cartellino senza prezzo

Cartellino senza prezzo? Scatta la sanzione La Cassazione conferma l'obbligo di esposizione chiara e leggibile del prezzo di vendita nel cartellino

Prezzo non visibile nel cartellino

Cartellino senza prezzo: una griffe della moda è stata sanzionata per aver nascosto i cartellini del prezzo all’interno dei capi esposti. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14826/2025, ha confermato che il prezzo di vendita deve essere sempre chiaramente visibile, a tutela del consumatore. L’informazione deve essere trasparente, accessibile e immediatamente percepibile, anche nei settori di lusso.

Il caso: cartellino senza prezzo

La vicenda trae origine da un verbale redatto dalla Guardia di Finanza, che aveva accertato l’assenza di indicazioni chiare sul prezzo di prodotti in vendita presso una nota boutique. I cartellini erano presenti, ma nascosti all’interno delle tasche dei vestiti o chiusi nelle borse. L’autorità comunale aveva inflitto una sanzione amministrativa da 1.032 euro, poi confermata in sede giudiziaria.

In primo grado, il Giudice di pace di Ferrara aveva accolto l’opposizione della maison, ritenendo sufficiente la presenza del cartellino anche se non visibile esternamente. Ma il Tribunale e poi la Cassazione hanno ribaltato il verdetto.

Visibilità e leggibilità requisiti inscindibili

Secondo la Seconda sezione civile della Corte, il cartellino del prezzo non deve solo esistere, ma anche essere posizionato in modo tale da risultare immediatamente visibile. La Corte ha chiarito che, sebbene “visibilità” e “leggibilità” non siano sinonimi, la chiara leggibilità imposta dall’art. 14 del D.lgs. 114/1998 comporta necessariamente anche una facile visibilità da parte del pubblico.

Un cartellino posto all’interno di un prodotto o nascosto tra le pieghe non risponde a tale requisito, violando così le disposizioni sul commercio al dettaglio.

La regola vale anche per il self-service

Particolare rilievo viene dato dalla Corte alla disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 14, che disciplina la vendita a libero servizio: in questi casi, l’esposizione del prezzo deve garantire una immediata percezione visiva da parte del consumatore. Da ciò discende che, se la visibilità è richiesta anche dove il cliente può manipolare il prodotto, a maggior ragione è necessaria nei casi in cui il contatto fisico con il bene non sia consentito.

Il precedente

La Corte ha richiamato un proprio orientamento consolidato con la sentenza n. 3115/2005, secondo cui un cartellino posto sotto l’oggetto in esposizione è da considerarsi “nascosto”. Anche se il prezzo è tecnicamente leggibile una volta individuato, non soddisfa l’obbligo normativo se non immediatamente visibile e riconducibile al prodotto esposto.

Trasparenza prezzi diritto del consumatore

Il principio espresso dalla Corte si inserisce nel solco della normativa italiana ed europea che mira alla tutela della trasparenza informativa nei rapporti di consumo. Il commerciante non può scegliere discrezionalmente dove collocare il prezzo, soprattutto se tale scelta comporta difficoltà per il cliente nel conoscere il costo del prodotto.

La Corte ha respinto anche l’argomento della maison, secondo cui nel settore moda la visibilità del prezzo sarebbe “non rilevante” rispetto a brand, allestimento e qualità del servizio: la normativa sul commercio non prevede deroghe per il lusso.

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JusDì

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La direzione e il comitato scientifico

La direzione responsabile è affidata alla giornalista Marina Crisafi, mentre la direzione scientifica è del dott. Valerio de GioiaConsigliere presso la Prima Sezione Penale della Corte di Appello di Roma e Consulente della Commissione Parlamentare di inchiesta sul femminicidio.

A supporto della direzione scientifica è stato costituito un Comitato Scientifico di alto profilo, articolato per aree tematiche, che affianca il lavoro redazionale contribuendo alla specializzazione e all’aggiornamento continuo dei contenuti:

  • Sezione amministrativa: Francesco Caringella, Presidente della V Sezione del Consiglio di Stato
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Online da giugno 2025 – Per maggiori informazioniwww.jusdi.it

bonus biciclette

Bonus biciclette: la guida Bonus biciclette 2025: cos’è, come funziona, requisiti necessari per fare domanda, come richiederlo, come trovare i bandi attivi

Cos’è il Bonus biciclette 2025

Il Bonus biciclette 2025, anche noto come incentivo mobilità sostenibile, è una misura volta a favorire l’acquisto di bici tradizionali, e-bike e cargo bike da parte di cittadini e imprese, nell’ottica di una mobilità urbana più ecologica ed efficiente. Questo contributo economico mira a ridurre l’inquinamento, il traffico urbano e a incentivare stili di vita salutari.

Il bonus bici è un’agevolazione economica che può consistere in:

  • un rimborso parziale sulla spesa sostenuta per l’acquisto;
  • un credito di imposta;
  • oppure un contributo diretto calcolato come percentuale sul prezzo del mezzo acquistato.

A seconda della Regione o Comune, possono essere attivati ulteriori bandi locali con condizioni specifiche.

La normativa di riferimento

Il bonus biciclette nazionale è stato originariamente introdotto con il Decreto Rilancio (D.L. 19 maggio 2020, n. 34), art. 229, convertito in L. 17 luglio 2020, n. 77, come misura emergenziale in seguito alla pandemia da COVID-19. Il successo dell’iniziativa ha portato a successive estensioni e nuove edizioni, anche a livello regionale e comunale.

Nel 2025, il bonus bici non è previsto in forma unitaria a livello nazionale, ma è attivo tramite iniziative regionali, comunali e fondi PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), con variazioni significative da territorio a territorio.

A chi spetta il bonus biciclette

Il Bonus biciclette 2025 può essere richiesto da:

  • persone fisiche residenti in Italia;
  • famiglie a basso reddito (in alcuni casi con limiti ISEE);
  • aziende e partite IVA che acquistano bici cargo o mezzi a pedalata assistita per uso professionale o consegne;
  • residenti in comuni che attivano bandi locali per la mobilità sostenibile;
  • soggetti che rottamano un vecchio veicolo inquinante (in base al singolo bando).

I requisiti variano in base all’ente che eroga il contributo (Ministero dell’Ambiente, Regioni, Comuni, o enti locali), pertanto è essenziale consultare il sito dell’ente di appartenenza.

Cosa si può acquistare con il bonus bici

L’incentivo può essere utilizzato per acquistare:

  • bici muscolari (tradizionali);
  • bici elettriche o a pedalata assistita (e-bike);
  • bici cargo, anche a uso professionale;
  • accessori per la mobilità ciclabile (solo se previsti dal bando);
  • in alcuni casi, anche monopattini elettrici, handbike o mezzi per persone con disabilità.

Il mezzo deve essere nuovo, conforme alla normativa europea e acquistato presso rivenditori autorizzati.

Qual è l’importo del bonus

L’importo del Bonus bici 2025 varia in base al tipo di incentivo attivato:

  • contributo percentuale del prezzo, con tetti massimi stabiliti (es. Euro 500 – Euro 1.000);
  • credito di imposta (es. fino a Euro 750 detraibili dalla dichiarazione dei redditi, se previsto da leggi statali);
  • bonus rottamazione per chi dismette un vecchio veicolo inquinante.

Per il bonus e-bike 2025, alcune Regioni e Comuni (es. Lombardia, Piemonte, Trentino Alto Adige, Bologna, Firenze) hanno già pubblicato o stanno predisponendo bandi con importi che variano da Euro 200,00 a Euro 1.500,00 in funzione del modello, della finalità (uso personale o professionale) e della disponibilità del fondo.

Come ottenere il bonus biciclette 

Le modalità per richiedere il Bonus biciclette cambiano a seconda dell’ente erogatore. Generalmente, la procedura prevede:

  1. Registrazione sul portale dedicato del Ministero dell’Ambiente (se nazionale) o della Regione/Comune;
  2. Inserimento della domanda online, con:
    • copia del documento d’identità;
    • codice fiscale;
    • ISEE (se richiesto);
    • fattura o scontrino parlante;
    • eventuale dichiarazione di rottamazione del veicolo inquinante.

Alcuni bandi prevedono l’invio prima dell’acquisto (prenotazione del contributo), altri consentono di chiedere il rimborso dopo l’acquisto.

Attenzione: i fondi sono spesso limitati e distribuiti secondo l’ordine cronologico di presentazione delle domande, fino a esaurimento.

Dove trovare bandi attivi

Per sapere se il tuo Comune o Regione ha attivato il bonus biciclette:

  • consulta il sito ufficiale del Ministero dell’Ambiente e Sicurezza Energetica;
  • accedi ai siti istituzionali delle Regioni e dei Comuni;
  • verifica eventuali bandi su Decathlon, LaBicicletteria.eu, o piattaforme specializzate in mobilità sostenibile;
  • chiedi informazioni presso CAF, patronati o rivenditori autorizzati.

 

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Cassonetti sotto la finestra? Delibera condominiale annullabile Cassonetti sotto la finestra? Il tribunale annulla la delibera condominiale se lede il diritto di proprietà e ignora soluzioni alternative praticabili

Cassonetti sotto la finestra e delibera

Cassonetti sotto la finestra e annullabilità della delibera: posizionare i contenitori dei rifiuti condominiali in prossimità di una finestra privata può portare all’annullamento della delibera assembleare, se ciò comporta un pregiudizio diretto al diritto di proprietà e non risulta giustificato da esigenze oggettive del condominio. Lo ha stabilito il Tribunale di Latina con sentenza n. 1025/2025, richiamando i principi di buon uso delle parti comuni e proporzionalità delle scelte collettive.

Cassonetti sotto la finestra e odori molesti

La causa prende avvio da una decisione dell’assemblea condominiale che aveva stabilito il collocamento dei cassonetti per la raccolta differenziata a pochi metri dalla finestra di un appartamento. La condomina interessata ha impugnato la delibera, lamentando un’interferenza ingiustificata con il proprio diritto di godimento dell’unità immobiliare, a causa delle esalazioni provenienti dai rifiuti.

Il giudice ha accolto la domanda, ritenendo che la scelta dell’assemblea configuri un uso anomalo delle parti comuni e un sacrificio sproporzionato degli interessi individuali, soprattutto in presenza di alternative praticabili.

Odori e distanze: i criteri di valutazione del tribunale

Il Tribunale ha fondato il proprio giudizio su presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., richiamando massime di esperienza secondo cui la vicinanza di rifiuti organici alle finestre può comportare odori sgradevoli e limitazioni al pieno utilizzo dell’abitazione, specialmente nei mesi estivi.

Rilevata una distanza inferiore ai 4 metri tra i cassonetti e la finestra, il giudice ha fatto riferimento, in via analogica, all’articolo 889 c.c. in materia di distanze tra costruzioni, trattandosi di una lacuna normativa in ambito condominiale e igienico-sanitario. In mancanza di norme locali specifiche, ha considerato quella distanza non idonea a garantire condizioni igieniche accettabili.

Le fotografie allegate dall’attrice, ritenute non contestate, hanno rafforzato la prova del disagio, contribuendo alla valutazione complessiva dell’illegittimità della delibera.

Eccesso di potere e alternative ignorate

Il provvedimento impugnato è stato ritenuto viziato da eccesso di potere, poiché ha sacrificato il diritto individuale senza che vi fosse una reale esigenza collettiva. La motivazione addotta dall’assemblea – ovvero la mancanza di spazi alternativi – è stata smentita dalla consulenza tecnica d’ufficio, che ha invece individuato il locale autoclave come area idonea, previa minima modifica.

Secondo il giudice, l’attività deliberativa del condominio deve rispettare il principio di equilibrio tra interesse collettivo e diritti dei singoli, evitando soluzioni irragionevoli o sproporzionate. La mancata considerazione dell’alternativa concretamente realizzabile ha reso la motivazione della delibera meramente apparente e quindi invalida.

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accompagnamento alla pensione

Accompagnamento alla pensione Accompagnamento alla pensione: cos’è, normativa di riferimento, come funziona, tipologie, compatibilità e tassazione

Accompagnamento alla pensione: cos’è

L’accompagnamento alla pensione è un insieme di strumenti e misure che consentono ai lavoratori di uscire anticipatamente dal mondo del lavoro, garantendo loro un reddito ponte fino al raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia o anticipata. Si tratta di una soluzione flessibile e complementare al sistema previdenziale, che interessa principalmente le grandi aziende in fase di ristrutturazione, ma può riguardare anche prestazioni individuali a sostegno dei lavoratori in uscita.

Con “accompagnamento alla pensione” si fa riferimento quindi a strumenti di transizione dal lavoro alla pensione, che garantiscono un sostegno economico per i lavoratori che cessano anticipatamente l’attività, ma che non hanno ancora raggiunto i requisiti per accedere alla pensione.

Tali strumenti includono:

  • isopensione (ex art. 4, L. n. 92/2012);
  • assegno straordinario dei fondi di solidarietà bilaterali (es. settore bancario);
  • contratti di espansione (Dlgs n. 148/2015);
  • ape sociale (dl n. 50/2017);
  • altre misure di accompagnamento previste nei CCNL o da accordi aziendali.

Normativa di riferimento

Le prestazioni di accompagnamento sono regolate da un quadro normativo composito. Tra i riferimenti principali:

  • legge n. 92/2012 (Riforma Fornero): istituisce l’isopensione per esuberi;
  • dlgs n. 148/2015: introduce i contratti di espansione e i fondi di solidarietà;
  • legge di Bilancio 2023 e 2024: prorogano misure come l’Ape sociale.

Come funziona l’accompagnamento alla pensione

Il funzionamento dipende dallo strumento utilizzato. In generale, il percorso prevede:

  1. l’accordo tra lavoratore e datore di lavoro (individuale o collettivo);
  2. la verifica dei requisiti (età, contributi, distanza dalla pensione);
  3. l’erogazione di un reddito ponte a carico dell’azienda o del fondo di solidarietà;
  4. la copertura contributiva figurativa da parte dell’INPS fino al pensionamento effettivo.

Le principali forme di accompagnamento alla pensione

1. Isopensione (ex art. 4, L. 92/2012)

  • riservata ad aziende con più di 15 dipendenti;
  • consente il pensionamento anticipato a coloro che hanno maturato i requisiti minimi di tipo anagrafico e contributivo per la pensione di vecchiaia (67 anni) o per la pensione anticipata  (41 anni e 10 mesi di contributi per le donne; 41 anni e 10 mesi per gli uomini) entro 7 anni dalla fine del rapporto di lavoro, fino al 2026;
  • prevede una copertura contributiva integrale da parte del datore di lavoro;
  • l’importo erogato è pari alla pensione maturata al momento dell’uscita.

2. Assegno straordinario dei fondi di solidarietà bilaterali

  • riguarda comparti regolati da fondi di solidarietà INPS (bancari, assicurativi, ecc.).
  • il lavoratore percepisce un assegno mensile fino al raggiungimento della pensione;
  • consente il pensionamento anticipato a coloro che hanno maturato i requisiti minimi di tipo anagrafico e contributivo per la pensione di vecchiaia (67 anni) o per la pensione anticipata  (41 anni e 10 mesi di contributi per le donne; 41 anni e 10 mesi per gli uomini) entro 5 anni dalla fine del rapporto di lavoro.

3. Contratto di espansione

  • riguarda aziende con almeno 50 dipendenti (soglia ridotta negli ultimi anni).
  • prevede una riduzione del personale e la formazione per i dipendenti rimanenti;
  • il lavoratore può uscire fino a 5 anni prima della pensione, con accompagnamento a carico dell’azienda e dell’INPS.

4. APE Sociale

  • prestazione assistenziale a carico dello Stato, prorogata fino al 31 dicembre 2025.
  • riguarda i lavoratori che si trovano in condizioni svantaggiate (disoccupati, caregiver, invalidi, lavori gravosi);
  • fornisce un reddito mensile massimo di 1.500 euro fino al pensionamento.

Compatibilità e tassazione

Le prestazioni di accompagnamento in genere non sono cumulabili con redditi da lavoro dipendente o autonomo, salvo deroghe previste dai contratti collettivi. L’importo percepito è assoggettato a tassazione IRPEF, come reddito assimilato a pensione.

 

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casa familiare

La casa familiare Casa familiare: cos’è, cosa accade in caso di separazione e come funziona l’assegnazione

Cosa si intende per casa familiare

La casa familiare, spesso detta anche casa coniugale, è l’immobile in cui si è svolta la vita quotidiana della famiglia e dove sono stati costruiti gli affetti, le abitudini e la routine domestica. Quando una coppia si separa, la sorte di questo bene diventa spesso oggetto di conflitto, poiché incide direttamente sulla tutela dei figli minori o economicamente non autosufficienti.

L’ordinamento italiano, in un’ottica di protezione della prole, prevede regole specifiche in merito all’assegnazione della casa familiare, disciplinata dall’art. 337-sexies del codice civile.

Occorre inoltre precisare che la casa familiare non è semplicemente un bene immobile: giuridicamente, è l’abitazione destinata alla vita della famiglia, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto dai coniugi (comunione o separazione dei beni) o dall’intestazione del bene. L’assegnazione, quindi, non riguarda il diritto di proprietà, ma la destinazione d’uso dell’immobile in funzione dell’interesse superiore dei figli.

Normativa di riferimento: art. 337-sexies c.c.

L’art. 337-sexies c.c. stabilisce che:

“Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.”

Questo principio si applica nei procedimenti di:

  • separazione personale dei coniugi;
  • divorzio;
  • cessazione della convivenza more uxorio (anche per coppie non sposate con figli).

Il giudice può assegnare la casa familiare al genitore collocatario dei figli, anche se non è proprietario o intestatario dell’immobile, purché ciò sia ritenuto nell’interesse prevalente della prole.

Chi ha diritto alla casa familiare dopo la separazione

In caso di separazione o divorzio:

  • se ci sono figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, la casa viene assegnata al genitore con cui i figli convivono stabilmente. Se la casa, ad esempio, è di proprietà esclusiva del padre, ma i figli vivono con la madre, la casa viene in genere assegnata alla madre per garantire la stabilità abitativa dei minori;
  • se non ci sono figli, l’assegnazione della casa segue i principi della proprietà, dell’uso o del possesso, salvo diversi accordi tra le parti.

Effetti dell’assegnazione della casa coniugale

L’assegnazione della casa non trasferisce la proprietà, ma comporta:

  • il diritto di abitazione gratuito per l’assegnatario;
  • la possibilità di registrare l’assegnazione nei pubblici registri immobiliari (art. 2643 c.c.);
  • il divieto per il proprietario di vendere o locare l’immobile in modo da pregiudicare il diritto dell’assegnatario.

Quando l’assegnazione può essere revocata

Il diritto all’uso della casa familiare non è eterno: può cessare quando:

  • I figli diventano economicamente autosufficienti o lasciano la casa;
  • cambiano le condizioni di affidamento (es. affidamento esclusivo all’altro genitore);
  • il genitore assegnatario convive con un nuovo partner in modo stabile, come riconosciuto dalla giurisprudenza di Cassazione.

La casa familiare nei rapporti patrimoniali

Per quanto riguarda il regime di ripartizione delle spese:

  • le spese di manutenzione ordinaria spettano al genitore assegnatario;
  • le spese straordinarie e le imposte gravano invece sul proprietario;
  • se la casa è in comproprietà, il coniuge non assegnatario può chiedere lo scioglimento della comunione, dopo la cessazione del diritto di abitazione.

Giurisprudenza di legittimità

La Cassazione è intervenuta più volte a sciogliere le questioni più controverse relative alla casa familiare.

Cassazione n. 308/2008: la casa familiare non è solo un luogo fisico, ma un vero e proprio centro di vita dove si coltivano affetti, interessi e abitudini quotidiane. Questo ambiente è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della personalità dei figli. Di conseguenza, l’abitazione serve a proteggere i minori e a garantire il loro diritto di continuare a vivere nel proprio ambiente domestico, come stabilito dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione.

Cassazione n. 18603 del 2021: l’assegnazione della casa familiare si discosta dalle logiche patrimoniali o di mantenimento del coniuge in caso di separazione o divorzio. Il suo scopo principale è esclusivamente la tutela degli interessi dei figli.

Cassazione n. 8764/2023: per decide se un ex coniuge ha diritto all’assegno di divorzio, occorre considerare il termine “patrimonio” in un senso molto ampio. Questo significa che è necessario valutare ogni fattore che possa aumentare le risorse economiche della famiglia o anche solo dell’ex coniuge. Tra questi fattori rientra anche l’assegnazione della casa familiare.

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ammenda

Ammenda: breve guida Ammenda: cos’è, differenze con multa e sanzione amministrativa, normativa e modalità di esecuzione

Cos’è l’ammenda

L’ammenda è una pena pecuniaria prevista dall’ordinamento penale italiano, applicata in caso di contravvenzioni, ossia violazioni meno gravi rispetto ai delitti. Si distingue nettamente dalla multa, dalla sanzione amministrativa e ha specifiche modalità di applicazione, pagamento, riscossione ed eventuale estinzione.

La corretta comprensione di questa pena e delle sue implicazioni è fondamentale per orientarsi nel sistema sanzionatorio penale italiano, anche in chiave difensiva e preventiva.

Definizione 

L’ammenda, ai sensi dell’art. 26 del codice penale, è una sanzione pecuniaria che si applica a seguito della commissione di contravvenzioni. La sua funzione è prevalentemente afflittiva e patrimoniale e non comporta restrizioni della libertà personale. L’importo è determinato dal giudice sulla base dei criteri indicati nell’art. 133 c.p., tenendo conto della gravità del fatto, delle modalità della condotta e delle condizioni economiche del reo.

Differenza tra ammenda, multa e sanzione amministrativa

Nel sistema sanzionatorio italiano, è essenziale distinguere tra:

  • ammenda: si applica per contravvenzioni (es. guida senza casco, violazioni minori del Codice della strada che costituiscono reato);
  • multa: prevista per i delitti, secondo l’art. 24 c.p;
  • sanzione amministrativa pecuniaria: disciplinata dalla legge n. 689/1981, si applica per illeciti non penalmente rilevanti, e viene irrogata da autorità amministrative (es. mancato pagamento di un pedaggio autostradale).

La differenza più rilevante tra ammenda e sanzione amministrativa è che la prima è una vera e propria pena afflittiva di natura penale, iscritta nel casellario giudiziale, mentre la seconda consegue alla commissione di un illecito di natura amministrativa, privo di rilevanza penale.

Normativa di riferimento

La disciplina di questa pena è contenuta in diverse disposizioni del codice penale, in particolare:

  • art. 26 c.p. – definizione della pena;
  • art. 133 e 133-bis c.p. – criteri per la determinazione della pena;
  • art. 136 c.p.  conversione pene pecuniarie non eseguite;
  • art. 460 c.p.p. – decreto penale di condanna, spesso applicabile alle contravvenzioni punite con ammenda.

Ammenda e oblazione

L’oblazione è un istituto che consente all’imputato l’estinzione anticipata del reato contravvenzionale, pagando una somma pari a una terza parte del massimo dell’ammenda prevista dalla legge per la contravvenzione. È regolata dagli articoli 162 e 162-bis c.p. e può essere:

  • obbligatoria: è prevista quando le contravvenzioni sono punite solo con la pena dell’ammenda;
  • facoltativa: quando le contravvenzioni sono punite in alternativa con l’arresto o l’ammenda.

L’oblazione evita la condanna e la conseguente iscrizione nel casellario giudiziale, ma è ammessa solo per le contravvenzioni punite con sola ammenda o congiuntamente con l’arresto.

Ammenda e casellario giudiziale

La condanna penale alla pena dell’ammenda è iscritta nel casellario giudiziale, salvo nei casi in cui l’ammenda venga applicata con il decreto penale di condanna e sia poi estinta per effetto di oblazione o altra causa estintiva del reato. Questa iscrizione può avere rilievo in ambito lavorativo, concorsuale o per il rilascio di certificazioni pubbliche.

Pagamento dell’ammenda e riscossione coattiva

Il pagamento deve avvenire nei termini stabiliti dal provvedimento di condanna.

In caso di inadempimento, si procede con:

  • la riscossione coattiva;
  • la conversione in libertà controllata o lavoro di pubblica utilità se il condannato è insolvente e sussistono le condizioni  previste.

La giurisprudenza chiarisce che la conversione non è automatica: il giudice valuta la situazione economica e può disporre misure alternative solo se sussiste l’assoluta impossibilità al pagamento.

Conversione pena detentiva in pena pecuniaria

Anche una pena detentiva per contravvenzione può essere convertita in pena pecuniaria.

Il tasso di conversione, in base a quanto previsto dall’articolo 135 c.p è di 250 euro per ciascun giorno di pena detentiva sostituita, salvo diversa determinazione del giudice. In questi casi, la pena si tramuta in ammenda, pur essendo stata originariamente prevista la pena dell’arresto.

 

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cellulare protetto

Reato rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto Per la Cassazione l'accesso a WhatsApp da un cellulare protetto da password integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico

Rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto

Rubare messaggi da cellulare protetto: con la sentenza n. 19421/2025, la Corte di cassazione ha chiarito che WhatsApp è a tutti gli effetti un sistema informatico protetto. Di conseguenza, accedervi abusivamente, anche solo per estrarre messaggi da utilizzare in giudizio, integra il reato previsto dall’articolo 615-ter del codice penale, punito con la reclusione fino a dieci anni nei casi più gravi.

Il principio assume particolare rilievo in un contesto in cui le chat private vengono spesso utilizzate come prova in ambito familiare, ad esempio nei giudizi di separazione o di addebito.

Il caso: accesso abusivo al telefono dell’ex moglie

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato si era impossessato del telefono cellulare della ex moglie, dispositivo protetto da password, ed era riuscito a estrarre alcuni messaggi WhatsApp scambiati con un’altra persona. Successivamente, aveva consegnato quei messaggi al proprio avvocato, con l’obiettivo di utilizzarli nel giudizio di separazione.

Nonostante la Corte d’appello avesse ridotto la pena inflitta, è stata comunque confermata la responsabilità dell’imputato per i reati di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) e concorso formale di reati (art. 81 c.p.).

La motivazione

Secondo i giudici, la condotta dell’imputato ha violato il “domicilio informatico” della persona offesa, ossia quello spazio digitale tutelato dalla legge come estensione del domicilio fisico (ai sensi dell’art. 14 della Costituzione). Il dispositivo era nella esclusiva disponibilità della donna ed era protetto da password, a conferma della volontà di escludere terzi dall’accesso ai suoi dati personali.

Il reato di cui all’art. 615-ter c.p., introdotto dalla legge 547/1993, punisce chiunque si introduce abusivamente o si mantiene all’interno di un sistema informatico o telematico contro la volontà dell’avente diritto, proteggendo la riservatezza dei dati personali e la sicurezza delle informazioni digitali.

Anche WhatsApp è sistema informatico protetto

La Cassazione ha ritenuto che l’applicazione WhatsApp rientra nella nozione di sistema informatico, poiché combina componenti software, hardware e reti telematiche per consentire lo scambio di messaggi, immagini e video.

Come già chiarito in giurisprudenza in merito alle caselle e-mail, anche uno spazio di memoria protetto da password, come quello di WhatsApp, rappresenta una porzione riservata del sistema informatico, il cui accesso indebito costituisce un illecito penale.

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comunicazioni tra avvocati

Comunicazioni tra avvocati: vanno trasmesse all’autorità Il CNF chiarisce che le comunicazioni tra colleghi possono essere trasmesse se richieste nell’ambito di indagini penali. Obbligo deontologico cede di fronte all’autorità giudiziaria

Comunicazioni tra avvocati e consegna autorità

Comunicazioni tra avvocati: il Consiglio nazionale forense, con parere n. 23 del 12 maggio 2025, pubblicato il 3 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, ha fornito chiarimenti rilevanti in materia di corrispondenza tra avvocati e obblighi deontologici, rispondendo a un quesito posto dal COA di Benevento. 

Il quesito

La questione riguardava la possibilità di trasmettere le comunicazioni intercorse tra legali, a seguito di una richiesta formale da parte dei Carabinieri, delegati all’attività di indagine, nell’ambito di un procedimento penale avviato per fatti oggetto della predetta corrispondenza.

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, pertanto, chiedeva delucidazioni al CNF.

Deontologia e collaborazione con l’autorità

Secondo il parere del CNF, la presenza di una richiesta esplicita proveniente dall’autorità investigativa, in questo caso i Carabinieri delegati all’indagine su fatti oggetto della corrispondenza, “prevale sull’obbligo deontologico e l’avvocato – anche per sottrarsi a eventuali conseguenze penali della mancata collaborazione – è tenuto a consegnare la corrispondenza”.

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permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti: troppo breve il termine per il reclamo La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il termine di 24 ore per il reclamo contro i permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti

Con la sentenza n. 78/2025, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo il termine di 24 ore previsto per la proposizione del reclamo da parte del detenuto contro il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza nega un permesso, anche nei casi di grave emergenza familiare, come il pericolo imminente di vita di un familiare o convivente.

Il giudizio di legittimità è scaturito da una questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, che ha espresso dubbi circa la compatibilità di tale termine con l’art. 24 della Costituzione, che tutela il diritto di difesa.

Il caso concreto esaminato dalla Corte

Nel procedimento oggetto della pronuncia, un detenuto aveva chiesto un permesso per visitare la sorella affetta da tumore. Il Magistrato di sorveglianza aveva respinto la richiesta e il detenuto aveva presentato reclamo lo stesso giorno della notifica del provvedimento, riservandosi però di motivarlo successivamente.

Solo dopo aver ottenuto la documentazione medica acquisita d’ufficio dal Magistrato, il difensore del detenuto aveva potuto reiterare il reclamo, corredandolo dei motivi. Tuttavia, il termine previsto dall’art. 30-bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) per impugnare il diniego è di sole 24 ore.

Tutela effettiva del diritto di difesa

La Corte costituzionale ha accolto i dubbi di legittimità, osservando che il termine di 24 ore non consente al detenuto né di ottenere adeguata assistenza legale né di accedere alla documentazione necessaria per motivare il reclamo in modo efficace.

Richiamando un precedente orientamento (sentenza n. 113/2020, relativa ai permessi premio), la Corte ha stabilito che il termine debba essere elevato a 15 giorni, in analogia con quanto previsto dall’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario per altri reclami.

Il legislatore può intervenire

Pur fissando in via provvisoria un termine di 15 giorni, la Corte ha sottolineato che resta ferma la facoltà del legislatore di stabilire un termine diverso, purché questo rispetti il diritto alla difesa e sia coerente con la natura urgente del provvedimento.