procura speciale

Procura speciale: se manca, le spese di giudizio le paga l’avvocato Procura speciale: se mancante per la presentazione del ricorso in Cassazione spetta all’avvocato pagare le spese 

Procura speciale assente: spese a carico dell’avvocato

Se manca la procura speciale per il ricorso in Cassazione le spese di giudizio sono a carico dell’avvocato. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nella decisione n. 23136/2024, dopo aver chiarito quali sono i requisiti di specificità della procura speciale.

Richiesta di annullamento avviso di accertamento

Una Società in nome collettivo ricorre alla Commissione Tributaria Provinciale per chiedere l’annullamento di un avviso di accertamento. La Commissione rigetta il ricorso e la contribuente si rivolge alla Commissione Tributaria Regionale, che però respinge nuovamente la richiesta di annullamento. La controversia tra la Società e l’Amministrazione finanziaria finisce quindi in Cassazione.

Procura speciale: requisiti di specificità

La Cassazione, in via preliminare, si pronuncia d’ufficio sulla presenza e sulla specificità della procura conferita all’avvocato per ricorrere innanzi alla stessa.

Sulla questione la Cassazione precisa che la procura è “speciale” ai sensi degli articoli 83 e 356 c.p.c quando la stessa è congiunta materialmente o con strumenti informatici al ricorso. Non è necessario che la stessa sia conferita contestualmente alla redazione dell’atto. Occorre però che la stessa sia conferita dopo la pubblicazione del provvedimento da impugnare e anteriormente alla notifica del ricorso per il quale è conferita.

La sentenza delle Sezioni Unite

La Cassazione a Sezioni Unite n. 2075/2024 ha precisato inoltre che in caso di ricorso per cassazione nativo digitale, notificato e depositato in modalità telematica, l’allegazione mediante strumenti informatici al messaggio di posta elettronica certificata (p.e.c.) con il quale l’atto è notificato ovvero mediante inserimento nella “busta telematica” con la quale l’atto è depositato di una copia, digitalizzata, della procura alle liti redatta su supporto cartaceo, con sottoscrizione autografa della parte e autenticata con firma digitale dal difensore, integra l’ipotesi, ex art. 83, comma 3, cod. proc. civ., di procura speciale apposta in calce al ricorso”  la stessa è valida in difetto di espressioni che univocamente conducano ad escludere l’intenzione della parte di proporre ricorso per cassazione”.

Gli ulteriori elementi di specificità della procura sono rispettati se la stessa:

  • viene conferita all’avvocato iscritto nell’apposito albo dei cassazionisti;
  • si riferisce specificamente alla fase di legittimità;
  • è rilasciata dopo la pubblicazione della sentenza da impugnare.

Tutti questi requisiti però, nel caso di specie, non sono stati rispettati.

Procura speciale mancante e spese a carico dell’avvocato

La procura è stata conferita in calce all’atto, con documento allegato. In calce al ricorso depositato telematicamente all’interno del fascicolo d’ufficio però non è presente una procura alle liti. La Cassazione ha rilevato solo una doppia attestazione di conformità in relazione agli atti depositati in primo grado e secondo grado. La procura allegata e depositata nel fascicolo telematico inoltre si riferisce a una sentenza d’appello diversa da quella impugnata nel presente giudizio.

La procura è quindi mancante e come tale insanabile. La mancanza di procura speciale in Cassazione determina l’inammissibilità del ricorso. A questo difetto consegue la condanna le spese dell’avvocato in base al seguente principio:qualora il ricorso per cassazione sia stato proposto dal difensore in assenza di procura speciale da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire in giudizio, l’attività svolta non riverbera alcun effetto sulla parte e resta nell’esclusiva responsabilità del legale, di cui è ammissibile la condanna al pagamento delle spese del giudizio.”

 

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compensi avvocato

Compenso avvocati: come si determina il valore della causa Compenso avvocati: chiarisce la Cassazione che ai fini del calcolo rileva il valore della causa determinato dal limite temporale e dall’accordo economico

Compenso avvocati e valore della causa

Come si calcola il compenso degli avvocati quando il giudice si deve pronunciare in modo definitivo su questioni che riguardano l’esistenza e la validità di un rapporto giuridico?

Ce lo spiega la Cassazione nell’ordinanza n. 22344/2024.

Compenso avvocati: DM 127/2004

Un avvocato assiste due società e agisce per farsi pagare il compenso dovuto per l’attività svolta. Il Tribunale condanna una delle S.r.l a pagare all’avvocato la somma di Euro 195.933,40. In relazione alla richiesta di pagamento avanzata alla S.r.l in fallimento invece il giudice dichiara incompetente il giudice del lavoro.

La decisione viene impugnata e la Corte d’Appello ritiene che la prestazione prestata dall’avvocato non possa essere inquadrata come una collaborazione para-subordinata, così come qualificata dal giudice di primo grado. Il compenso dovuto all’avvocato deve quindi essere calcolato applicando le tariffe del DM 127/2004 par. 2 lettere E) e F) che qualificano l’attività come assistenza ai contratti di consulenza in campo amministrativo.”

Per la complessa vicenda amministrativa l’attività prestata dall’avvocato rientra in quella contemplata dalla Tabella D) n. 2 e lett. E) per la quale sono dovuti Euro 23.730,00. Le somme dovute al legale ammontano quindi complessivamente a Euro 77.487,00.

Gli eredi succeduti all’avvocato, nel frattempo defunto, sono quindi condannati a restituire la differenza rispetto a quanto erogato.

Calcolo compenso avvocati: rileva il valore della controversia

Gli eredi dell’avvocato però impugnano la decisione, lamentando in particolare nel primo motivo:

  • l’errata applicazione delle tariffe e dei criteri previsti dal DM 127/2004. Gli stessi ritengono che la decisione abbia violato l’articolo 5 capo III del DM 127/2004. Esso sancisce infatti che il valore della controversia debba essere determinato in base a quanto previsto dagli articoli 10 e 12 c.p.c che richiamo il valore della causa per la parte oggetto di contestazione.
  • La Corte avrebbe inoltre omesso di prendere in considerazione come valore della causa il canone di affitto per tutta la durata del contratto. La stessa ha infatti considerato i canoni di un solo anno.

Assetto degli interessi che le parti regolano con l’accordo

La Corte di Cassazione, nel decidere il ricorso, accoglie il primo motivo, dichiara inammissibili il secondo e il terzo e, assorbito il quarto in virtù dell’accoglimento del primo.

Gli Ermellini premettono che il principio sancito dall’articolo 12 c.p.c “il valore delle cause relative all’esistenza, alla validità o alla risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che è in contestazione” subisce un’eccezione.

Si tratta dell’ipotesi in cui il giudice, come verificatosi nel caso si specie, venga chiamato ad esaminare con efficacia di giudicato le questioni relative all’esistenza o alla validità del rapporto, il cui valore va, pertanto, interamente preso in considerazione ai fini della determinazione del valore della causa.” 

Valore dell’accordo: rilevano il limite temporale e l’accordo

Nel caso di specie la Corte di appello ha richiamato il criterio contenuto nell’articolo 12 in modo corretto, ossia il valore del contratto. La stessa però ha preso in considerazione in modo errato il valore del canone riferito a un solo anno. Il valore da prendere in considerazione infatti è quello rappresentato dall’intero assetto degli interessi che le parti regolano con l’accordo, soprattutto ove l’accordo stesso sia riferito ad un tempo limitato di durata.” Il limite temporale e l’accordo economico rappresentano infatti i fattori che contribuiscono alla determinazione del valore dell’accordo.

 

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mobbing punito come stalking

Mobbing punito come stalking Mobbing punito come stalking se il superiore mortifica il sottoposto e lo stesso è costretto a cambiare abitudini e accusa uno stato d’ansia

Mobbing come stalking, la sentenza della Cassazione

Il mobbing va punito come stalking se il professore tiene condotte reiterate e sconvenienti nei confronti delle specializzande e vessa i dissidenti. Questa la decisione contenuta nella sentenza n. 32770/2024 con cui la Cassazione ha accolto il ricorso del PM e respinto quello dell’indagato.

Violenza sessuale e molestie nel contesto accademico

Il Tribunale del riesame riforma l’ordinanza del GIP, annullando la misura cautelare disposta in relazione ai reati di violenza sessuale aggravata e atti persecutori. Questi ultimi sono stati riqualificati come molestie art. 660 codice penale, tranne alcuni episodi riqualificati come violenza sessuale. Il Tribunale sostituisce la misura degli arresti domiciliari con il divieto di dimora e la misura interdittiva che impone il divieto di esercitare uffici direttivi presso persone giuridiche e imprese per 12 mesi.

Ansia e alterazione delle abitudini di vita

Contro la decisione ricorrono il PM e l’indagato. Il PM rileva in particolare il vizio di motivazione in ordine alla contestata accusa di atti persecutori.

Il PM evidenzia che le persone offese sono state costrette a cambiare diverse abitudini di vita a causa delle condotte dell’indagato. Le specializzande hanno infatti iniziato a camminare sempre dietro il professore, a non entrare mai da sole all’interno di stanze in cui lo stesso si trovava e a evitare qualsiasi occasione conviviale con lo stesso. Per il PM inoltre il Tribunale non ha valorizzato a sufficienza lo stato d’ansia che ha colpito una persona offesa in particolare.

Stalking: manca la reiterazione

Per il professore invece non sarebbero integrati tutti gli elementi costituivi del reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p.

Per il ricorrente il delitto di stalking commesso in ambito occupazionale non si risolve nell’accertamento di una situazione di cosiddetto mobbing lavorativo. La rilevanza penale della condotta di mobbing lavorativo si ravvisa ove nella specie siano integrati gli elementi costitutivi delle fattispecie di maltrattamento ovvero di stalking. In quest’ultimo caso, la differenza tra mobbing e stalking lavorativo si apprezza proprio per la presenza, in questo secondo caso di uno dei tre eventi contemplati dalla norma penale.” 

Eventi che, nel caso specifico che lo riguarda, sono del tutto assenti anche nella forma indiziaria. Manca comunque la reiterazione della condotta richiesta dal reato di stalking. Nessuna delle persone offese inoltre ha contestato “un perdurante e grave stato di ansia o di paura.” Travisata inoltre dal giudice del riesame la nozione di “alterazione delle abitudini di vita.

Mobbing punito come stalking: accertare gli eventi art. 612 bis c.p.

La Cassazione nell’esaminare i due ricorsi respinge quello dell’indagato e accoglie quello del PM, fornendo importanti precisazioni soprattutto sul reato di mobbing punito come stalking.

Per la Cassazione le molestie sessuali possono integrare tanto il reato di cui all’art. 660 c.p che quello di atti persecutori o stalking di cui all’articolo 612 bis c.p.

Il criterio distintivo tra i due reati sono le conseguenze dello stesso. Il reato di stalking si configura infatti quando le condotte cagionano nella vittima un perdurante e grave stato dansia ovvero lalterazione delle proprie abitudini di vita.

Nel caso di specie all’indagato sono stati contestati atteggiamenti abituali e generalizzati molto sconvenienti. L’indagato si è reso protagonista di contatti fisici non richiesti, battute e provocazioni, molte a sfondo sessuale, rivolte alle specializzande anche in presenza di terze persone, incurante di risultare sgradito e non solo. Lo stesso ha tenuto condotte vessatorie e marginalizzanti nei confronti degli specializzandi che lo hanno contestato.

Non si può ignorare nel quadro complessivo la natura del rapporto che legava l’indagato agli specializzandi. Esso non era solo lavorativo, ma anche gerarchico. Il professore rivestiva una posizione di superiorità in grado di incidere sul percorso formativo e professionale dei sottoposti. Ragione per la quale gli stessi si trovavano in una posizione di maggiore difficoltà nel reagire e ribellarsi. Il tutto aggravato dalla convinzione di intoccabilità del professore.

Condotte ostili e reiterate per mortificare e isolare

Nel respingere il ricorso dell’indagato la Cassazione precisa che sussiste il reato di stalking in caso di mobbing del datore di lavoro quando lo stesso “ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità vero il dipendente e preordinati alla sua mortificazione e al suo isolamento nell’ambiente di lavoro”. 

Accertare gli eventi richiesti dall’art. 612 bis c.p.

La Cassazione, a conclusione della decisione, chiede ai giudici del rinvio di verificare l’abitualità delle molestie e, in caso affermativo, di verificare se, per effetto delle stesse, in danno delle persone offese si siano verificati gli eventi richiesti dall’articolo 612 bis c.p per integrare il reato di stalking.

 

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validi gli accordi via mail

Validi gli accordi via mail tra genitori separati Per la Cassazione sono validi gli accordi sulla ripartizione delle spese familiari raggiunti via mail tra genitori separati

Sono validi gli accordi via mail raggiunti tra i coniugi sulla ripartizione delle spese familiari. Questo quanto si ricava dall’ordinanza n. 13366/2024 della prima sezione civile della Cassazione.

I fatti

Il giudice di pace di Roma rigettava la domanda proposta dall’ex marito nei confronti della moglie per il pagamento di oltre 2.500 euro a titolo di rimborso della quota delle spese sostenute nell’interesse della famiglia, sul presupposto che dovesse essere riconosciuta piena validità giuridica all’accordo di ripartizione di esse concluso tra i coniugi, anche anteriormente alla separazione.
Al riguardo, il giudice riteneva che le spese di cui ciascun coniuge si era fatto carico nel periodo di convivenza coniugale rientrassero tra quelle effettuate per i bisogni della famiglia.

Anche il tribunale rigettava l’appello osservando che le spese in questione – relative alla gestione della casa familiare di sua esclusiva proprietà, nella quale aveva abitato fino alla separazione – erano state sostenute prima della separazione tra i coniugi, nell’ambito della convivenza coniugale per i bisogni della famiglia, ex art. 143 c.c., per cui esse non erano ripartibili pro-quota, anche considerando che si trattava di obbligazione assimilabile a quella naturale; a tal fine erano irrilevanti gli accordi tra coniugi in sede di separazione.

Il ricorso

L’uomo adiva quindi il Palazzaccio, denunciando violazione degli artt. 143, 1218, 1322, 1372, 1375, 2034 c.c., per aver il Tribunale ritenuto che lo scambio di e-mail tra le parti fosse funzionale a realizzare l’accordo diretto all’organizzazione delle spese quotidiane, non qualificandolo invece quale accordo vincolante sulla suddivisione delle spese, come sarebbe stato desumibile dal tenore delle dichiarazioni adottate dalle parti (la moglie era gravata dal 40% di tali spese, ma aveva ricevuto la disponibilità della casa coniugale e dell’automobile di famiglia, entrambe di proprietà del marito).
Il ricorrente assume che tale accordo tra coniugi era del tutto legittimo e vincolante, in conformità della giurisprudenza di legittimità.

Vincolante l’accordo raggiunto dai coniugi via mail

La Cassazione gli dà ragione. “In caso di separazione consensuale o divorzio congiunto (o su conclusioni conformi) – affermano preliminarmente i giudici – la sentenza incide sul vincolo matrimoniale ma, sull’accordo tra i coniugi, realizza – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo solo esterno attesa la natura negoziale dello stesso, da affermarsi in ragione dell’ormai avvenuto superamento della concezione che ritiene la preminenza di un interesse, superiore e trascendente, della famiglia rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti. Ne consegue che i coniugi possono concordare, con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare, quali, in particolare, l’affidamento dei figli e le modalità di visita dei genitori (Cass., n. 18066/14)”.
Nella specie, dunque, ritengono da piazza Cavour, “il Tribunale ha errato nel ritenere che l’accordo raggiunto tra i coniugi, finalizzato alla suddivisione delle spese familiari, non fosse vincolante, e che il pagamento integrale, da parte del marito, delle stesse, in quanto effettuate per i bisogni della famiglia ed espressione della solidarietà familiare, in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.p.c., non fosse ripetibile”.
Al riguardo, il Tribunale ha escluso che lo scambio di e-mail tra i coniugi potesse configurare un valido accordo negoziale relativo alla separazione, poiché mera organizzazione delle spese quotidiane familiari.
Tale interpretazione, per la S.C., tuttavia, contrasta con le risultanze documentali che evidenziano l’esistenza dell’accordo tra i coniugi, raggiunto con le e-mail esaminate dai giudici di merito, e riguardante inequivocabilmente la ripartizione delle spese tra i detti coniugi. Al riguardo, infatti, è vero che “durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316-bis, primo comma, c.c., e che a seguito della separazione non sussiste li diritto al rimborso di un coniuge nei
confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio (v., in tal senso, Cass., n. 10927/18). Ciò costituisce senza dubbio un principio generale in tema di doveri patrimoniali dei coniugi nella conduzione della vita familiare. Tuttavia, il menzionato principio è suscettibile di deroga tramite un
accordo negoziale tra le stesse parti (che può meglio rispecchiare le singole capacità economiche di ciascun coniuge o modulare forme di generosità spontanea tra i coniugi) che è comunque finalizzato al soddisfacimento delle primarie esigenze familiari e dei figli, nel rispetto dei doveri solidaristici che trovano la loro fonte nel rapporto matrimoniale”.

La decisione

Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata.

Parola al giudice del rinvio.

 

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pec efficace ufficio chiuso

Pec efficace anche se l’ufficio è chiuso La Cassazione chiarisce che l'invio via pec si considera efficace anche se l'ufficio è chiuso in base alla data di ricezione

Deposito telematico

Anche se l’ufficio è chiuso, l’invio via pec è da considerarsi efficace in base alla data di ricezione entro le 24 ore dalla scadenza, mentre ai fini dell’avvio delle attività che l’amministrazione deve compiere entro un termine perentorio, occorre tenere conto della conoscenza effettiva dell’atto che avviene nell’orario di apertura dell’ufficio al pubblico. Lo ha chiarito la seconda sezione penale della Cassazione con sentenza n. 28067/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Caltanissetta dichiarava inammissibile l’impugnazione della sentenza di primo grado ritenendo superato il termine per il deposito della stessa.

L’imputato adiva la Cassazione denunciando, tra l’altro, inosservanza della legge processuale prevista a pena di decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, ni riferimento agli artt. 585, comma 1, lett. a, cod. proc. pen. e 87 bis, comma 1, ultima parte del d.lgs. 150/2022), per avere la Corte di merito stimato intempestiva l’impugnazione della sentenza di primo grado, nonostante l’atto di appello fosse stato trasmesso a mezzo p.e.c., come consentito dall’art. 87 bis, cit., e pervenuto presso la Cancelleria del giudice a quo entro le ore 24.00 dell’ultimo giorno utile per il deposito dell’impugnazione.

Il processo telematico

Per gli Ermellini, il ricorso è ammissibile e fondato giacchè iI giudice dell’impugnazione non ha tenuto conto del fatto che l’atto era stato trasmesso tempestivamente (a normativa vigente) dal difensore dell’imputato. Il processo telematico (non ancora completamente attuato), proseguono dalla S.C. “trova però già nella legislazione d’urgenza legata ai recenti eventi pandemici il suo archetipo attuativo: cessata l’efficacia della normativa emergenziale al 31 dicembre 2022, il legislatore è intervenuto con la legge 03 dicembre 2022, n. 199 (di conversione del d.l. n. 162/2022), introducendo il comma 6 -bis all’art. 87 d.lgs. n. 150/2022 che riproduce in sostanza la vecchia disciplina emergenziale sul deposito telematico degli atti e prevede che il deposito di essi si intende eseguito al momento del rilascio della ricevuta di accettazione da parte dei sistemi ministeriali, secondo le modalità stabilite dal provvedimento”. Per cui, “il deposito è tempestivo quando è eseguito entro le ore 24 del giorno di scadenza”. E allo stato, “questa è la disciplina in vigore per li deposito degli atti, fino a quando non diventeranno concretamente operative le nuove disposizioni del processo penale telematico. L’art. 87 bis d.lgs. n. 150/2022, a sua volta introdotto dall’art. 5 quinquies della legge n. 199/2022, al comma 1, stabilisce – infatti – che, fino a quando non diventeranno operative le disposizioni sul processo penale telematico ovvero fino a quando, prima di quel momento, non divenga possibile l’inserimento di quello specifico atto nel portale telematico (nel qual caso non sarà più consentito li deposito a mezzo PEC), per tutti gli atti, documenti e istanze comunque denominati diversi da quelli previsti nell’articolo 87, comma 6 – bis, e da quelli individuati ai sensi del comma 6 – ter della medesima disposizione, «è consentito li deposito con valore legale mediante invio dall’indirizzo di posta elettronica certificata inserito nel registro generale degli indirizzi elettronici di cui all’articolo 7 del regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44”.

Irrilevante l’apertura al pubblico dell’ufficio

L’appello spedito a mezzo p.e.c. entro le ore 24.00 del quindicesimo giorno dal deposito della sentenza accompagnata da motivazione contestuale doveva, pertanto, certamente ritenersi tempestivo. Nè può, in contrario, proseguono i giudici, ” esser considerato l’unico arresto in apparente, ma non effettivo, dissenso (Sez. 6, n. 8599 del 2/12/2021, dep. 2022, Rv. 283105, in motiv., sub 5. e 5.2., pag. 5 e ss.), che sembrerebbe valorizzare l’orario di apertura al pubblico dell’ufficio giudiziario”. Tale ultima sentenza si riferisce, infatti, “alla differente fattispecie processuale che mette in stretta sequenza connettiva, li termine utile per l’impugnazione incidentale nel sub-procedimento cautelare (le ore 24.00 del giorno ultimo) e il dies a quo di decorrenza del termine indicato al comma 5 dell’art. 309 cod. proc. pen. Tale ultima pronuncia prende in considerazione, infatti, ai fini della tempestività dell’istanza di riesame, la data e l’ora di ricezione telematica (le ore 24 dell’ultimo giorno utile dei dieci concessi dal legislatore processuale); mentre ai fini della tempestività della trasmissione degli atti da parte dell’Autorità procedente (5 giorni) individua il dies a quo, in quello in cui la Cancelleria (secondo l’orario di apertura al pubblico, che solo in questo caso riprende a spiegare effetti procedimentali) ha preso lettura della comunicazione, inviata a mezzo p.e.c. in ora di chiusura al pubblico dell’ufficio”.

Si tratta di profili, si legge in motivazione, “che nell’ambito del sistema normativo delineato dal legislatore processuale sono connessi e complementari, nel senso che al deposito tempestivo della richiesta nella cancelleria del Tribunale consegue, di solito, la conoscenza dell’impugnazione da parte dello stesso Tribunale e, quindi, il decorso del termine previsto per la trasmissione degli atti da parte dell’Autorità procedente; momenti che, tuttavia, possono non coincidere a seguito della entrata in vigore della legge n. 176 del 2020 (il cui principio ha poi trovato conferma nella disciplina attualmente vigente), giacché è possibile che l’istanza sia utilmente ‘trasmessa’ in un dato giorno (entro le ore 24, in orario di chiusura al pubblico dell’ufficio giudiziario), ma che della stessa l’ufficio venga obiettivamente a conoscenza il giorno successivo (quando l’ufficio si apre al rapporto col pubblico)”.

In tali casi, dunque, “il termine previsto dall’art. 309, comma 5, cod. proc. pen. non può che decorrere da quando l’atto che innesca la sequenza procedimentale che il legislatore intende sollecitare è ‘conosciuto’, cioè dal momento in cui l’ufficio viene a conoscenza della richiesta di riesame. Diversamente, la reale estensione del termine perentorio (5 giorni) del sub-procedimento dipenderebbe da variabili rimesse alla mera volontà dell’istante, che trasmettendo l’atto per via telematica in orario in cui certamente l’ufficio non è aperto al pubblico (ad es. oltre le ore 20) provocherebbe la riduzione di un giorno del termine perentorio previsto dalla legge per la tempestiva trasmissione degli atti”.

Il principio di diritto

Il principio che orienta la fattispecie, conclude quindi la Cassazione, può pertanto essere declinato nei seguenti termini: “L’estensione oraria (ore 24.00) del termine utile per proporre impugnazione per via telematica spiega effetti in relazione all’attività ricettiva dell’amministrazione; mentre ai fini dell’avvio delle attività che l’amministrazione deve compiere entro un dato termine perentorio, per effetto della tempestiva presentazione dell’istanza, non può che tenersi conto della conoscenza effettiva dell’atto che innesca il procedimento e, dunque, dell’orario di apertura al pubblico dell’ufficio”.
Da qui, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

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assegnazione casa familiare

Assegnazione casa familiare: comprende anche i mobili Per la Cassazione, l'assegnazione della casa familiare si estende anche agli arredi e ai mobili essendo legata alla collocazione dei figli

Assegnazione della casa familiare

L’assegnazione della casa familiare si estende anche agli arredi essendo legata alla collocazione dei figli. E’ quanto stabilito dalla prima sezione civile della Cassazione nell’ordinanza n. 16691/2024.

La vicenda

Nella vicenda, con sentenza il tribunale di Trieste riconosceva il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie e le assegnava la casa coniugale. Il marito impugnava il provvedimento innanzi la Corte d’appello lamentando, tra l’altro, che la casa coniugale di sua proprietà comprendeva anche gli arredi, per cui l’assegnazione degli stessi era giuridicamente insostenibile, in quanto “legislativamente non prevista” e ne chiedeva, pertanto, la restituzione. La corte territoriale gli dava ragione. E la questione approdava in Cassazione dove l’ex moglie, tra le varie doglianze sosteneva che “gli arredi devono essere considerati parte integrante dell’habitat domestico tutelato dall’art. 337 sexies c.c.”.

Assegnazione casa familiare comprende gli arredi

Per gli Ermellini, il motivo è fondato. “L’assegnazione della casa familiare – affermano infatti – si estende anche a mobili ed arredi, essendo indissolubilmente legata alla collocazione dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti, i quali hanno diritto di conservare l’habitat domestico nel quale sono nati o cresciuti, composto delle mura e degli arredi. L’assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi, ai sensi dell’art. 155, comma 4, c.c., ricomprende, per la finalità sopraindicate, non il solo immobile, ma anche i mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’eccezione dei beni strettamente personali che soddisfano esigenze peculiari dell’altro ex coniuge (Cass., n. 5189/1998; Cass, n. 878/1986; Cass., n. 7303/1983)”.

Il logico collegamento, proseguono dal Palazzaccio, “tra immobile e mobili ai fini di tutelare l’interesse del minore alla conservazione dell’ambiente familiare va ribadito anche se la proprietà dell’immobile è di proprietà esclusiva del coniuge non proprietario dei beni mobili al fine di garantire al minore quel complesso di comfort e di servizi che durante la convivenza ha caratterizzato lo standard di vita familiare. In tale direzione è principio costantemente ribadito da questa Corte che il collegamento stabile con l’abitazione del genitore, caratterizzato da coabitazione anche non quotidiana ma compatibile con assenze giustificate da motivi riconducibili al percorso formativo, purché vi faccia ritorno periodicamente e sia accertato che la casa familiare sia luogo nel quale è conservato il proprio habitat domestico. Uno degli indici probatori può essere la circostanza che l’effettiva presenza sia temporalmente prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo (Cass., n. 29977/2020; Cass., n. 16134/2019, Cass., n. 21749/2022)”.

La decisione

Nella specie, la Corte territoriale ha del tutto omesso di esaminare e porre in relazione con il diritto all’assegnazione della casa familiare nella sua completezza, la non autosufficienza economica della figlia maggiorenne delle parti, non oggetto di contestazione e la sua collocazione presso la predetta casa familiare. Per cui il ricorso principale è accolto e la sentenza cassata con rinvio.

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omessa notifica fissazione udienza

Omessa notifica fissazione udienza: scatta la nullità La Cassazione ricorda che l'omessa notifica dell'avviso della fissazione dell'udienza integra una nullità di ordine generale

Mancata comunicazione udienza

L’omessa notifica dell’avviso della fissazione dell’udienza integra una nullità di ordine generale assoluta e insanabile. Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 22266/2024 decidendo il ricorso di un condannato avverso l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza. 

La vicenda

L’uomo eccepiva la nullità del provvedimento per omessa notifica dell’avviso dell’udienza camerale (allo stesso e al difensore). La mancata conoscenza del procedimento, sosteneva, “avrebbe determinato l’assenza dell’interessato e del proprio difensore di fiducia, per come desumibile dal verbale di udienza”.
Per la Cassazione, il ricorso è fondato.

Il principio di diritto

Dall’esame della documentazione risultava effettivamente che l’udienza era stata tenuta nonostante l’omessa notifica del decreto di citazione al condannato e al suo difensore. “E’ stata preclusa al ricorrente – afferma quindi la S.C. – ogni difesa, in violazione del diritto al contraddittorio”.
Deve, pertanto, essere fatta applicazione del principio, consolidatosi per effetto dell’intervento delle Sezioni Unite, per cui «l’omessa notificazione dell’avviso della fissazione dell’udienza, in quanto equiparabile al
decreto di citazione nel procedimento ordinario e attinente all’intervento dell’interessato e alla sua assistenza tecnica, integra una nullità di ordine generale, assoluta e insanabile, dell’udienza e degli atti successivi, compresa l’ordinanza conclusiva, ai sensi del combinato disposto degli artt. 178, comma 1, lett. C), e 179, comma 1, cod. proc. pen.» (tra le altre, Sez. U, n. 24630/2015, n. 2418/1998).

L’annullamento, concludono gli Ermellini, deve essere disposto con rinvio in adesione all’orientamento
più recente secondo cui «in tema di ricorso per cassazione, ove li provvedimento impugnato sia affetto da nullità assoluta per violazione del contraddittorio, deve disporsi l’annullamento con rinvio, dovendosi applicare la regola generale di cui al combinato disposto degli artt. 623, comma 1, lett. b) e 604, comma 4, cod. proc. pen., che prevede l’adozione di tale provvedimento qualora venga accertata una causa di nullità ex art. 179 cod. proc, pen.» (cfr., tra le altre, Cass. n. 14568 del 21/12/2021).

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domicilio fiscale

Domicilio fiscale: nuova definizione dal 1° gennaio 2024 La Cassazione chiarisce che la novella apportata dal Dlgs n. 209/2023 sulla determinazione della residenza e del domicilio non è retroattiva

Domicilio fiscale

In materia di soggetti passivi dell’imposta, ai fini dell’accertamento della residenza delle persone fisiche nel territorio dello Stato, la determinazione della residenza e del domicilio secondo i criteri di cui all’art. 2 comma 2 del Dpr n. 917/1986 (TUIR), come novellato dall’art. 1 del Dlgs n. 209/2023, si applica alle fattispecie concrete verificatesi a partire dal 1° gennaio 2024. E’ quanto ha chiarito la sezione tributaria della Cassazione, con sentenza n. 19843/2024, decidendo una vertenza tra un contribuente residente nel principato di Monaco e l’Agenzia delle Entrate.

Il nuovo comma 2 dell’art. 2 TUIR

Il nuovo comma 2 dell’art. 2 d.P.R. n. 917 del 1986, statuisce ora che « Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno la residenza ai sensi del codice civile o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria, si
presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente».
Infatti, l’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 209 del 2023, stabilisce che le disposizioni di cui all’articolo 1 si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2024. Pertanto, non disciplina la fattispecie concreta controversa in esame innanzi alla Cassazione.

Norma non retroattiva

“In assenza di indici relativi alla qualità di norma di interpretazione autentica della relativa disposizione (qualità del resto non compatibile con la specifica disposizione intertemporale dettata dal legislatore) e considerata la natura sostanziale della novella – che incide sulle condizioni fattuali che determinano
la soggettività passiva rispetto all’imposizione e sull’onere della relativa prova – tale ultima norma, proseguono gli Ermellini, deve essere interpretata nel senso che la nuova disciplina si applica pertanto a fattispecie sostanziali che si siano verificate dal 1° gennaio 2024, e non anche a quelle formatesi precedentemente, neanche ove queste ultime siano accertate dall’Ufficio o trattate in giudizio successivamente a tale data”.

La precedente definizione

Tanto vale in particolare, nel caso di specie, per quanto riguarda il concetto di «domicilio», atteso che prima della modifica apportata dall’art. 1 d.lgs. 27 dicembre 2023, n. 209, l’art. 2, comma 2, d.P.R. n. 917 del 1986 mutuava espressamente i concetti di “residenza” e “domicilio” dal codice civile (« […] hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile.»), mentre ora limita tale rinvio alla sola “residenza”, fornendo nel contempo un’autonoma definizione del “domicilio”.
Tanto premesso, chiarisce ancora la Corte, “è orientamento consolidato ( maturato prima della recente novella del comma 2 dell’art. 2 d.P.R. n. 917 del 1986), al quale si intende dare in questa sede ulteriore continuità, quello secondo cui, ai fini dell’individuazione della residenza fiscale o meno in Italia del contribuente, per l’accertamento del domicilio deve farsi riferimento al centro degli affari e degli interessi vitali dello stesso, dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi è esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi, non rivestendo ruolo prioritario, invece, le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo col quale il soggetto ha li più stretto collegamento” ( ex plurimis Cass. 07/11/2001; Cass. 15/06/2010, n. 14434).

Ne consegue che il “domicilio deve, non solo, essere il luogo di gestione dei propri interessi, riconoscibile dai terzi, ma anche che tale riconoscibilità deve essere agganciata a indici tali da individuare in Italia prioritariamente gli interessi del contribuente di carattere economico e patrimoniale”. Fermo restando, comunque, conclude la S.C., “che l’accertamento della fissazione in Italia del domicilio debba coprire, ai sensi dello stesso art. 2, comma 2, ‘la maggior parte del periodo di imposta’, essendo evidente l’intento del legislatore di non legare l’accertamento ad eventi occasionali, ma di ancorarlo alla verifica di una sufficiente permanenza temporale del criterio di collegamento”.

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pensione di reversibilità

Pensione reversibilità: l’assegno di divorzio non è un limite Pensione di reversibilità: nella ripartizione tra moglie superstite ed ex moglie l'assegno divorzile di questa non è un limite legale

Pensione di reversibilità e misura dell’assegno divorzile

La ripartizione della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge e il coniuge superstite deve avvenire nel rispetto di alcuni parametri. Rilevano la durata dei matrimoni e altri criteri che tengono conto della finalità solidaristica della misura, come la durata delle convivenze prematrimoniali. Nella ripartizione l’entità dell’assegno divorzio non rappresenta un limite legale alla quota per l’ex coniuge. La legge nulla dispone in tale senso. Lo ha chiarito la Cassazione nell’ordinanza n. 21997/2024.

Pensione di reversibilità: ripartizione tra ex moglie e moglie superstite

Una donna si rivolge al Tribunale per chiedere che la propria quota della pensione di reversibilità dell’ex marito, che concorre con la moglie superstite, venga determinata nella misura del 65%. La donna chiede che l’assegno decorra dal mese successivo a quello della morte dell’ex marito da cui la stessa aveva divorziato. Nella domanda la donna fa presente che il giudice  aveva stabilito per lei un assegno di divorzio, anche se di piccolo importo.

85% della pensione di reversibilità per la moglie superstite

Il giudizio di primo grado si conclude però a sfavore della ex moglie. Il Tribunale riconosce infatti alla ex moglie il 30% della pensione di reversibilità del marito, a quella superstite il restante 70%.

La moglie superstite impugna la decisione chiedendo il 95% della quota della pensione di reversibilità del marito defunto. La ex moglie però insiste e anche in sede di appello chiede il 65% del trattamento pensionistico dell’ex marito.

Il giudice dell’impugnazione accoglie in parte l’impugnazione della moglie superstite a cui riconosce l’85% della pensione del marito defunto in ragione della durata del matrimonio e dell’assenza di redditi propri.

Errato il calcolo della durata del matrimonio

La ex moglie decide quindi di ricorrere in Cassazione. Ella ritiene che la Corte d’Appello non abbia ricostruito correttamente la durata dei due matrimoni. La Corte non ha infatti tenuto conto che la durata del matrimonio deve essere calcolata dalla data della celebrazione fino al suo termine che si verifica a causa della intervenuta sentenza di divorzio o della morte di uno dei due coniugi.

Reversibilità: l’assegno divorzile non è un limite legale

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e precisa che la durata del matrimonio non rappresenta l’unico parametro di valutazione ai fini della reversibilità. Il giudice deve considerare altri dati, come la condizione economica delle parti.

In caso quindi di concorrenza tra coniuge superstite ed ex coniuge per la spettanza della pensione di reversibilità il giudice deve tenere conto della durata del matrimonio e della convivenza prematrimoniale “senza individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso.”

Nel caso di specie la Corte d’appello ha considerato la durata della convivenza matrimoniale e le condizioni economiche e patrimoniali al momento della morte del de cuius “il parametro dell’entità dell’assegno divorzile è stato chiaramente menzionato e valutato solo in funzione rafforzativa dello scopo solidaristico, non come limite legale. La ripartizione per quote che la Corte di merito ha stabilito costituisce una questione meritale non sindacabile in questa sede, che è stata effettuata mediante idonea ponderazione degli elementi fattuali di riferimento.”

 

Sull’argomento leggi anche questo articolo: “Pensione reversibilità ai nipoti: le nuove regole

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reato di minaccia

Reato di minaccia Il reato di minaccia si configura qualora un soggetto minacci un altro di un danno ingiusto, se aggravato è punito con la reclusione

Reato di minaccia: cos’è

La minaccia è un reato contemplato dall’art. 612 del codice penale. Esso si configura quando un soggetto minaccia un altro soggetto di cagionargli un danno ingiusto. La norma tutela la libertà morale e psichica contro ogni tipo di condotta in grado di creare un turbamento derivante dal prospettare un male ingiusto alla vittima. Il danno minacciato può consistere in una lesione o nella sola messa in pericolo di un interesse che ha rilievo giuridico. L’ingiustizia del danno si riferisce ai danni che vengono cagionati da condotte illecite.

Il reato di minaccia è definito “di pericolo” perché non richiede il verificarsi di un evento, è sufficiente che il male venga  prospettato e che questo induca nella vittima il timore che il danno minacciato si potrebbe effettivamente verificare.

Procedibilità del reato di minaccia

Il reato di minaccia è punibile a querela della persona offesa.

Si procede d’ufficio se:

  • la minaccia si realizza in uno dei modi contemplati dall’articolo 339 del codice penale;
  • la minaccia è grave e ricorrono circostanze aggravanti con effetto speciale diverse dalla recidiva;
  • la persona offesa è incapace per età o per infermità.

Minaccia aggravata: art. 339 c.p.

La minaccia è aggravata se il soggetto agente la commette:

  • durante manifestazioni che si svolgono in un luogo pubblico o aperto al pubblico;
  • con l’uso delle armi;
  • da un soggetto dal volto coperto;
  • da più soggetti riuniti;
  • con uno scritto anonimo;
  • ricorrendo alla forza intimidatorie di associazioni segrete, esistenti o anche solo supposte;
  • lanciando o utilizzando corpi contundenti o altri oggetti idonei a offendere come i fuochi d’artificio, tutti oggetti che creano situazioni di pericolo per le persone.

Elemento soggettivo

Per integrare il delitto di minaccia la legge richiede che il soggetto agisca con dolo generico ossia con la coscienza e la volontà di minacciare un altro soggetto di un danno ingiusto.

Come è punito il reato di minaccia

Il reato di minaccia viene punito con una multa che può arrivare fino a 1.032,00 euro.

Se la minaccia è grave o è commessa nei modi previsti dall’articolo 339 c.p il reato è punito con la pena della reclusione fino a un anno.

Minaccia: rapporto con altri reati

Il reato di minaccia può essere confuso con altri reati contro la persona, ma può anche rappresentare una componente di altre condotte illecite complesse. La Cassazione nel tempo ha fornito importanti chiarimenti al riguardo.

Minaccia in concorso con violenza privata

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 50702/2019 ha chiarito che: “il reato di violenza privata si distingue dal reato di minaccia per la coartata attuazione da parte del soggetto passivo di un contegno (commissivo od omissivo) che egli non avrebbe assunto, ovvero per la coartata sopportazione di una altrui condotta che egli non avrebbe tollerato. Ne consegue che i due reati, pur promossi da un comune atteggiamento minatorio, dando luogo ad eventi giuridici di diversa natura e valenza, concorrono tra loro.”

Minacce assorbite dal reato di maltrattamenti in famiglia

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 17599/2021 ha precisato che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe il delitto di minaccia previsto dall’art. 612 c.p. purché le minacce rivolte alla persona offesa non siano il risultato di una condotta criminosa autonoma e indipendente, ma costituiscano una delle condotte per mezzo delle quali si mette in atto il reato di maltrattamenti.

Minacce assorbite o in concorso con il reato di stalking

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 12720/2020 ha sancito che il delitto di minaccia contemplato dall’art. 612 c.p. è assorbito da quello di atti persecutori disciplinato dall’art. 612 bis c.p a condizione che le minacce vengano poste in essere nello stesso contesto temporale e fattuale che integrano lo stalking. Qualora invece le minacce risalgano a un periodo anteriore all’inizio degli atti persecutori allora le minacce concorrono con il reato di stalking.

 

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