giurista risponde

Eredità devoluta a minori incapaci e accettazione con beneficio d’inventario L’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario fatta dal legale rappresentante del minore, senza la successiva redazione dell’inventario, consente al minore di rinunciare all’eredità entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età o tale facoltà gli è preclusa e il minore può solo redigere l’inventario nel termine di legge?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

In tema di eredità devoluta a minori o incapaci, la dichiarazione di accettazione con beneficio d’inventario resa dal legale rappresentante, ancorché non seguita dall’inventario, comporta per il minore l’acquisto della qualità di erede e, pertanto, rende inefficace la rinuncia all’eredità da lui manifestata una volta divenuto maggiorenne (Cass., Sez. Un., 6 dicembre 2024, n. 31310).

 L’art. 471 c.c. prescrive che l’eredità a favore di minori o interdetti deve essere accettata con beneficio di inventario. La ratio della disciplina risiede nell’esigenza di tutelare i predetti soggetti dal rischio di depauperare il loro patrimonio a causa di debiti altrui. In questa prospettiva si giustifica la previsione della nullità della dichiarazione di accettazione dell’eredità pura e semplice da parte del legale rappresentante. Pertanto, all’accettazione dell’eredità mediante dichiarazione con forma scritta ad substantiam si pone come unica alternativa la rinuncia.

Ai sensi dell’art. 471 c.c. la redazione dell’inventario deve avvenire entro un anno dal conseguimento della maggiore età, quindi entro un termine ben più ampio di quello previsto a favore del chiamato all’eredità maggiorenne che, invece, deve procedere all’inventario entro tre mesi ai sensi dell’art. 485 c.c. La circostanza che l’esecuzione dell’inventario si realizzi a distanza di tempo dalla dichiarazione di accettazione dell’eredità ha indotto la dottrina e la giurisprudenza ad assumere posizioni discordanti sul rapporto accettazione-inventario.

Posto che la dichiarazione di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario esprime la volontà del chiamato di accettare l’eredità e che tale dichiarazione è irrevocabile, secondo un primo indirizzo giurisprudenziale la dichiarazione è ex se idonea a far acquisire, ancorché in via provvisoria, il beneficio, i cui effetti si consolideranno una volta redatto l’inventario nei termini previsti. Si individua, in altri termini, in capo all’erede un onere di redigere l’inventario e in caso di mancato adempimento si decade dal beneficio (Cass., sez. lav., 2 marzo 1987, n. 2198; Cass., sez. II, 1° aprile 1995, n. 3842). Viceversa, un altro orientamento individua nell’accettazione con beneficio d’inventario una fattispecie a formazione progressiva, ove tanto la dichiarazione quanto l’esecuzione dell’inventario dell’eredità sono indispensabili per acquisire l’effetto della limitazione della responsabilità. La dichiarazione, infatti, ha una propria efficacia ma la limitazione delle responsabilità deriva dall’inventario, mancando il quale l’accettante è considerato erede puro e semplice (Cass., sez. II, 26 marzo 2018, n. 7477).

Tuttavia, con particolare riguardo all’ipotesi in cui il chiamato all’eredità sia un minore una parte della giurisprudenza sostiene che una volta raggiunta la maggiore età l’erede possa rinunciare all’eredità, ritenendo inoperante la disciplina di cui all’art. 485 c.c. (Cass., sez. II, 6 dicembre 2016, n. 841; Cass., sez. II, 16 novembre 2018, n. 29665).

Secondo un opposto orientamento, invece, in caso di accettazione con beneficio di inventario da parte di un minore, una volta che questi raggiunge la maggiore età, trova applicazione la disciplina di cui all’art. 489 c.c. In forza di questa disposizione il minore divenuto maggiorenne non può rinunciare all’eredità ma può solo procedere all’inventario la cui omissione comporta che egli sia considerato erede puro e semplice (Cass., sez. II, 23 agosto 1999, n. 8832; Cass., sez. II, 5 giugno 2019, n. 15267).

Questo orientamento è stato condiviso anche dalla Cassazione a sezioni unite secondo cui l’accettazione, seppur beneficiata, è sempre accettazione dell’eredità ed esprime la volontà del chiamato a succedere nel patrimonio del defunto. Inoltre, la decadenza dal beneficio di inventario ex art. 489 c.c. fa si che il minore divenuto maggiorenne sia considerato erede puro e semplice. A ulteriore sostegno di questa conclusione la Cassazione invoca l’art. 320, comma 3, c.c. che prevede che l’accettazione dell’eredità del minore sia sottoposta all’autorizzazione del giudice tutelare e l’art. 484 c.c che prevede l’inserzione della dichiarazione di accettazione beneficiata, disgiunta dall’inventario, nel registro delle successioni e la sua trascrizione nei registi immobiliari.

 

(*Contributo in tema di “Eredità devoluta a minori incapaci e accettazione con beneficio d’inventario”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

prestazioni ambulatoriali

Prestazioni ambulatoriali: incostituzionale la legge che anticipa le tariffe LEA La Corte costituzionale ha annullato la norma pugliese che anticipava l’efficacia del decreto tariffe per le prestazioni ambulatoriali e protesiche, violando il coordinamento della finanza pubblica

Tariffe sanitarie, la Regione Puglia ha violato i limiti

Prestazioni ambulatoriali: con la sentenza n. 122 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 26 della legge regionale n. 28/2024 della Puglia, che aveva anticipato sul proprio territorio l’efficacia del decreto interministeriale del 23 giugno 2023, contenente le nuove tariffe per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e protesica previste nei Livelli essenziali di assistenza (LEA).

La posizione del Governo: violato l’art. 117 Cost.

Il ricorso del Governo si è fondato sul contrasto con l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza sul coordinamento della finanza pubblica.
La norma pugliese è stata accusata di aver aggirato il procedimento statale di definizione e attuazione dei LEA, stabilendo unilateralmente livelli di assistenza e spesa non autorizzati, in violazione del programma di rientro sanitario cui la Regione è soggetta.

Il ruolo del decreto tariffe e del procedimento statale

La Consulta ha ricostruito il percorso di approvazione delle tariffe sanitarie, definito nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2017 e attuato con il decreto interministeriale del 25 novembre 2024.
Secondo la Corte, la Regione Puglia ha anticipato illegittimamente l’efficacia del decreto del 23 giugno 2023, eludendo il meccanismo previsto dall’art. 8-sexies del d.lgs. n. 502/1992, che rientra tra i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

Perché il procedimento non può essere aggirato

Il procedimento delineato dalla legge statale per la determinazione delle tariffe mira a garantire un equilibrio tra diritto alla salute e sostenibilità finanziaria.
Qualsiasi intervento regionale che incida sull’efficacia o sull’applicabilità di questi atti statali, ha precisato la Corte, deve rispettare il medesimo iter procedurale e derivare dallo stesso livello di potere.

Le altre censure assorbite, ma lo Stato deve fare la sua parte

Pur accogliendo il ricorso, la Corte ha tenuto a precisare che anche lo Stato è tenuto ad agire con tempestività nell’attuazione e aggiornamento dei LEA.
Un aggiornamento non puntuale delle prestazioni sanitarie essenziali, infatti, pregiudica il diritto alla salute, che deve essere garantito su base nazionale e in modo uniforme, alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche e tecnologiche.

Rispetto delle competenze e collaborazione leale

La decisione riafferma il principio secondo cui le Regioni non possono alterare l’equilibrio tra competenze statali e autonomie territoriali, soprattutto in materie delicate come la sanità pubblica.
Al tempo stesso, la Corte invita lo Stato a non ritardare l’aggiornamento dei LEA, perché solo un’azione coerente e collaborativa tra istituzioni può assicurare eguaglianza e tutela effettiva dei diritti fondamentali.

omessa fatturazione avvocato

Omessa fatturazione avvocato: violate lealtà e dignità forense Il CNF sancisce che l’omessa fatturazione è illecito deontologico perché lede l’immagine dell’avvocatura e viola i doveri di solidarietà e correttezza fiscale

L’obbligo di fatturazione come dovere deontologico

Omessa fatturazione avvocato: con la sentenza n. 453/2024, pubblicata il 26 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, il Consiglio Nazionale Forense si è espresso in modo netto sull’omessa fatturazione da parte dell’avvocato, qualificandola come condotta disciplinarmente rilevante.

La decisione richiama gli artt. 16 e 29 del Codice Deontologico Forense, che impongono l’obbligo di adempiere correttamente agli obblighi fiscali e previdenziali.

Secondo il CNF, la fatturazione non è solo un adempimento civilistico e fiscale, ma rappresenta anche un preciso dovere deontologico, strettamente connesso alla lealtà e alla trasparenza dell’attività professionale.

Violazione del principio di solidarietà fiscale

La sentenza evidenzia che l’omessa emissione della fattura costituisce violazione del principio di solidarietà, in quanto l’adempimento fiscale è funzionale alla giusta redistribuzione degli oneri pubblici.

L’avvocato, in quanto professionista iscritto all’albo, è tenuto a operare in conformità ai valori della correttezza fiscale e della trasparenza. La violazione di questi obblighi compromette la fiducia della collettività e danneggia l’immagine dell’intera categoria forense.

L’immagine della professione e la responsabilità disciplinare

Il CNF ha sottolineato che il rispetto dei doveri tributari costituisce un canone generale dell’agire professionale, volto a tutelare l’affidamento dei cittadini nella figura dell’avvocato come professionista leale e corretto.

La condotta omissiva non si esaurisce in una mera infrazione tributaria, ma assume rilevanza deontologica autonoma, poiché contrasta con il dovere di dignità e decoro sancito dal Codice Deontologico.

La ratio della decisione

Il Consiglio ha affermato che: “Il dovere di lealtà e correttezza fiscale nell’esercizio della professione è un canone generale dell’agire di ogni avvocato, che mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato stesso quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività.”

La corretta fatturazione è quindi una manifestazione concreta di quei valori di legalità, trasparenza e solidarietà che caratterizzano la funzione difensiva.

revoca dell'amministratore

Revoca amministratore di condominio solo con gravi irregolarità accertate Il Tribunale di Pescara conferma: l’amministratore condominiale può essere revocato solo in caso di gravi violazioni documentate e dannose per il condominio

Revoca amministratore di condominio solo per motivi seri

Revocato amministratore: non bastano disaccordi, sospetti o ritardi lievi per ottenere la revoca giudiziale dell’amministratore di condominio. È quanto afferma il Tribunale di Pescara con un decreto camerale pubblicato il 26 giugno 2025, che richiama un principio consolidato: l’intervento del giudice in ambito condominiale deve essere eccezionale e motivato da irregolarità gravi, specifiche e dimostrabili, tali da compromettere la corretta amministrazione e danneggiare l’interesse collettivo.

Il caso

Il procedimento è stato avviato da un gruppo di condòmini che avevano invocato la revoca ex art. 1129 c.c. per una serie di presunte irregolarità attribuite all’amministratore. Tra le accuse: ritardi nelle convocazioni, mancata esecuzione di delibere, difficoltà nell’accesso alla documentazione, irregolarità fiscali, scarsa trasparenza nella comunicazione su procedimenti legali e altro ancora. Tuttavia, nessuna delle doglianze è risultata fondata o tale da giustificare l’intervento giudiziario.

Assemblee convocate nei termini legali

Il tribunale ha chiarito che, sebbene talvolta non rispettati i tempi regolamentari interni, i ritardi non hanno superato il limite di 180 giorni stabilito dall’art. 1130, n. 10 c.c. e non hanno inciso sul diritto dei condòmini ad esercitare un controllo effettivo sulla gestione. Dunque, non si configurano come gravi irregolarità.

Nessuna inosservanza delle delibere

In relazione al mancato adeguamento delle tabelle millesimali, è stato evidenziato che il tema non era stato formalmente posto all’attenzione dell’amministratore e che l’interessato aveva avviato in autonomia un tentativo di mediazione, poi abbandonato. Questo ha portato il giudice a escludere un interesse reale e concreto sulla questione.

Trasparenza documentale confermata

Quanto al presunto diniego di accesso agli atti condominiali, il tribunale ha accertato che l’amministratore aveva risposto alle richieste del ricorrente, garantendo la consultazione dei documenti. Le accuse di opacità sono state quindi rigettate per assenza di riscontri oggettivi.

Contestazioni generiche e prive di rilevanza

Altre lamentele, come l’utilizzo di diserbanti maleodoranti o la gestione dell’impianto di videosorveglianza, sono state considerate generiche o non supportate da prova, quindi del tutto inidonee a fondare un provvedimento di revoca.

Revoca dell’amministratore è misura residuale e proporzionata

Nelle motivazioni, il tribunale ha richiamato anche precedenti della Corte di cassazione (tra cui Cass. n. 10844/2020 e n. 1405/2007), che qualificano la revoca giudiziale dell’amministratore come strumento eccezionale, attivabile solo in presenza di violazioni gravi e dannose. Errori formali, divergenze interpretative o incomprensioni non bastano a giustificare l’interruzione forzosa dell’incarico.

Equilibrio tra controllo e funzionalità amministrativa

Infine, la decisione sottolinea un ulteriore principio: l’attività gestionale dell’amministratore non può essere paralizzata da richieste pretestuose o vessatorie. Il diritto dei condòmini all’informazione e al controllo deve essere esercitato in modo proporzionato e responsabile, senza trasformarsi in un ostacolo sistematico all’efficienza amministrativa.

giurista risponde

Mutuo con Euribor: il caso del cartello bancario che altera l’indice Il mutuo che utilizza l’Euribor come parametro per la determinazione del tasso di interesse è nullo se tale indice risulta alterato da un cartello bancario, configurandosi il contratto come “negozio a valle” rispetto a un’intesa restrittiva della concorrenza vietata dall’art. 101 TFUE? Inoltre, la manipolazione del parametro Euribor può riflettersi sulla validità del contratto anche in assenza di una partecipazione o consapevolezza del mutuante?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

Il mutuo che utilizza l’Euribor come parametro per la determinazione del tasso di interesse è nullo se tale indice risulta alterato da un cartello bancario, configurandosi il contratto come “negozio a valle” rispetto a un’intesa restrittiva della concorrenza vietata dall’art. 101 TFUE? Inoltre, la manipolazione del parametro Euribor può riflettersi sulla validità del contratto anche in assenza di una partecipazione o consapevolezza del mutuante?

In relazione alle questioni: se il contratto di mutuo contenente la clausola per la determinazione del tasso di interesse parametrata all’indice Euribor costituisca un negozio «a valle» rispetto all’intesa restrittiva della concorrenza accertata, per il periodo dal 29 settembre 2005 al 30 maggio 2008, dalla Commissione dell’Unione Europea con decisioni del 4 dicembre 2013 e del 7 dicembre 2016, o se, invece, indipendentemente dalla partecipazione del mutuante a siffatta intesa o dalla sua conoscenza dell’esistenza di tale intesa e dell’intenzione di avvalersi del relativo risultato, tale non sia, mancando il collegamento funzionale tra i due atti, necessario per poter ritenere che il contratto di mutuo costituisca lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti; se la alterazione dell’Euribor a causa di fatti illeciti posti in essere da terzi rappresenti una causa di nullità della clausola di determinazione degli interessi di un contratto di mutuo parametrata su tale indice per indeterminabilità dell’oggetto o piuttosto costituisca un elemento astrattamente idoneo ad assumere rilevanza solo nell’ambito del processo di formazione della volontà delle parti, laddove idoneo a determinare nei contraenti una falsa rappresentazione della realtà, ovvero quale fatto produttivo di danni), poiché la Corte d’appello di Cagliari ha sottoposto alla Corte di Giustizia UE, ex art. 267 TFUE, la questione pregiudiziale «se dalla violazione dell’art. 101 TFUE (e dell’art. 2 legge nazionale 287/1990), accertata dalla Commissione Europea e confermata dalla Corte di Giustizia, discendano effetti sui singoli contratti stipulati dagli utenti finali e se tali effetti siano rilevanti soltanto per il mercato dei derivati oppure riguardino tutti i rapporti giuridici che abbiano fatto applicazione dell’Euribor oggetto dell’intesa restrittiva della concorrenza», occorre rinviare a nuovo ruolo la trattazione del ricorso per ulteriori approfondimenti (Cass., Sez. Un., 15 marzo 2025, n. 6943 (determinazione del tasso di interesse).

Con ordinanza interlocutoria, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno rinviato a nuovo ruolo la trattazione della causa, ritenendo opportuno attendere la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea su una questione interpretativa già sollevata con rinvio pregiudiziale dalla Corte d’Appello di Cagliari, sez. civ., ord. 25 gennaio 2025 di rilevanza sistemica.

La vicenda origina dal ricorso proposto da alcuni mutuatari i quali contestano la validità della clausola contrattuale che indicizza il tasso d’interesse all’Euribor, sostenendo che il parametro sarebbe stato oggetto di manipolazione da parte di un cartello bancario sanzionato dalla Commissione Europea con le decisioni del 4 dicembre 2013 e del 7 dicembre 2016. I ricorrenti invocano l’illiceità della clausola sotto il profilo della nullità per violazione di norme imperative (art. 101 TFUE; art. 2 L. 287/1990), nonché per indeterminatezza dell’oggetto contrattuale (artt. 1284, 1346, 1418 e 1825 1346 c.c.), in quanto fondato su un parametro falsato.

Il quesito giuridico di fondo è duplice: i) sotto il profilo antitrust, si pone il dubbio se i contratti bancari che recepiscono un parametro frutto di un’intesa illecita, seppur in mercati diversi da quello originariamente colpito (il mercato dei derivati), possano essere considerati nulli ex art. 101, comma 2, TFUE in quanto sbocco funzionale dell’intesa vietata, anche in difetto di partecipazione o consapevolezza da parte del mutuante o se – al contrario – in difetto di un collegamento funzionale tra l’accordo illecito e il singolo contratto bancario, debba escludersi la nullità di quest’ultimo, circoscrivendo gli effetti dell’intesa vietata al solo mercato dei derivati, indipendentemente dalla partecipazione o consapevolezza del mutuante di siffatta intesa anticoncorrenziale; ii) sotto il profilo civilistico, si discute se la manipolazione del parametro Euribor qualora accertata, incida sulla struttura causale del contratto e sulla determinabilità dell’oggetto (artt. 1346 e 1418 c.c.), rendendo nulla la clausola di determinazione degli interessi ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., producendo effetti anche nei confronti di soggetti terzi rispetto alla condotta anticoncorrenziale, oppure se tale alterazione possa essere considerata rilevante solo nel processo di formazione della volontà negoziale delle parti, laddove abbia determinato nei contraenti una falsa rappresentazione della realtà, ovvero quale fatto generatore di un danno risarcibile.

Le Sezioni Unite, in considerazione della complessità e della rilevanza sistemica della questione, nonché dell’esistenza del rinvio pregiudiziale già pendente dinanzi alla CGUE ad opera della Corte d’Appello di Cagliari con ordinanza del 25 gennaio 2025, hanno optato per la sospensione del giudizio, in attesa dei chiarimenti della Corte europea.

È rilevante evidenziare che la Corte d’Appello ha investito la Corte del compito di chiarire se l’art. 101 TFUE implichi anche l’invalidità delle clausole dei contratti di mutuo, di finanziamento e in generale di qualunque rapporto giuridico che abbia recepito l’Euribor alterato oggetto dell’intesa restrittiva della concorrenza, pur operando in mercati formalmente distinti da quello dei derivati. Ha altresì sollevato il dubbio interpretativo circa l’efficacia vincolante delle decisioni della Commissione europea in merito alla manipolazione dell’indice, ai sensi dell’art. 16, par. 1, Reg. CE 1/2003.

La Corte d’Appello nell’ordinanza di rimessione ha condotto un’analitica ricognizione dei principali orientamenti giurisprudenziali formatisi in seno alla Corte di Cassazione, evidenziandone la coerenza o la divergenza rispetto alla questione oggetto di rinvio.

Una linea giurisprudenziale conforme riconosce l’incidenza dell’intesa restrittiva della concorrenza anche sui contratti bancari a valle, pur se formalmente esterni al mercato dei derivati originariamente colpito, valorizzando le decisioni della Commissione Europea quale prova privilegiata e vincolante per i giudici nazionali circa l’esistenza di una intesa illecita. Anche in assenza di una partecipazione diretta del mutuante, la clausola contrattuale che recepisce un parametro alterato come l’Euribor manipolato nel periodo oggetto dell’intesa risulta nulla, poiché rappresenta lo sbocco funzionale dell’intesa vietata (Cass., sez. III, 13 dicembre 2023, n. 34889).

In particolare, una volta accertata la manipolazione del parametro di riferimento, la clausola che vi rinvia viene ritenuta viziata nella sua struttura causale. L’alterazione comporta una sopravvenuta inidoneità del parametro a riflettere la volontà negoziale delle parti, causando l’indeterminabilità dell’oggetto contrattuale e, conseguentemente, la nullità della clausola ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., anche se l’alterazione è imputabile a terzi e le parti ne erano ignare (Cass., sez. III, 3 maggio 2024, n. 12007).

Sebbene riferita ad una differente tipologia contrattuale, anche la pronuncia in tema di fideiussioni conformi al modello ABI ha sancito il principio secondo cui la nullità dell’intesa a monte si estende necessariamente ai contratti a valle, quando questi costituiscano l’attuazione degli effetti distorsivi sul mercato. Tale impostazione è ritenuta dalla Corte d’Appello di Cagliari perfettamente applicabile anche ai contratti di mutuo che incorporano il parametro Euribor manipolato (Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2021, n. 41994).

In termini ancor più generali, è stato riconosciuto che il consumatore, ancorché estraneo all’intesa, può agire per far valere la nullità della medesima e dei contratti derivati, in quanto strumenti con cui si realizza l’elusione della libertà concorrenziale e si limita la sua possibilità di scelta consapevole tra alternative di mercato (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207).

Accanto a queste pronunce, la Corte d’Appello di Cagliari segnala l’esistenza di un rilevante orientamento difforme, espresso dalla Cassazione (Cass., sez. I, 18 giugno 2024, n. 19900), secondo cui l’accordo illecito accertato dalla Commissione Europea avrebbe inciso unicamente sul mercato degli strumenti derivati (EIRD), senza estendersi ad altri settori, come quello dei mutui a tasso variabile. Di conseguenza, non vi sarebbe il collegamento funzionale necessario per ritenere che il contratto bancario costituisca lo sbocco dell’intesa vietata ai sensi dell’art. 101, comma 2 TFUE. La stessa pronuncia, inoltre, ridimensiona il valore probatorio delle decisioni della Commissione, escludendo che esse possano fungere da “prova privilegiata” nei giudizi nazionali, pur riconoscendo loro carattere vincolante sul piano giuridico.

 

(*Contributo in tema di “Mutuo con Euribor come parametro per la determinazione del tasso di interesse: il caso del cartello bancario che altera l’indice ”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

licenziamento e incapacità

Licenziamento e incapacità naturale: più tempo per l’impugnazione La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 6 l. 604/1966 se non esclude l’onere dell’impugnazione stragiudiziale in caso di incapacità naturale del lavoratore

Licenziamento e incapacità naturale: l’intervento della Consulta

Licenziamento e incapacità naturale: l’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, numero 604 (Norme sui licenziamenti individuali) è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, se al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento o in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche in via stragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche stragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di duecentoquaranta giorni dalla ricezione della sua comunicazione.

È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza numero 111/2025, accogliendo la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione.

Il caso esaminato: lavoratrice in stato di incapacità

Nella fattispecie, una lavoratrice alla quale era stato intimato il licenziamento disciplinare, e che si era trovata, al momento della ricezione del recesso datoriale, in uno stato depressivo di tale gravità da dover essere sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio, non aveva per tale ragione esperito l’impugnazione stragiudiziale entro il termine prescritto, ma solo dopo aver recuperato la pienezza delle sue facoltà intellettive e volitive.

I limiti costituzionali all’onere di impugnazione

La Corte ha osservato che l’onere della previa impugnazione, anche stragiudiziale, previsto, a pena di decadenza, dalla disposizione censurata, pur riconducibile all’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella configurazione degli istituti processuali e fondato sulla esigenza di far emergere in tempi brevi il contenzioso sul recesso datoriale, può tradursi in un ostacolo all’accesso alla tutela giurisdizionale nel caso in cui, al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento, o comunque in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche stragiudiziale, il lavoratore non sia in grado di comprendere il significato dell’atto datoriale né di determinarsi in merito alle iniziative da assumere.

Violazione degli articoli 3, 4, 24 e 35 della Costituzione

La Corte ha, pertanto, ritenuto che la disposizione censurata esibisca una manifesta irragionevolezza, ponendosi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione e violando, al contempo, il diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e alla sua tutela (art. 35, primo comma, Cost.), anche in sede giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.).

L’esclusione dell’onere stragiudiziale per il lavoratore incapace

All’accertato vulnus costituzionale la Consulta non ha, tuttavia, inteso porre rimedio nei termini auspicati dal giudice a quo e, cioè, attraverso l’inserimento nella disposizione in questione di una causa di differimento della decorrenza del termine per l’impugnazione stragiudiziale dalla data della ricezione del licenziamento a quella del riacquisto, da parte dell’interessato, della piena capacità di intendere e di volere.

Il bilanciamento con le esigenze di certezza giuridica

Una pronuncia siffatta – ha rilevato la sentenza – introdurrebbe un elemento di aleatorietà in una disciplina orientata da specifiche esigenze di celerità e di sicurezza dei rapporti giuridici. La Corte ha, quindi, ricondotto a legittimità la norma dichiarata incostituzionale escludendo, per il lavoratore incapace di intendere e di volere, l’operatività dell’onere della previa contestazione stragiudiziale entro il termine prescritto, pur mantenendo fermo lo sbarramento finale costituito dal termine massimo complessivo per l’impugnazione giudiziale, pari a duecentoquaranta giorni, dato dalla somma del termine per la contestazione stragiudiziale (fissato, dal primo comma dell’art. 6, in sessanta giorni) e del successivo termine per il deposito del ricorso, anche cautelare, o per la comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato (stabilito dal secondo comma in centottanta giorni).

diritto al pasto

Diritto al pasto anche fuori dalle fasce orarie per i turnisti La Corte di Cassazione ha chiarito che il diritto al pasto per i lavoratori turnisti non può essere subordinato a specifiche fasce orarie, salvo diversa previsione del CCNL applicato

Diritto al pasto: il principio espresso dalla Cassazione

Diritto al pasto: con l’ordinanza n. 16938/2025, la sezione lavoro della Cassazione ha affermato che il diritto alla fruizione del pasto da parte del lavoratore non può essere limitato in base all’orario in cui viene prestata l’attività lavorativa, se non vi è una chiara previsione contrattuale in tal senso.

La pronuncia trae origine da una controversia promossa da un dipendente turnista di un’azienda ospedaliera, il quale era stato escluso dal servizio mensa aziendale a causa della particolare articolazione del proprio orario di lavoro.

Il caso concreto: esclusione dal servizio mensa

Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, l’azienda sanitaria aveva negato al lavoratore l’accesso al servizio mensa, sostenendo che lo stesso avrebbe potuto consumare il pasto prima o dopo il turno, non rientrando nelle consuete fasce orarie previste per la pausa pranzo.

Tuttavia, nessuna disposizione del contratto collettivo nazionale del comparto Sanità applicato prevedeva una tale limitazione. Di conseguenza, secondo la Corte, non era possibile subordinare il diritto al pasto al rispetto di determinate fasce orarie.

Pasto e pausa nell’orario di lavoro

La Cassazione ha chiarito che il diritto al pasto è riconducibile al diritto alla pausa durante l’orario di lavoro, così come stabilito dalle disposizioni contrattuali collettive. Pertanto, l’effettività del diritto non può essere negata per il solo fatto che la prestazione lavorativa non coincida con l’orario normalmente destinato alla consumazione del pasto.

In altri termini, non assume rilievo il momento esatto della fruizione del pasto, bensì la previsione di una pausa correlata alla turnazione effettivamente svolta dal lavoratore. Questo vale soprattutto nei casi, come quello esaminato, in cui l’orario è strutturato su turni atipici.

L’importanza del contratto collettivo

Elemento centrale della decisione è il richiamo al CCNL applicato. La Corte sottolinea che, in assenza di una disciplina contrattuale che subordini il diritto al pasto a determinate condizioni orarie, non è legittimo escludere i lavoratori turnisti dalla fruizione del servizio mensa.

Il contratto collettivo, pertanto, costituisce la fonte regolatrice esclusiva del diritto in questione e non può essere superato da prassi aziendali o da interpretazioni restrittive da parte del datore di lavoro.

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Il Fascicolo previdenziale INPS del cittadino è uno degli strumenti digitali più importanti messi a disposizione dall’INPS per la gestione online della posizione contributiva, previdenziale e assistenziale. Accessibile con credenziali personali, consente a lavoratori e pensionati di consultare in autonomia documenti, certificazioni e comunicazioni ufficiali.

A cosa serve il Fascicolo previdenziale INPS

Il portale è concepito per offrire una visione completa e personalizzata della situazione previdenziale del cittadino. Attraverso l’accesso online, è possibile:

  • monitorare i contributi versati;

  • consultare e scaricare certificazioni sanitarie e reddituali;

  • accedere alla corrispondenza ricevuta dall’INPS;

  • seguire lo stato di domande e richieste;

  • verificare pagamenti, pensioni e prestazioni in corso.

Chi può utilizzare il servizio

Il Fascicolo previdenziale è rivolto a diverse categorie di utenti, in particolare:

  • pensionati;

  • lavoratori dipendenti, pubblici e privati;

  • lavoratori autonomi e iscritti alla Gestione Separata;

  • cittadini italiani e stranieri con posizione contributiva INPS;

  • soggetti coinvolti in procedimenti per l’invalidità civile.

Come accedere al Fascicolo previdenziale

Per entrare nel portale, è necessario autenticarsi con una delle seguenti credenziali:

  • SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale);

  • CIE (Carta d’Identità Elettronica);

  • CNS (Carta Nazionale dei Servizi).

Il servizio è disponibile 24 ore su 24, direttamente dal sito www.inps.it.

Funzionalità disponibili

Queste le funzionalità disponibili nel fascicolo previdenziale INPS:

Documentazione e anagrafica

  • Consultazione dell’estratto conto contributivo e della posizione assicurativa;

  • Accesso alle informazioni anagrafiche di riepilogo;

  • Visualizzazione di provvedimenti emessi dalla Gestione Dipendenti Pubblici.

Pensioni e prestazioni

  • Dettagli su pensioni attive, incluse deleghe, riscossione e cambio ufficio pagatore;

  • Informazioni su domande di pensione, accettate o respinte;

  • Monitoraggio di richieste presentate, pagamenti ricevuti e dichiarazioni reddituali;

  • Accesso ai dati relativi al Bonus 80 euro e alle campagne RED.

Invalidità civile

  • Visualizzazione del certificato medico introduttivo;

  • Stato dell’iter sanitario e delle domande presentate.

Comunicazioni e modelli fiscali

  • Consultazione della cassetta postale online per documentazione ufficiale INPS;

  • Accesso a modelli fiscali, come Certificazione Unica (CU), CUD storici e certificato OBIS/M.

Altri servizi disponibili

  • Gestione dei piani di cessione del quinto;

  • Servizio INPS Risponde per domande inviate agli sportelli informativi;

  • Dati su rapporti assicurativi e previdenziali, anche per genitori lavoratori.

femminicidio

Femminicidio: reato autonomo Approvato all’unanimità dal Senato il ddl che introduce il delitto di femminicidio, contrasta la  violenza nei confronti delle donne e tutela le vittime

Il delitto di femminicidio

Il femminicidio è prossimo a diventare reato autonomo. Il Senato in data 23 luglio 2025 ha approvato all’unanimità, il testo già approvato il 7 marzo 2025 dal Consiglio dei Ministri, che introduce nel codice penale il delitto di femminicidio e dispone altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime.

La Commissione giustizia del Senato in data 9 luglio 2025 aveva già approvato il testo all’unanimità. Il disegno di legge, modificato rispetto alla versione originaria del CdM,  è pronto a diventare legge, dopo l’approvazione da parte della Camera.

Cosa prevede il testo

Il testo appronta un intervento ampio e sistematico per rispondere alle esigenze di tutela contro il fenomeno di drammatica attualità delle condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne.

Nuova fattispecie penale di femminicidio

Cambia la formulazione della fattispecie penale di “femminicidio”, rispetto a quella prevista inizialmente e che, per l’estrema urgenza criminologica del fenomeno e per la particolare struttura del reato, viene sanzionata con la pena dell’ergastolo.

In particolare, si prevede che sia punito con tale pena chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali.”

Negli altri casi il reato resta quello di omicidio.

In linea con tale intervento, le stesse circostanze di commissione del reato sono introdotte quali aggravanti per i delitti più tipici di codice rosso, con la previsione di un aumento variabile delle pene previste, a seconda del delitto.

Le altre novità

Il testo inoltre, tenendo conto anche delle modifiche apportate:

  • prevede laudizione della persona offesa da parte del pubblico ministero che conduce le indagini, salva la possibilità di delega alla polizia giudiziaria con decreto motivato. L’audizione della persona offesa però non può essere delegata se si procede per il delitto aggravato di cui all’articolo 612 bi, m che punisce gli atti persecutori;
  • introduce specifici obblighi informativi in favore dei prossimi congiunti della vittima di femminicidio, nei casi in cui al condannato sia applicate misure alternative alla detenzione o benefici similari che gli consentono di uscire dal carcere, qualora i destinatari di queste comunicazioni lo abbiano richiesto;
  • dispone che il Tribunale di Sorveglianza debba valutare con molta più attenzione la possibilità di concedere permessi all’indagato o al condannato nelle vicinanze in cui si trovano i congiunti della vittima;
  • non assoggetta al limite temporale di 45 giorni previsto per le intercettazioni reati previsti dal codice rosso ( revenge porn, stalking, violenza sessuale, maltrattamenti, ecc.);
  • non contempla più il parere non vincolante della vittima sulla congruità della pena in caso di patteggiamento per i reati da codice rosso e connessi e l’onere motivazionale del giudice in caso di disaccordo con le indicazione della persona offesa;
  • rafforza gli obblighi formativi dei magistrati, previsti dall’ 6, comma 2, della legge n. 168 del 2023 in materia di violenza contro le donne, e violenza domestica;
  • prevede semplificazioni per accertare violenze sessuali facilitate da sostanze psicotrope. Sarà infatti più facile identificare e provare l’assunzione di tali sostanze da parte della vittima. Questo sarà possibile grazie a un Tavolo tecnico al Ministero della Salute che definirà protocolli uniformi a livello nazionale per il prelievo, l’analisi e la conservazione dei campioni. Le Regioni promuoveranno inoltre campagne di sensibilizzazione sui pericoli delle droghe che favoriscono le violenze sessuali;
  • potenzia il braccialetto elettronico prevedendone l’attivazione a 1 km di distanza in sostituzione dei 500 metri previsti fino ad oggi.
  • si rafforza la tutela delle vittime, garantendo l’accesso ai figli delle donne vittime di violenza che abbiano compiuto 14 anni nei centri antiviolenza senza la preventiva autorizzazione dei genitori o dei soggetti che ne esercitano la responsabilità genitoriali al fine di ricevere informazioni e orientamento.

Convenzione di Istanbul

L’intervento si inserisce anche nel quadro degli obblighi assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione di Istanbul e nel solco delle linee operative disegnate dalla nuova direttiva (UE) 1385/2024 in materia di violenza contro le donne, nonché delle direttive in materia di tutela delle vittime di reato.

sequestro a scopo di estorsione

Sequestro a scopo di estorsione: pene adeguate La Corte costituzionale conferma che la pena per il sequestro a scopo di estorsione non viola il principio di proporzionalità, grazie agli strumenti interpretativi a disposizione del giudice

Proporzionalità della pena nel sequestro estorsivo

Sequestro a scopo di estorsione: la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2025, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della pena prevista per il delitto di sequestro di persona a scopo estorsivo, ritenendo che il giudice disponga già di strumenti interpretativi e applicativi idonei a garantire il rispetto del principio di proporzionalità della pena, sancito dall’art. 27, comma 3, della Costituzione.

Il caso concreto esaminato dalla Consulta

La pronuncia è intervenuta su rinvio della Corte d’assise di Torino, che aveva sollevato dubbi di legittimità costituzionale in un procedimento penale nei confronti di tre imputati accusati di avere privato, per breve tempo, alcune vittime della libertà personale, allo scopo di ottenere pagamenti compresi tra 100 e 320 euro come corrispettivo per prestazioni sessuali, che le persone offese ritenevano gratuite. Il fatto era stato qualificato come sequestro estorsivo, reato punito, ai sensi dell’art. 630 c.p., con la reclusione da venticinque a trent’anni.

La pena per il sequestro estorsivo: origine e ratio

La Corte ha richiamato il contesto storico della norma, evidenziando come la previsione di una pena di eccezionale severità fosse stata introdotta in risposta ai sequestri di persona verificatisi negli anni Settanta, caratterizzati da una lunga durata della privazione della libertà personale, riscatti elevatissimi e pericolo per la vita degli ostaggi. In tale contesto, l’inasprimento sanzionatorio era giustificato.

Il correttivo introdotto nel 2012 e gli strumenti oggi disponibili

Già con la sentenza n. 68 del 2012, la Corte costituzionale aveva giudicato manifestamente sproporzionata la pena minima di venticinque anni nei casi di sequestro di minore gravità, introducendo la possibilità di riduzione fino a un terzo della pena (minimo di sedici anni e otto mesi di reclusione).

Con la nuova pronuncia, la Corte ribadisce che, anche qualora la pena ridotta appaia ancora eccessiva, il giudice può fare applicazione del principio di proporzionalità, utilizzandolo come criterio interpretativo della norma penale, per escludere l’applicabilità dell’art. 630 c.p. ai fatti che non raggiungano la soglia di gravità voluta dal legislatore.

L’obbligo del giudice di una valutazione conforme al principio di proporzione

La Consulta afferma che il giudice deve valutare attentamente la qualificazione giuridica del fatto, verificando se esso configuri effettivamente un sequestro a scopo di estorsione, oppure se sia più correttamente riconducibile a reati diversi, come il sequestro di persona semplice (art. 605 c.p.), l’estorsione (art. 629 c.p.) o la rapina (art. 628 c.p.).

Tali reati, pur essendo gravi, prevedono pene più proporzionate alla lesione effettiva del bene giuridico tutelato, evitando così l’irrogazione di una sanzione eccessiva rispetto alla concreta entità del fatto.

La compatibilità con il principio di legalità

Infine, la Corte precisa che questa interpretazione non viola il principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.). Tale principio, infatti, impedisce l’applicazione analogica in malam partem, ma non esclude una interpretazione restrittiva della norma incriminatrice, qualora il fatto concreto sia estraneo ai fenomeni criminosi che il legislatore ha inteso colpire con una sanzione di particolare rigore.