mezzo indispensabile al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa in contratto e che per tale finalità siano stati posti in uso o messi a sua disposizione.

Analogamente, il Garante della privacy con verifica preliminare del 16 Marzo 2017 documento web 8163433, in linea con l’ispettorato, ha confermato che gli strumenti di lavoro sono tutti quei dispositivi utilizzati in via primaria ed essenziale per l’esecuzione dell’attività lavorativa ovvero direttamente preordinate all’esecuzione della prestazione lavorativa.

Per ciò che riguarda il concetto di personale dipendente si deve ritenere che la norma fa riferimento ad attività lavorativa subordinata e che pertanto non troverà applicazione in tutti gli altri casi.

La procedura

L’istanza per il rilascio dell’autorizzazione può essere presentata compilando il modulo predisposto dall’ispettorato del lavoro che è reperibile sul suo sito Internet alla voce “modulistica”.

Va presentata in marca da bollo da euro 16 con allegato un’ulteriore marca da bollo da euro 16 per il provvedimento di autorizzazione. Il modello debitamente compilato e firmato può essere inoltrato all’ufficio anche tramite pec. In questo caso il bollo sarà assolto per via telematica. A tal fine nel sito istituzionale è predisposto il modulo della dichiarazione sostitutiva della marca da bollo. Il datore di lavoro provvede ad inserire nella domanda i numeri identificativi delle marche da bollo utilizzate nonché ad annullare le stesse conservando gli originali.

L’istanza deve necessariamente contenere:

  1. i dati identificativi della ditta e del rappresentante legale con l’indicazione di quanti dipendenti vi sono nonchè la descrizione puntuale dell’attività aziendale;
  2. specifica indicazione delle esigenze che motivano la richiesta con la descrizione delle finalità che si intendono perseguire;
  3. ampiezza aziendale e indicazione della presenza o meno delle rappresentanze sindacali aziendali o delle rappresentanze sindacali unitarie nell’unità locale.

La dichiarazione è sottoscritta dal legale rappresentante che si impegna:

  1. ad installare l’impianto in modo da non ledere la privacy del dipendente e dunque a non posizionare le telecamere in luoghi riservati bagni o spogliatoi né riprendere il posto di lavoro (in condominio si pensi alla guardiola del portiere);
  2. a che le immagini siano custodite in modo da assicurarne la riservatezza al fine di escludere l’acquisizione delle stesse da parte di soggetti non autorizzati o che vengano diffuse all’esterno;
  3. è inoltre essenziale che venga data adeguata informazione ai dipendenti e venga data adeguata pubblicità nei locali aziendali anche ai soggetti terzi di trovarsi in area sottoposta a videosorveglianza.

All’istanza così compilata va allegata:

  • una relazione illustrativa delle esigenze di carattere organizzativo, produttivo, di sicurezza o di tutela del patrimonio poste a fondamento dell’istanza;
  • una relazione tecnica relativa alla specificazione delle modalità di funzionamento dell’impianto allegando schede tecniche dell’impianto monitor telecamere e del DVR,  non è più richiesta invece la planimetria dell’azienda con l’esatto collocamento delle telecamere nè è più necessario indicarne il numero.

Qualora la distanza presentata non sia completa l’ufficio procede a richiedere formalmente la documentazione al datore di lavoro dando un termine per l’integrazione. Decorso inutilmente il termine, la richiesta sarà rigettata. L’ufficio segue una consolidata prassi operativa che può prevedere anche un sopralluogo per verificare lo stato dei luoghi al fine di valutare la sussistenza delle ragioni tecniche produttive che possano giustificare l’installazione dell’impianto e verificare che le telecamere non riprendano postazioni fisse di lavoro.

Le sanzioni e il ravvedimento

Nel caso di violazione dell’articolo quattro dello statuto dei lavoratori l’ufficio ordina la cessazione della condotta criminosa ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo numero 758 del 1994 e contemporaneamente dà notizia di reato alla Procura della Repubblica a carico del legale rappresentante dell’azienda.

All’interno del verbale di prescrizione il funzionario deve indicare un termine congruo entro il quale l’impianto va disinstallato. Il datore di lavoro è ammesso al pagamento di una sanzione minima qualora entro il termine concesso per la disinstallazione ottenga la prevista autorizzazione dall’ufficio competente o raggiunga l’accordo sindacale. In tale ipotesi vengono meno i presupposti dell’illecito per cui l’ispettore lo ammette al pagamento in sede amministrativa di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa (euro 387,00)  entro 30 giorni ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo n. 758 del 1994.  Il pagamento della sanzione amministrativa comporta l’estinzione del reato e di conseguenza la comunicazione alla Procura della Repubblica che il soggetto ha ottemperato alla prescrizione con conseguente richiesta di archiviazione del procedimento penale.

La fase della progettazione

Con l’espressione inglese Data Protection by default and by design si fa riferimento alla necessità di configurare il trattamento prevedendo fin dall’inizio le garanzie indispensabili al fine di soddisfare i requisiti del regolamento e tutelare i diritti degli interessati tenendo conto del contesto complessivo in cui il trattamento si colloca e dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati.

Tutto questo deve avvenire prima di procedere al trattamento dei dati veri e propri secondo quanto afferma l’articolo 25 del Regolamento.  Si richiede pertanto un’analisi preventiva e un impegno applicativo da parte dei titolari che devono sostanziarsi in una serie di attività specifiche e dimostrabili. In altri termini secondo l’articolo il Titolare del trattamento deve mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate sia al momento della progettazione sia nella fase di trattamento vera e propria della rilevazione o registrazione delle immagini. Ciò affinché il trattamento dei dati sia conforme ai principi basi della disciplina in tema di protezione dei dati. Ciò significa che caso per caso il titolare anche con l’aiuto di un esperto dovrà valutare la necessità o meno di predisporre la cd. Valutazione d’impatto DPIA.

Infatti, l’articolo 5 paragrafo uno lettera F del regolamento impone il principio di integrità e riservatezza ai sensi del quale i dati personali sono trattati in maniera da garantire loro un’adeguata sicurezza a mezzo la protezione mediante misure tecniche organizzative adeguate onde evitare:

  1. trattamenti non autorizzati o illeciti;
  2. la perdita o la distruzione;
  3. il danno accidentale.

Nel valutare l’adeguato livello di sicurezza si tiene conto in special modo dei rischi presentati dal trattamento che derivano in particolare dalla distruzione, dalla perdita, dalla modifica, dalla divulgazione non autorizzata, dall’accesso in modo accidentale o illegale a dati personali trasmessi conservati o comunque trattati.

Rispetto al citato quadro giuridico è necessario porre in essere accorgimenti necessari a consentire la continuità su base permanente e il ripristino della disponibilità dei dati personali eventualmente sottratti.

Le tecniche in grado di assicurare l’ identificabilità degli interessati ai quali i dati personali trattati si riferiscono per limitare il rischio della loro consultazione da parte di soggetti non autorizzati come la pseudonomizzazione o la cifratura dei dati,  procedure idonee ad attestare,  verificare e valutare regolarmente l’efficacia delle misure tecniche organizzative al fine di garantire la sicurezza del trattamento.