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Sindacato giudice amministrativo e potere discrezionale della PA Qual è l’ambito del sindacato del G.A. nelle ipotesi di potere discrezionale tecnico dell’Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. – Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624.

Con la presente pronuncia il Consiglio di Stato torna ad occuparsi dell’ambito del sindacato del G.A. nelle ipotesi di esercizio del potere discrezionale tecnico da parte dell’Amministrazione.

Primariamente i Giudici affermano che, a differenza delle scelte politico-amministrative (cd. discrezionalità amministrativa) – dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ragionevole ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme – le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (cd. discrezionalità tecnica) vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della attendibilità tecnico-scientifica.

In alcune ipotesi normative, il fatto complesso viene preso in considerazione nella sua dimensione oggettiva di fatto “storico”: qui gli elementi descrittivi della fattispecie, anche quelli valutativi e complessi, vanno accertati in via diretta dal giudice amministrativo, in quanto la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati costituisce un’attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa (come avviene, ad esempio, nel caso di sanzioni amministrative punitive dove, in virtù del principio di stretta legalità, spetta al giudice estrapolare la norma “incriminatrice” dalla disposizione). In altre parole, invece, la fattispecie normativa considera gli elementi che rinviano a nozioni scientifiche e tecniche controvertibili o non scientificamente verificabili, non come fatto “storico” (nel senso sopra precisato), bensì come fatto “mediato” dalla valutazione casistica e concreta delegata all’Amministrazione. In quest’ultimo caso, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Infine, la Corte afferma che allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato – oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica e gli indici di eccesso di potere – contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2022, n. 3570;
Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990
Difformi:      Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2022, n. 2697; Id., 27 gennaio 2022, n. 563;
Id., 11 gennaio 2022, n. 81
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Sfruttamento dei lavoratori e confisca del profitto In base a quali parametri si valuta l’applicazione della confisca del profitto derivante dal delitto di cui all’art. 603bis del Codice Penale in tema di illecito sfruttamento dei lavoratori?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il reato di sfruttamento dei lavoratori costituisce un cd. “reato contratto” (e non “in contratto”), trattandosi di un rapporto di lavoro intrinsecamente illecito (come tale nullo e non semplicemente annullabile), con la conseguenza che, nella specie, deve trovare applicazione il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui dal profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto di lavoro illecito. – Cass. pen., sez. IV, 16 novembre 2022, n. 43470.

Il delitto di cui all’art. 603bis cod. pen. punisce le condotte, distorsive del mercato del lavoro, di reclutamento e intermediazione, le quali, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, sono caratterizzate dallo sfruttamento di questi ultimi anche mediante violenza o minaccia.

Avendo come obiettivo politico-criminale la repressione del fenomeno del “caporalato”, la norma colpisce il “reclutamento”, ossia il complesso delle operazioni con le quali si provvede alla selezione di manodopera lavorativa. Il reclutatore sanzionato, id est il caporale, svolge un’attività di vera e propria intermediazione fra i prestatori d’opera e il datore di lavoro. A connotare la condotta criminosa è l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, scegliendo per la raccolta dei prodotti agricoli nelle campagne sia immigrati talvolta irregolari sia cittadini con difficoltà economiche.

Sono molteplici gli indici presuntivi dello sfruttamento fissati dalla disposizione: sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o sproporzionato rispetto a quantità e qualità del lavoro svolto; reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, riposo settimanale e ferie; inosservanza della normativa in materia di sicurezza e igiene; sottoposizione del lavoratore a condizioni particolarmente degradanti e metodi di sorveglianza.

Costituiscono, inoltre, aggravanti: il reclutamento di un numero di lavoratori superiore a tre; l’età non lavorativa dei soggetti; l’esposizione dei lavoratori a grave pericolo.

Si evince dai tratti qualificanti della fattispecie delittuosa che si tratta di un “reato contratto” in cui il “pactum sceleris” è penalmente stigmatizzato: il disvalore è concentrato sulla conclusione del contratto. Non può, dunque, rientrare nella categoria dei “reati in contratto” in cui la legge sanziona non il fatto dell’accordo, bensì il comportamento violento o fraudolento, tenuto dal reo durante la stipulazione del contratto.

Con riferimento al profitto del reato, occorre innanzitutto chiarire che esso va inteso quale “vantaggio di natura economica”, “beneficio aggiunto di natura patrimoniale, “utile conseguito dall’autore del reato in seguito alla commissione del reato”.

Per consolidata giurisprudenza, la confisca del profitto, la quale risponde a esigenze di giustizia e di prevenzione generale e speciale, può essere applicata in base al criterio discretivo della pertinenzialità al reato del profitto stesso e non, invece, secondo parametri valutativi di tipo aziendalistico.

I giudici di legittimità hanno tracciato una distinzione marcata fra profitto conseguente a un “reato contratto” e quello derivante da un “reato in contratto”.

Nel caso del profitto afferente a un “reato contratto”, qual è l’art. 603bis cod. pen., “si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca”.

Nella diversa ipotesi del profitto del “reato in contratto”, si è stabilito invece che “è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, adita con ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame, ha annullato tale provvedimento con cui il profitto confiscabile del reato di cui all’art. 603bis cod. pen. è stato calcolato tenendo conto della nozione aziendalistica di profitto netto. Il giudice del riesame, dall’importo complessivo dei vantaggi economico-patrimoniali derivanti dal delitto commesso da un imprenditore agricolo ha, infatti, detratto l’importo totale dei presunti costi sostenuti per la retribuzione dei lavoratori assunti illecitamente.

Sicché, il Tribunale del riesame dovrà attenersi ai principi di diritto indicati dai giudici di legittimità nella determinazione del profitto confiscabile: “il profitto derivante dall’illecito sfruttamento dei lavoratori è conseguenza immediata e diretta del reato ed è, pertanto, interamente assoggettabile a confisca, indipendentemente dai costi sostenuti per la consumazione del reato, per definizione estranei alla nozione (penalistica e non aziendalistica) di profitto che qui rileva”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988; Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008, n. 26654; Cass. pen., S.U., 24 maggio 2004, n. 29951; Cass. pen., S.U., 25 ottobre 2005, n. 41936
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Concorso anomalo nel furto e rapina impropria Come si atteggia il concorso anomalo rispetto al furto che si sviluppa nella rapina impropria?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

L’eventuale uso di violenza o minaccia da parte di uno dei concorrenti nel reato di furto per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità costituisce il diverso reato di rapina quale logico e prevedibile sviluppo della condotta finalizzata alla commissione del furto, avendo il reo, unitamente al proprio complice, usato un’energia fisica che ha limitato la persona offesa nei propri movimenti, consentendo – quale effetto – l’impossessamento definitivo del bene alla medesima sottratto. – Cass. pen., sez. II, 15 novembre 2022, n. 43424.

Nel concorso anomalo, disciplinato dall’art. 116 del Codice penale, taluno dei concorrenti, nell’eseguire un programma criminoso o un accordo, pone in essere un reato differente da quello concordato o voluto dagli altri correi.

Dalla norma si evincono due profili. Da un lato, emergono la consapevolezza e la volontà di concorrere con altri nella realizzazione del reato che era oggetto dell’accordo; non si configura, quindi, responsabilità qualora il concorrente versi in errore sul fatto rispetto al reato stabilito inizialmente. Dall’altro lato, sussiste il nesso di causalità tra la condotta attiva od omissiva e il differente reato realizzato.

È stata, peraltro, superata quella parte di dottrina che inquadrava il concorso anomalo nell’alveo della responsabilità oggettiva, secondo cui si estendeva al concorrente la responsabilità a titolo di dolo per il reato non voluto sulla base del solo nesso materiale tra l’azione od omissione del soggetto che volle il reato meno grave e l’evento diverso posto in essere da un altro concorrente.

La tesi prevalente, al contrario, afferma che la norma in esame risponde al principio di colpevolezza in ragione della causalità psichica, la quale giustifica l’imputazione del reato diverso a coloro che non lo vollero. Si tratta di un requisito che non si ricava dalla formulazione letterale della disposizione, poiché è stato introdotto in via interpretativa.

In particolare, l’adesione psichica va intesa quale nesso psicologico in termini di prevedibilità del più grave reato commesso da parte del compartecipe: nella psiche dell’agente, cioè, il reato diverso e più grave può astrattamente rappresentarsi come sviluppo logicamente e concretamente prevedibile di quello voluto.

Occorre, pertanto, valutare la prevedibilità in concreto dell’evento diverso non voluto attraverso un giudizio ex post che analizzi sia le modalità concrete ed effettive di esecuzione del reato sia altre circostanze del fatto ritenute rilevanti. In tale prospettiva, la responsabilità è qualificata come “anomala”, in quanto il ricorrente è chiamato a rispondere a titolo di dolo sulla base di un atteggiamento che viene ricostruito come colposo.

Con riferimento alla rapina impropria di cui al comma 2 dell’art. 628 cod. pen., l’agente, immediatamente dopo la sottrazione della res, adopera la violenza o la minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso del bene sottratto o per procurare l’impunità a sé o ad altri.

Si osserva che la violenza o la minaccia possono essere esercitate sia contro la vittima sia contro un terzo che comunque potrebbe determinare la perdita del possesso della cosa sottratta, come ad esempio gli agenti della forza pubblica. Il requisito della immediatezza della violenza e della minaccia, inoltre, non va interpretato in senso rigorosamente letterale, senza l’intercorrere di alcun lasso di tempo, bensì come uno stretto legame psicologico e temporale. Infine, al concetto di impunità va attribuito un significato ampio, tale da comprendere l’attività volta a sottrarsi a tutte le conseguenze penali e processuali del reato commesso.

Nel caso di specie, l’agente, in concorso con persona rimasta ignota, immediatamente dopo aver sottratto un autocarro, speronava sia il veicolo della persona offesa sia l’auto di servizio della Polizia di Stato per assicurarsi il possesso della cosa sottratta e l’impunità. In particolare, per le circostanze di tempo e di luogo e in relazione al principio dell’id quod plerumque accidit, per i due correi risultava prevedibile l’inseguimento scaturito dal furto dell’autocarro, poiché era altamente probabile che sarebbero accorsi vigilanti o forze dell’ordine.

Sicché, la Corte di Cassazione ha statuito che il soggetto “quand’anche non avesse in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto tranquillamente rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 2016, n. 45446, Di Pasquale, rv. 268564;
Cass. pen., sez. II, 18 giugno 2013, n. 32644, Alic, rv. 256841;
Cass. pen., sez. II, 3 gennaio 2018, n. 49443, Jamarishvili, rv. 274467;
Cass. pen., sez. V, 18 novembre 2020, n. 306, rv. 280489;
Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2011, n. 4330, n. 2012, Camko, rv. 251849
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Turbata libertà incanti e bando di gara Il delitto di turbata libertà degli incanti presuppone il condizionamento del contenuto del bando di gara?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il delitto di cui all’art. 353 c.p. non richiede che “il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo, attraverso l’alterazione o lo sviamento del suo regolare svolgimento, e con la presenza di un dolo specifico qualificato dal fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione”. – Cass., sez. VI, 28 ottobre 2022, n. 41094.

Nel caso in esame, gli imputati sono stati accusati di aver influito indebitamente sul procedimento amministrativo finalizzato all’aggiudicazione del servizio di gestione degli impianti sportivi comunali. Il giudice di primo ha ritenuto sussistente la responsabilità penale degli imputati, mentre la Corte di appello è pervenuta all’assoluzione.

In particolare, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che l’art. 353 c.p. delinei un reato di evento che, come tale, non punisce le mere irregolarità formali che non incidano sul contenuto del bando di gara. Il Procuratore generale presso la Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di assoluzione.

La Corte premette alcune considerazioni in tema di turbata libertà degli incanti. In primo luogo, la Cassazione precisa che “l’art. 353 cod. pen. configura un reato di evento di pericolo”.

In particolare, si tratta di un reato di evento in senso naturalistico, in quanto “è necessario accertare il verificarsi dell’impedimento della gara o del suo turbamento, e quindi la potenziale incidenza di una simile fraudolenta condotta sul futuro risultato della gara”.

Allo stesso tempo, si può definire un reato di pericolo “nel senso che il reato sussiste anche senza l’effettivo conseguimento del risultato perseguito dai soggetti agenti colludenti, essendo sufficiente che gli accordi collusivi siano idonei a influenzare l’andamento della gara”.

In altri termini, ciò che rileva è il verificarsi di un “turbamento”, cioè un disturbo del normale iter procedimentale, finalizzato ad inquinare il futuro contenuto del bando.

La Corte dunque ribadisce che il delitto in esame non richiede “un danno effettivo alla regolarità della gara”. Al contrario, è sufficiente che la condotta produca un “danno mediato e potenziale”, cioè l’idoneità degli atti ad influenzare l’andamento della gara, senza che sia necessario alternarne i risultati.

Tuttavia, l’impostazione descritta corre il rischio di attribuire rilievo penale a qualsiasi condotta in grado di perturbare lo svolgimento del procedimento. Per evitare tale rischio, la Corte precisa che “la condotta tipica deve essere idonea a ledere i beni giuridici protetti dalla norma, che si identificano non solo con l’interesse pubblico alla libera concorrenza, ma anche con l’interesse pubblico al libero gioco della maggiorazione delle offerte, a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione”.

In conclusione, la fattispecie delineata dall’art. 353 c.p. consiste “nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell’azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo”.

In base alle considerazioni sopra sintetizzate, la Corte ha accolto il motivo di ricorso presentato dalla Procura generale e dunque ha annullato la sentenza di assoluzione, rimettendo la causa alla Corte di appello per un nuovo giudizio che tenga conto dei principi enunciati.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 8 marzo 2019, n. 10272; Cass., sez. II, 13 febbraio 2019, n. 7013; Cass., sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 2989
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Ubriachezza abituale e cronica intossicazione da alcool Quale differenza sussiste tra l’ubriachezza abituale di cui all’art. 94 c.p. e la cronica intossicazione da alcool di cui all’art. 95 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Nei reati commessi dall’ubriaco abituale, “l’ubriachezza, in quanto transitoria e consapevole, non è mai causa della condotta delittuosa o di asseriti impulsi incontrollabili, ma al più è amplificatrice delle modalità e degli esiti delle violenze”. – Cass., sez. VI, 19 ottobre 2022, n. 39578.

Nel caso in esame l’imputato è stato condannato per il delitto di maltrattamenti aggravati (art. 572, comma 2, c.p.), commesso a danni della moglie e del figlio minorenne. I giudici di merito hanno ritenuto altresì sussistenti gli elementi costitutivi dell’aggravante dell’ubriachezza abituale.

La difesa dell’imputato ha presentato ricorso avverso la condanna ritenendo, tra gli altri motivi, che l’utilizzo di sostanze alcoliche da parte dell’imputato fosse indice di una cronica intossicazione da alcool, ai sensi dell’art. 95 c.p.

Nel caso in esame, dunque, la Corte è stata chiamata ad affrontare la questione della distinzione tra l’ubriachezza abituale e lo stato di cronica intossicazione da alcool. Il tema è particolarmente rilevante in quanto il legislatore associa alle due condizioni discipline opposte.

In caso di ubriachezza abituale, l’art. 94 c.p. prevede una circostanza aggravante, giustificata dalla maggiore pericolosità sociale dell’autore del reato. Al contrario, in caso di cronica intossicazione da alcool, l’art. 95 c.p. rinvia alla disciplina dettata in materia di vizio di mente, di cui agli artt. 88 e 89 c.p., che prevede l’esclusione dell’imputabilità o la diminuzione della pena.

Il legislatore definisce “ubriaco abituale” colui che “è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza”. Tuttavia, tali caratteri possono ben ricorrere anche per il soggetto in stato di intossicazione, il quale, con ogni probabilità, si trova nelle medesime condizioni dettate dall’art. 94 c.p.

La ricostruzione dei rapporti tra le due norme è stata quindi affidata alla giurisprudenza. Sul punto è consolidato l’orientamento secondo cui ricorre l’intossicazione cronica quando vi è uno stato patologico nel contesto del quale l’assunzione di alcool ha determinato irreversibili e permanenti alterazioni del sistema nervoso. Pertanto, le condizioni psichiche del soggetto sono alterate a prescindere dall’utilizzo di sostanze alcoliche.

In altri termini, si tratta di un mutamento non transitorio dell’equilibrio biochimico del soggetto, privo di prospettive di miglioramento, tale da determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico. Ciò determina una corrispondente alterazione dei processi intellettivi e volitivi, con la conseguenza che viene meno, in tutto o in parte, l’imputabilità del soggetto. In tal senso si giustifica l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 88 e 89 c.p.

L’ubriachezza abituale, invece, non esclude né diminuisce l’imputabilità dell’agente, in quanto non collegata ad uno stato patologico ma ad una libera scelta. In questo prospettiva si giustifica l’aggravamento di pena collegato alla maggiore pericolosità sociale del soggetto, tale peraltro da comportate anche l’applicazione della misura di sicurezza (cfr. artt. 206 e 221 c.p.).

Sul punto, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la colpevolezza della persona in stato di ubriachezza deve essere indagata secondo gli ordinari criteri di valutazione dell’elemento psicologico. Di conseguenza, il giudice può accertare la sussistenza del dolo o della colpa al momento del fatto, nonostante lo stato di alterazione alcolica (Cass., sez. IV, 7 luglio 2021, n. 25758). Tale assetto normativo è stato positivamente vagliato dalla Corte costituzionale in un’ottica di prevenzione generale.

Peraltro, nell’impostazione originaria del codice, la maggiore pericolosità sociale dell’ubriaco abituale era frutto di una presunzione, oggi sostituita ad un accertamento da effettuarsi in concreto in conformità all’art. 27 Cost.

In applicazione dei principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondato il motivo di ricorso presentato dall’imputato, confermando la sentenza di condanna.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 14 luglio 2016, n. 45997; Cass., sez. IV, 22 maggio 2008, n. 38513
Difformi:      non constano precedenti rilevanti

 

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Reato di riciclaggio e occultamento del bene Vi è reato di riciclaggio se l’operazione di occultamento del bene è evidentemente ed immediatamente tracciabile?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

 

Il reato di riciclaggio è integrato in presenza di operazioni volte anche solo ad ostacolare la tracciabilità dei beni proventi di attività illecita, non essendo necessario il definitivo impedimento della stessa tracciabilità. In ciò esso si differenzia dal reato di ricettazione, il quale punisce la condotta di chi si limita a ricevere il bene provento di delitto senza modificarlo né ripulirlo delle tracce della propria provenienza. – Cass. 3 novembre 2022, n. 43420. 

La Suprema Corte si è pronunciata in merito all’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 648bis c.p., con riferimento alla condotta di un imputato che in qualità di dipendente di una società addetta ai servizi postali, sostituiva n. 25 buoni postali fruttiferi di vecchio tipo, proventi di furto, con n. 3 buoni postali di nuovo tipo, apponendo falsamente sui medesimi la firma della vittima del furto ed intestandoli a sé stesso.

I ricorrenti adducevano l’inapplicabilità della fattispecie di riciclaggio alla luce della evidente tracciabilità dell’operazione, peraltro confermata dalle testimonianze che avevano agevolmente ricostruito la vicenda delittuosa mediante una semplice consultazione del sistema informatico della società, che confermava che i buoni erano stati anche incassati dall’imputato. Dunque, a parere della difesa, non vi sarebbe un occultamento della provenienza del bene, ma un semplice incasso del provento del diverso delitto di truffa, per il quale, tuttavia, il Tribunale aveva già dichiarato il “non doversi procedere”.

Il Collegio giudicante, nel ritenre il ricorso inammissibile, ha rammentato che il delitto di riciclaggio si connota di un elemento oggettivo consistente nell’idoneità ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene e all’elemento soggettivo costituito dal dolo generico di trasformare il bene per impedirne l’identificazione. A parere della Corte non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso del provento di reato, ma è ben sufficiente che essa sia solo ostacolata.

Infatti, in relazione a casi analoghi, la giurisprudenza di ultimo grado ha ritenuto integrato il delitto di riciclaggio finanche nella condotta di chi deposita in banca denaro di provenienza illecita poiché, stante la natura fungibile del bene, in tal modo esso viene automaticamente sostituito con “denaro pulito”.

Pertanto, nel caso in oggetto, la condotta del reo è stata correttamente ritenuta punibile ex art. 648bis in quanto essa configurava un ostacolo all’identificazione del provento di reato.

Infine, la Corte ha ritenuto di dover perimetrare il reato di riciclaggio rispetto a quello di ricettazione, evidenziando che quest’ultimo si compendia nella diversa condotta di chi si limiti a ricevere il provento di illecito senza modificarlo né ripulirlo delle tracce della sua provenienza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass., sez. VI, 3 ottobre 2018, n. 13085
Difformi:      Cass., sez. VI, 22 marzo 2018, n. 24941
giurista risponde

Desistenza volontaria In quali casi la desistenza di cui all’art. 56, comma terzo, c.p. può dirsi “volontaria”?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Per applicarsi l’ipotesi della desistenza volontaria è necessario che la mancata consumazione del delitto dipenda dalla libera volontà dell’agente. La scelta è volontaria quando non imposta da circostanze esterne che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’attività quali, ad esempio, la resistenza della vittima, l’intervento o la presenza della polizia giudiziaria o l’esistenza di difficoltà in executivis dell’azione criminosa. – Cass. 3 novembre 2022, n. 41345

I ricorrenti hanno sollecitato il Collegio in merito alla sussistenza della volontarietà nella condotta del reo che, nell’intento di commettere un furto in abitazione, aveva desistito dall’azione criminosa per l’assenza di strumenti idonei all’effrazione delle grate poste a presidio delle unità abitative individuate per l’attività delittuosa.

La Suprema Corte, nel giudicare prive di pregio le istanze di parte, ha rammentato che l’applicabilità dell’ipotesi della desistenza volontaria richiede che la mancata consumazione del delitto sia dipendente dalla volontà dell’agente. Non è necessario che la rinuncia all’azione criminosa sia espressione di un intimo ravvedimento ma è essenziale che la scelta sia volontaria, cioè non imposta da circostanze esterne che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’attività quali, ad esempio, la resistenza della vittima, l’intervento o la presenza della polizia giudiziaria o l’esistenza di difficoltà in executivis dell’azione criminosa.

In tal senso, la Corte ha richiamato il dictum di un’altra Sezione giudicante in materia di tentato furto,

nel qual caso era stata esclusa la desistenza volontaria nella condotta degli imputati che, dopo aver compiuto atti idonei e diretti a commettere il delitto, si erano allontanati a causa della presenza di una lastra di metallo che impediva lo sfondamento del muro e dal sopraggiungere degli agenti di polizia.

La Corte ha ravvisato che l’idoneità degli atti richiesta per la configurabilità del reato tentato deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione; invece, la desistenza volontaria presuppone la costanza della possibilità di consumazione del delitto, per cui, qualora tale possibilità non vi sia più, può ricorrere unicamente l’ipotesi di tentativo, purché ne sussistano i presupposti.

Per tali ragioni, il Collegio ha escluso la volontarietà della scelta del reo di rinunciare alla condotta criminosa ritenendola, invece, imposta da una circostanza esterna quale la difficoltà in executivis dell’azione furtiva caratterizzata dall’indisponibilità di strumenti in grado di vincere la resistenza opposta dalle grate volte a presidiare le abitazioni individuate ai fini del delitto, ritenendo non sussistente la fattispecie di cui all’art. 56, comma 3, c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. 28 novembre 2018, n. 17518; Cass. 13 febbraio 2018, n. 12240
Difformi:      non constano precedenti rilevanti
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Incidente stradale e danno morale In tema di danno non patrimoniale subito dalla vittima di un incidente stradale, il danno morale va riconosciuto come autonoma voce di pregiudizio o come componente nel risarcimento da danno biologico? Come va formulata la liquidazione del danno patrimoniale per persona che al momento del fatto non era in età da lavoro?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

La voce di danno morale è autonoma e non conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale si distingue sia dal danno biologico stricto sensu, in quanto non suscettibile di accertamento medico-legale, sia dalla personalizzazione per incidenza su specifici aspetti dinamico-relazionali; sicché è meritevole di un compenso aggiuntivo.

Se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. – Cass. III, ord. 9 novembre 2022, n. 32935.

Nel caso in esame, la Cassazione ha definito il “danno morale” uno stato d’animo di sofferenza interiore che prescinde dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato, che pure può influenzare, ed è insuscettibile di accertamento medico-legale, sicché, ove dedotto e provato, deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione rispetto al danno biologico.

Si evidenzia, inoltre, che il positivo riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria, dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono la propria autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale, non essendone in alcun modo giustificabile l’incorporazione nel c.d. danno biologico, trattandosi, con riguardo al danno morale, di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-relazionali della vita individuale.

La decisione si è anche occupata del danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa; in particolare si è precisato che tale danno, sofferto da un soggetto adulto che al momento dell’infortunio non svolgeva alcun lavoro remunerativo, va liquidato con equo apprezzamento delle circostanze del caso ai sensi dell’art. 2056 c.c. Diversamente se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. Nel caso analizzato la vittima, al momento del fatto era quindicenne e privo di reddito, e frequentava un istituto tecnico per diventare meccanico riparatore di vetture da turismo e che, a seguito dei postumi invalidanti derivanti dal sinistro è stato costretto a interrompere il percorso di studi intrapreso. La Corte ha altresì affermato che il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. III, 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass. S.U. 14 gennaio 2009, n. 557;
Cass. III, 13 maggio 2009, n. 11059; Cass. III, 10 marzo 2010, n. 5770;
Cass. 12 settembre 2011, n. 18641; Cass. III, 17 gennaio 2018, n. 901
Difformi:      Cass. S.U. 11 novembre 2008, n. 26972
giurista risponde

Interposizione fittizia e proprietà In tema di interposizione fittizia personale, l’accoglimento della domanda proposta dal terzo creditore dell’interponente acquirente in ordine alla dichiarazione della simulazione relativa soggettiva di una compravendita immobiliare comporta il conseguente ed automatico accertamento della proprietà del bene in favore dell’interponente?

Quesito a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

L’accoglimento della domanda di simulazione per interposizione fittizia nei confronti dell’interponente acquirente, proposta dal terzo creditore, è diretta anche alla verifica dell’effettiva produzione dell’effetto traslativo del bene in favore del medesimo interponente, per effetto del concluso accordo simulatorio; conseguenza, quest’ultima, che scaturisce in via automatica e immediata dalla dichiarazione di simulazione relativa soggettiva ex art. 1414, comma 2, c.c. Il terzo creditore dell’interponente, effettivo acquirente, ha lo specifico interesse, infatti, a far valere la reale appartenenza del bene al suo debitore, ai fini di poterne aggredire il patrimonio e soddisfare così il suo credito. – Cass. II, 11 novembre 2022 n. 33367.

In tema di interposizione fittizia personale, la simulazione incide sul piano dei soggetti, ossia degli autori del regolamento negoziale. In tal caso, l’accordo negoziale ha il precipuo effetto di attribuire la qualità di destinatario degli effetti dell’atto ad un soggetto diverso da colui il quale figura come tale (interposto), determinando, pertanto, uno sdoppiamento tra parte apparente e parte effettiva del rapporto. Generalmente, l’interposizione fittizia di persona si verifica nei casi in cui un soggetto intenda acquistare un bene e, tuttavia, non voglia rendere noto a terzi il suo diritto di proprietà. L’interponente, infatti, si accorda con altro soggetto (interposto), affinché questi figuri formalmente quale acquirente, ma rimanga, in realtà, del tutto estraneo rispetto agli effetti del contratto, i quali si produrranno in via esclusiva in capo al primo (interponente). Ciò posto, sia l’effetto traslativo (acquisto della titolarità del diritto), sia le conseguenze obbligatorie della compravendita (obbligo del pagamento del corrispettivo), non ricadranno sul simulato acquirente, bensì sull’interponente. È indispensabile, tuttavia, perché la fattispecie si realizzi, che l’accordo simulatorio intercorra tra tre soggetti, coinvolgendo, oltre al soggetto interposto ed all’interponente, anche il terzo contraente (alienante). L’attività negoziale posta in essere dall’interposto dispiega direttamente i suoi effetti nei confronti dell’interponente, il quale risulta l’unico e reale destinatario degli effetti dell’atto. Sono sufficienti, pertanto, due negozi per la realizzazione della suddetta fattispecie: da un lato, l’accordo simulatorio, intercorrente tra interposto, interponente e terzo; dall’altro, il contratto simulato, fittiziamente stipulato tra interposto e terzo, ma in realtà destinato a produrre i suoi effetti nei confronti dell’interponente.

Tanto premesso, nel caso in esame, il Giudice del gravame, confermando il percorso motivazionale della sentenza di prime cure, ha ritenuto dimostrata dal terzo creditore dell’acquirente reale l’esistenza di un accordo simulatorio trilatero, raggiunto tra l’interponente acquirente, l’alienante dell’immobile e l’interposto acquirente; ben disponendo, dunque, la titolarità della proprietà del bene in favore dell’interponente, come naturale e diretta conseguenza della dichiarazione della simulazione dell’atto di alienazione. La Cassazione evidenzia, nel caso di specie, la funzione dichiarativa dell’azione del terzo, creditore del dissimulato compratore. Tale azione non mira a far riconoscere l’esistenza degli elementi costitutivi di un negozio diverso da quello voluto, bensì ad accertare nei confronti delle parti di una compravendita con interposizione fittizia di persona, che, per effetto della simulazione relativa del contratto, l’immobile compravenduto è “passato in proprietà” al debitore.

Nel caso in esame, trattandosi di una simulazione relativa soggettiva, azionata dal terzo creditore dell’acquirente reale, non viene richiesta ai fini probatori la tipica controdichiarazione scritta, come da combinato disposto degli artt. 1417 e 2725 c.c. poiché i creditori o i terzi sono soggetti estranei al negozio e, dunque, non in grado di fornire le suddette prove ut supra; ciò posto, viene loro riconosciuta la prova per testi o per presunzioni. Diversamente, laddove la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi viene ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 c.c. quando il contraente perda senza colpa il documento, ovvero quando la prova sia diretta a far valere l’illiceità del negozio, ai sensi dell’art. 1417 c.c.

La circostanza, inoltre, che l’acquirente effettivo interponente, costituitosi in giudizio, abbia aderito alla domanda del terzo creditore e abbia ammesso la realizzazione della simulazione relativa soggettiva, chiedendo, in via riconvenzionale, l’accertamento della proprietà in suo favore, non implica alcuna conseguenza, ne’ in termini di necessaria chiamata del terzo nei confronti dell’interposto, ne’ in termini probatori sulla necessaria allegazione di controdichiarazione scritta, posto che la domanda che ha trovato accoglimento è stata quella spiegata dal terzo creditore, domanda attorea principale, rispetto alla quale la pretesa di accertamento della proprietà avanzata dal convenuto interponente ha avuto una mera valenza adesivo-rafforzativa; sicché per il terzo creditore la dimostrazione della simulazione per interposizione fittizia di persona è ammissibile solamente per testimoni e presunzioni.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Cassazione ha accolto il ricorso di parte attrice.

L’accoglimento della domanda di simulazione per interposizione fittizia nei confronti dell’interponente acquirente, proposta dal terzo creditore, ha comportato anche la dichiarazione dell’effetto traslativo del bene in favore dell’interponente, reale acquirente e proprietario. Infine, l’interposizione fittizia di persona, seppur rientri fra i casi di simulazione relativa, non richiede, tuttavia, che la prova dell’accordo simulatorio risulti da atto scritto, bensì da testimoni o presunzioni, in quanto nel caso in esame l’istituto de quo non è stato fatto valere nei rapporti tra le parti, ma da terzi creditori.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 25 gennaio 1988, n. 587; Cass. II, 4 maggio 2007, n. 10240;
Cass. VI, 2 luglio 2015, n. 13634
giurista risponde

Divisione ereditaria e usucapione Il coerede che sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi senza bisogno di interversione del possesso?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

Il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso. A tal fine, però, egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto a estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando a tal fine insufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune. – Cass. civ., sez. VI, 3 novembre 2022, n. 32413.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza in esame torna a occuparsi del compossesso ereditario e della possibilità per il coerede, rimasto nel possesso del bene ereditario, di usucapire la quota degli altri coeredi.

Nel caso di specie il ricorso è stato proposto avverso la decisione, con cui la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Gaeta, che aveva riconosciuto l’usucapione di uno dei coeredi su un bene ereditario.

I giudici di primo e secondo grado hanno infatti ritenuto che il coerede, che aveva richiesto l’accertamento dell’usucapione, avesse esercitato il possesso esclusivo sui beni in questione.

Avverso tale decisione viene proposto ricorso per Cassazione da parte di uno dei coeredi, che ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141 e 1144 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c, dell’art. 2697 c.c. oltre al travisamento dei fatti e all’omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio.

Nello specifico, infatti, viene contestato che la Corte di merito non abbia dato giusto rilievo al fatto che la disponibilità del bene comune era dovuta a ragioni di carattere familiare e, soprattutto, alla circostanza che colui che ha usucapito il bene era stato per quattro anni protutore del ricorrente.

Secondo quest’ultimo, in altri termini, non è stato adeguatamente dimostrata nel corso del giudizio l’esclusione dei familiari dal godimento del bene e dunque il conseguente esercizio del possesso uti dominus.

I giudici della Corte di Cassazione ritengono fondato il ricorso e cassano la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Roma.

Nell’accogliere le doglianze del ricorrente, la Corte di Cassazione, ribadendo un consolidato orientamento, afferma che il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto a estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando a tal fine insufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune.

A tal proposito viene chiarito che la coabitazione con il de cuius e la disponibilità delle chiavi non sono indici di un possesso esclusivo dell’immobile.

La Suprema Corte rileva come nel caso di specie non siano state indicate da parte dei giudici di merito le modalità con cui il coerede avrebbe esteso il proprio possesso sul bene ereditario al punto tale da esercitarlo in termini di esclusività.

Tale carenza motivazionale è peraltro resa più evidente se si considera la particolarità dei rapporti intercorrenti tra gli interessati, essendo stato uno dei coeredi protutore del ricorrente.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 25 marzo 2009, n. 7221; Cass. II, 13 novembre 2014, n. 24214;
Cass. II, 22 gennaio 2019, n. 1642; Cass. II, 9 settembre 2019, n. 22444