decontribuzione sud proroga

Decontribuzione Sud La Commissione Ue ha prorogato al 31 dicembre 2024 la Decontribuzione sud, la misura che incentiva i rapporti di lavoro in alcune regioni del Mezzogiorno

Proroga Decontribuzione Sud

Via libera della Commissione Ue alla proroga al 31 dicembre 2024 di Decontribuzione Sud, la misura in scadenza a fine mese con cui si incentivano, attraverso un esonero contributivo, i rapporti di lavoro dipendenti per le aziende con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Lo rende noto il ministero del Lavoro sul proprio sito.

Calderone: proroga consente crescita

“La proroga della Decontribuzione Sud, che ha consentito alle nostre aziende del Mezzogiorno di crescere e partecipare al generale rilancio dell’occupazione è un risultato del governo italiano per il quale ringrazio il Ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il PNRR, Raffaele Fitto e in modo particolare la Vicepresidente esecutiva della Commissione Europea, Margrethe Vestager” ha affermato il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone.

Questa decisione, ha aggiunto, “è il riconoscimento del fatto che la decontribuzione è oggi necessaria per le nostre aziende del Mezzogiorno, per continuare nel percorso intrapreso di riduzione dei divari territoriali e promozione delle imprese, del lavoro e del sistema produttivo nel suo complesso. Questi ulteriori 6 mesi sono fondamentali per consentirci di mettere a punto una revisione organica della Decontribuzione Sud, sempre più orientata agli investimenti. Ringrazio i tecnici delle strutture del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che hanno avviato e gestito l’iter procedurale del rinnovo della misura, congiuntamente con il Dipartimento per gli Affari Europei”.

amministratore comunione condominio poteri

Amministratore condominio e comunione: hanno poteri diversi A differenza dell'amministratore condominiale, quello della comunione non può agire in giudizio per i comunisti senza autorizzazione assembleare

Amministratore della comunione

L’amministratore della comunione non può agire in giudizio senza autorizzazione assembleare, in quanto (a differenza di quanto previsto per l’amministratore di condominio dall’art. 1131 c.c.) non è previsto, tra i poteri che ordinariamente gli spettano, quello di rappresentare in giudizio i comunisti. E’ quanto stabilito dal tribunale di Siracusa nella sentenza n. 764-2024 decidendo l’opposizione proposta da un comunista avverso il decreto ingiuntivo con cui l’amministratore, designato dall’autorità giudiziaria, gli intimava di pagare una somma per spese di manutenzione. L’opponente si doleva soprattutto del fatto che l’amministratore giudiziario, senza munirsi di autorizzazione assembleare, si era attivato per recuperare coattivamente le somme indicate nel piano di riparto, per cui chiedeva la revoca del decreto ingiuntivo e l’accertamento dell’inesistenza del diritto dell’opposto a procedere in via esecutiva.

Carenza di legittimazione attiva

Per il tribunale l’opposizione è fondata per carenza di legittimazione attiva dell’opposto/intimante. “Correttamente – afferma il giudice – l’odierno opponente si duole del fatto che l’amministratore ad acta nominato ai sensi dell’art. 1115, comma 4, c.c., si sia attivato per l’emissione dell’opposto titolo senza preventivamente richiedere l’autorizzazione dell’assemblea dei condomini”.

Invero, “costituisce orientamento consolidato – cui il giudice dichiara di prestare continuità – quello secondo cui ‘L’amministratore della comunione non può agire in giudizio in rappresentanza dei partecipanti contro uno dei comunisti in rappresentanza degli altri, mancando, in materia di comunione, una disposizione analoga a quella posta, per l’amministratore del condominio, dall’art. 1131 c.c., che, in via eccezionale, attribuisce a questi il potere di agire in giudizio sia contro i terzi che nei confronti dei condomini'” (cfr. Cass. n. 4209/2014).

La decisione

Nel caso di specie, non risulta che l’amministratore nominato ex art. 1105 comma 4 c.c. fosse stato investito del suddetto potere da parte dei comunisti, per cui il giudice dichiara l’insussistenza del diritto di procedere in via esecutiva nei confronti dell’opponente.

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avvocati penalisti sciopero

Avvocati penalisti in sciopero: dal 10 al 12 luglio Necessario interrompere la lunga scia di morte in carcere. Per questi motivi l'UCPI delibera l'astensione per tre giorni

Penalisti in sciopero contro morti in carcere

Gli avvocati penalisti dell’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI) hanno annunciato uno sciopero di tre giorni, dal 10 al 12 luglio 2024. La delibera, datata 18 giugno, giunge “a conclusione della maratona oratoria iniziata lo scorso 29 maggio, con cui si è inteso denunciare pubblicamente tanto la mancanza di un programma di serie riforme strutturali e di ripensamento dell’intera esecuzione penale, quanto l’irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento ed alla tragedia dei fenomeni suicidari”.

Manifestazione a Roma l’11 luglio

Da qui la delibera dell’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 10, 11e 12 luglio 2024, con convocazione di tutti i Presidenti delle Camere Penali territoriali e di tutti gli iscritti, in Roma per partecipare alla manifestazione, che si terrà con tutte le associazioni sensibili a tale emergenza e con i rappresentanti della politica favorevoli all’adozione di strumenti immediati, volti alla soluzione della crisi in atto, in Piazza dei Santi Apostoli, in data 11 luglio 2024 dalle ore 14.30 per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza carceri.

giurista risponde

Condotte vessatorie poste in essere dopo la cessazione della convivenza Le condotte vessatorie poste in essere al termine di un rapporto in quali casi configurano il reato di atti persecutori ex art. 612bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

La configurabilità del reato di atti persecutori sussiste in ipotesi di condotte illecite poste in essere da uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell’altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento. Integrano, invece, il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. – Cass., sez. VI, 13 marzo 2024, n. 10636.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte si è occupata del rapporto tra il reato di atti persecutori (ex art. 612bis c.p.) e quello di maltrattamenti in famiglia (ex art. 572 c.p.).

In particolare, nel caso in esame, in seguito a ricorso ex art. 309 c.p.p., il Tribunale annullava l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato all’indagato la misura cautelare personale del divieto di avvicinamento alla persona offesa ex art. 282ter c.p.p., ritenendo per un verso sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine alla provvisoria contestazione di maltrattamenti nei confronti della moglie e dei figli minori, cessata con lo spontaneo allontanamento dell’indagato dal nucleo familiare, per altro verso insussistenti i gravi indizi in ordine al contestato reato di cui all’art. 612bis c.p. che si sarebbe integrato dalla data di cessazione della convivenza in poi.

Avverso tale ordinanza il Procuratore della Repubblica presentava ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione.

In particolare, il ricorrente censurava la decisione nella misura in cui riteneva che le condotte dell’indagato fossero cessate al momento dell’allontanamento dall’abitazione con la separazione di fatto tra i coniugi, senza invece apprezzare le dichiarazioni sul punto rese dalla persona offesa, la quale aveva affermato come l’indagato, da quando aveva abbandonato l’abitazione coniugale, avesse continuato ad esercitare violenza psicologica ed economica, continuando a porre in essere comportamenti aggressivi anche nei confronti e alla presenza dei figli minori.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato e ha annullato l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, c.p.p.

Secondo la Suprema Corte, infatti, la configurabilità del reato di atti persecutori sussiste in ipotesi di condotte illecite poste in essere da uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell’altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento (Cass., sez. VI, 5 settembre 2021, n. 39532).

Integrano, invece, il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza (Cass., sez. VI, 30 settembre 2022, n. 45400). La separazione, si è infatti precisato, è condizione che non elide lo “status” acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall’art. 143, comma 2, c.c. Detto principio deve essere tenuto fermo anche quando le condotte in esame siano rivolte nei confronti dei figli (ma il discorso vale anche allorché la condotta sia realizzata dai figli nei confronti dei genitori o altre persone di famiglia), essendo comunque configurabile il delitto di maltrattamenti nelle relazioni tra consanguinei, in quanto “persone della famiglia”, reputandosi irrilevante la cessazione o la mancanza di convivenza (tra le tante, cfr. Cass., sez. VI, 7 aprile 2022, n. 19839).

Tanto premesso, nel caso di specie, osserva la Suprema Corte, la condotta posta in essere dall’imputato, a seguito all’allontanamento dall’abitazione coniugale, è stata erroneamente qualificata nella contestazione provvisoria, ex art. 612bis c.p. a fronte di consolidata giurisprudenza che, in ipotesi come quella presa in esame in cui si contesta la protrazione della condotta ritenuta a vario titolo vessatoria, minacciosa ed intimidatrice, reputa sussistente, in caso di rapporto di coniugio e di presenza dei figli parte offesa dell’illecita condotta, il delitto di maltrattamenti in famiglia.

*Contributo in tema di “Condotte vessatorie e reato di atti persecutori”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

pensione reversibilità matrimonio tardivo

Reversibilità per matrimonio contratto dopo i 50 anni La Cassazione si pronuncia sul diritto alla pensione di reversibilità nel caso di matrimonio contratto dopo i 50 anni di età

Pensione di reversibilità

Il diritto alla reversibilità non sussiste quando il matrimonio sia stato contratto dall’iscritto dopo aver compiuto l’età di 50 anni. Così la sezione lavoro della Cassazione con ordinanza n. Cass-17193-2024.

La questione sottesa e il ricorso in Cassazione

Nella vicenda, la Corte d’appello di Bologna ha accolto il ricorso dell’INPS rigettando la domanda di riconoscimento della reversibilità della pensione contributiva nella Gestione Giocatori Calcio, già erogata al coniuge in base alla convenzione dell’istituto con le due Leghe dei giocatori professionisti e semiprofessionisti.

In particolare, il giudice d’appello ha ritenuto che “vertendosi nel campo dell’assistenza privata, che a norma dell’art. 38 Cost. è libera di stipulare le condizioni di assicurazione e di regolare il sinallagma tra finanziamento e prestazioni, non sussistevano profili di incostituzionalità che potevano riflettersi sulla disposizione convenzionale dell’art. 12 che esclude dalla reversibilità il coniuge il cui matrimonio sia stato contratto, come nella specie, dopo che l’assicurato aveva compiuto cinquanta anni non ravvisando limiti all’autonomia privata nella definizione delle condizioni del regime convenzionale di assicurazione al quale le parti scelgono liberamente di iscriversi”.
La coniuge ricorre innanzi al Palazzaccio dolendosi di un’interpretazione sbagliata della convenzione in violazione delle deroghe previste, ossia che il matrimonio fosse stato celebrato almeno due anni prima del giorno della morte e che dallo stesso fosse nata prole, anche se postuma. Pertanto, ricorrendo entrambe le circostanze, la donna deduceva che la pensione per superstiti non poteva essere esclusa nella specie.

Interpretazione errata: spetta la reversibilità

Per gli Ermellini, il primo motivo di ricorso è fondato e deve essere accolto restandone assorbito l’esame delle altre censure.
Nell’interpretazione del contratto, ricordano preliminarmente, “il primo strumento da utilizzare è il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate. Soltanto se esso risulti ambiguo può farsi ricorso ai canoni strettamente interpretativi contemplati dall’art. 1362 all’art. 1365 c.c. e, in caso di loro insufficienza, a quelli interpretativi integrativi previsti dall’art. 1366 c.c. all’art. 1371 c.c.”.

Per cui, nel caso in esame, “la Corte territoriale è incorsa nella denunciata violazione delle norme di interpretazione dettate dall’art 1362 primo comma c.p.c. avendo del tutto trascurato di esaminare la disposizione dettata dall’art. 12 della Convenzione stipulata fra l’INPS e le due Leghe dei giocatori professionisti e semiprofessionisti nella sua interezza”.

Tale disposizione, infatti, “nell’indicare i casi in cui la vedova non ha diritto alla pensione di reversibilità alla lettera c) dispone che il diritto non sussiste quando il matrimonio sia stato contratto dall’iscritto dopo compiuta l’età di 50 anni o dopo conseguita la pensione di invalidità, salvo che esso sia di due
anni almeno anteriore al giorno della morte, ovvero sia nata prole, anche se postuma”.
Ne consegue che “nel valutare l’esistenza del diritto della vedova alla prestazione di reversibilità occorre tenere presente oltre all’età del coniuge al momento del matrimonio anche del tempo trascorso in costanza di matrimonio prima della morte e dell’esistenza di prole, anche postuma”.
Per tale ragione la sentenza è cassata e la parola passa al giudice del rinvio.

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carta blu ue stranieri

Carta Blu Ue: online il nuovo modulo per i lavoratori stranieri Disponibile per i datori di lavoro sul sito del ministero, il nuovo modulo per l'ingresso di lavoratori stranieri altamente qualificati (carta Blu Ue)

Carta Blu Ue: nuovo modulo

E’ disponibile sul Portale Servizi del ministero dell’Interno, sezione Sportello Unico Immigrazione, il nuovo modulo (modulo BCE) per i datori di lavoro che intendono assumere lavoratori stranieri altamente qualificati (carta Blu Ue). Lo rende noto il dicastero sul proprio sito.

Platea più ampia, procedura semplificate

Si tratta, spiega il ministero, di una tipologia di ingressi al di fuori delle quote del decreto flussi, recentemente riformata. Il D.Lgs. 152/2023 ha recepito in Italia la direttiva (UE) 2021/1883, ampliando la platea dei destinatari, semplificando le procedure e offrendo condizioni più favorevoli. Una circolare congiunta dei ministeri dell’Interno e del Lavoro ha definito nel dettaglio le nuove procedure.

Lavoratori stranieri altamente qualificati: requisiti

I lavoratori stranieri “altamente qualificati” devono essere in possesso, in via alternativa:

a) del titolo di istruzione superiore di livello terziario o di una qualificazione professionale di livello post secondario, rilasciato dall’autorità competente nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale;

b) dei requisiti previsti dal d.lgs. n. 206/2007 limitatamente all’ esercizio di professioni regolamentate;

c) di una qualifica professionale superiore attestata da almeno cinque anni di esperienza professionale di livello paragonabile ai titoli d’istruzione superiori di livello terziario, pertinenti alla professione o al settore specificato nel contratto di lavoro o all’offerta vincolante;

d) di una qualifica professionale superiore attestata da almeno tre anni di esperienza professionale pertinente, acquisita nei sette anni precedenti la presentazione della domanda di Carta blu UE, per quanto riguarda dirigenti e specialisti nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione di cui alla classificazione ISCO-08, n. 133 e n. 25.

giurista risponde

Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere Che rilevanza hanno i «disturbi della personalità» ai fini dell’accertamento della capacità di intendere e di volere?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

Nel percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto, hanno rilievo precisi indici rivelatori non di un qualsiasi disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità, idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma. – Cass., sez. I, 19 marzo 2024, n. 11539.

 La Corte di legittimità è chiamata a pronunciarsi sul riconoscimento del vizio di mente in caso di disturbo della personalità con discontrollo degli impulsi.

Con la sentenza impugnata, infatti, la Corte di Assise di Appello confermava la condanna emessa dal Giudice per le indagini preliminari relativamente al reato di omicidio pluriaggravato consumato all’interno di una drammatica situazione familiare, segnata dalla malattia mentale dell’imputato, affetto da anni da disturbi psichiatrici che lo rendevano violento nei confronti dei familiari.

Avverso la sentenza è stato proposto ricorso per Cassazione dal difensore dell’imputato con il quale si denunciava, tra gli altri motivi, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere in capo all’imputato.

Secondo il ricorrente, il mancato riconoscimento dell’infermità mentale si poneva in contraddizione anche con quanto evidenziato dallo stesso perito nominato dal primo Giudice, il quale aveva ravvisato in capo al medesimo disturbi della personalità ed, in particolare, un disturbo psichico che comporta discontrollo degli impulsi e improvvise e transeunti perdite della capacità di comprendere il significato e il valore o disvalore delle proprie condotte, emergente soprattutto in fase di forte stress.

Il ricorrente osservava come, secondo quanto precisato dalle Sezioni Unite della Cassazione con sent. 230317/2005, il termine infermità non allude solo ad una condizione patologica, ma a qualunque disturbo che, incidendo sulla psiche, comprometta irrimediabilmente la capacità di intendere di volere, con la conseguenza che anche il disturbo della personalità può escludere l’imputabilità del soggetto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha evidenziato che il concetto di “infermità” di cui agli artt. 88 e 89 c.p. è stato al centro di evoluzione giurisprudenziale estensiva: se, infatti, giurisprudenza piuttosto risalente tendeva a considerare rilevanti, ai fini del concetto, le sole patologie aventi substrato organico, da quasi due decenni la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto come, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità” – che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali – possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2005, n. 9163).

La decisione delle Sezioni Unite pone alla base del percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto la avvenuta emersione di precisi indici rivelatori non di un «qualsiasi» disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità: deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma.

Ebbene, ciò premesso, la Corte ha osservato che l’analisi svolta in sede di merito ha rettamente escluso la ricorrenza di reali indicatori di perdita del senso di realtà nel caso in esame, specie nella condotta posteriore alla consumazione del fatto, atteso che la prospettata incapacità di intendere e di volere del imputato si pone apertamente in contrasto con l’atteggiamento da costui tenuto nell’immediatezza del fatto, avendo da subito egli con cinismo fornito una versione dei fatti finalizzata a crearsi immediatamente una strategia difensiva.

Infine, occorre osservare come l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisca questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo (Cass., sez. I, 17 gennaio 2014, n. 32373), salvi casi di cd. travisamento della prova.

*Contributo in tema di “Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Fideiussione prestata da confidi minore È valida la fideiussione prestata da un c.d. “confidi minore”, iscritto nell’elenco di cui all’art. 155, comma 4, TUB (ratione temporis applicabile alla fattispecie), nell’interesse di un proprio associato a garanzia di un credito derivante da un contratto non bancario?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La fideiussione prestata da un cd. “confidi minore, come il Consorzio ricorrente, soc. coop. r.l., iscritto nell’elenco di cui all’art. 155 , comma 4, T.u.b. (ratione temporis applicabile), nell’interesse di un proprio associato a garanzia di un credito derivante da un contratto non bancario, non è nulla per violazione di norma imperativa, non essendo la nullità prevista in modo testuale, né ricavabile indirettamente dalla previsione secondo la quale detti soggetti svolgono “esclusivamente” la “attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali” per favorire il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario. Il rilascio di fideiussioni è attività non riservata a soggetti autorizzati (come gli intermediari finanziari ex art. 107 T.u.b. ), né preclusa alle società cooperative che operino in coerenza con l’oggetto sociale. –  Cass. Sez. Un. 15 marzo 2022, n. 8472.

Alla risposta indicata nella massima, le Sezioni Unite pervengono valorizzando una serie di elementi.

Anzitutto, rilevano che il rilascio di fideiussioni, diversamente dall’attività di concessione di finanziamenti, è un’attività non riservata a soggetti autorizzati, (come gli intermediari ex art. 107 TUB); né è preclusa alle società cooperative che operino in coerenza con l’oggetto sociale.

Il contratto sub iudice è, per l’appunto, una fideiussione di diritto comune non specificamente riservata agli intermediari autorizzati dal TUB e non può quindi dirsi – in mancanza di specifici divieti – proibita a un confidi minore. È vero che quest’ultimo, in mancanza di apposita iscrizione all’albo ex art. 106 TUB, non può svolgere operazioni riservate agli intermediari finanziari, ma nella fattispecie al consorzio non sono contestate tali attività, bensì il semplice fatto di aver stipulato una fideiussione.

Questa però non è un contratto bancario, né ha una disciplina ad hoc.

Al contrario tale negozio è regolato dal codice civile ed è identico sia se rilasciato da un intermediario, sia se concesso da un soggetto diverso.

Sotto altro profilo il fatto che il confidi minore debba svolgere “esclusivamente” l’attività di garanzia collettiva dei fidi non implica necessariamente un divieto assoluto, a pena di nullità, di attività diverse.

In sostanza il fatto di svolgere attività estranea all’oggetto sociale, in forma comunque non sistematica, non comporta la nullità dei negozi e/o contratti relativi (in tal senso vengono richiamate pronunce in tema di contratti assicurativi vedi Cass. 384/2018 o di affitto di azienda vedi Cass. 8499/2018).

In secondo luogo, si ricorda che la nullità virtuale posta dall’art. 1418, comma 1, c.c. è sì fondata sulla trasgressione di una norma imperativa ma non è insensibile al tipo di norma imperativa violata.

Al riguardo, è necessario, infatti, distinguere le regole di fattispecie dalle regole di condotta, riconnettendosi alla violazione delle prime la sanzione della nullità e alla violazione delle seconde il meccanismo della responsabilità, secondo il ben noto insegnamento del giudice della nomofilachia.

Occorre, quindi, individuare di volta in volta quali siano le norme imperative la cui violazione determini la nullità del contratto, non potendosi sostenere sempre una chiara equiparazione tra norma inderogabile e norma imperativa.

A tal proposito, si rammenta che la giurisprudenza ha dapprima classificato come imperative le disposizioni relative alla struttura essenziale e al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti; ha poi progressivamente esteso il campo della nullità anche alla violazione di norme che attengono a determinate condizioni oggettive o soggettive che direttamente o indirettamente vietano la stipula stessa del contratto. Il trend ultimo che si registra è compendiato dalle Sezioni Unite, le quali rendono manifesta la tendenza attuale di ritenere imperative le norme che operano «come strumento di reazione dell’ordinamento rispetto alle forme di programmazione negoziale lesive di valori giuridici fondamentali».

Non si può dimenticare, invero, che la nullità è la negazione dell’autonomia negoziale sì da dover essere contenuta nei limiti di una sanzione residuale ed estrema.

La nullità negoziale ex art. 1418, comma 1, c.c. deve discendere, allora, dalla violazione di norme aventi contenuti specifici, precisi e individuati non potendosi in caso contrario applicare una sanzione tanto grave, pena il rischio di violare contrapposti valori e principi di rango costituzionale come la libertà negoziale e la libera iniziativa economica.

Alla luce di tali considerazioni le Sezioni Unite concludono che non sussistono le caratteristiche per considerare la disposizione citata come imperativa; non può affermarsi, quindi, alcuna nullità per la fideiussione rilasciata.

concorso 400 notai

Concorso notai: 400 posti Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il nuovo bando di concorso per 400 posti di notaio. Domande entro 30 giorni

Concorso notai 2024

E’ disponibile sul sito del Ministero l’avviso relativo al nuovo bando di concorso per 400 posti di notaio di cui al provvedimento del 12 giugno 2024, pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 50, 4a serie speciale, Concorsi ed esami, il 21 giugno scorso.

Le domande vanno inviate esclusivamente per via telematica entro trenta giorni, a  decorrere dalla pubblicazione in GU, e redatte compilando l’apposito form,

Le prove

Previste prove scritte ed orali.

Esame scritto

In particolare, l’esame scritto consta di tre distinte prove teorico-pratiche, riguardanti un atto di ultima volontà e due atti tra vivi, di cui uno di diritto commerciale. In ciascun tema sono richiesti la compilazione dell’atto e lo svolgimento dei principi attinenti agli istituti giuridici relativi all’atto stesso.

Esame orale

L’esame orale consta invece di tre distinte prove sui seguenti gruppi di materie:

  • diritto civile, commerciale e volontaria giurisdizione, con particolare riguardo agli istituti giuridici in rapporto ai quali si esplica l’ufficio di notaio;
  • disposizioni sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili;
  • disposizioni concernenti i tributi sugli affari.

Diario d’esame

I candidati ai quali non sia stata comunicata l’esclusione dal concorso, sono tenuti a presentarsi per sostenere le prove scritte, a pena di decadenza, nel luogo, giorno ed ora indicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica – 4a serie speciale – “Concorsi ed Esami” del 13 settembre 2024.

Maggiori info sono disponibili anche sul sito del ministero della giustizia.

giurista risponde

Continuazione tra reati e non punibilità La continuazione tra i reati è di per sé sola ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero lo è solo in presenza di determinate condizioni?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131bis c.p., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea in concreto ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale. – Cass. Sez. Un. 12 maggio 2022, n. 18891.

Nel caso di specie, la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare se ad escludere l’operatività della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131bis c.p., sia sufficiente il solo riconoscimento del vincolo di continuazione tra i reati, ovvero sia a tal proposito altresì necessaria la sussistenza di ulteriori condizioni previste dalla predetta disposizione normativa.

Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte ha evidenziato che l’utilizzo del termine “abituale” e non “occasionale” da parte del legislatore, nel disposto di cui all’art. 131bis c.p., ha sollevato un contrasto tra due opposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità circa l’applicabilità in concreto della causa di esclusione della punibilità al reato continuato.

Secondo il primo indirizzo interpretativo, inizialmente prevalente, la causa di non punibilità non troverebbe applicazione nel caso di più reati esecutivi del medesimo disegno criminoso, in quanto tale vincolo, rispondendo alla medesima ratio del comportamento abituale, non supererebbe lo sbarramento posto dalla predetta disposizione normativa. Pur comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole per il reo, invero, il vincolo della continuazione consisterebbe in un’oggettiva reiterazione di condotte rilevanti, sintomatiche di una devianza non occasionale, pertanto espressive di un comportamento abituale che giustificherebbe l’esclusione dal suddetto beneficio (Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897).

Il secondo indirizzo interpretativo, attualmente prevalente, ritiene configurabile la particolare tenuità del fatto nell’ipotesi di reato continuato, purché lo stesso non sia espressivo di una tendenza o inclinazione al crimine (Cass., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358).

L’esclusione dell’abitualità anche rispetto ad un reato continuato, invero, dovrebbe avvenire valorizzando elementi ulteriori desumibili dall’art. 131bis c.p., in presenza dei quali, pertanto, il vincolo di continuazione non sarebbe indicativo del carattere seriale dell’attività criminosa o dell’abitudine del soggetto a violare la legge, ostativi all’operatività della predetta disposizione normativa.

Tuttavia, tale indirizzo distinguerebbe tra continuazione diacronica, sussistente in caso di una pluralità di reati avvinti dal vincolo della continuazione, ma commessi in contesti spaziali e temporali diversi, e continuazione sincronica, sussistente in caso di una pluralità di condotte espressive di un medesimo disegno criminoso, ma commesse in un unico contesto spaziale e temporale.

La violazione criminosa in caso di continuazione sincronica sarebbe invero unica, stante la contemporanea esecuzione temporale e spaziale delle distinte azioni delittuose e sarebbe pertanto compatibile con il concetto di estemporaneità dell’azione illecita rispetto alla personalità positiva del reo, da cui si desumerebbero i presupposti finalizzati alla valutazione dell’operatività dell’art. 131bis c.p. (Cass., sez. V, 13 luglio 2020, n. 30434).

Sul punto, gli Ermellini hanno richiamato quanto stabilito dalle Sezioni Unite in una precedente pronuncia, che ha analizzato le tre ipotesi tassative di comportamento abituale di cui all’art. 131bis, comma 3, c.p.

Il primo di tale triplice criterio risulta non suscitare problemi di interpretazione, essendo già definita dal legislatore la qualificazione di delinquente abituale, professionale o per tendenza attraverso gli artt. 105 e ss. c.p.

In relazione al secondo criterio, vale a dire più reati della stessa indole, il dato normativo parla di “reati” e non di “condanne”; pertanto, la pluralità di reati, da intendere partendo da almeno due rispetto a quello in sede di accertamento, è configurata non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche a fronte di accertamenti di reato non ancora definitivi o di reati da giudicare nel medesimo procedimento.

In relazione al terzo criterio, vale a dire condotte abituali e reiterate, la sentenza richiamata chiarisce che il legislatore richiami fattispecie che prevedono l’elemento tipico della condotta abituale, come nel caso del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., nonché delle condotte reiterate, come nel caso del reato di atti persecutori di cui all’art. 612bis c.p.

Le condotte plurime, lungi dall’essere una ripetizione delle condotte abituali e reiterate, si riferiscono a fattispecie concrete connotate da distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti. Non è desumibile, pertanto, alcun riferimento preclusivo al reato continuato (Cass. Sez. Un. 25 febbraio 2016, n. 13681).

Le Sezioni Unite aderiscono alle conclusioni della predetta pronuncia e condividono l’impostazione del secondo orientamento giurisprudenziale.

Il Supremo Collegio muove, in prim’ordine, dalla premessa che il concorso formale di reati è caratterizzato dall’unicità dell’azione o dell’omissione, escludendone pertanto sia la collocazione tra i reati della stessa indole o tra le condotte plurime, abituali e reiterate, sia la natura di condotta abituale.

Il reato continuato, parimenti, consiste in una particolare ipotesi di concorso di reati, essendo tuttavia considerato unitario ai soli fini della determinazione della pena o della garanzia di un eventuale risultato favorevole al reo (Cass. Sez. Un. 17 dicembre 2009, n. 18775; Cass. Sez. Un. 27 novembre 2008, n. 3286).

Di conseguenza, annoverare il concorso formale di reati tra i presupposti per la particolare tenuità del fatto a discapito del reato continuato, comporterebbe un trattamento discriminatorio e una violazione del canone di ragionevolezza.

Chiarito che i reati avvinti dal vincolo della continuazione possono essere suscettibili di applicazione dell’art. 131bis c.p., le Sezioni Unite hanno altresì stabilito che gli stessi devono essere oggetto di un complessivo apprezzamento discrezionale del giudice, che deve soppesarli con la sussistenza di ulteriori criteri al fine di valutare l’operatività dell’art. 131bis c.p., tra cui la natura e la gravità dei reati unificati, dei beni giuridici lesi o posti in pericolo, l’entità delle disposizioni di legge violate, le finalità e le modalità esecutive della condotta, le motivazioni e le conseguenze derivatene, l’arco temporale e il contesto in cui le violazioni medesime si collocano, l’intensità del dolo e la rilevanza dei comportamenti successivi ai fatti.

La natura dei reati in continuazione e il bene giuridico dagli stessi leso, tuttavia, sollevano la possibilità di integrare più reati della stessa indole, che definiscono un comportamento abituale tale, dunque, da escludere il reato continuato dall’operatività dell’art. 131bis c.p.

La soluzione cui perviene il Supremo Collegio consiste invero nella valutazione del dato numerico dei reati della stessa indole, posto che l’art. 131bis c.p. parla di più reati, che pertanto devono essere almeno due e a cui deve aggiungersi il reato oggetto di accertamento giudiziario. Ne consegue che, solo se inferiori a tre, i reati della stessa indole uniti dal vincolo della continuazione non incorrono nel comportamento abituale preclusivo dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità.

Tuttavia, nella nozione di “stessa indole” vi rientra la sola continuazione omogenea, caratterizzata dalla plurima violazione della medesima disposizione di legge.

Le Sezioni Unite infine escludono dall’ambito dell’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis c.p., la sola continuazione diacronica, dal momento che comporta la reiterazione di condotte delittuose in contesti spaziali e temporali distanti, sintomatiche di una pervicacia criminale che non consente di qualificare il fatto come occasionale.

Pertanto, le Sezioni Unite hanno stabilito che la pluralità di reati uniti dal vincolo della continuazione non è ostativa all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p., salvo che il giudice la ritenga idonea ad integrare una o più delle condizioni previste dalla medesima disposizione normativa per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358; Cass., sez. V, 13 luglio 2020, n. 30434;
Cass. Sez. Un. 25 febbraio 2016, n. 13681;  Cass. Sez. Un. 17 dicembre 2009, n. 18775;
Cass. Sez. Un. 27 novembre 2008, n. 3286
Difformi:      Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897