il singolo condomino

Il singolo condomino può proporre querela Il singolo condomino è legittimato alla proposizione della querela, anche in via concorrente o surrogatoria rispetto all'amministratore

Singolo condomino e querela

Il singolo condomino è legittimato a proporre querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune. Lo ha ribadito la seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 44374/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli, dichiarava non doversi procedere nei confronti di una condomina in ordine al reato di cui all’art. 646 cod.pen. alla stessa ascritto per intervenuta remissione di querela. Avverso detta sentenza, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Napoli deducendo violazione di legge ni relazione all’art. 154 cod.pen. per essere stata dichiarata l’estinzione del reato benche la remissione di querela non fosse stata ratificata da due degli originali querelanti individuati nei condomini.

La decisione

Per la Cassazione, il ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto. Invero, affermano dalla S.C., “ai sensi della disciplina dettata dall’art. 154 cod.pen., se la querela è stata proposta da più persone, il reato non si estingue se non interviene la remissione di tutti i querelanti”. E nel caso in esame nell’esposizione delle ragioni della decisione lo stesso tribunale da atto che, pur a fronte di una querela sporta da otto condomini dell’immobile solo sei avevano rimesso la querela, mentre altri non risultano avere operato detta scelta.
A proposito va innanzi tutto ricordato, ricordano dal Palazzaccio, come sia stato affermato che “il singolo condomino è legittimato ala proposizione della querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune” (cfr. Cass. n. 45902/2021).
Ne consegue pertanto che in assenza di remissione da parte di tutti i condomini querelanti il giudice di primo grado non poteva dichiarare l’estinzione del reato. Né può ritenersi operare, cosi come prospettato dal procuratore generale e dalla difesa dell’imputata, un’ipotesi di remissione tacita da parte dei due condomini non remittenti. La parola va al giudice del rinvio.

Allegati

giurista risponde

Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 L.F. Con riferimento ai reati in materia fallimentare, quali elementi vanno valorizzati al fine di individuare i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267)?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

In tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 l. fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Cass., sez. V, 2 ottobre 2024 n. 36582).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della scelta di attribuire all’imputato la qualità di amministratore di fatto di una società poi fallita, alla quale è seguita, in primo e secondo grado, la condanna per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (art. 216 l. fall.), di bancarotta impropria (art. 223 l. fall), nonché di rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000).

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea attribuzione all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita.

In particolare, si obiettava la mancata considerazione di elementi ritenuti di valore decisivo ai fini della esclusione del riconoscimento di tale qualità in capo all’imputato.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha ricordato gli elementi alla luce dei quali poter dedurre, in tema di reati fallimentari, la sussistenza in capo al reo della qualifica di amministratore di fatto, tutti fondati sulle funzioni e sulle attività concretamente esercitate dal soggetto agente, a prescindere dalla veste formalmente assunta.

Tra questi, a titolo esemplificativo, si è citato l’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, nell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione di beni e servizi; la gestione dei rapporti di lavoro con i dipendenti, dei rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, i fornitori e i clienti; ovvero, l’ideazione e l’organizzazione di un sistema fraudolento basato sull’utilizzo di una società quale schermo per realizzare condotte truffaldine, finalizzate al reperimento di risorse poi distratte.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, ritenuto che il giudice di secondo grado abbia fatto buon governo degli elementi fin qui richiamati, attribuendo correttamente all’imputato la qualifica di amministratore di fatto della società poi fallita, e, in secondo luogo, ricordando un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice e che consentano l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.

Nel caso di specie, avendo ritenuto corretta l’attribuzione, operata dai giudici di merito, all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita, utilizzata quale schermo per commettere i reati fallimentari e tributari a lui ascritti, la Cassazione ha rigettato il ricorso.

 

(*Contributo in tema di “Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 Legge Fallimentare”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Divorzio guida legale

Divorzio: guida legale Il divorzio in Italia: disciplina ed evoluzione di un istituto segnato da profondi cambiamenti sociali che hanno inciso soprattutto sui tempi della procedura

Legge 898/1970: normativa divorzio in Italia

Il divorzio in Italia è regolato dalla Legge n. 898 del 1970, una delle pietre miliari del diritto di famiglia italiano. In virtù di questa legge il giudice può pronunciare lo scioglimento del matrimonio civile quando verifica che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita, previa verifica di una causa specifica prevista dall’art. 3 e dopo un tentativo fallito di conciliazione. Per i matrimoni celebrati con rito religioso e trascritti civilmente, il giudice può dichiarare la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione, seguendo il medesimo iter.

Divorzio giudiziale

La legge n. 898/1970 stabilisce che lo scioglimento o la cessazione possano essere richiesti da un coniuge nei seguenti casi principali:

  • Condanne penali del coniuge:
    • ergastolo o pene superiori a 15 anni per delitti non colposi, escluse specifiche eccezioni;
    • pene per reati gravi come incesto, sfruttamento della prostituzione, omicidio volontario o tentato omicidio del coniuge o figli;
    • condanne per violenze domestiche o abusi sui familiari.
    • Assoluzioni per vizio totale di mente in reati che compromettono la convivenza.
    • Separazioni giudiziali o consensuali protratte per almeno 12 mesi (6 mesi per separazioni consensuali). Questi tempi, ridotti in virtù delle Legge n. 55/2015, in passato erano decisamente più lunghi. Si poteva infatti divorziare dopo tre anni di separazione decorrenti dall’udienza di comparizione dei coniugi in Tribunale.
    • Mancata consumazione del matrimonio, annullamento o scioglimento del matrimonio all’estero da parte di un coniuge straniero, o rettificazione di attribuzione di sesso.

Il Tribunale, accertata la sussistenza di una delle cause suddette, emette una sentenza che ordina la cessazione del matrimonio, obbligando l’ufficiale di stato civile ad annotare tale sentenza.

Effetti del divorzio

Per effetto del divorzio in Italia la donna perde il cognome aggiunto per matrimonio, salvo autorizzazione a conservarlo per motivi di interesse personale o dei figli. Trattasi di una decisione che può essere modificata per gravi motivi. La sentenza di divorzio può prevedere un assegno di mantenimento per il coniuge privo di mezzi adeguati, calcolato in base al contributo alla famiglia, ai redditi e alla durata del matrimonio. L’importo può essere adeguato automaticamente secondo l’inflazione. Su accordo, è possibile una corresponsione in unica soluzione, precludendo future richieste economiche. L’abitazione nella casa familiare viene assegnata prioritariamente al genitore affidatario dei figli o con cui essi convivono dopo la maggiore età. Il giudice considera le condizioni economiche di entrambi i coniugi, favorendo il coniuge più debole. L’assegnazione, se trascritta, è opponibile a terzi acquirenti, come stabilito dall’articolo 1599 del codice civile. Il tribunale disciplina l’amministrazione dei beni dei figli e, nel caso di responsabilità genitoriale condivisa, regola il contributo dei genitori al godimento dell’usufrutto legale.

Divorzio congiunto: alternativa rapida ed economica

Il divorzio a domanda congiunta rappresenta l’alternativa più rapida ed economica al divorzio giudiziale, grazie all’accordo tra i coniugi. La domanda deve essere presentata tramite ricorso al tribunale competente, ossia quello del luogo di residenza o domicilio di uno dei coniugi. Il ricorso deve contenere:

  • i motivi di fatto e diritto per lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se concordatario);
  • le informazioni sull’esistenza di figli comuni;
  • le condizioni concordate per i figli e i rapporti economici;
  • le ultime dichiarazioni dei redditi di entrambi;
  • i documenti essenziali come l’atto di matrimonio, lo stato di famiglia, il certificato di residenza e la copia della separazione consensuale o giudiziale.

Divorzio congiunto con negoziazione assistita

La negoziazione assistita, introdotta con il d.l. n. 132/2014 (convertito nella legge n. 162/2014) consiste in una convenzione tra le parti, assistite dai rispettivi avvocati, per raggiungere un accordo consensuale in buona fede e lealtà.

In materia di separazione e divorzio, l’art. 6 del dl consente ai coniugi di risolvere consensualmente questioni di separazione, cessazione degli effetti civili o modifica delle condizioni di divorzio. La procedura è applicabile sia in assenza che in presenza di figli. Senza figli, l’accordo necessita del nullaosta del Procuratore della Repubblica. In presenza di figli minori o non autosufficienti, il Pubblico Ministero valuta l’interesse della prole. Se necessario, il Tribunale interviene per tutelare i diritti dei figli. L’accordo autorizzato è equiparato ai provvedimenti giudiziali e deve essere trasmesso all’ufficiale di stato civile per gli adempimenti di trascrizione e annotazione.

Il divorzio davanti al sindaco

Il dl n. 132/2014 ha previsto anche il divorzio davanti al Sindaco, a cui non si può ricorrere in presenza di figli minori o maggiore di età non autosufficienti o portatori di handicap grave. L’articolo 12 prevede la possibilità per i coniugi di concludere davanti al sindaco (nella sua qualità di  ufficiale dello stato civile) del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui è iscritto o trascritto l’atto di matrimonio e con l’assistenza facoltativa di un avvocato un accordo di di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di divorzio. L’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono il procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di divorzio. Anche questa procedura è più rapida rispetto a quella contemplata dalla legge storica sul divorzio n. 898/1970.

Il divorzio nella Riforma Cartabia

La Riforma Cartabia è intervenuta sull’istituto del divorzio in Italia modificando le regole dei procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglie (art. 473 bis c.p.c – art- 473 ter).

Di queste norme, quelle contenute nella sezione II del capo III del Titolo IV bis del Libro II, si occupano anche dello scioglimento del matrimonio.

La norma di maggiore interesse da segnalare è l’art. 473 bis. 49 c.p.c che disciplina il cumulo delle domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Divorzio: l’importanza della giurisprudenza

Sebbene siano trascorsi più di cinquant’anni dalla sua introduzione, il divorzio in Italia è in continua evoluzione. Questo perché si tratta di un istituto con una serie di implicazioni legali che richiedono una comprensione approfondita delle normative in vigore, ma anche delle più recenti sentenze della Corte di Cassazione. Sebbene il quadro normativo sia consolidato, la giurisprudenza continua infatti ad aggiornarsi, fornendo indicazioni preziose su come applicare le leggi in modo equo e giusto. Le nuove sfide sociali ed economiche e l’attenzione crescente per i diritti dei figli e il trattamento equo dei coniugi, continuano a plasmare l’evoluzione del diritto di famiglia italiano.

Nel corso degli anni, la Corte di Cassazione ha emesso numerose sentenze che hanno contribuito a chiarire e a far evolvere l’interpretazione dei vari interventi legislativi sul divorzio soprattutto per quanto riguarda i diritti e i doveri dei coniugi e l’efficacia delle separazioni. Le sue pronunce sono fondamentali per comprendere l’applicazione concreta delle leggi in contesti complessi. Vediamo che cosa dicono alcune delle sentenze  più significative degli Ermellini.

La separazione come condizione per il divorzio

Una delle tematiche più dibattute in Cassazione riguarda la durata della separazione prima di chiedere il divorzio. In particolare, la Corte ha chiarito che la separazione deve essere “effettiva” e non meramente formale. I coniugi devono cioè dimostrare di vivere in modo separato e di non avere più rapporti di vita comune. Nella sentenza Cass. Civ. n. 19174/2021, la Corte ha ribadito che la separazione deve comportare una “cessazione del progetto coniugale”, e non basta la semplice separazione di fatto.  

Affido dei figli: tema cruciale

Un altro aspetto rilevante delle recenti decisioni della Corte di Cassazione riguarda l’affido dei figli in caso di divorzio. La legge stabilisce che l’affido debba essere condiviso tra i genitori, salvo casi eccezionali in cui uno dei due non possa garantire un ambiente adatto alla crescita del minore. Tuttavia, la Cassazione ha più volte ribadito, come nella sentenza Cass. Civ. n. 15587/2022, che l’affidamento esclusivo di uno dei genitori è una misura estrema, da adottare solo quando il comportamento dell’altro genitore è pregiudizievole per il benessere del bambino. Nel caso in cui i genitori non raggiungano un accordo, la decisione finale spetta al giudice, il quale deve tenere conto dell’interesse del minore come principio fondamentale.

Il mantenimento dell’ex coniuge

Un altro punto centrale nelle dispute del divorzio riguarda il mantenimento. La Corte di Cassazione ha chiarito, con una serie di sentenze, che l’obbligo di mantenimento per il coniuge in difficoltà economiche non è automatico e dipende anche da una valutazione delle risorse economiche di ciascun coniuge. Nella sentenza Cass. Civ. n. 23448/2020, la Corte ha evidenziato che, qualora uno dei coniugi non abbia bisogno di un sostegno economico, non sussiste l’obbligo di versare un mantenimento. Inoltre, è stato affermato che la durata del mantenimento deve essere limitata nel tempo, soprattutto in caso di scioglimento di matrimoni da cui non siano nati figli o in presenza di un’indipendenza economica del coniuge richiedente.

 

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danno da shock

Danno da shock: riconosciuto dalla Cassazione Danno da shock: per la S.C. va risarcito il cliente del supermercato che mangia la zuppa con dentro gli insetti

Danno da shock per il cliente del supermercato

Il risarcimento del danno da shock, spesso complesso da quantificare, è stato oggetto di attenzione da parte della Cassazione in un caso singolare quanto significativo. Nell’ordinanza n. 31730/2024 la Cassazione sottolinea come il giudice che intende discostarsi dalle conclusioni della CTU che riconosce il danno deve fornire una motivazione specifica per questa decisione, non una meramente apparente.

Danno da shock richiesta danni rigettata

La vicenda ha inizio nel 2011, quando un consumatore, mangiando una zuppa rustica acquistata presso un supermercato, ingerisce involontariamente alcuni insetti presenti nel prodotto. Questo evento gli causa dolori gastrici, documentati dal pronto soccorso con la diagnosi di “sindrome dispeptica”. Nel 2016, l’acquirente cita in giudizio il supermercato e il produttore, chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. Il Tribunale nel 2020 riconosce la responsabilità del supermercato per la vendita del prodotto contaminato e stabilisce un risarcimento di 3.000 euro. Contestualmente impone al supermercato di rifondere le spese processuali. Successivamente, il produttore e la sua compagnia assicuratrice vengono coinvolti nel procedimento. La causa prosegue infatti in appello. In questa sede il supermercato cerca di ribaltare la sentenza. La Corte d’appello però conferma la responsabilità del supermercato e accoglie l’appello incidentale, condannando il produttore a manlevare il supermercato e la compagnia assicurativa a coprire il produttore. La Corte tuttavia rigetta la richiesta dell’attore per i danni da shock psichico.

Motivi specifici se il giudice si discosta dalla CTU

Il caso arriva in Cassazione, dove gli Ermellini accolgono il ricorso dell’attore. La Suprema Corte rileva come la Corte d’appello abbia fornito una motivazione apparente nel rigettare il danno da shock. La stessa infatti non ha considerato adeguatamente le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio (CTU). La consulenza, infatti, ha accertato l’esistenza di un danno biologico del 9% riconducibile all’evento. Essa si fonda su una valutazione psicodiagnostica, che include test strutturati e analisi del comportamento. Nonostante ciò, il giudice d’appello si è discostato dalle conclusioni, senza fornire però motivazioni sufficienti e dettagliate.

A questo proposito la Cassazione ricorda che il giudice che intende discostarsi dalle conclusioni di una CTU deve motivare in modo specifico la propria decisione. Una semplice adesione generica o un rigetto apodittico non sono sufficienti. Nel caso in esame, la Corte d’appello ha basato il proprio rigetto su rilievi frammentari, come una nota anamnestica del pronto soccorso, senza verificare l’attendibilità delle fonti o delle preesistenti condizioni psichiche del ricorrente.  

Nuova valutazione del danno da shock

La Cassazione evidenzia come la motivazione offerta dal giudice d’appello sia carente, perché non analizza in modo concreto le censure sollevate. La stessa inoltre non considera per nulla le indagini svolte dal CTU, svuotandone il significato. Questa carenza porta alla cassazione della sentenza d’appello e al rinvio del caso alla Corte d’appello in diversa composizione.

Questo caso sottolinea la complessità nell’accertare e risarcire il danno da shock. Per questo la Suprema Corte ha riaffermato l’importanza di una motivazione solida e analitica, soprattutto quando si discosta da una CTU. Il danno psichico, spesso difficile da provare, richiede infatti un esame accurato delle evidenze mediche e psicologiche.

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notifica al difensore

Notifica al difensore e non al detenuto: nullità sanabile La notifica al difensore è possibile ex art. 161 comma 4 c.p.p. se la notifica al domicilio dichiarato è impossibile

Notifica al difensore e non al detenuto

La notifica effettuata al difensore non al detenuto integra una nullità sanabile (cfr. art. 161 comma 4 c.p.p.). Questo si ricava dalla sentenza n. 35786/2024 della sesta sezione penale della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Potenza confermava la condanna emessa a carico del ricorrente in ordine al reato di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., commesso mediante l’omesso versamento dell’assegno mensile di mantenimento disposto in favore del figlio minore.
Avverso tale sentenza, il ricorrente adiva il Palazzaccio lamentando tra le altre cose, oltre allo stato di disoccupazione, l’omesso riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in relazione alla quale era positivamente valutabile il suo stato di indigenza, nonchè l’omessa notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello, posto che la notifica presso il domicilio eletto non si perfezionava, né andava a buon fine la notifica agli ulteriori indizi presso i quali si riteneva che l’imputato potesse essere rintracciato.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è manifestamente infondato. Rigettate tutte le doglianze correttamente valutate dalla Corte di merito, sul fronte della corretta vocatio in iudicium per il giudizio di appello, i giudici della S.C. evidenziano che la doglianza, tuttavia, risulta del tutto generica e non si confronta con la puntuale specificazione contenuta nella sentenza d’appello, dove si dà atto che il tentativo di notifica del decreto di citazione a giudizio presso il domicilio dichiarato è risultato impossibile. A fronte dell’inidoneità del domicilio dichiarato, pertanto, la notifica è stata correttamente eseguita ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod, proc. pen.

Il ricorso è quindi dichiarato inammissibile e il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

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giurista risponde

Appropriazione indebita: quando si consuma il reato Ai fini della individuazione del tempus commissi delicti con riferimento al reato di appropriazione indebita, a rilevare è il momento in cui viene realizzata la prima condotta appropriativa o il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Cass., sez. II, 27 settembre 2024 n. 36177).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se il reato ascritto all’imputato si fosse estinto, prima dell’emanazione della sentenza di primo grado, per intervenuta prescrizione.

In primo e secondo grado i giudici di merito avevano considerato il reato non estinto per prescrizione, individuando quale data di commissione del medesimo quella in cui l’imputato aveva negato alle parti civili la restituzione delle somme di denaro richiestegli, ritenendo inoltre, alla luce di tale data, tempestiva la proposizione della querela.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea individuazione del tempus commissi delicti, nonché la tardività nella proposizione della querela.

In particolare, si obiettava che il reato di appropriazione indebita doveva considerarsi perfezionato alla data della scadenza del contratto di deposito irregolare, dovendo ritenersi, in primo luogo, tardiva la proposizione della querela da parte dei titolari delle somme di denaro di cui si chiedeva la restituzione e, in secondo luogo, il reato estinto per intervenuta prescrizione, già prima della emanazione della sentenza di primo grado.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando inammissibile il ricorso alla luce della manifesta infondatezza delle censure proposte, ha ricordato quando stabilito da una risalente ma sempre attuale pronunzia di legittimità (Cass. pen., sez. II, 2 febbraio 1972, n. 6872), secondo cui l’inutile scadenza del termine di adempimento di una obbligazione civilistica che imponga la restituzione di una cosa altrui non determina, né prova, di per sé, la consumazione del reato di appropriazione indebita; perché ciò avvenga è necessario che, in base a concludenti circostanze di fatto (che possono anche essere diverse dal dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo del suo precedente e legittimo possesso, e possono consistere anche nel rifiuto ingiustificato della restituzione), sia rivelato il carattere intenzionale (caratterizzante l’elemento soggettivo del reato) della omessa restituzione, nel senso che in quest’ultima coincida, in uno con l’elemento materiale del reato (intrinsecamente inerente alla protrazione non più giustificata del possesso nella persona dell’agente), anche l’elemento soggettivo, inerente alla volontà di invertire il titolo del possesso medesimo appropriandosi della cosa al fine di trarne ingiusto profitto.

Nel caso di specie, il tempus commissi delicti, come correttamente valutato dai giudici di merito, era coinciso con la data in cui l’imputato aveva spedito una lettera raccomandata alle parti civili, ricusando la loro richiesta di restituzione degli importi detenuti e con la quale veniva di fatto esteriorizzato l’animus domini dell’odierno imputato in merito alle somme di denaro detenute, restando del tutto irrilevante, ai fini penalistici, la scadenza del termine entro la quale andava adempiuta l’obbligazione civilistica restitutoria.

Ritenendo quindi corrette le valutazioni operate dai giudici di merito, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e infondate le censure prospettate.

(*Contributo in tema di “Appropriazione indebita: quando si consuma il reato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

lavoro domenicale

Lavoro domenicale: più benefici perché più penoso Il lavoro domenicale è più penoso, il lavoratore ha diritto a benefici particolari, non solo di natura economica, ma anche contrattuale

Lavoro domenicale: diritti economici e non solo

Il lavoro domenicale è una realtà per molti settori, ma comporta sacrifici significativi che devono essere riconosciuti. La sentenza n. 31712/2024 della Cassazione sottolinea l’importanza di una tutela adeguata per i lavoratori, sia in termini economici che di benefici contrattuali.

Quid pluris anche non economico

La Corte d’Appello ha confermato la decisione con cui il giudice id primo grado ha riconosciuto ai lavoratori turnisti impiegati presso un aeroporto il diritto a una maggiorazione del 30% della retribuzione giornaliera per il lavoro svolto di domenica. I lavoratori, inquadrati nel CCNL Multiservizi, avevano sostenuto che il semplice riposo compensativo non era sufficiente a compensare i sacrifici legati alla prestazione domenicale.

La Corte ha stabilito che il lavoro domenicale richiede un trattamento aggiuntivo, anche in assenza di specifiche previsioni nel contratto collettivo. Secondo la sentenza, il riposo compensativo non copre pienamente i disagi derivanti dal lavoro in un giorno dedicato, per la maggioranza delle persone, agli interessi personali e familiari. La Corte ha sottolineato che tale sacrificio deve essere compensato con un quid pluris, che può consistere in una maggiorazione economica o in altri benefici contrattuali.

Compenso economico o vantaggi contrattuali

La Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento della Corte d’Appello e ha ribadito che il lavoro domenicale comporta una maggiore penosità, che deve essere riconosciuta attraverso un compenso adeguato. Tale compenso può essere economico oppure consistere in vantaggi contrattuali che migliorino il trattamento complessivo del lavoratore.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è cruciale nella regolamentazione dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, in alcuni casi, la normativa generale può supplire alle eventuali lacune del CCNL. La Corte ha infatti evidenziato che l’assenza di una maggiorazione specifica per il lavoro domenicale non implica la rinuncia ai diritti previsti dall’ordinamento.

Lavoro domenicale: il differimento del riposo non basta

La Cassazione ha anche chiarito che il differimento del riposo settimanale a un giorno diverso dalla domenica non compensa il sacrificio specifico legato al lavoro festivo. La semplice traslazione del giorno di riposo, infatti, non aggiunge alcun valore economico o simbolico al lavoratore. Pertanto, il giudice può intervenire per riconoscere un compenso aggiuntivo, valutando equitativamente il danno subito dal lavoratore.

La normativa italiana, con riferimento agli articoli 1226 e 2056 del Codice Civile, consente al giudice di determinare in via equitativa un risarcimento quando il danno non può essere quantificato con precisione. Nel caso del lavoro domenicale, tale principio è stato applicato per riconoscere una maggiorazione salariale per i sacrifici personali e familiari del lavoratore.

 

 

Leggi anche: Riposo compensativo: la Cassazione fa chiarezza

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responsabilità precontrattuale

Responsabilità precontrattuale Responsabilità precontrattuale: violazione dei principi base nelle trattative contrattuali sanciti dagli artt. 1337 e 1338 c.c. 

Responsabilità precontrattuale, cos’è

La responsabilità precontrattuale civile rappresenta un aspetto fondamentale del diritto civile italiano, in materia di contratti. Essa è disciplinata fondamentalmente dagli articoli 1337 e 1338 del codice civile. La stessa si configura quando una delle parti viola il principio di buona fede durante la fase le trattative contrattuali o nella formazione dell’accordo. La responsabilità precontrattuale civile si fonda quindi sull’obbligo di correttezza e buona fede, costituendo una garanzia fondamentale per il corretto svolgimento della fase che precede la stipula vera e propria dell’accordo.

Buona fede e lealtà nelle trattative: art. 1337 c.c.

L’articolo 1337 c.c. impone alle parti di agire con buona fede, comportandosi lealmente e nel rispetto degli interessi reciproci. Questo obbligo risulta violato in presenza di alcuni comportamenti, tra i quali rivestono particolare rilievo i seguenti:

  • interruzione immotivata delle trattative: soprattutto se l’altra parte confidava ragionevolmente nella conclusione del contratto;
  • omissione di informazioni rilevanti: come le cause di invalidità del contratto conosciute dalla parte che le nasconde (art. 1338 c.c.);
  • condotte ingannevoli o pregiudizievoli: che si realizzano quando, ad esempio, si induce una controparte a stipulare un contratto svantaggioso o lesivo.

Queste violazioni possono causare un danno risarcibile, comprendente sia il danno emergente (spese sostenute) che il lucro cessante (perdita di opportunità economiche).

Responsabilità precontrattuale civile: natura

Sulla qualificazione della natura della responsabilità precontrattuale civile il dibattito giuridico è ancora aperto. Alcuni ritengono che la stessa abbia extracontrattuale, basandosi sull’articolo 2043 c.c., altri invece la considerano di natura contrattuale, facendo riferimento all’articolo 1218 c.c. Indipendentemente dalla sua natura però tutti sono concordi nel ritenere che questa responsabilità tuteli l’interesse negativo, ovvero il diritto a non essere coinvolti in trattative infruttuose.

Contratti per adesione: regole e limiti particolari

I contratti per adesione, spesso caratterizzati da clausole prestabilite, devono rispettare particolari formalità per evitare abusi nella fase delle trattative. Gli articoli 1341 e 1342 c.c. regolano queste situazioni, stabilendo che:

  • le condizioni generali dell’accordo sono valide solo se il cliente le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle al momento della stipula;
  • mentre per quanto riguarda le clausole onerose, le stesse diventano efficaci solo con una specifica approvazione scritta.

La giurisprudenza, nel tempo, ha combattuto gli abusi legati a questi contratti, dichiarando nulle clausole particolarmente gravose o poco trasparenti. Le norme sui contratti per adesione, infatti mirano a bilanciare la necessità della velocità negli scambi economici e la tutela dei contraenti più deboli, prevenendo situazioni di squilibrio e abuso.

Comunicazione delle cause di invalidità: art. 1338 c.c.

Nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede nelle trattative contrattuali l’articolo 1338 c.c. pone a carico delle parti l’obbligo di informare l’altra parte su eventuali cause di invalidità del contratto conosciute o conoscibili con la normale diligenza. Il principio sancito da questa norma mira a evitare che una delle parti venga coinvolta in trattative inutili o in contratti invalidi.

La mancata comunicazione obbliga il responsabile a risarcire i danni subiti dalla controparte.Tuttavia, anche l’altra parte ha il dovere di agire con diligenza per individuare eventuali vizi contrattuali.

Il valore giuridico delle trattative

Le trattative, pur non essendo elementi costitutivi del contratto, rivestono un ruolo giuridico rilevante. Esse preparano il contratto futuro, ma non obbligano le parti a concluderlo. Un comportamento negligente o doloso che violi la fiducia della controparte può generare una responsabilità a tutela l’interesse delle parti a non subire danni derivanti da aspettative ragionevolmente create. Trattasi di una responsabilità però che non tutela solo l’interesse economico, ma anche la fiducia reciproca necessaria per una collaborazione produttiva.

Responsabilità precontrattuale: ultime della Cassazione

Gli articolo 1337 e 1338 c.c contengono principi dal contenuto ampio e come tali in continua evoluzione. La Cassazione riveste un ruolo fondamentale nell’aggiornamento dei concetti di lealtà, buona fede e correttezza nell’ambito delle trattative precontrattuali e nel definire l’ambito applicato o di queste norme. Vediamo quindi quali sono le ultime pronunce degli Ermellini sulla responsabilità precontrattuale civile.

Cassazione n. 28767/2204

“Per ritenere integrata la responsabilità precontrattuale occorre che:

  • tra le parti siano in corso trattative;
  • che queste siano giunte ad uno stadio idoneo a ingenerare nella parte che invoca l’altrui; il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto;
  • esse siano state interrotte, senza giustificato motivo, dalla parte cui si addebita detta responsabilità;
  • pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto.”

Cassazione n. 27102/2024

“In materia di responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta, posta dall’articolo 1337 cod. civ., la tutela del corretto dipanarsi dell’iter formativo del negozio, costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell’onere della prova. Ne consegue che, qualora gli estremi del comportamento illecito siano integrati dal recesso ingiustificato di una parte, grava non su chi recede la prova che il proprio comportamento corrisponde ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull’altra parte l’onere di dimostrare che il recesso esula dai limiti della buona fede correttezza postulati dalla norma di qua.”

Cassazione n. 19022/2023

“La responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 cod. civ., coprendo nei limiti del cosiddetto interesse negativo, tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e art. 2056 cod. civ., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorché avente contenuto diverso, rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste Erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse; e se altresì affermato che il danno risarcibile per responsabilità precontrattuale consiste “nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto all’interesse all’adempimento), rappresentato sia dalle spese inutilmente sopportate… Sia dalla perdita di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto maggiormente vantaggioso, e dunque non comprende, in particolare, il lucro cessante risarcibile se il contratto non fosse stato poi adempiuto o fosse stato risolto per colpa della controparte“.

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pitbull senza museruola

Pitbull senza museruola sul bus: è reato Interruzione di pubblico servizio quando il passeggero pretende di salire su un autobus con un pitbull senza guinzaglio e museruola

Interruzione di pubblico servizio

Pitbull senza museruola sul bus è reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del Codice penale. La norma punisce chiunque cagioni un’interruzione o un turbamento del regolare svolgimento di un servizio pubblico o di pubblica necessità. La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 45289/2024 ha chiarito che chi pretende di salire su un autobus con un cane senza guinzaglio e museruola anche in presenza del volere contrario e legittimo del conducente dellautobus, commette questo reato.

Autobus fermo per un cane senza museruola

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un utente che ha preteso di salire su un autobus con un pit bull di grossa taglia senza museruola e senza guinzaglio. Il conducente, conformemente al regolamento del trasporto pubblico, ha impedito l’accesso all’animale. Ne è scaturita una lunga discussione, che ha ritardato la partenza dellautobus di circa quarantacinque minuti. Il padrone del cane, peraltro, ha mantenuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dell’autista e degli altri passeggeri. La Corte di Cassazione per queste ragioni ha confermato la condanna per interruzione di pubblico servizio, rigettando ogni pretesa difensiva. Il ricorrente aveva lamentato l’assenza di un regolamento esposto all’interno del mezzo e invocato l’attenuante della provocazione. Questi argomenti però sono stati respinti.

Obbligo di rispettare il regolamento di viaggio

Il conducente di un autobus ha il dovere di far rispettare il regolamento di viaggio. Questo include prescrizioni specifiche sull’accesso con animali domestici, come l’uso obbligatorio del guinzaglio e della museruola per i cani di grossa taglia o considerati potenzialmente pericolosi. Il regolamento ha una base giuridica solida e tutela la sicurezza di tutti i passeggeri. In questa vicenda, il conducente ha agito quindi nel rispetto dei propri obblighi e non ha assunto una condotta provocatoria. La Cassazione ha chiarito infatti che non si può configurare l’attenuante della provocazione quando il soggetto “provocatore” esercita un dovere istituzionale con equilibrio e senza intenti vessatori.

Esclusa l’attenuante della provocazione

La difesa aveva invocato l’attenuante della provocazione, sostenendo che il comportamento del conducente avesse scatenato la reazione dell’imputato. La Suprema Corte però ha respinto questa tesi, ricordando i criteri applicativi dell’attenuante. Secondo l’articolo 62 del Codice penale, essa sussiste infatti solo se il comportamento del provocatore è oggettivamente ingiusto e compiuto con intenti di dispetto o di faziosità. Nel caso concreto, l’autista ha svolto solo il proprio dovere, facendo rispettare una norma regolamentare. Non si tratta, dunque, di un comportamento ingiusto, ma di un’azione lecita e doverosa.

Irrilevanza dell’errore sulle attenuanti

Un ulteriore punto sollevato dalla difesa riguardava la mancata esposizione del regolamento sul mezzo pubblico. L’imputato riteneva di essere stato tratto in errore e che l’assenza della regola visibile giustificasse la sua reazione. La Cassazione ha ribadito l’irrilevanza di questo errore ai fini delle attenuanti. Ai sensi dell’articolo 59, comma 3, del Codice penale, le circostanze attenuanti erroneamente supposte dall’autore non possono essere valutate a suo favore. Di conseguenza, anche l’ignoranza del regolamento non esime dalla responsabilità penale.

Cassazione sul reato di interruzione di pubblico servizio

Dalla decisione emerge in conclusione che il reato di interruzione di pubblico servizio si configura quando un soggetto impedisce o turba il normale svolgimento di un servizio pubblico, causando un ritardo significativo o una sospensione temporanea. Nel caso del pit bull senza museruola, la discussione prolungata e latteggiamento intimidatorio del padrone hanno impedito la ripartenza dell’autobus, causando un disagio ai passeggeri e al servizio stesso. Questa condotta integra quindi pienamente il reato previsto dall’articolo 340 del Codice penale.

abitazione signorile o popolare

Abitazione signorile o popolare: classamento ai fini delle imposte Imposte ipotecarie e catastali: per determinarle è necessario il classamento e a tal fine rilevano le opinioni comuni

Abitazione signorile o popolare e imposte

Abitazione signorile o popolare: in materia di imposte ipotecarie e catastali, la recente sentenza n. 31725/2024 della Corte di Cassazione chiarisce un principio importante sul classamento delle abitazioni. La classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare“, in assenza di specifiche definizioni legislative, dipende dalle opinioni comuni prevalenti in un determinato contesto storico e territoriale.

Imposte ipotecarie e catastali: classamento immobile

La pronuncia pone fine a una vicenda che ha inizio quando un contribuente contesta il classamento di un immobile. L’immobile, inizialmente classificato nella categoria A/1 (abitazione signorile), è infatti ritenuto dal proprietario privo delle caratteristiche di lusso necessarie per inquadrarlo in detta categoria. Per questo presenta un’istanza per il riclassamento dell’immobile in categoria A/2 (abitazione civile), ma l’Agenzia delle Entrate respinge la richiesta. Il contribuente ricorre quindi alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) che però rigetta il ricorso. Secondo la CTP, per ottenere una revisione del classamento è necessaria una modifica sostanziale dell’immobile o una richiesta di revisione formale avanzata dal Comune. La situazione, secondo la Commissione, non rientra nelle ipotesi previste dalla normativa.

In seguito la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Liguria ribalta la decisione. La CTR  evidenzia diverse carenze nell’immobile che lo rendono non conforme alla categoria A/1:

  • superficie reale inferiore a quella indicata dall’Agenzia delle Entrate;
  • mancanza di caratteristiche di pregio, come ottima esposizione e finiture di lusso;
  • vani con altezze ridotte e locali igienici piccoli e privi di finestre;
  • posizione dell’immobile in una zona non di assoluto pregio.

Revisione classamento: serve una prova concreta e attuale

L’Agenzia delle Entrate impugna la decisione della CTR in Cassazione. L’ente sostiene che, secondo l’articolo 38 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), la revisione del classamento dovrebbe essere basata su una prova concreta e attuale di una riduzione della redditività dell’immobile. La CTR però, a detta dell’Agenzia, ha ignorato questo requisito fondamentale.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’Agenzia, dichiarandolo inammissibile. I giudici  chiariscono che la CTR ha fondato la propria decisione su elementi oggettivi legati allo stato effettivo dell’immobile. La questione della redditività ex articolo 38 TUIR non è applicabile al caso in esame, poiché quella norma riguarda l’imposizione fiscale sui redditi, mentre la controversia verte sulla corretta attribuzione della categoria catastale.

L’importanza delle opinioni comuni per il classamento

Un punto centrale della sentenza riguarda la qualificazione delle abitazioni. La Cassazione ribadisce che la classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare” non deriva da un criterio legislativo rigido. Essa deve riflettere piuttosto le opinioni comuni di un determinato contesto spazio-temporale. Questa posizione conferma un principio fondamentale nel diritto catastale: il procedimento di classamento è di tipo accertativo e deve tenere conto della realtà fattuale dell’immobile. L’assenza di caratteristiche di lusso pertanto, come finiture pregiate o posizione esclusiva, rende non giustificabile l’attribuzione della categoria A/1.

Per la Corte quindi il contribuente ha il diritto di richiedere, in qualsiasi momento, la correzione dei dati catastali. Questo principio, già affermato in precedenti sentenze, si fonda sul fatto che la rendita catastale non ha natura definitiva. Essa può essere modificata quando emergono nuove informazioni o errori nei dati dichiarati. Negare al contribuente la possibilità di correggere gli errori originari equivale a cristallizzare un’imposizione fiscale distorta e questo contrasta con il principio di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della Costituzione italiana.

 

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