carta d'imbarco

Risarcimento volo cancellato: basta la carta d’imbarco La Cassazione conferma che per ottenere il risarcimento in caso di volo cancellato è sufficiente esibire la carta d’imbarco. Non serve anche il biglietto aereo

La carta d’imbarco come prova del contratto di trasporto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17644/2025, ha chiarito un principio importante per i passeggeri che richiedono il risarcimento in caso di mancata partenza del volo.
Secondo i giudici, la semplice presentazione della carta d’imbarco costituisce un elemento sufficiente a dimostrare l’esistenza del contratto di trasporto aereo, non essendo necessario allegare anche il biglietto.
Questo orientamento rafforza la tutela dei consumatori, semplificando l’onere probatorio nei procedimenti di risarcimento.

Il caso concreto

La vicenda ha riguardato un passeggero che, dopo la cancellazione del proprio volo Roma-Londra, aveva prodotto le carte d’imbarco a supporto della propria richiesta risarcitoria.
La Corte d’appello, pur prendendo atto della documentazione, aveva ritenuto che essa non bastasse a dimostrare l’acquisto del biglietto, dichiarando quindi carente la prova del contratto.
La Cassazione ha censurato tale decisione, evidenziando che la carta d’imbarco è strettamente collegata al biglietto, al punto da poter essere considerata prova equipollente.

Gli obblighi probatori delle parti

Nella pronuncia, la Suprema Corte ha ricordato la corretta ripartizione degli oneri probatori in materia di trasporto aereo, in linea con la Convenzione di Montreal del 1999 e con il Regolamento CE n. 261/2004.
Il passeggero è tenuto a:

  • fornire la prova del contratto di trasporto (titolo di viaggio o documento equivalente);

  • allegare l’inadempimento del vettore (ad esempio, la cancellazione o il ritardo del volo).

Spetta invece alla compagnia aerea dimostrare l’esatto adempimento, oppure che l’inadempimento sia derivato da cause di forza maggiore o da eventi eccezionali che la esonerino da responsabilità.

Carta d’imbarco: il principio affermato dalla Cassazione

Il Supremo Collegio ha ribadito che, nell’ambito del trasporto aereo internazionale, l’esistenza del contratto può essere provata non solo attraverso il biglietto ma anche con la produzione di qualsiasi documento idoneo a dimostrare la prenotazione e l’ammissione all’imbarco.
La carta d’imbarco, in quanto documento rilasciato direttamente dal vettore, costituisce pertanto una prova sufficiente per fondare la pretesa risarcitoria.

auto abbandonata

Auto abbandonata in condominio? È rifiuto speciale da rimuovere Il Tribunale di Chieti conferma: un’auto in stato di abbandono nel parcheggio condominiale è un rifiuto speciale. Il proprietario va obbligato alla rimozione e allo smaltimento

Auto abbandonata in condominio

Con la sentenza n. 46/2025, il Tribunale di Chieti – sezione distaccata di Ortona ha stabilito che un’auto abbandonata in un’area condominiale, priva di targa e assicurazione, costituisce un rifiuto speciale ai sensi della normativa ambientale. Tale situazione configura un uso illecito del bene comune, lesivo del diritto degli altri condòmini alla pari fruizione dello spazio.

Il giudice ha quindi condannato il proprietario alla rimozione del mezzo a proprie spese, autorizzando il condominio ad agire in via sostitutiva in caso di inadempimento.

Il caso concreto

Il procedimento è stato avviato da un condominio che lamentava la presenza pluriennale di un’auto inutilizzata nel parcheggio comune, in evidente stato di degrado, senza targa né copertura assicurativa.

La vettura non era mai stata rimossa nonostante i ripetuti solleciti, privando gli altri condòmini del legittimo utilizzo dello spazio. Da qui la richiesta giudiziale di accertamento della natura di “veicolo fuori uso” e l’obbligo di rimozione.

Profili ambientali: il veicolo come rifiuto speciale

Il tribunale ha applicato la disciplina prevista dal Dlgs 209/2003 sui veicoli fuori uso e dal Dlgs 152/2006, Testo Unico Ambientale. Queste norme qualificano come rifiuto speciale un’auto che:

  • sia in stato di abbandono;

  • sia priva di elementi identificativi (come la targa);

  • non sia più utilizzabile e non presenti segni di manutenzione o utilizzo.

Secondo la giurisprudenza citata (tra cui Cass. pen. n. 11030/2015), un veicolo può essere considerato fuori uso anche in area privata, se si dimostra la volontà del proprietario di disfarsene.

Violazione del diritto d’uso comune

Il giudice ha inquadrato la condotta della proprietaria dell’auto anche dal punto di vista civilistico, richiamando l’articolo 1102 c.c., che disciplina l’uso delle parti comuni.

La sosta illimitata ed esclusiva del veicolo è stata interpretata come occupazione abusiva dello spazio comune, lesiva del principio di uso paritario tra condòmini. La sentenza ribadisce che nessun condomino può arrogarsi un diritto esclusivo su una parte comune a danno degli altri.

Le prove e la condanna

La decisione si è fondata su documentazione fotografica, visure PRA e dati assicurativi, che hanno dimostrato l’effettivo stato di abbandono del mezzo.

Il tribunale ha condannato la proprietaria:

  • a rimuovere il veicolo a proprie cure e spese;

  • a smaltirlo secondo le norme sui rifiuti speciali;

  • in caso di inerzia, ha autorizzato il condominio a procedere direttamente, con diritto di rivalsa sulle spese sostenute.

Allegati

assegno di invalidità

Assegno di invalidità: va integrato anche con sistema contributivo La Corte costituzionale ha stabilito che l’assegno di invalidità deve essere integrato al minimo anche se calcolato interamente con il metodo contributivo

Integrazione assegno di invalidità

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 94/2025, ha dichiarato illegittima la norma che esclude l’integrazione al minimo per l’assegno di invalidità liquidato con il solo sistema contributivo. La questione di legittimità era stata sollevata dalla sezione lavoro della Cassazione, che aveva denunciato la violazione degli artt. 3 e 38, II comma, Cost.

La disciplina dell’integrazione al minimo e la Riforma Dini

L’art. 1, comma 16, della l. n. 335/1995 (Riforma Dini) ha escluso l’applicazione delle norme sull’integrazione al minimo per tutti i trattamenti pensionistici calcolati con il sistema contributivo. Tuttavia, la Corte ha ricordato che l’assegno ordinario di invalidità ha sempre avuto una disciplina peculiare e più favorevole rispetto alle altre prestazioni previdenziali.

Sin dalla sua introduzione nel 1984, l’assegno è stato concepito per fronteggiare situazioni di bisogno conseguenti alla riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo. Lo stesso prevede un’integrazione finanziata con la fiscalità generale, non con i contributi dei lavoratori.

Le ragioni della particolare tutela dell’assegno di invalidità

La Corte ha evidenziato che l’assegno ordinario di invalidità risponde a esigenze specifiche:

  • può essere necessario molto prima dell’età per accedere all’assegno sociale;

  • tutela soggetti che, per l’invalidità, hanno perso la capacità di generare un montante contributivo adeguato;

  • si rivolge a situazioni di bisogno meritevoli di particolare protezione costituzionale.

In assenza dell’integrazione al minimo, il lavoratore invalido con un assegno di importo ridotto rischia di rimanere per anni privo di un sostegno economico adeguato. Ciò specialmente se non possiede altri requisiti per accedere a prestazioni assistenziali.

La violazione del principio di uguaglianza

Secondo la Consulta, assimilare l’assegno ordinario di invalidità alle pensioni contributive ordinarie e sottrarlo all’integrazione al minimo determina un’irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost.

Il trattamento si differenzia per finalità e modalità di finanziamento dalle altre prestazioni previdenziali e non può essere ricondotto alla logica punitiva verso chi esce anticipatamente dal lavoro senza aver maturato un’adeguata anzianità contributiva.

Decorrenza differita degli effetti della sentenza

Pur dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma, la Corte ha stabilito che gli effetti della decisione decorreranno dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Questa scelta è stata motivata dalla necessità di evitare un improvviso e ingente aggravio finanziario per lo Stato, dovuto al riconoscimento degli arretrati per il periodo anteriore.

contatori congedi parentali

Contatori congedi parentali: come funziona il nuovo servizio INPS Come funziona il nuovo servizio INPS dei contatori congedi parentali che consentono ai lavoratori e ai datori di lavoro di visualizzare i periodi fruiti in tempo reale

Contatori congedi parentali INPS

L’INPS ha introdotto un innovativo servizio digitale per agevolare la gestione dei congedi parentali. Dal 1° luglio 2025 è disponibile nel portale istituzionale una funzionalità che consente di consultare i contatori dei congedi parentali, ossia strumenti che permettono di verificare con immediatezza i periodi di congedo già utilizzati e quelli ancora disponibili.

Il servizio si inserisce in un più ampio progetto di digitalizzazione delle procedure legate alla tutela della genitorialità e punta a semplificare la relazione tra cittadini, imprese e Istituto.

Come funzionano i contatori dei congedi parentali

Il sistema dei contatori è integrato nella procedura di gestione delle domande di congedo parentale. In concreto, accedendo al servizio online, ciascun utente può:

  • Verificare i periodi fruiti di congedo parentale ordinario e prolungato;

  • Controllare i giorni residui spettanti per ciascun genitore;

  • Consultare il dettaglio delle autorizzazioni rilasciate;

  • Visualizzare i periodi eventualmente richiesti, ma non ancora autorizzati.

I dati sono aggiornati in tempo reale sulla base delle informazioni presenti negli archivi INPS, garantendo così un monitoraggio puntuale sia per i lavoratori dipendenti sia per i datori di lavoro che necessitano di verificare le spettanze residue.

Come accedere ai contatori

La consultazione dei contatori può avvenire esclusivamente in modalità telematica. Per accedere al servizio è necessario autenticarsi attraverso una delle seguenti modalità:

  • SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale);

  • CIE (Carta di Identità Elettronica);

  • CNS (Carta Nazionale dei Servizi).

Una volta effettuato l’accesso, si deve selezionare la voce “Congedi Parentali – Consultazione e gestione domande” e utilizzare la nuova sezione dedicata ai contatori.

Destinatari del servizio

Il servizio è rivolto a:

  • Lavoratori dipendenti privati che fruiscono di congedi parentali e prolungamenti per figli con disabilità;

  • Datori di lavoro, consulenti del lavoro e intermediari autorizzati, che possono consultare i contatori previa delega;

  • Patronati e soggetti abilitati all’assistenza per conto dei lavoratori.

In tutti i casi, è necessario che vi sia una posizione contributiva registrata negli archivi INPS e che siano state presentate domande di congedo parentale tramite i canali telematici istituzionali.

Istruzioni operative

Il nuovo servizio è stato illustrato nel messaggio INPS n. 2078 del 30 giugno 2025, che disciplina in dettaglio modalità di accesso, contenuti informativi e caratteristiche tecniche dei contatori. Il messaggio chiarisce anche che:

  • La consultazione dei contatori ha valore informativo;

  • In caso di incongruenze, il lavoratore può chiedere aggiornamenti agli uffici INPS competenti;

  • La funzionalità riguarda i congedi parentali disciplinati dal Decreto Legislativo n. 151/2001 e successive modifiche.

Vantaggi per lavoratori e aziende

Grazie ai contatori, lavoratori e aziende possono:

  • Ridurre i tempi di gestione delle richieste;

  • Prevenire errori nella fruizione dei periodi spettanti;

  • Avere piena trasparenza sulle spettanze residue e sulla situazione contributiva.

La digitalizzazione di questi dati si inserisce nella strategia INPS di semplificazione e innovazione dei servizi a supporto della genitorialità.

calunnia

Calunnia: guida al reato Calunnia: definizione, caratteristiche, natura, manifestazione, elemento soggettivo, punibilità, consumazione, sanzioni e Cassazione recente

Cos’è la calunnia?

La calunnia è un reato disciplinato dall’art. 368 c.p. Si tratta nello specifico di un delitto, che rientra nella categoria dei reati contro l’amministrazione della giustizia. La funzione di questo reato è duplice: mira a prevenire l’instaurazione di procedimenti penali infondati contro persone innocenti e tutela l’onore e la libertà personale degli individui ingiustamente accusati. Per questa ragione, la calunnia è considerata un reato “plurioffensivo”.

L’articolo 368 c.p. 

” 1. Chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne o alla Corte penale internazionale, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la  reclusione da due a sei anni. 

2. La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave.

3. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo.”

Caratteristiche del reato di calunnia

Il reato di calunnia presenta le seguenti caratteristiche:

1) Natura del reato di calunnia

È un reato di pericolo, questo significa che non è necessario che l’accusa falsa porti effettivamente a una condanna o all’avvio di un processo penale; è sufficiente che esista la mera possibilità che l’autorità giudiziaria agisca in base alla falsa incolpazione.

2) Modalità di manifestazione 

La calunnia può manifestarsi in due forme principali:

  • Calunnia formale (o diretta): si verifica quando un’accusa di reato, consapevole di essere falsa e rivolta a una persona che si sa innocente, viene presentata attraverso atti formali come denunce, querele, richieste o istanze. Queste devono essere indirizzate all’Autorità Giudiziaria o a un’altra autorità che ha l’obbligo di riferire a quest’ultima. Rientrano in questa categoria anche le denunce anonime o sotto falso nome.
  • Calunnia materiale (o indiretta): consiste nella simulazione di tracce di un reato. In questo caso, il colpevole crea prove materiali o indizi falsi che tendono ad implicare erroneamente un individuo innocente in un crimine che non è mai avvenuto. Le tracce simulate devono essere tali da indicare inequivocabilmente il soggetto incolpato come autore del fatto.

3) Elemento soggettivo

Per la configurazione del reato è richiesto il “dolo” specifico, ovvero la piena consapevolezza e volontà di accusare falsamente una persona che si sa essere innocente. Non è sufficiente il dolo eventuale. Come chiarito dalla Cassazione n. 27098/2024 “perché sia integrato il dolo del delitto di calunnia occorre che colui che formula la falsa accusa abbia la certezza della innocenza dell’incolpato.”

4) Condizioni di punibilità 

L’azione non è punibile se il fatto denunciato o simulato non costituisce un reato (manca di tipicità legale) o se esiste una causa di giustificazione o un’esclusione della punibilità.

Il reato tuttavia può configurarsi anche se l’autorità giudiziaria deve svolgere un’indagine minima per accertare i fatti.

5) Consumazione

Il reato si consuma quando l’autorità riceve la falsa informazione (calunnia formale) o acquisisce le tracce simulate (calunnia materiale).

Come viene punito il reato di calunnia

Le pene previste per la calunnia dipendono dalla gravità della falsa accusa e dalle sue conseguenze:

La pena base è rappresentata dalla reclusione da due a sei anni.Sono previsti degli aumenti di pena nei seguenti casi:

  • l’accusato è incolpato di un reato per il quale la legge prevede una pena massima di reclusione superiore a dieci anni o una pena più grave;
  • la falsa accusa porta a una condanna alla reclusione superiore a cinque anni, la pena in questo caso è la reclusione da quattro a dodici anni.
  • la falsa accusa comporta una condanna all’ergastolo, la reclusione in questa ipotesi varia da sei a venti anni (storicamente, se derivava una condanna a morte, si applicava l’ergastolo a seguito dell’abrogazione della pena capitale).

Giurisprudenza

Cassazione n. 16651/2025: si configura il reato di calunnia e sussiste il dolo, in quanto provato dal fatto che il denunciante ha riportato solo fatti parziali. Questa condotta evidenzia la consapevolezza di accusare la persona offesa di un’inesistente tentata estorsione, pur sapendo della sua innocenza.

Cassazione n. 27098/2024: il giudizio per calunnia è autonomo rispetto a quello che riguarda il reato ascritto al calunniato. Anche una sentenza di proscioglimento definitiva a favore dell’incolpato non preclude al giudice del processo per calunnia di rivalutare i fatti. Il giudice può quindi accertare autonomamente la falsità della denuncia del calunniatore, riesaminando gli stessi fatti già oggetto del precedente giudizio.

Cassazione n. 21632/2022: la calunnia è un reato di pericolo che si perfeziona con una condotta (falsa denuncia o simulazione di tracce di reato) idonea a generare il concreto rischio di un’indagine penale contro un innocente. Non è necessario l’effettivo avvio del procedimento, ma la falsa accusa deve contenere gli elementi sufficienti per l’azione penale e non essere manifestamente inverosimile. L’elemento soggettivo richiede la consapevolezza da parte del calunniatore di incolpare una persona innocente, esponendola al rischio di un processo. Questa consapevolezza si desume dalle circostanze concrete dell’azione.

 

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giurista risponde

Delitto di rapina e configurabilità dell’attenuante (art. 62, co. 1, n. 4, c.p.) In relazione al delitto di rapina, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p. qual è il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante in esame, il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi (Cass., Sez. Un., 15 novembre 2024, n. 42124 – Delitto di rapina e configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p.).

Nel caso di specie, la Corte di Appello di L’Aquila confermava la condanna alla pena irrogata dal Tribunale di Pescara con sentenza del 6 luglio 2022 per i reati di rapina aggravata e lesioni, unificati

dal vincolo della continuazione e previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla recidiva contestata.

Il ricorso è stato assegnato alla Seconda sezione, che, con ordinanza del 5 aprile 2024, n. 16364, ne disponeva la rimessione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618, comma 1, c.p.p., rilevando l’esistenza di contrasti interpretativi sia in ordine alla determinazione del termine a comparire nel giudizio di appello a far data dal 30 dicembre 2022 (che un orientamento individua in giorni venti ed un altro in giorni quaranta), sia all’individuazione – in presenza di un fenomeno di successione di leggi (l’art. 601 c.p.p., che disciplina gli atti preliminari al giudizio di appello, è stato in parte qua novellato dall’art. 34 D.Lgs. 150/2022) – dell’atto da valorizzare in concreto ai fini dell’applicazione del principio tempus regit actum.

Per quanto di interesse, la Corte di Appello avrebbe disatteso la richiesta di riconoscere all’imputato la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., osservando genericamente che il profitto del reato consistette sia in un telefono cellulare che in una catenina di argento, oggetti il cui valore sommato supera i limiti entro i quali può essere riconosciuta tale attenuante.

La motivazione fornita sul punto dalla sentenza impugnata è inficiata da un errore di diritto, pur non determinante annullamento, che va, ai sensi dell’art. 619 c.p.p., corretto.

Invero, va ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai fini della configurabilità, in relazione al delitto di rapina della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, occorrendo valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia. Il delitto di rapina, ancorché incluso nel Titolo XIII del Libro II del codice penale, relativo ai delitti contro il patrimonio, ha in genere natura pluri-offensiva, in quanto il danno che ne deriva non incide soltanto sulla sfera patrimoniale, ma comprende anche gli aspetti lesivi della libertà fisica o psichica della persona offesa aggredita per la realizzazione del profitto.

Ne discende che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante in esame, non può aversi riguardo unicamente al fatto che il bene materiale sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi al bene personale dell’integrità fisica e/o psichica della parte offesa contro la quale l’agente ha indirizzato l’attività violenta o minacciosa al fine di impossessarsi della cosa. La predetta circostanza potrà essere ritenuta sussistente, sulla base di un apprezzamento riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logico-giuridici, soltanto nel caso in cui la valutazione complessiva dei pregiudizi arrecati ai beni tutelati risulti di speciale tenuità.

Deve, per completezza, evidenziarsi che il riferimento all’intervenuta restituzione del telefono cellulare è, comunque, privo di rilievo.

La giurisprudenza ha, infatti, già chiarito che, ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi.

 

 

(*Contributo in tema di “Delitto di rapina e configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p. ”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

catasto

Catasto: cos’è e a cosa serve Catasto: cos’è, a cosa serve, normativa di riferimento, categoria e classe catastale, rendita catastale e visura catastale

Catasto: che cos’è?

Il catasto è un archivio in cui sono registrate tutte le proprietà immobiliari presenti in un Comune o in una provincia, con l’indicazione dei rispettivi proprietari. Il Catasto nasce per accertare la proprietà immobiliare, evidenziarne le mutazioni e determinare le imposte.

Esso si divide in due sezioni complementari:

  • il Catasto dei Terreni, che include i terreni agricoli e inedificati;
  • il Catasto dei Fabbricati (o Catasto Edilizio Urbano), che contiene le costruzioni civili, industriali e commerciali.

Normativa di riferimento

  • Legge n. 3682/1886: istituzione del catasto terreni (abrogato dal dl n. 200/2008 convertito dalla legge n. 9/2009)
  • Regio decreto n. 652/1939: formazione catasto edilizio urbano
  • DPR n. 1142/1949: regolamento di attuazione catasto edilizio urbano
  • Decreto Legge n. 557 /1993: istituzione del catasto fabbricati
  • Dlgs n. 300/1999: istituzione Agenzia del Territorio a cui è stata affidata la gestione dei dati catastali e i servizi connessi
  • Legge n. 135/2012: incorporazione dell’Agenzia del Territorio nell’Agenzia delle Entrate

Catasto: a cosa serve?

La finalità principale del Catasto è quella censire le proprietà immobiliari, aggiornarne i cambiamenti e fornire la base per l’imposizione fiscale. La gestione di queste banche dati è affidata all’Agenzia delle Entrate (ex Agenzia del Territorio). Nel Catasto Edilizio Urbano sono registrati i dati più rilevanti per ogni unità immobiliare:

  • l’identificazione catastale (Comune, sezione, numero di mappa, particella, subalterno);
  • l’indirizzo;
  • la classe di redditività;
  • la consistenza (vani o superficie netta);
  • la rendita catastale;
  • le categorie.

Il catasto e i documenti collegati allo stesso sono inoltre fondamentali per chi è interessato ad investire nel mercato immobiliare.

Categoria catastale

La categoria catastale definisce la tipologia di un’unità immobiliare all’interno di una zona censuaria, un’area omogenea in termini di redditività e caratteristiche socio-economiche. Le categorie, codificate con lettere da A a F, differiscono per la destinazione d’uso ordinaria e permanente dell’immobile, influenzandone la rendita.

I principali gruppi di categorie sono:

  • Gruppo A: abitazioni di vario tipo (signorile, civile, economica, popolare, ville, castelli, ecc.) e uffici/studi privati.
  • Gruppo B: edifici pubblici o ad uso collettivo (collegi, ospedali, prigioni, uffici pubblici, scuole, musei).
  • Gruppo C: immobili a destinazione commerciale e magazzini (negozi, laboratori, depositi, rimesse, stabilimenti balneari).

Le categorie catastali sono fondamentali per la tassazione immobiliare, in particolare per l’IMU. Ad esempio, l’IMU sull’abitazione principale è dovuta solo se l’immobile rientra nelle categorie considerate di lusso o di pregio (A1, A8 e A9).

Classe catastale

La classe catastale, invece, esprime il grado di redditività di un immobile all’interno della stessa categoria. È un indicatore che considera vari criteri come il livello delle finiture, i servizi in dotazione, la dimensione e la posizione dei vani, la luminosità e la funzionalità degli ambienti. Una classe catastale più elevata comporta una maggiore rendita catastale. L’attribuzione della classe avviene da parte dell’Agenzia delle Entrate in seguito alla domanda di accatastamento o alla dichiarazione di nuova costruzione/variazione urbana.

Rendita Catastale

La rendita catastale è il valore economico attribuito a ciascun immobile, sia esso fabbricato o terreno, calcolato dall’Agenzia delle Entrate. Essa rappresenta il reddito annuo “potenziale” che l’immobile può generare. È un dato essenziale per il calcolo di imposte come l’IMU. Per le categorie comprese nei gruppi A, B e C, la rendita viene calcolata moltiplicando la consistenza per la tariffa unitaria specifica per Comune, zona censuaria, categoria e classe. Per le categorie D ed E, la rendita è determinata tramite stima diretta.

Catasto: la visura catastale

La visura catastale è il documento chiave che fornisce tutte le informazioni relative a un edificio o unità immobiliare. Essa consente di consultare gli atti e i documenti catastali e di acquisire dati identificativi e reddituali dei beni immobili, i dati anagrafici dei proprietari, i dati grafici (mappa catastale, planimetrie) e gli atti di aggiornamento catastale. Per le unità immobiliari urbane a destinazione ordinaria, la visura include anche la superficie catastale dell’immobile.

 

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procura alle liti

Procura alle liti in lingua straniera: valida senza traduzione Le Sezioni Unite civili hanno stabilito che la procura speciale alle liti redatta in lingua straniera è valida anche senza traduzione, poiché l’obbligo dell’italiano riguarda solo gli atti processuali

La procura alle liti in lingua straniera non è nulla

Le Sezioni Unite civili della Cassazione, con la sentenza n. 17876 del 2025, hanno chiarito un principio di grande rilievo per la tutela del diritto di difesa: la procura speciale alle liti redatta in lingua straniera e rilasciata all’estero è pienamente valida, anche se priva di traduzione in italiano e di certificazione traduttiva.

Secondo la Corte, l’obbligo di utilizzare la lingua italiana si applica esclusivamente agli atti processuali in senso stretto e non a quelli prodromici, come la procura con cui si conferiscono i poteri al difensore.

L’ambito di applicazione dell’art. 122 c.p.c.

La Cassazione ha ricordato che l’art. 122, comma 1, c.p.c., impone l’uso della lingua italiana “in tutto il processo”. Tale prescrizione riguarda però solo gli atti che si formano nel processo e per il processo: atti processuali veri e propri, come le comparse, le memorie, i ricorsi e le sentenze.

La procura alle liti, pur strettamente collegata al processo, ha natura meramente strumentale e preparatoria. Per questo motivo, non è soggetta alla regola della redazione obbligatoria in italiano.

La traduzione non è requisito di validità

Imporre la traduzione della procura come condizione di validità integrerebbe un vincolo non previsto dalla legge. La Corte ha evidenziato che un simile obbligo costituirebbe un ostacolo sproporzionato al diritto di azione in giudizio, privo di adeguata giustificazione in termini di interesse pubblico.

In linea con il principio di tassatività delle nullità, sancito dall’art. 156 c.p.c., non è possibile estendere per analogia il requisito della lingua italiana a documenti che non siano atti processuali.

Il ruolo del giudice e l’art. 123 c.p.c.

La Suprema Corte ha chiarito che, se il documento prodotto in giudizio è in lingua straniera, il giudice può applicare l’art. 123 c.p.c.: è dunque sua facoltà, e non un obbligo, disporre la nomina di un traduttore.

Il giudice può decidere di non avvalersi del traduttore se comprende il contenuto dell’atto o se non esistono contestazioni sulla traduzione eventualmente allegata.

Il caso concreto e i principi di diritto affermati

La decisione nasce da un procedimento ereditario in cui una delle parti aveva eccepito la nullità della procura speciale rilasciata negli Stati Uniti e autenticata da un notaio della Florida, proprio per l’assenza della traduzione in italiano.

La Corte di Cassazione ha respinto l’eccezione, stabilendo due principi di diritto fondamentali:

  1. La procura speciale alle liti redatta in lingua straniera e rilasciata all’estero è valida anche senza traduzione né certificazione, perché la disciplina della lingua italiana si riferisce ai soli atti processuali.

  2. Il giudice può eventualmente nominare un traduttore se necessario per comprendere il contenuto dell’atto, ma non è tenuto a farlo in assenza di contestazioni o difficoltà interpretative.

trattenimento migranti

Trattenimento migranti nei CPR: la Consulta richiama il legislatore La Corte costituzionale ha dichiarato inidonea la disciplina sul trattenimento dei migranti nei CPR, richiamando il legislatore a definire regole più chiare nel rispetto della libertà personale

Trattenimento migranti nei CPR: i dubbi di costituzionalità

Con la sentenza n. 96 del 2025, la Corte costituzionale ha esaminato la legittimità dell’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 286 del 1998 (TU sull’immigrazione), nella parte in cui disciplina le modalità di trattenimento migranti nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).

Le questioni erano state sollevate dal Giudice di pace di Roma, chiamato a convalidare i provvedimenti di trattenimento di cittadini stranieri. Il giudice rimettente aveva denunciato la mancanza di una disciplina di rango primario che definisse le modalità e le garanzie di esercizio della restrizione della libertà personale, in violazione dell’articolo 13 Cost.

La libertà personale e la riserva assoluta di legge

La Corte ha ribadito che il trattenimento nei CPR costituisce un assoggettamento fisico che incide direttamente sulla libertà personale. In questo quadro, la disciplina vigente è stata ritenuta inidonea a individuare con chiarezza i “modi” della restrizione, cioè le regole che tutelano i diritti fondamentali durante il periodo di trattenimento.

Secondo la Consulta, il rinvio a norme regolamentari e a provvedimenti amministrativi discrezionali contrasta con la riserva assoluta di legge prevista dall’articolo 13, secondo comma, Cost.

Il ruolo del legislatore e l’inammissibilità delle questioni

Pur riconoscendo il vulnus costituzionale, la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate con riferimento agli articoli 13 e 117 della Cost. Il motivo è che non spetta al giudice costituzionale colmare il vuoto normativo riscontrato: è il legislatore a dover predisporre una disciplina compiuta e conforme ai principi costituzionali e internazionali.

La Corte ha evidenziato che resta un dovere inderogabile del Parlamento intervenire per definire standard minimi di tutela e garantire i diritti e la dignità delle persone trattenute.

Le altre questioni di costituzionalità dichiarate inammissibili

Le ulteriori censure fondate sugli articoli 2, 3, 10, 24, 25, 32 e 111 della Costituzione sono state dichiarate inammissibili per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo. La Corte ha ricordato che l’ordinamento già consente il ricorso ai rimedi civili, come l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. e la tutela cautelare d’urgenza prevista dall’art. 700 c.p.c., strumenti idonei a garantire la protezione dei diritti fondamentali in caso di violazioni durante il trattenimento.

La conclusione della Corte costituzionale

In conclusione, la Corte ha chiarito che la disciplina attuale non soddisfa i requisiti costituzionali di determinatezza e legalità delle restrizioni alla libertà personale. L’onere di colmare questa carenza spetta al legislatore, cui è demandato il compito di assicurare una regolamentazione adeguata nel rispetto dei diritti fondamentali.

Iva all'importazione

IVA all’importazione non è un dazio: sanzioni da riformare La Corte costituzionale, ha chiarito che l’IVA all’importazione non è assimilabile ai dazi e che il cumulo di confisca, imposta e sanzioni pecuniarie viola il principio di proporzionalità

IVA all’importazione e dazi doganali

La Corte costituzionale, con sentenza n. 93/2025, ha precisato che, pur se il legislatore la qualifica come diritto di confine, l’IVA all’importazione non può essere assimilata ai dazi doganali. A differenza di questi ultimi, infatti, l’IVA è un’imposta neutra rispetto alle attività economiche, in quanto il soggetto passivo ha diritto alla detrazione dell’imposta dovuta o assolta sugli acquisti.

Al contrario, i dazi hanno finalità protettive e contributive per l’Unione europea e sono destinati ad aumentare il prezzo di determinate merci importate.

Cumulo sanzionatorio eccessivo e violazione principio proporzionalità

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, che avevano messo in discussione l’articolo 70 del DPR n. 633/1972, in combinato disposto con gli articoli 282 e 301 del DPR n. 43/1973.

Tali norme prevedevano un sistema sanzionatorio caratterizzato dal cumulo tra:

  • confisca dell’oggetto importato,

  • pagamento dell’imposta evasa,

  • sanzione pecuniaria da due a dieci volte l’imposta.

Questo regime non trova eguali né per l’IVA interna né per i dazi doganali, per i quali il Codice doganale dell’Unione europea (art. 124 CDU) stabilisce l’estinzione dell’obbligazione doganale in caso di confisca.

Il principio di proporzionalità applicato alle sanzioni tributarie

La Corte costituzionale ha ribadito che il principio di proporzionalità si applica pienamente anche alle sanzioni tributarie, come già affermato nella sentenza n. 46/2023 e riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in riferimento ai tributi armonizzati.

Già la legge delega n. 23/2014 aveva previsto la necessità di un sistema sanzionatorio equo e commisurato alla gravità dell’illecito, mentre il decreto legislativo n. 87/2024 ha ulteriormente ridisegnato il sistema delle sanzioni fiscali ispirandosi a criteri di proporzionalità.

La legittimità condizionata della confisca

Pur riconoscendo l’esigenza di evitare un cumulo eccessivo, la Corte ha escluso la possibilità di eliminare del tutto la confisca, evidenziando che, in caso di evasione IVA su beni non frazionabili, il sequestro conservativo non sarebbe sempre praticabile.

Per questo motivo, la pronuncia ha operato una reductio ad legitimitatem: le cose oggetto della violazione non sono confiscate se l’obbligato provvede a pagare integralmente l’IVA evasa, gli interessi e le sanzioni pecuniarie. In tal modo, si garantisce un bilanciamento tra l’effettiva tutela dell’erario e il rispetto del principio di proporzionalità delle sanzioni.