illecito condominiale

Illecito condominiale: tutti responsabili La Cassazione stabilisce che in caso di illecito condominiale ciascun autore risponde integralmente, senza rilievo della priorità dell’intervento

Con l’ordinanza n. 17237/2025, la Cassazione ha chiarito un principio fondamentale in tema di responsabilità per illecito condominiale. Quando più soggetti intervengono sulla cosa comune, ciascuno può essere chiamato a rispondere per l’intero danno, indipendentemente dall’ordine cronologico dei loro comportamenti.

La vicenda oggetto di giudizio

Un condomino aveva convenuto in giudizio la proprietaria di un’unità immobiliare, lamentando che l’apposizione di pannelli in cartongesso su una vetrata comune avesse ridotto la luce naturale nella scala.
La Corte d’appello aveva respinto in parte la domanda, ritenendo che l’oscuramento derivasse prevalentemente da pannelli precedentemente collocati da un altro condomino confinante. Il controsoffitto installato successivamente non sarebbe stato idoneo ad aggravare in modo apprezzabile la situazione.

Il ricorrente aveva contestato questa ricostruzione, affermando che la Corte di merito avesse trascurato la circostanza che l’illecito concorresse con quello precedente e che la responsabilità non dipendesse dalla priorità temporale del comportamento.

La responsabilità solidale nel danno condominiale

Accogliendo il ricorso, la Cassazione ha ricordato che in tema di illecito condominiale il criterio fondamentale è l’articolo 2043 del codice civile, che impone l’obbligo di risarcire il danno ingiusto cagionato da fatto doloso o colposo.
Ai sensi dell’articolo 2055 c.c., quando il danno è prodotto da più soggetti, tutti rispondono in solido verso il danneggiato.

Di conseguenza, chi interviene successivamente su una situazione già compromessa non può invocare la condotta anteriore di terzi per escludere la propria responsabilità. Il danneggiato può rivolgersi indifferentemente a ciascun autore, senza che assuma rilievo chi abbia compiuto per primo l’abuso.

Il principio di diritto affermato

La Corte ha enunciato un principio chiaro e destinato a trovare applicazione in casi analoghi: “Anche in tema di rapporti condominiali, del fatto illecito di un condomino che si aggiunga al fatto illecito di altro condomino nei confronti della cosa comune può essere chiamato a rispondere indifferentemente l’uno o l’altro degli autori, senza che debba aversi riguardo alla priorità nella commissione del fatto”. 

Si tratta di un orientamento coerente con la giurisprudenza precedente (Cass. n. 1757/1987 e n. 6041/2010), secondo cui ciascun condomino può agire autonomamente a tutela del bene comune e ciascun autore risponde per l’intero danno.

Gli altri motivi accolti dalla Suprema Corte

Oltre alla questione della responsabilità solidale, la Cassazione ha accolto ulteriori motivi di ricorso del condomino danneggiato.
In particolare, la Corte di merito aveva omesso di pronunciarsi:

  • sulla violazione del regolamento condominiale,

  • sulle modifiche apportate agli infissi senza autorizzazione.

La decisione è stata dunque cassata con rinvio, per un nuovo esame di tutti i profili di illegittimità dedotti.

Allegati

società semplice

Società semplice: la Corte Costituzionale sul fallimento in estensione dei soci La Consulta chiarisce che il fallimento di una società semplice non è opponibile ai soci se non sono stati convocati nella procedura. Ecco cosa prevede la sentenza n. 87/2025

Società semplice e rischio di fallimento in estensione

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2025, ha precisato i limiti del cosiddetto fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili di una società semplice.

In linea generale, la società semplice non è soggetta a fallimento. Tuttavia, quando si accerta che ha esercitato attività commerciale, può essere dichiarata fallita, con la conseguenza che anche i soci rispondono patrimonialmente e possono subire il fallimento in estensione.

La legge fallimentare (articolo 147 del regio decreto n. 267/1942) consente che il procedimento di fallimento dei soci sia separato da quello della società.

Il diritto di difesa dei soci e la convocazione nella procedura

La questione esaminata dalla Corte riguardava un caso in cui i soci non erano stati convocati nel giudizio che aveva dichiarato il fallimento della società semplice. La normativa vigente, secondo l’interpretazione consolidata, riteneva sufficiente garantire ai soci il diritto di proporre reclamo entro trenta giorni dalla trascrizione della sentenza nel registro delle imprese.

Tuttavia, i giudici costituzionali hanno osservato che questa garanzia non è adeguata nel caso di una società semplice, che normalmente non è soggetta a fallimento e i cui soci non hanno motivo di monitorare costantemente il registro delle imprese.

L’onere di verifica e i limiti dell’affidamento

La Consulta ha affermato che, per garantire l’effettività del diritto di difesa, non può gravare sui soci l’onere di controllare autonomamente l’eventuale fallimento della società.

Secondo la sentenza, su basi così deboli non si può fondare un accertamento che condiziona la possibilità di dichiarare il fallimento del socio, con pesanti ripercussioni anche sul piano personale.

Di conseguenza, i soci devono essere convocati non solo nel giudizio che decide sul loro fallimento in estensione, ma anche nel procedimento che accerta la fallibilità dell’ente.

Fallimento società semplice non è automaticamente opponibile ai soci

La Corte costituzionale ha stabilito che, se la convocazione manca, la sentenza dichiarativa del fallimento della società non è opponibile ai soci illimitatamente responsabili.

Nel giudizio sul fallimento in estensione, sarà quindi possibile discutere nuovamente la fallibilità dell’ente, a meno che non sia dimostrato che i soci hanno partecipato alla procedura oppure che abbiano esercitato il diritto di difesa mediante reclamo.

Questa interpretazione assicura un bilanciamento tra esigenze di tutela del ceto creditorio e diritti fondamentali dei soci.

responsabilità per danno erariale

Giudice in ritardo: scatta la responsabilità per danno erariale La Corte dei conti conferma che per il giudice che prolunga il processo per negligenza scatta la responsabilità per danno erariale

Responsabilità del giudice e danno erariale indiretto

Responsabilità per danno erariale: secondo un recente pronunciamento della Corte dei conti (sentenza n. 83/2025), anche i magistrati possono essere chiamati a rispondere per danno erariale quando un comportamento gravemente negligente causi ritardi ingiustificati nel processo. L’indipendenza della funzione giurisdizionale, infatti, non comporta un’assoluta irresponsabilità: il giudice resta tenuto al rispetto di regole di diligenza e correttezza nella conduzione delle cause.

In particolare, nel caso esaminato, un magistrato d’appello è stato condannato a risarcire parzialmente l’amministrazione per aver rimesso la causa al collegio senza controllare che il fascicolo di primo grado fosse disponibile, determinando un ritardo di circa due anni.

Il quadro normativo: tra equa riparazione e azione di rivalsa

La vicenda trae origine dalla condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’equa riparazione prevista dalla legge Pinto (legge n. 89/2001), riconosciuta a due cittadini per l’eccessiva durata del procedimento. Successivamente, la Procura contabile ha promosso l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti del magistrato istruttore.

L’articolo 5, comma 4, della stessa legge prevede infatti la trasmissione del decreto di equa riparazione alla Procura della Corte dei conti per l’accertamento di eventuali responsabilità. La normativa si coordina con la legge n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, che individua la negligenza inescusabile quale parametro per qualificare la colpa grave.

Gli argomenti difensivi del magistrato e il rigetto dell’appello

Nel giudizio di appello, il magistrato ha sostenuto che la normativa all’epoca vigente non attribuiva al consigliere istruttore l’obbligo di verificare la completezza degli atti prima del rinvio al collegio e che tale controllo spettava alla cancelleria. Inoltre, ha richiamato la giurisprudenza sul limite alla sindacabilità delle valutazioni di merito compiute dal giudice.

La Corte dei conti ha però ribadito che la condotta omissiva integra una violazione degli obblighi di vigilanza, con conseguenze dannose per l’Erario, e che la responsabilità contabile può riguardare anche l’attività strettamente giurisdizionale quando il danno deriva da un comportamento macroscopicamente negligente.

La riduzione della condanna per concorso della cancelleria

Pur confermando la responsabilità del magistrato, i giudici contabili hanno riconosciuto che la condotta omissiva della cancelleria ha inciso nella causazione dell’evento dannoso. Di conseguenza, l’importo risarcitorio è stato ridotto in misura proporzionale alla corresponsabilità accertata.

Responsabilità per danno erariale e principio di indipendenza

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 385/1996, ha già chiarito che l’indipendenza della funzione giurisdizionale è pienamente compatibile con la responsabilità civile, penale e amministrativo-contabile dei magistrati. Un orientamento condiviso anche dalle Sezioni Unite della Cassazione (ordinanza n. 2370/2023), che hanno affermato la possibilità di chiamare il magistrato a rispondere per danno erariale, sia per l’attività amministrativa, sia per quella giurisdizionale, se caratterizzata da colpa grave o dolo.

morso cane randagio

Morso di cane randagio: quando la PA deve risarcire La Cassazione chiarisce: per ottenere il risarcimento da morso di cane randagio serve la prova del nesso di causalità e dell’omesso controllo della PA

La sentenza n. 16788/2025 della Cassazione fornisce importanti chiarimenti sulla responsabilità della pubblica amministrazione in caso di danni causati da cani randagi. Il risarcimento spetta solo se il danneggiato dimostra che il morso è conseguenza diretta dell’omesso controllo sul territorio e che esiste un nesso di causalità tra la condotta inadeguata dell’ente e il danno subito.

I tre criteri fissati dalla Cassazione

Prima di stabilire il principio di diritto, i giudici di legittimità hanno individuato tre regole fondamentali per questo tipo di controversie:

Onere della prova sulla condotta omissiva

Il danneggiato deve dimostrare che la pubblica amministrazione non ha predisposto adeguati strumenti e risorse per prevenire il fenomeno del randagismo.

Dimostrazione del nesso causale

Il cittadino deve provare che l’omessa attività di controllo sia stata la causa del morso. Questa prova può avvenire anche in via presuntiva, evidenziando che si è realizzato proprio quel rischio che l’amministrazione avrebbe dovuto evitare.

Prova contraria da parte della PA

L’ente pubblico può liberarsi dalla responsabilità dimostrando il caso fortuito, ossia un evento imprevedibile e inevitabile.

Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte

I giudici hanno ribadito che la responsabilità dell’amministrazione si fonda sull’articolo 2043 del codice civile, che disciplina il risarcimento del danno ingiusto causato da fatto illecito.

Il principio affermato è chiaro: “La responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi è soggetta alle regole dell’art. 2043 c.c.; pertanto, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito.”

Non basta dimostrare che un cane randagio abbia causato la lesione: occorre provare la carenza organizzativa del servizio di prevenzione del randagismo e che un’adeguata attività avrebbe impedito il danno.

Il criterio della concretizzazione del rischio

La Cassazione ha precisato che, solo dopo aver dimostrato la colpa della pubblica amministrazione, è possibile ricorrere al criterio della concretizzazione del rischio.
Questo criterio permette di ritenere provato il nesso causale se l’evento lesivo coincide con il rischio che la norma violata era destinata a prevenire. In altre parole, se l’ente avesse adottato un’azione corretta di controllo e cattura dei randagi, l’aggressione non si sarebbe verificata.

Quando il risarcimento non spetta

Se manca la prova dell’insufficienza dei controlli o il collegamento diretto tra omissione e danno, il risarcimento non può essere riconosciuto. La sola presenza del cane randagio sul territorio non è sufficiente a far scattare la responsabilità dell’amministrazione.

avvocato deve privilegiare la verità

L’avvocato deve privilegiare la verità al mandato Il CNF ribadisce che l’avvocato deve privilegiare la verità e la legge anche rinunciando al mandato. I principi deontologici su lealtà e dignità professionale

Il dovere di verità come cardine della funzione difensiva

L’avvocato deve privilegiare la verità al mandato: la sentenza n. 445/2024, pubblicata il 25 giugno 2025 sul sito del Codice Deontologico Forense, interviene su un profilo essenziale della professione: il rapporto tra l’obbligo di lealtà e verità e il mandato difensivo.

La decisione richiama il principio secondo cui l’attività dell’avvocato deve essere improntata al rispetto della verità e della legge, in quanto elementi qualificanti la funzione difensiva e la dignità professionale.

Il prevalente dovere di rispettare la legge e la verità

Il CNF ha precisato che, qualora si crei un conflitto tra il mandato ricevuto e l’osservanza della verità e della legge, l’avvocato è tenuto a privilegiare questi ultimi, anche a costo di rinunciare all’incarico.

Tale orientamento trova fondamento:

  • nell’art. 50 del Codice Deontologico Forense, che disciplina il dovere di verità e correttezza nell’attività professionale;

  • nell’art. 3 della L. n. 247/2012, che impone il rispetto dei principi di lealtà e probità;

  • nell’art. 88 del codice di procedura civile, che richiede alle parti e ai difensori comportamento leale e veritiero nel processo.

La rinuncia al mandato per giusto motivo

La sentenza sottolinea che l’ossequio alla verità rappresenta un dovere di rango superiore, in virtù del quale l’avvocato deve astenersi da qualsiasi condotta che possa porsi in contrasto con la legge o con la verità dei fatti.

Se la prosecuzione del mandato dovesse comportare una violazione di tali principi, l’avvocato è tenuto a valutare la rinuncia all’incarico per giusto motivo, quale espressione della propria indipendenza e della dignità della funzione difensiva.

Verità, mandato e dignità professionale

La pronuncia evidenzia come il dovere di verità non sia limitato all’attività processuale, ma si estende anche ai rapporti stragiudiziali e alle relazioni con la controparte e i terzi.

Questo dovere si pone come limite invalicabile alla libertà di difesa tecnica, la quale non può mai tradursi in atti contrari alla legge o idonei a ingenerare inganno nell’autorità giudiziaria o negli altri soggetti coinvolti.

inps in videochiamata

INPS in videochiamata: come funziona il nuovo servizio dall’1 luglio Come funziona il nuovo servizio sperimentale INPS in videochiamata disponibile dal 1° luglio 2025: vantaggi, sedi coinvolte e come prenotare l’appuntamento online

INPS in videochiamata: servizio dall’1 luglio

INPS in videochiamata: dal 1° luglio 2025, l’INPS inaugura una fase sperimentale del servizio di videochiamata con i cittadini. L’iniziativa, come annunciato nel messaggio n. 1979/2025, rientra in un più ampio progetto di innovazione digitale pensato per semplificare l’accesso alle informazioni e alle pratiche, riducendo i tempi di attesa e gli spostamenti verso gli sportelli fisici.

La sperimentazione riguarderà inizialmente un numero selezionato di sedi e sportelli, con l’obiettivo di estendere progressivamente il servizio a tutto il territorio nazionale.

Cosa offre il nuovo servizio di videochiamata

La videochiamata INPS introduce un’interazione più diretta e completa rispetto alla tradizionale assistenza telefonica, permettendo di vedere e parlare con un operatore qualificato in tempo reale.

Tra i principali vantaggi del servizio:

  • Accessibilità totale: basta un dispositivo (PC, tablet, smartphone) con connessione internet e videocamera per collegarsi da qualsiasi luogo.

  • Appuntamenti strutturati: ogni sessione dura 20 minuti, con possibilità di estensione se necessario.

  • Riduzione dei tempi di attesa: il collegamento è rapido e senza code.

  • Facilità d’uso: la piattaforma è intuitiva e pensata anche per chi ha poca dimestichezza con il digitale.

  • Assistenza personalizzata: puoi parlare con un operatore specializzato su pensioni, NASpI, invalidità civile e altre pratiche.

  • Scambio sicuro di documenti: durante la chiamata puoi inviare o ricevere documenti ufficiali che verranno protocollati.

  • Chat integrata: una live chat testuale consente di scrivere eventuali domande.

  • Benefici ambientali: meno spostamenti significano minori emissioni di CO2.

Come prenotare la videochiamata

Per utilizzare la nuova modalità di assistenza è necessario prenotare un appuntamento nel giorno dedicato dalla sede INPS sperimentale.

Le modalità di prenotazione sono diverse:

  • Accedi al sito inps.it e usa la funzione “Prenota un appuntamento” nell’area MyINPS.

  • Utilizza l’app INPS Mobile nella sezione “Sportelli di sede”.

  • Chiama il Contact Center:

    • Numero gratuito da rete fissa: 803164

    • Da cellulare (a pagamento): 06164164

  • Rivolgiti direttamente agli sportelli di prima accoglienza delle sedi INPS.

Il giorno della videochiamata, troverai il link per avviare la sessione tra le notifiche della tua area personale MyINPS. Non è necessario installare software aggiuntivi.

Dove parte la sperimentazione

La sperimentazione coinvolge una selezione di sedi INPS che offrono giornate dedicate al servizio di videochiamata. L’elenco completo e aggiornato è disponibile sul portale istituzionale nella pagina dedicata agli sportelli in videochiamata.

Guide e assistenza

Per facilitare l’uso del nuovo servizio, l’INPS mette a disposizione (nella sezione “Sportelli di sede” e “Contatti” sul sito ufficiale):

  • Un tutorial PDF dettagliato consultabile online.

  • Un breve video di presentazione che spiega come prenotare e avviare la videochiamata.

quattordicesima 2025

Quattordicesima 2025: arriva a luglio per i pensionati L’INPS comunica il pagamento d’ufficio della quattordicesima a luglio 2025 per pensionati over 64 con redditi nei limiti. Scopri requisiti, importi e come fare domanda

Cos’è e quando viene pagata la quattordicesima 2025

Con il messaggio INPS n. 1966 del 20 giugno 2025, l’Istituto informa che la quattordicesima sarà erogata d’ufficio sulla pensione di luglio 2025, per i pensionati che rispettano requisiti anagrafici e reddituali. 

Chi ha diritto e quali redditi valgono

Per accedere al beneficio:

  • È necessario aver compiuto 64 anni entro il 31 luglio 2025 (o entro il 30 giugno per gestioni pubbliche e ex‑INPGI)

  • Il reddito annuo personale (pensionistico e altri redditi esclusi quelli esenti) deve rientrare in fasce stabilite: fino a 1,5× o 2× il trattamento minimo (603,40 €). Il limite massimo è di 15.688,40 € lordi

Importi in base a contributi e reddito

L’ammontare della quattordicesima varia in funzione degli anni di contribuzione e del reddito:

Anni di contribuzione Reddito ≤ 1,5× TM Reddito tra 1,5× e 2× TM
Fino a 15 anni 437 € (dipend.) 336 €
15–25 anni 546 € 420 €
Oltre 25 anni 655 € 504 €

Clausola di salvaguardia

Se il reddito supera il limite ma resta sotto soglia più importo, si applica un pagamento proporzionato. 

Modalità d’erogazione e aggiornamento dati

  • Erogazione automatica on July 2025 per chi possiede i requisiti; a dicembre 2025 per chi compie 64 anni o diventa titolare di pensione dopo le scadenze indicate

  • L’INPS impiega i redditi certificati fino al 2021/2022, in attesa di dati aggiornati

  • Eventuali importi indebiti verranno recuperati automaticamente .

Come richiedere la quattordicesima se non arriva

Chi non la riceve ma ritiene di averne diritto può presentare domanda di “Ricostituzione reddituale per quattordicesima” tramite SPID/CNS/CIE o rivolgendosi a patronati per assistenza gratuita. 

Come verificare nel cedolino e tramite INPS

La quattordicesima comparirà nel cedolino di luglio (o dicembre) con apposita voce. Le comunicazioni verranno trasmesse tramite MY INPS, email certificata, modello Obis/M e app IO; non saranno inviate lettere cartacee. 

Vedi anche la guida Quattordicesima

vittime di violenza di genere

Vittime di violenza di genere: contributi dalla Cassa La Cassa dei Dottori Commercialisti stanzia 200.000 euro per un contributo economico destinato alle professioniste vittime di violenza di genere. Ecco requisiti, importo e modalità di domanda

Commercialiste vittime di violenza di genere

Vittime di violenza di genere: la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti ha previsto, per il 2025, un contributo economico di supporto dedicato esclusivamente alle Commercialiste che hanno subito violenza di genere. La finalità è sostenere il percorso di fuoriuscita dalla violenza e favorire il recupero dell’autonomia professionale, grazie a un fondo complessivo pari a 200.000 euro.

Chi può beneficiarne

L’accesso al contributo è riservato alle professioniste iscritte alla Cassa alla data del 31 dicembre 2025 e residenti sul territorio nazionale. Per ottenere il beneficio occorre trovarsi in una delle seguenti situazioni:

  • aver intrapreso dal gennaio 2021 un percorso di protezione e fuoriuscita dalla violenza, ancora in corso al momento della domanda;

  • oppure aver avviato azioni giudiziarie di tutela, concluse o pendenti.

Il requisito dello stato di bisogno si considera automaticamente sussistente in relazione alla particolare condizione di vulnerabilità derivante dalla violenza subita.

Importo e caratteristiche del contributo

L’ammontare del sostegno economico non è predeterminato in misura fissa: sarà stabilito caso per caso dal Consiglio di Amministrazione, che valuterà la situazione specifica della richiedente.

Qualora la professionista abbia percepito il “Reddito di Libertà” previsto dal D.P.C.M. 17 dicembre 2020, il nuovo contributo potrà integrare quanto già ricevuto. L’erogazione avverrà in un’unica soluzione tramite bonifico bancario sul conto corrente indicato nella domanda.

Come e quando presentare domanda

Le domande potranno essere inoltrate a partire dal 1° luglio 2025 fino al 30 giugno 2026, e comunque fino ad esaurimento delle risorse stanziate.

Le modalità di invio ammesse sono:

Documentazione da allegare

Alla richiesta è necessario allegare:

  • un documento di identità in corso di validità;

  • una dichiarazione firmata dal legale rappresentante di un centro antiviolenza, oppure dai Servizi Sociali o altro Ente preposto, che attesti l’avvio e il proseguimento di un percorso di protezione e l’effettivo stato di violenza;

  • se già percepito, il documento che comprovi l’erogazione del Reddito di Libertà.

In presenza di irregolarità contributive, l’erogazione del contributo resta sospesa fino alla regolarizzazione.

interrogatorio formale

Interrogatorio formale Interrogatorio formale: cos’è, quando è ammissibile, normativa, come si richiede, quale valore ha e giurisprudenza

Cos’è l’interrogatorio formale

L’interrogatorio formale è un mezzo di prova tipico del processo civile regolato dagli articoli 230 e seguenti del codice di procedura civile. Consiste in una serie di domande rivolte alla parte avversaria, su fatti rilevanti e controversi, idonea a produrre effetti vincolanti nel giudizio.

A differenza dell’interrogatorio libero, che ha funzione esplorativa, quello formale valore probatorio, in quanto può determinare una vera e propria prova legale.

Quando è ammissibile e quando no

Secondo l’art. 230 c.p.c., l’interrogatorio formale è ammissibile solo in relazione a fatti personali della parte e che essa possa conoscere direttamente. Non è quindi consentito proporre l’interrogatorio su fatti:

  • notori;
  • irrilevanti ai fini della decisione;
  • già pacifici tra le parti;
  • non riferibili direttamente alla parte stessa.

Inoltre, l’interrogatorio non può essere ammesso nei confronti di soggetti incapaci di rendere confessione, come i minori o gli interdetti, salve le eccezioni previste dalla legge.

Qual è la normativa di riferimento

La disciplina dell’istituto si rinviene principalmente nel codice di procedura civile, agli articoli:

  • Art. 230 c.p.c. – “Modo dell’interrogatorio”;
  • Art. 231 c.p.c. – “Risposta”;
  • Art. 232 c.p.c. – “Mancata risposta”.

Queste norme stabiliscono i presupposti, le modalità e gli effetti della confessione giudiziale resa in sede di interrogatorio formale.

Come si propone la richiesta di interrogatorio

La parte interessata deve chiedere l’ammissione dell’interrogatorio nell’atto introduttivo del giudizio, indicando specificamente i capitoli sui quali intende che la controparte venga interrogata. La richiesta può essere formulata anche successivamente, ma prima dell’apertura della fase istruttoria.

Se il giudice accoglie la richiesta, dispone l’interrogatorio mediante ordinanza, fissando un’udienza per l’assunzione della prova.

L’interrogatorio è assunto personalmente dal giudice, il quale formula le domande sui singoli capitoli previamente autorizzati. La parte interrogata ha l’obbligo di rispondere personalmente e direttamente.

Qual è il valore dell’interrogatorio formale

L’interrogatorio formale ha un elevato valore probatorio quando si conclude con confessione su fatti sfavorevoli alla parte che confessa e favorevoli alla controparte. In tal caso, la confessione giudiziale ex art. 2730 c.c ha efficacia vincolante, essendo considerata prova legale.

Se la parte non compare oppure rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il giudice può considerare come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio ex art. 232 c.p.c.

Giurisprudenza

Cassazione n. 24799/2024: Quando una parte rilascia dichiarazioni a proprio favore durante un interrogatorio formale, il giudice non è obbligato ad accettarle in automatico. Spetta a lui valutarle liberamente, tenendo conto di tutte le altre prove raccolte. Solo così, infatti, possono diventare un elemento per formare la sua decisione finale.

Cassazione n. 29473/2023: L’interrogatorio formale ha un unico scopo: ottenere la confessione giudiziale di fatti che vanno contro chi li ammette, e che tornano a esclusivo vantaggio della parte che ha richiesto l’interrogatorio. Non può invece essere usato come prova di fatti che favoriscono la parte che sta rendendo la confessione.

Cassazione n. 2956/2018: La parte che ha richiesto l’interrogatorio formale della controparte può liberamente rinunciarvi in qualsiasi momento, senza bisogno del consenso della controparte o del giudice. Questo è il rovescio della medaglia del fatto che una parte non può mai chiedere il proprio interrogatorio formale.

 

Leggi anche l’articolo di procedura penale dedicato all’Interrogatorio di garanzia

giurista risponde

Risoluzione del contratto e rilascio di immobile In caso di risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore, il rilascio dell’immobile preclude l’azione di risarcimento per il mancato guadagno?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli, Mariella Pascazio

 

Il diritto del locatore a conseguire, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento del danno da mancato guadagno a causa della risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore non viene meno, di per sé, in seguito alla restituzione del bene locato prima della naturale scadenza del contratto, ma richiede, normalmente, la dimostrazione da parte del locatore di essersi tempestivamente attivato, una volta ottenuta la disponibilità dell’immobile, per una nuova locazione a terzi, fermo l’apprezzamento del giudice delle circostanze del caso concreto anche in base al canone della buona fede e restando in ogni caso esclusa l’applicabilità dell’art. 1591 c.c. (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2025, n. 4892).

Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite dalla questione dalla Terza Sezione Civile, sono intervenute per dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante il diritto del locatore di conseguire il risarcimento del danno da mancato guadagno conseguente alla risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, in relazione ai casi in cui la restituzione del bene locato avvenga in data antecedente alla scadenza naturale del contratto. In particolare, ci si interroga se il locatore possa ottenere un risarcimento per i canoni non percepiti tra la riconsegna dell’immobile e la naturale scadenza del contratto o, se anteriore, fino alla stipula di una nuova locazione.

In assenza di una disposizione normativa volta a regolare la fattispecie, sussistevano sul punto due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Secondo un primo orientamento, prevalente seppur più risalente, risolto il contratto di locazione per inadempimento del conduttore riconsegnato l’immobile al locatore, questi avrebbe avuto anche diritto al risarcimento del danno per la anticipata cessazione del rapporto, da individuarsi nella mancata percezione dei canoni concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore e il cui ammontare è riservato alla valutazione del giudice di merito sulla base di tutte le circostanze del caso concreto. (Cass. 5 gennaio 2023, n. 194; Cass. 5 maggio 2020, n. 8482; Cass. 13 febbraio 2015, n. 286; Cass. 3 settembre 2007, n. 18510 e Cass. 29 gennaio 1980, n. 676).

Secondo altro orientamento, recepito dalla sentenza di merito, il locatore, una volta rientrato nella materiale disponibilità dell’immobile, non avrebbe diritto ad ottenere alcun risarcimento correlato alla mancata percezione dei canoni, rappresentando i canoni il corrispettivo che il locatore percepisce per non potere godere direttamente dell’immobile. Invece, un danno correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio può configurarsi se, per le concrete condizioni in cui si trova l’immobile, la restituzione del bene non abbia consentito al locatore di poter esercitare, né in via diretta né in via indiretta, il godimento di cui si era privato concedendo il bene in locazione, commisurandosi in tal caso la perdita al tempo occorrente per il relativo ripristino quale conseguenza dell’inesatto adempimento dell’obbligazione di rilascio nei sensi dell’art. 1590 c.c. (Cass. 20 gennaio 2017, n. 1426; Cass. 10 dicembre 2013, n. 27614).

Con la pronuncia in esame, pur con alcune puntualizzazioni, le Sezioni Unite si sono espresse in favore del primo orientamento, rilevando che la diversa tesi che individua la causa della locazione nella preliminare rinuncia al godimento diretto non considera che non necessariamente in capo al locatore risiede un interesse al godimento diretto del proprio immobile, compensato dal canone.

Tale impostazione, secondo le Sezioni Unite, sarebbe riduttiva e non aderente alla realtà contrattuale della locazione, atteso che non terrebbe conto di tutte quei casi, diffusi nella pratica, in cui chi loca un bene intende utilizzarlo al solo fine di trarne delle rendite o realizzare profitti (es. società commerciale orientata a realizzare profitti attraverso l’acquisto sistematico di immobili da destinare con immediatezza al godimento di terzi dietro compensi).

La tesi secondo cui il rilascio dell’immobile locato a seguito di risoluzione per inadempimento del conduttore non sarebbe di per sé tale da integrare un danno trascura la mancata realizzazione del programma negoziale originariamente convenuto tra le parti.

Attraverso la conclusione di un contratto, le parti non si propongano affatto di ricomporre, come conseguenza della realizzazione della causa contrattuale, il medesimo equilibrio economico originario astrattamente considerato (sia pure in una diversa composizione materiale: una somma di danaro al posto di un periodo di godimento dell’immobile, e viceversa), bensì a raggiungere un diverso e più avanzato assetto economico-giuridico della propria sfera patrimoniale, rivisto attraverso il prisma delle proprie prospettive d’interesse.

La frustrazione che il locatore è costretto a subire per effetto dell’inadempimento del conduttore, in relazione al compimento del programma contrattuale originariamente convenuto (e, dunque, in relazione al forzato sacrificio degli interessi negoziati), non potrà in tal senso mai essere reintegrata, sul piano risarcitorio, dalla ricollocazione dello stesso locatore nella medesima condizione economico-patrimoniale precedente la conclusione del contratto.

Muovendo da queste premesse, le Sezioni Unite ritengono di dover dar seguito all’orientamento secondo il quale “il locatore, il quale abbia chiesto e ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ha diritto anche al risarcimento del danno per l’anticipata cessazione del rapporto, da individuare nella mancata percezione dei canoni concordati fino alla scadenza del contratto o al reperimento di un nuovo conduttore”.

Allo stesso tempo, deve essere escluso qualsiasi automatismo in ipotesi volto a identificare il danno del locatore nell’insieme dei canoni non percepiti. Non si deve confondere l’azione risarcitoria con l’azione di adempimento (solo grazie alla quale il locatore può esigere il mancato pagamento dei canoni convenuti fino alla scadenza del rapporto) e, dall’altro, occorre rammentare come l’operazione di liquidazione del danno si fondi necessariamente sulla preliminare distinzione fra danno-evento (qui coincidente con l’inadempimento e identificato dalla mancata percezione dei canoni di locazione concordati fino alla scadenza del contratto o al reperimento di un nuovo conduttore) e danno-conseguenza disciplinato dall’art. 1223 c.c., ai sensi del quale il “mancato guadagno” del locatore, in tanto potrà ritenersi risarcibile, in quanto appaia configurabile alla stregua di una “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento.

Tale nesso di “causalità giuridica” tra l’evento di danno e le sue conseguenze pregiudizievoli (il carattere di derivazione immediata e diretta di queste ultime dal primo) costituisce materia di un onere probatorio (necessariamente) incombente sul locatore ai sensi dell’art. 2697 c.c.; e tanto, a prescindere da quanto il conduttore potrà eventualmente opporre ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.

Da questa prospettiva, la circostanza dell’avvenuta restituzione anticipata dell’immobile da parte del conduttore inadempiente a seguito della risoluzione del contratto se, da un lato, non esclude di principio la risarcibilità delle possibili conseguenze dannose correlate alla mancata percezione dei canoni dovuti fino alla naturale scadenza del contratto (o alla conclusione di un’eventuale nuova locazione), dall’altro, non potrà non offrire al giudice del merito elementi utili (sul piano del ragionamento probatorio d’indole critica) ai fini della più corretta ricostruzione in fatto delle conseguenze dannose effettivamente ricollegabili al l’inadempimento, normalmente identificabili con la perdita dei canoni previsti fino alla naturale scadenza del contratto.

È in questo quadro che si colloca la giustificazione dell’attribuzione di un carattere ragionevolmente dirimente alla dimostrazione, da parte del locatore, d’essersi convenientemente attivato, non appena ottenuta la riconsegna del proprio immobile, al fine di rendere conoscibile con i mezzi ordinari la disponibilità dell’immobile per una nuova locazione.

Le Sezioni Unite, infine, hanno anche escluso in tali ipotesi la possibilità di fare applicazione in via analogica della disciplina prevista dalla regola dettata dall’art. 1591 c.c. (“Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”), rimarcando che detta norma disciplina le sole conseguenze risarcitorie connesse al ritardo nella restituzione dell’immobile da parte del conduttore.

 

(*Contributo in tema di “Risoluzione del contratto e rilascio di immobile”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)