Reddito di cittadinanza indebitamente percepito
Niente particolare tenuità del fatto a chi percepisce indebitamente il reddito di cittadinanza per non aver comunicato tempestivamente la nuova occupazione. Così la terza sezione penale della Cassazione con sentenza n. 36936/2024.
La vicenda
Nella vicenda, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Lecco condannando una donna in relazione al reato di cui all’art. 7 comma 2 del DL 4/2019.
L’imputata proponeva ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, di non avere l’obbligo di comunicare all’ente pubblico di riferimento la nuova assunzione, non trattandosi di
una variazione occupazionale, rispetto alla presentazione della domanda del reddito di cittadinanza, atteso che con la nuova assunzione permaneva il pregresso stato di occupata. Peraltro, non sussisterebbe alcun termine per operare la suddetta comunicazione, con conseguente assenza del reato. Conseguentemente, inoltre, la ricorrente non avrebbe avuto consapevolezza della pretesa illiceità del comportamento ascrittole.
Si doleva, altresì, del diniego dell’applicazione della speciale tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p.
La decisione
Gli Ermellini le danno torto.
La Corte d’appello ha, infatti, “congruamente osservato, in maniera condivisibile, come ala luce dell’art. 3 comma 8 del dl .n 4/2019, laddove nell’ultima parte del predetto comma 8
invero prevede che ‘l’avvio dell’attività di lavoro dipendente è comunque comunicato dal lavoratore al’INPS per il tramite della Piattaforma digitale per il Patto per il lavoro di cui all’articolo 6, comma 2, a pena di decadenza dal beneficio, entro trenta giorni dall’inizio dell’attività, ovvero di persona presso i centri per l’impiego’ risulti obbligo di comunicazione e tempestivo del nuovo lavoro dipendente, che abbia generato la rimodulazione della somma percepibile a titolo di reddito di cittadinanza in uno con la consumazione del reato ascritto”. Quanto alla tesi – giuridica – per cui la comunicazione non sarebbe stata necessaria a fronte della persistenza comunque di uno stato di occupata della ricorrente, “occorre innanzitutto richiamare la regola per cui il vizio di motivazione non è configurabile riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime infatti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, come nel caso di specie, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di
correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. ni tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01 Emmanuele)”.
Per il Palazzaccio, “valida è anche la risposta, tutt’altro che mancata, sulla assenza di consapevolezza della violazione”. Si rammenta peraltro, scrivono i giudici, “che in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato d.l.”.
Nulla di fatto, anche con riferimento alla negazione della fattispecie di cui all’art. 131 bis cod. pen., “stante la considerevole somma indebitamente percepita, costituendo, li valore di quanto ingiustamente percepito, una argomentazione di per sé autonoma e adeguata. Le rappresentazioni difensive per cui la donna si sarebbe appropriata di una somma minore attengono al merito della vicenda, e come tali non possono essere sindacate in questa sede” concludono da piazza Cavour.
Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.