foto di minori

Foto di minori sui social: serve il consenso di entrambi i genitori Il Garante Privacy ammonisce un padre che aveva pubblicato la foto del figlio minore di 14 anni sui social senza il consenso della madre

Foto dei minori sui social

No alle foto di minori sui social senza il consenso di entrambi i genitori. Per postare sui social network immagini che ritraggono minori di 14 anni è necessario il preventivo consenso di entrambi i genitori. Invece se il minore ha compiuto quattordici anni la normativa italiana gli riconosce la facoltà di decidere autonomamente sulla pubblicazione. Questo è ciò che ha ribadito il Garante Privacy intervenuto a seguito del reclamo di una madre, che lamentava la pubblicazione di una foto del figlio, minore di quattordici anni, da parte del padre sul proprio profilo Facebook.

Immagine lesiva riservatezza del figlio

La donna aveva già chiesto all’uomo, senza alcun risultato, la rimozione dell’immagine, ritenendola lesiva della riservatezza e della reputazione del figlio.

Il bambino era ritratto insieme al fratello, anch’egli minore e la foto era accompagnata da un commento del padre sulla loro somiglianza pur essendo nati da madri diverse.

Necessario consenso di entrambi i genitori

Nel provvedimento l’Autorità ha precisato che il consenso di entrambi i genitori alla pubblicazione di immagini di minori di quattordici anni è richiesto anche se al padre e alla madre, benché non più conviventi, sia stato riconosciuto l’affidamento condiviso dei figli. Per cui, ha concluso il Garante, “la pubblicazione della foto del minore sulla ‘piazza virtuale’ dei social è da considerarsi illecita”.

L’Autorità perciò ha ammonito il padre, tenendo conto del fatto che non avesse precedenti analoghi, ed ha disposto il divieto di pubblicazione dell’immagine del figlio senza il consenso di entrambi i genitori. L’uomo dovrà anche comunicare (entro 30 giorni dalla data di ricezione del provvedimento) le iniziative intraprese per adempiere alle prescrizioni del Garante.

autonomia differenziata

Autonomia differenziata: parziale bocciatura della Consulta La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittime diverse disposizioni della legge sull'autonomia differenziata pur non bocciando l'intero provvedimento

Autonomia differenziata: l’intervento della Consulta

La Corte Costituzionale ha deciso in merito alle questioni di costituzionalità sollevate sulla Legge n. 86 del 2024 riguardante l’autonomia differenziata delle regioni ordinarie. La sentenza n. 192/2024, il cui contenuto era stato anticipato con comunicato stampa lo scorso 14 novembre, è stata depositata in cancelleria il 3 dicembre 2024.

Il provvedimento conferma che la legge nel suo complesso non è stata giudicata incostituzionale. Tuttavia sono stati rilevati diversi profili di illegittimità legati a specifiche disposizioni del testo legislativo.

Interpretazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione

La Corte ha esaminato in dettaglio l’articolo 116, terzo comma della Costituzione italiana, che permette alle regioni ordinarie di acquisire forme di autonomia differenziata. I giudici hanno sottolineato che tale norma deve essere interpretata nel contesto della struttura dello Stato italiano, che riconosce alle regioni un ruolo fondamentale ma in un quadro che rispetti i principi di unità della Repubblica, solidarietà tra le regioni, eguaglianza e garanzia dei diritti dei cittadini. Inoltre, la Corte ha ribadito che la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni, in applicazione di tale articolo, non deve rispondere a un semplice riparto di potere, ma deve essere finalizzata al bene comune e alla tutela dei diritti costituzionali.

Autonomia differenziata: finalità e funzionalità

La Corte ha inoltre chiarito che l’autonomia differenziata dovrebbe mirare a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, a garantire maggiore responsabilità politica e a rispondere meglio alle esigenze dei cittadini. Tuttavia, sono state evidenziate delle problematiche in merito alla forma e alle modalità con cui le autonomie vengono differenziate.

I profili di incostituzionalità

Nell’analizzare i ricorsi presentati dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, la Corte ha individuato alcune disposizioni della legge sull’autonomia differenziata che risultano incostituzionali.

In particolare, sono state bocciate le seguenti previsioni:

  1. Devoluzione di materie e funzioni: La legge consente che l’intesa tra lo Stato e la regione possa trasferire materie intere o ambiti di materie. La Corte, però, ritiene che la devoluzione debba riguardare solo funzioni specifiche, giustificate in relazione al principio costituzionale di sussidiarietà, che regola la distribuzione dei compiti tra Stato e regioni.
  2. Delega legislativa sui livelli essenziali delle prestazioni (LEP): La legge conferisce una delega legislativa per definire i LEP (diritti civili e sociali), ma la Corte ha sottolineato l’assenza di criteri direttivi adeguati. In tal modo, la decisione sulle prestazioni fondamentali verrebbe rimessa al Governo, limitando il ruolo del Parlamento.
  3. Determinazione dei LEP tramite dPCM: La Corte ha ritenuto illegittima la previsione che affida al Presidente del Consiglio dei Ministri la responsabilità di aggiornare i LEP tramite decreto (dPCM), poiché tale modalità non garantisce sufficiente partecipazione parlamentare.
  4. Modifica delle aliquote tributarie: La legge consente di modificare, tramite decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali destinati a finanziare le funzioni trasferite. Secondo la Corte, questa disposizione potrebbe premiare le regioni inefficienti, che non riescono a garantire l’efficacia dei servizi nonostante i fondi ricevuti.
  5. Concorso obbligatorio agli obiettivi di finanza pubblica: La Corte ha rilevato che la legge prevede la facoltatività del concorso delle regioni agli obiettivi di finanza pubblica, compromettendo i vincoli di solidarietà e l’unità della Repubblica.
  6. Estensione dell’autonomia alle regioni a statuto speciale: La Corte ha escluso che l’autonomia differenziata possa essere applicata anche alle regioni a statuto speciale. Tali regioni hanno già procedure autonome per richiedere forme di maggiore autonomia, quindi l’estensione della legge non è costituzionalmente corretta.

Interpretazioni costituzionalmente orientate

Nonostante le criticità riscontrate, la Corte ha dato un’interpretazione positiva ad alcune altre disposizioni della legge:

  1. Iniziativa legislativa: L’iniziativa per l’approvazione della legge di differenziazione non è riservata esclusivamente al Governo, ma deve coinvolgere anche il Parlamento.
  2. Emendamento dell’intesa: La legge di differenziazione non è un atto “prendere o lasciare”, ma implica che il Parlamento possa apportare modifiche all’intesa, con la possibilità di rinegoziarla.
  3. Definizione dei LEP: La legge deve chiarire meglio quali materie siano soggette alla determinazione dei LEP. In particolare, se una materia non rientra nei LEP, non potranno essere trasferite funzioni che riguardano i diritti civili e sociali.
  4. Compartecipazione tributaria: La Corte ha sottolineato che le risorse per le funzioni trasferite devono essere determinati non sulla base della spesa storica, ma utilizzando criteri di efficienza e fabbisogni standard, in modo da garantire una corretta copertura delle funzioni trasferite.
  5. Clausola di invarianza finanziaria: L’intesa e l’individuazione delle risorse per le funzioni devolute dovranno tener conto del quadro economico generale e degli obblighi finanziari europei.

Ruolo del Parlamento

La Corte ha lasciato al Parlamento il compito di correggere le incongruenze riscontrate, in modo da garantire che la legge rispetti pienamente i principi costituzionali. Spetterà al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti normativi derivanti dalle questioni sollevate, assicurando che la legge sia pienamente funzionale e conforme alla Costituzione.

Infine, la Corte rimarrà competente a valutare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione che dovessero essere adottate, qualora venissero impugnate da altre regioni o in via incidentale.

 

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contratto a tutele crescenti

Contratto a tutele crescenti: guida breve Contratto a tutele crescenti: come funziona, cosa lo distingue dal contratto tradizionale e quali impatti ha per le imprese e i lavoratori

Contratto a tutele crescenti: cos’è

Il contratto a tutele crescenti rappresenta una delle innovazioni chiave introdotte dal Decreto Legislativo n. 23/2015, noto come Jobs Act, una riforma del lavoro promossa dal governo Renzi. Questo nuovo tipo di contratto ha avuto un notevole impatto sulle pratiche di assunzione e gestione del lavoro in Italia, implementando un sistema di protezioni per i lavoratori che aumenta con lanzianità. Esso però riduce parzialmente i diritti in caso di licenziamento, soprattutto nelle fasi iniziali del contratto. La misura promuove la flessibilità nel mercato del lavoro italiano e segna un cambiamento significativo nelle norme sui licenziamenti, stabilendo specifiche protezioni per chi è stato assunto dopo l’entrata in vigore della legge o per coloro il cui contratto viene trasformato in uno a tempo indeterminato.

Regolamentazione dei licenziamenti

Il decreto si applica ai lavoratori subordinati assunti con contratti a tempo indeterminato dalla sua entrata in vigore, includendo anche le conversioni da contratti precedenti. La normativa riguarda principalmente operai, impiegati e quadri e introduce un regime di tutele crescenti basato sull’anzianità di servizio. Questo sistema assicura protezioni economiche progressive e limita il reintegro sul lavoro solo in casi specifici di licenziamenti nulli, discriminatori o disciplinari ingiustificati. Approfondiamo nei dettagli.

Licenziamento discriminatorio e nullo

In caso di licenziamento discriminatorio, nullo o comunicato oralmente, il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro indipendentemente dal motivo formale indicato dal datore. Inoltre, è previsto un risarcimento minimo pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione oltre al pagamento dei contributi previdenziali per il periodo di esclusione. Tuttavia, il lavoratore può scegliere un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità terminando così il rapporto lavorativo.

Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa

Il decreto distingue i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o oggettivo e per giusta causa. Se il giudice verifica l’assenza dei motivi giustificativi del licenziamento, dichiara estinto il rapporto lavorativo riconoscendo al lavoratore un’indennità economica proporzionale all’anzianità di servizio variabile tra sei e trentasei mensilità. Quando viene dimostrata l’insussistenza del fatto contestato, il giudice ordina la reintegrazione con un risarcimento massimo di dodici mensilità.

Licenziamenti collettivi

In caso di licenziamenti collettivi, il decreto prevede sanzioni per irregolarità procedurali o violazioni nei criteri di selezione. Se non comunicato in forma scritta, si applica lo stesso regime dei licenziamenti discriminatori o nulli con possibilità di reintegro e risarcimento. In altre situazioni, spetta al lavoratore un’indennità calcolata sull’anzianità.

Funzionamento del contratto a tutele crescenti

Il principale vantaggio del contratto a tutele crescenti è l’indennizzo previsto in caso di licenziamento illegittimo che aumenta con l’anzianità dopo il periodo iniziale. Se si verifica un licenziamento senza giusta causa o motivo valido:

  • nei primi tre anni: il lavoratore ha diritto a un’indennità tra 1 e 6 mensilità secondo l’anzianità, ma fino a 36 mesi massimo;
  • oltre tre anni: le protezioni aumentano significativamente col tempo sino a 36 mensilità. Per i motivi economici o aziendali non vi è reintegrazione, ma solo indennizzo economico variabile secondo durata contrattuale e circostanze.

Differenze rispetto al contratto tradizionale

Rispetto al contratto tradizionale a tempo indeterminato dove il lavoratore ha diritto sia all’indennizzo che alla reintegrazione senza giusta causa se non ci sono validi motivi economici; nel sistema delle tutele crescenti la reintegrazione avviene solo in casi discriminatori o violazione dei diritti inviolabili (come nel caso della donna incinta), negli altri casi c’è solo un’indennità economica.

Vantaggi per aziende e dipendenti

Il contratto offre vantaggi sia alle aziende che ai dipendenti. Per le imprese è una soluzione più flessibile permettendo una gestione più agevole delle risorse umane senza costosi esborsi economici. Ai dipendenti garantisce invece una maggiore stabilità col passare degli anni grazie alle crescenti tutele sebbene inizialmente limitate.

Critiche e preoccupazioni

Nonostante i benefici ci sono critiche poiché alcune parti ritengono che questo sistema possa ridurre la protezione dei lavoratori nei primi anni favorendo una maggiore flessibilità. La limitazione della reintegrazione potrebbe diminuire la tutela contro i licenziamenti ingiusti portando minor sicurezza soprattutto ai giovani meno esperti, esposti maggiormente nei primi anni contrattuali.

 

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messa alla prova

Messa alla prova La messa alla prova è un istituto giuridico di diritto penale che permette di evitare la condanna se si rispetta il programma di recupero

Messa alla prova: analisi della disciplina

La messa alla prova è un istituto giuridico che consente a un imputato di affrontare un processo penale senza la condanna, purché dimostri il proprio impegno nel seguire un programma di recupero sociale. Questo strumento ha come obiettivo la rieducazione e il reinserimento del reo nella società, riducendo così il ricorso alla pena detentiva. In Italia, la messa alla prova è disciplinata dalla Legge 67/2014, modificata dal D.Lgs. n. 150/2022, con l’intento di rafforzare e migliorare l’efficacia di questa misura alternativa alla pena.

Introduzione della messa alla prova

La Legge 67/2014 ha introdotto nel sistema penale italiano l’istituto della messa alla prova, applicabile a imputati per reati di natura non grave. L’idea alla base di questa legge è quella di offrire a chi ha commesso un reato l’opportunità di evitare la pena detentiva a condizione che accetti di intraprendere un percorso di recupero e di reintegrazione sociale, sotto il controllo delle autorità competenti.

L’istituto può essere richiesto per reati punibili con pene inferiori a 4 anni di reclusione, salvo specifiche esclusioni. Esso è applicabile in particolare a persone con un’età inferiore ai 21 anni al momento del reato, a chi ha compiuto 70 anni, o a chi è affetto da patologie che ne rendono incompatibile l’esecuzione della pena.

Durante il periodo della messa alla prova, l’imputato può essere obbligato a svolgere attività socialmente utili, partecipare a corsi di formazione o seguire programmi terapeutici, a seconda del tipo di reato commesso e della valutazione del giudice. Se l’imputato completa con successo il programma, il processo penale si conclude con un esito positivo, evitando la condanna.

Novità del decreto legislativo n. 150/2022

Il D.Lgs. n. 150/2022, entrato in vigore il 17 ottobre 2022, ha apportato rilevanti modifiche alla Legge 67/2014, per rendere l’istituto uno strumento ancora più efficace e accessibile, mirando a una maggiore personalizzazione del trattamento e alla riduzione dei tempi processuali.

Una delle principali novità riguarda l’ampliamento delle categorie di reati per cui è possibile richiedere la messa alla prova. Il decreto legislativo 150/2022 ha esteso l’istituto anche a reati che, pur non essendo di particolare gravità, erano precedentemente esclusi da questa misura alternativa. Inoltre, il decreto ha reso più flessibile la durata dell’istituto, permettendo di adattarla alle necessità del singolo individuo e al tipo di programma scelto.

Una novità significativa riguarda anche l’introduzione di meccanismi di monitoraggio più efficienti. La legge 150/2022 ha reso più stringente il sistema di controllo sull’osservanza degli impegni assunti dall’imputato, con un maggiore coinvolgimento dei servizi sociali e delle agenzie di recupero. Ciò permette di garantire che il processo di rieducazione e reintegrazione sia effettivamente seguito e che venga rispettato dagli imputati.

Come funziona la messa alla prova

Il funzionamento della messa alla prova prevede che il giudice verifichi, su richiesta dell’imputato, se sussistono le condizioni per l’applicazione di questa misura. In caso positivo, il giudice stabilisce le modalità e le condizioni specifiche per il programma di recupero. Il periodo di messa alla prova varia in base alla tipologia di reato e alle esigenze di recupero dell’imputato. L’articolo 168 c.p stabilisce in ogni caso che “La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.”

Nel periodo stabilito, l’imputato è tenuto a completare attività lavorative o socialmente utili, attività educative, corsi di formazione o di terapia, a seconda del piano stabilito. Se al termine del programma il giudice ritiene che l’imputato abbia adempiuto agli obblighi previsti, il procedimento penale viene archiviato e non viene inflitta alcuna condanna.

Se, invece, l’imputato non rispetta le condizioni della messa alla prova, il giudice può decidere di revocarla, con conseguente ripristino del processo penale. In tal caso, l’imputato viene giudicato secondo le modalità ordinarie.

I benefici della misura

La messa alla prova offre numerosi vantaggi sia per l’imputato che per la società. Tra i benefici principali della misura ci sono i seguenti:

  • evitare il carcere: la messa alla prova consente di evitare la pena detentiva, che può essere particolarmente gravosa per il reo e dannosa per il suo reinserimento sociale;
  • promuovere la rieducazione: attraverso attività socialmente utili e programmi di formazione, l’imputato ha l’opportunità di recuperare e reintegrarsi nella società;
  • decongestionare il sistema penale: la messa alla prova riduce il carico di lavoro per i tribunali e le carceri, contribuendo a snellire i processi e a garantire una giustizia più rapida;
  • risparmio di risorse: il sistema di messa alla prova, che prevede l’utilizzo di risorse esterne come associazioni di volontariato, è anche un modo per ottimizzare i costi del sistema giudiziario e penitenziario.

 

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giurista risponde

Delitto di concussione e mancanza di coercizione psicologica È configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta intimidatoria del pubblico agente non determini uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo (Cass., sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 36951).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’applicazione del regime dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., in luogo della fattispecie di concussione ex art. 317 c.p.

La Corte d’Appello territoriale, invero, aveva confermato la condanna del ricorrente per i delitti di concussione tentata e consumata, dichiarando inammissibile l’appello proposto dalla parte civile. L’imputato, all’epoca dei fatti appuntato scelto dai Carabinieri, era stato ritenuto responsabile di detti reati in relazione alle condotte tenute al fine di ottenere il risarcimento dei danni della propria autovettura, commessi da minori non identificati. Tali condotte sono consistite nel convocare i genitori dei minori sospettati di essere tra i possibili autori del danneggiamento, presentandosi, in una occasione, in divisa, nel chiedere loro con insistenza di individuare i colpevoli o di contribuire tutti alla riparazione dell’auto, sulla base di preventivi presentati dallo stesso ricorrente, richiesta cui aderivano solo alcuni dei genitori, raccogliendo una somma di danaro che, tuttavia, veniva rifiutata dall’imputato, poiché inferiore all’importo richiesto dallo stesso nei preventivi predetti.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo, in primo luogo, la mancanza della condizione di coazione psicologica delle vittime. Egli, infatti, aveva agito in qualità di privato cittadino e senza provocare nei genitori – come riferito da un teste – alcuna forma di timore riverenziale.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati il primo e il terzo motivo, cui assorbiva gli altri.

La Corte, preliminarmente, evidenziava che il delitto di concussione richiede una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, commessa con abuso dei suoi poteri o delle sue qualità, che incida in modo significativo sulla libertà di autodeterminazione del destinatario, costringendolo alla dazione o alla promessa indebita.

È fondamentale, dunque, ai fini della configurabilità del reato, che l’agente pubblico si sia avvalso della posizione di preminenza sul privato, per cercare di prevaricarne le scelte e le decisioni (Cass., sez. VI, 4 giugno 2021, n. 24560), atteso che l’avverbio “indebitamente”, utilizzato nell’art. 317 c.p., qualifica non già l’oggetto della pretesa del pubblico ufficiale, la quale può anche non essere oggettivamente illecita, quanto le modalità della sua richiesta e della sua realizzazione (Cass., sez. VI, 1° febbraio 2011, n. 27444).

Le Sezioni Unite hanno chiarito che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius”, da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita; inoltre, si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319quater c.p., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228).

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, perimetrato il confine tra le due modalità di realizzazione della condotta del pubblico agente chiarendo, in primo luogo, che l’abuso della qualità – c.d. abuso soggettivoconsiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute. In secondo luogo, le Sezioni Unite evidenziavano che tale abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva (rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 319quater c.p.), deve sempre concretizzarsi in un facere” (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato che deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta. In terzo luogo, l’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa. Infine, tale abuso può essere realizzato in forma sia commissiva che omissiva, potendo il pubblico funzionario deliberatamente astenersi dall’esercizio dei propri poteri, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo o di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altre utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto.

Affinché possa configurarsi il delitto di concussione, occorre, dunque, che, attraverso tale abuso, dei poteri o delle qualità, il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, eserciti forme di pressione di tale intensità da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato.

Nel caso di specie, pertanto, ad avviso dei giudici di legittimità, la Corte territoriale, formulando una valutazione che esulava da tali coordinate ermeneutiche, si era limitata a porre l’accento su alcuni particolari di per sé non determinanti, quali la qualifica pubblicistica del ricorrente -indipendentemente da una sua effettiva strumentalizzazione, ma solo in quanto nota a tutti i genitori – e il fatto che lo stesso si sia presentato ad una riunione in divisa.

Invero, secondo quanto emerge dalle due sentenze di merito, l’imputato si era sostanzialmente limitato ad una generica pressione, prospettando le possibili ragioni di convenienza legate a eventuali indagini sui danneggiamenti o di carattere socio-familiare da parte dei servizi sociali, qualora non fossero stati individuati gli autori dei danneggiamenti ovvero non si fosse provveduto, in ogni caso, alla riparazione dell’auto privata del ricorrente.

Tale richiesta, sebbene posta in essere nei confronti di soggetti che ne conoscevano l’appartenenza all’Arma dei Carabinieri, non appare in alcun modo attuata con modalità tali da configurare quella indebita strumentalizzazione della qualifica o del potere idonea a coartare la volontà dei destinatari. Egli, infatti, si era limitato a chiedere loro di individuare i colpevoli o, comunque, di attivarsi al fine di risarcirlo del danno, pretesa quest’ultima che, sebbene censurabile sotto un profilo civilistico, non risulta accompagnata da alcuna prospettazione di un male ingiusto che ne giustifichi una rilevanza agli effetti penali (tale non potendosi intendere il generico riferimento alle indagini che sarebbero state svolte in caso di denuncia riguardante minorenni).

Siffatta condotta esorbita dal perimetro della “costrizione”, come sopra definita, trattandosi di una mera pressione che, oltre a non apparire correlata ad un abuso né dei poteri né della qualità del ricorrente, per le modalità con le quali è stata esercita non appare idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione dei destinatari della richiesta.

Deve, dunque, ribadirsi che non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo.

 

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

definizione agevolata

Definizione agevolata liti tributarie: legittima per la Consulta La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate sulla legge che disciplina la definizione agevolata delle controversie tributarie

Definizione liti tributarie

Definizione agevolata delle controversie tributarie: non sono lesi i principi costituzionali. Così, la Consulta, con la sentenza n. 189/2024 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 198, della legge n. 197 del 2022, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 111 Cost., dalle Corti di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria e del Lazio.

“La declaratoria di estinzione del processo, che la disposizione censurata correla al deposito di copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata, è frutto di una scelta del Parlamento non irragionevole, volta a favorire l’immediata chiusura delle controversie tributarie pendenti e a incentivare i pagamenti non ancora eseguiti, senza determinare alcun effetto preclusivo del diritto di azione o difesa, né una lesione della parità delle parti nel processo” ha affermato la Corte.

Con specifico riferimento all’ipotesi in cui la dichiarazione di estinzione avvenga a seguito del pagamento della sola prima rata, la Corte ha escluso che ne discenda il venir meno del credito tributario residuo, poiché l’art. 1, comma 194, della stessa legge n. 197 del 2022 rinvia ad altre disposizioni che consentono la nuova iscrizione a ruolo degli importi non pagati, maggiorati di interessi e sanzioni.

La sentenza ha altresì escluso “una violazione del principio di capacità contributiva, in quanto la disciplina della definizione agevolata risulta coerente con i presupposti economici cui le rispettive imposizioni sono collegate e non si riduce a un intervento contrario al valore costituzionale del dovere tributario, né tale da recare pregiudizio al sistema dei diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione”.

La Corte ha, infine, dichiarato inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni concernenti i commi 200 e 201 dell’art. 1 della stessa legge n. 197 del 2022, “relativi al caso in cui il procedimento amministrativo avviato con la richiesta di definizione agevolata si chiuda con un provvedimento di diniego”.

riforma codice della strada

Riforma Codice della Strada 2024: novità e sfide La riforma Codice della Strada 2024 vuole realizzare una cultura della sicurezza stradale per ridurre le vittime di incidenti stradali

Riforma Codice della Strada 2024

L’Italia ha adottato il 20 novembre 2024 la riforma significativa del Codice della Strada, con l’obiettivo di affrontare le sfide emergenti in materia di sicurezza e regolamentazione. Promossa dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini, questa riforma, definitivamente approvata il 20 novembre, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 29 novembre e in vigore dal 14 dicembre 2024, mira a ridurre il numero di incidenti stradali, migliorare la convivenza tra i vari mezzi di trasporto e aggiornare le normative in linea con le esigenze della mobilità moderna.

Monopattini elettrici: casco, targa e assicurazione

Negli ultimi anni, i monopattini elettrici hanno conosciuto una diffusione esponenziale nelle città italiane. Questo mezzo di trasporto, apprezzato per la sua praticità ed eco-sostenibilità, ha tuttavia sollevato preoccupazioni significative in termini di sicurezza stradale. Secondo i dati dell’ACI (Automobile Club d’Italia), nel 2022 si sono verificati oltre 2.000 incidenti che hanno coinvolto monopattini, con un aumento del 30% rispetto all’anno precedente.

Le nuove misure

Il nuovo Codice della Strada introduce l’obbligo di:

  • Casco obbligatorio: per tutti gli utenti di monopattini elettrici, indipendentemente dall’età.
  • Targa identificativa: per consentire l’identificazione immediata del veicolo.
  • Assicurazione RC obbligatoria: per coprire eventuali danni a terzi.
  • Frecce si segnalazione obbligatorie

Queste misure si applicano sia ai monopattini in sharing che a quelli di proprietà privata. L’obiettivo è responsabilizzare gli utenti e ridurre il numero di incidenti.

Il modello parigino: critiche

Salvini ha citato l’esempio di Parigi, dove i monopattini in sharing sono stati vietati a seguito di un referendum cittadino nel 2023, con il 89% dei votanti favorevoli al divieto. Tuttavia, a differenza della capitale francese, l’Italia ha scelto una strada meno drastica, optando per una regolamentazione più stringente anziché un divieto totale.

Non mancano le critiche da parte delle associazioni di categoria. Andrea Giaretta, rappresentante di Assosharing, ha espresso preoccupazioni riguardo al possibile impatto economico e occupazionale. Secondo Giaretta, l’introduzione di obblighi come targa e assicurazione potrebbe disincentivare l’uso dei monopattini in sharing, spingendo gli utenti verso l’acquisto privato e potenzialmente aumentando il rischio di incidenti a causa di una minore manutenzione dei veicoli privati.

In altri paesi europei, come la Germania e la Spagna, sono già in vigore regolamentazioni simili. In Germania, ad esempio, i monopattini elettrici devono essere assicurati e dotati di targa, e l’uso del casco è fortemente raccomandato.

Inasprimento sanzioni per la guida irresponsabile

Una delle principali cause di incidenti stradali gravi è la guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o alcoliche. Secondo l’ISTAT, nel 2022, il 24% degli incidenti mortali è stato attribuito a questa causa. Il nuovo Codice della Strada prevede:

  • Revoca della patente: per chi viene sorpreso alla guida sotto l’effetto di droghe o con un tasso alcolemico superiore ai limiti consentiti.
  • Sanzioni amministrative elevate: con multe che possono superare i 6.000 euro.
  • Confisca del veicolo: in caso di recidiva.

Uso del cellulare alla guida

L’utilizzo del cellulare durante la guida è un fenomeno in crescita, nonostante le campagne di sensibilizzazione. Le nuove disposizioni prevedono:

  • Multe più salate: con importi che possono arrivare a 1.700 euro.
  • Decurtazione di punti dalla patente
  • Sospensione della patente da 7 a 30 giorni

Recidivi e patente a punti

Per coloro che commettono ripetutamente infrazioni gravi, il Codice introduce:

  • Ritiro temporaneo della patente: che può variare da 1 a 3 mesi.
  • Obbligo di frequentare corsi di recupero punti: presso autoscuole autorizzate.
  • Esami di revisione: per verificare l’idoneità alla guida.

Impatto atteso

L’inasprimento delle sanzioni mira a creare un effetto deterrente. Studi condotti in paesi come la Svezia e il Regno Unito hanno dimostrato che sanzioni più severe possono ridurre significativamente le infrazioni legate alla guida pericolosa.

Autovelox e dispositivi di controllo della velocità

La normativa italiana ha mostrato incertezze nella regolamentazione degli autovelox, con una distinzione poco chiara tra “omologazione” e “approvazione”. Questo ha portato a numerose contestazioni legali e all’annullamento di molte sanzioni.

Il nuovo Codice della Strada prevede:

  • Standardizzazione dei dispositivi: con specifiche tecniche uniformi a livello nazionale.
  • Regolamento di esecuzione: che definisce le procedure per l’installazione e l’uso degli autovelox.
  • Formazione del personale: con corsi obbligatori per gli operatori che gestiscono i dispositivi.

Massimiliano Mancini, segretario dell’Unione Polizia Locale, ha evidenziato l’importanza di un regolamento chiaro per evitare ricorsi e garantire l’efficacia dei controlli. Senza norme tecniche precise, si rischia di continuare con una situazione in cui le multe vengono facilmente annullate, vanificando gli sforzi per migliorare la sicurezza stradale.

In Francia, l’introduzione di autovelox con standard tecnici elevati ha portato a una riduzione del 50% degli incidenti mortali nelle aree controllate. Questo evidenzia come una corretta implementazione possa avere effetti positivi significativi.

Obiettivo ridurre le vittime della strada

Con oltre 3.000 vittime all’anno, l’Italia registra uno dei tassi più alti di mortalità stradale in Europa. Le cause principali includono:

  • Eccesso di velocità
  • Guida in stato di ebbrezza
  • Distrazione al volante
  • Mancato rispetto delle precedenze

Strategie di intervento

Il nuovo Codice della Strada fa parte di una strategia più ampia che comprende:

  • Campagne di sensibilizzazione: rivolte soprattutto ai giovani, attraverso media tradizionali e social network.
  • Educazione stradale nelle scuole: per formare una cultura della sicurezza fin dall’infanzia.
  • Miglioramento delle infrastrutture: con investimenti in segnaletica, illuminazione e manutenzione delle strade.

Collaborazione con le Forze dell’Ordine

Un aumento dei controlli su strada è previsto, con l’utilizzo di tecnologie avanzate come:

  • Etilometri portatili di ultima generazione
  • Sistemi di rilevamento automatico delle infrazioni
  • Droni per il monitoraggio del traffico

Prospettive Future del Nuovo Codice

La mobilità sta cambiando rapidamente, con l’introduzione di veicoli elettrici, servizi di car sharing e nuove forme di micromobilità. Il Codice della Strada deve quindi evolvere per:

  • Regolare i nuovi mezzi: come e-bike, hoverboard e scooter elettrici.
  • Promuovere la mobilità sostenibile: incentivando l’uso di veicoli a basso impatto ambientale.
  • Garantire l’inclusività: prevedendo norme per la sicurezza di pedoni, ciclisti e persone con disabilità.

L’implementazione di sistemi intelligenti di trasporto (ITS) può contribuire a migliorare la sicurezza e l’efficienza del traffico. Questo include:

  • Semafori intelligenti: che si adattano ai flussi di traffico in tempo reale.
  • Veicoli connessi: che comunicano tra loro e con le infrastrutture stradali.
  • Applicazioni mobili: per informare gli utenti su condizioni del traffico, incidenti e tempi di percorrenza.

Nonostante le buone intenzioni, la riforma presenta alcune sfide:

  • Applicazione uniforme: assicurare che le nuove norme siano applicate in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale.
  • Risorse finanziarie: reperire i fondi necessari per l’aggiornamento delle infrastrutture e la formazione del personale.
  • Resistenza al cambiamento: superare le possibili resistenze da parte di cittadini e categorie professionali interessate dalle nuove regolamentazioni.

Verso una cultura della sicurezza stradale

La Riforma del Codice della Strada 2024 rappresenta un passaggio cruciale per l’Italia nella promozione di una cultura della sicurezza stradale. Affrontando temi chiave come la regolamentazione dei monopattini elettrici, l’inasprimento delle sanzioni per la guida irresponsabile e la standardizzazione dei dispositivi di controllo della velocità, la riforma mira a ridurre significativamente il numero di incidenti e vittime sulle strade italiane.

Il successo di queste misure dipenderà dalla collaborazione tra istituzioni, forze dell’ordine, associazioni di categoria e cittadini. Solo attraverso un impegno condiviso sarà possibile creare un ambiente stradale più sicuro e sostenibile per tutti.

Leggi anche: Riforma Codice della strada: tutte le novità

indulto

Indulto: guida completa Indulto: disciplinato dall’art. 174 c.p. è un provvedimento generale che condona in tutto o in parte la pena o la trasforma in un’altra specie

Cos’è l’indulto

L’indulto è una misura di clemenza che può essere concessa dallo Stato per ridurre, estinguere o commutare le pene inflitte a chi ha commesso reati, ma solo in determinate circostanze. Trattasi di un provvedimento di clemenza che consente infatti la riduzione, l’estinzione  e la commutazione della pena inflitta per determinati reati in un’altra specie di pena.

Esso è concesso dal Presidente della Repubblica ma, a differenza della grazia, che viene concessa  in relazione a casi singoli, l’indulto ha un carattere collettivo e si applica a categorie di detenuti.

Art. 79 della Costituzione: votazione e limiti di legge

L’istituto è previsto dall’articolo 79 della Costituzione, che definisce le modalità di approvazione della legge che lo contempla e i limiti applicativi. La norma recita infatti testualmente: “Lamnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione. In ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge.” 

Articolo 174 c.p.: disciplina

L’indulto  disciplinato dall’articolo 174 del Codice penale, che stabilisce le modalità di applicazione e le condizioni necessarie per il suo utilizzo. Per prima cosa lo stesso può essere concesso per le pene detentive e pecuniarie. Esso non estingue infatti le pene accessorie e neppure gli altri effetti penali della sentenza di condanna, a mano che la legge che lo prevede non disponga diversamente.

Esso ha inoltre efficacia per:

  • reati non gravi: esclusi quindi quelli più gravi come i crimini legati a terrorismo, mafia, omicidi, ecc.;
  • pene detentive e pecuniarie: nel senso che il beneficio può riguardare sia le pene privative della libertà che quelle pecuniarie, riducendole o estinguendole in determinate proporzioni. Non vengono meno invece le misure di sicurezza e le pene accessorie.

Condizioni per la concessione dell’indulto

Questo beneficio non viene mai concesso in modo automatico. Le condizioni sono stabilite da apposite leggi, che determinano chi può beneficiarne. La legge deve infatti indicare nel dettaglio:

  • quali reati che sono esclusi dall’applicazione dell’indulto;
  • i limiti di pena per cui può essere concesso beneficio;
  • le categorie di detenuti a cui si può applicare.

Inoltre, la sua concessione deve essere preceduta da una valutazione politica, che prende in considerazione le circostanze storiche, sociali e giuridiche del momento.

Giurisprudenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha più volte esaminato l’indulto, con particolare attenzione agli ambiti di applicazione e alle modalità di calcolo delle pene. Una delle questioni più dibattute è se l’indulto possa estinguere completamente una pena, anche se il condannato ha commesso reati di grave entità.

In una sentenza del 2018, la Cassazione ha chiarito che l’indulto si applica solo se la pena inflitta è compatibile con la misura dell’indulto, stabilita dalla legge. La Corte ha ribadito che l’indulto non può mai essere applicato ai reati di terrorismo e mafia, come previsto espressamente dalla legge.

Un altro aspetto trattato dalla giurisprudenza riguarda la sospensione condizionale della pena: se la pena è già sospesa, l’indulto non può essere applicato automaticamente. In questo caso, il condannato potrebbe perdere il beneficio della sospensione se non adempie a determinati requisiti previsti dal giudice.

 

Leggi anche la guida Amnistia

giurista risponde

Assegno divorzile e funzione perequativa-compensativa Il sacrificio della propria carriera da parte di un coniuge al fine di dedicare il proprio tempo alla famiglia è elemento rilevante nella quantificazione dell’assegno divorzile?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

L’assegno divorzile spetta all’ex coniuge non esclusivamente in funzione assistenziale bensì anche in funzione perequativa-compensativa proprio per le scelte operate dallo stesso in costanza di matrimonio. In queste sono ricompresi non solo il contributo offerto alla comunione familiare ma anche la rinuncia concordata a occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio e l’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge (Cass., sez. II, 26 agosto 2024, n. 23083).

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte dichiara infondati i motivi di ricorso miranti all’eliminazione dell’assegno divorzile riconosciuto dai giudici di merito nei confronti dell’ex coniuge. Sia il Tribunale di prime cure che la Corte d’Appello territorialmente competente avevano infatti dichiarato lo scioglimento di un matrimonio durato venticinque anni e confermato la spettanza dell’assegno divorzile posto a carico del ricorrente. Come provato in queste sedi, il coniuge beneficiario ha rinunciato a numerose occasioni di carriera per agevolare l’attività professionale del marito fino a sacrificarla definitivamente quando questa è diventata incompatibile con la crescita della famiglia, dedicandosi completamente a soddisfare i bisogni di quest’ultima.
La cessazione del matrimonio comporta il venir meno della condizione coniugale ma il sorgere di obblighi di carattere patrimoniale fondati sulla perdurante solidarietà postconiugale. Tra gli obblighi così identificati si staglia quello di corresponsione dell’assegno divorzile contenuto nell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898.

All’esito di un percorso interpretativo inaugurato a metà degli anni ’70, le Sezioni Unite hanno definitivamente superato gli indirizzi volti a considerare nella funzione assistenziale l’unico parametro alla luce del quale valutare la spettanza e la consistenza dell’istituto in esame. La Cassazione ha, così, ricostruito la funzione dell’assegno divorzile assegnando rilevanza centrale ai principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo. La natura composita di tale funzione, insieme assistenziale e perequativo-compensativa, rappresenta una declinazione di tale principio di solidarietà volta al raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle eventuali aspettative professionali sacrificate (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Ciò avviene all’interno di un meccanismo di “profilazione economico-patrimoniale del coniuge” che si serve dei criteri delineati dall’art. 5 cit. Le Sezioni Unite precisano, in particolare, la necessità di provare l’incidenza causale tra il sacrificio delle aspettative di carriera serie e concrete e la condizione di disequilibrio dalla quale genera la spettanza dell’assegno divorzile.

La ricostruzione in questi termini del quadro normativo ed ermeneutico di riferimento permette alla Cassazione nella sentenza in commento, di ritenere soddisfatti i criteri sopra menzionati e fornita la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescite professionale in costanza di matrimonio e dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge, così come chiarito da Cass., Sez Un., 5 novembre 2021, n. 32198.

Contributo in tema di “Assegno divorzile e la funzione perequativa-compensativa”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

servizi sociali

Servizi sociali anche per violenza sessuale La Cassazione chiarisce che può essere concesso l'affidamento ai servizi sociali anche per il reato ex art. 609-bis c.p.

Affidamento ai servizi sociali

Sì all’affidamento ai servizi sociali al soggetto che si è macchiato del reato di violenza sessuale (ex art. 609 bis c.p.). Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 17374/2024.

La vicenda

Nella vicenda, iI Tribunale di sorveglianza di Torino respingeva l’istanza di differimento pena ai sensi dell’art. 147 cod. pen. e dell’affidamento in prova al servizio sociale formulate. Ciò a ragione della gravità dei reati commessi, tra cui quello di cui all’art. 609-bis cod. pen., nonchè dell’assenza di una seria e verificabile attività lavorativa e della sperimentazione, allo stato, di altre forme trattamentali (permessi premio), infine della mancanza di elementi sulla base dei quali superare la diagnosi di pericolosità derivante dal reato commesso.

Il ricorso

Avverso tale ordinanza l’imputato adiva il Palazzaccio, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale.
A dire della difesa, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto dirimente e preponderante, rispetto agli elementi positivi pur evidenziati dalla relazione di sintesi dell’equipe e, comunque, emergenti dagli atti, la gravità del reato commesso e i plurimi precedenti di cui risulta gravato, sottostimando, invece, plurimi elementi positivi, quali il parere ampiamente favorevole dell’equipe.

Affidamento in prova ai servizi sociali: presupposti

Per la S.C., il ricorso è fondato.
L’art. 47, comma 2, ord. pen. consente l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale ove si possa ritenere che la misura, «anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati».
Nel caso di specie, il giudice specializzato ha reso una motivazione contraddittoria e, comunque, carente. Benché “nella stringata parte espositiva avesse dato atto dell’assenza di precedenti penali e carichi pendenti, senza minimamente confrontarsi con quanto emergente dalla relazione dell’equipe trattamentale – spiegano dalla S.C. – ha concentrato in via esclusiva la sua attenzione sulla condanna per il delitto di cui all’art. 609-bis c.p., sull’asserita mancata sperimentazione di permessi premio e sulla mancanza di prospettive lavorative”. Invece, la relazione dell’equipe della casa circondariale aveva espresso parere favorevole al riconoscimento della misura alternativa, valorizzando il fatto che l’uomo avesse aderito volontariamente ad un programma specifico rivolto ai condannati per reati di violenza di genere e che, compatibilmente con le condizioni di salute (che non rendevano possibile una partecipazione più ampia alle attività trattamentali), avesse svolto un percorso detentivo positivo.
Il giudice specializzato, in definitiva, secondo i giudici di piazza Cavour, ha fondato il provvedimento di rigetto sul solo argomento della gravità dei reati commessi, facendo di essi una considerazione assoluta e ponendoli da soli a sostegno della decisione, senza considerazione adeguata di diversi altri fattori riguardanti l’evoluzione della personalità del ricorrente, successiva alla consumazione della condotta sanzionata e senza fare congrua valutazione delle risultanze indicate nella relazione dell’equipe.
Al riguardo, dunque, la Corte ribadisce i principi ormai consolidati, secondo i quali “in tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle prospettive cui è finalizzato l’istituto, e, quindi, dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, non possono, di per sé, da soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell’osservazione della
personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato (Sez. 1, n. 1410 del 30/10/2021, M., Rv. 277924; Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, dep. 2014, Naretto, Rv. 258402)”.

Il principio di diritto

Il Tribunale non ha fatto, dunque, buon governo del principio di diritto secondo cui «ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, si deve tener conto del grado di consapevolezza e di rieducazione raggiunto dal condannato, nonché dell’evoluzione della sua personalità successivamente al fatto, al fine di consentire un’ulteriore evoluzione favorevole e un ottimale reinserimento sociale» (cfr. Cass. n. 10586/2019).

Il profilo che deve essere valorizzato non è se abbia o meno l’interessato ammesso le sue colpe ovvero, pur avendole ammesse, ne abbia depotenziato li valore, ma se abbia accettato la sentenza e quindi la sanzione a lui inflitta, prestando la dovuta collaborazione nel percorso rieducativo.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata relativamente al diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino per nuovo esame che, libero negli esiti, sia ossequiante dei principi sopraesposti.

Allegati