assegno di mantenimento figli

Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità non è indigenza totale Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità di adempiere gli obblighi di assistenza esclude il dolo, ma non equivale all’indigenza totale 

Assegno mantenimento figli e indigenza totale

Il padre che non versa l’assegno di mantenimento per la figlia, violando gli obblighi di assistenza familiare commette reato se non dimostra che la dichiarata impossibilità è esente da colpa. L’impossibilità assoluta di adempiere gli obblighi di assistenza familiare (art. 570 bis c.p) e che esclude il dolo “non può essere assimilata allindigenza totale.” Lo ha specificato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34032-2024.

Assegno di mantenimento: reato non versarlo per la figlia

Il giudice di primo grado condanna un padre per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’’art. 570 bis c.p. La Corte d’appello riduce la pena, ma conferma il reato. Per i giudici l’uomo è responsabile del mancato versamento del mantenimento mensile di 900,00 euro per la figlia. La Corte rileva che lo stesso ha versato somme inferiori rispetto a quelle fissate dal giudice, ma non ha dimostrato condizioni tali da non poter disporre di somme superiori.

Manca il dolo del reato contestato

L’imputato nel ricorrere in Cassazione contesta l’elemento soggettivo del reato di cui è stato ritenuto responsabile. Lo stesso dichiara di essersi trovato in una condizione di ristrettezze economiche. Questo non gli ha impedito di  versare quanto poteva per la figlia. Lo stesso inoltre si è riconciliato con la ex moglie e La ripresa della convivenza gli ha consentito di ripianare la propria posizione debitoria.

L’impossibilità di versare il mantenimento non è indigenza totale

La Cassazione, esaminati i motivi di doglianza, dichiara il ricorso manifestamente infondato. L’imputato si limita infatti a reiterare la tesi in base alla quale il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non può essere attribuito a chi si trova in una condizione di impossibilità ad adempiere ai propri obblighi.

La sentenza pronunciata nei confronti dell’imputato però è perfettamente in linea con la tesi affermata da giurisprudenza oramai consolidata, per la quale “in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’impossibilità assoluta dell’obbligato di far fronte agli adempimenti sanzionate dall’articolo 570 bis CP, che esclude il dolo, non può essere assimilata all’indigenza totale, dovendosi valutare se, in una prospettiva di bilanciamento dei beni in conflitto, ferma restando la prevalenza dell’interesse dei minori e degli eventi di diritto alle prestazioni, il soggetto avesse  effettivamente la possibilità di assolvere i propri obblighi senza rinunciare a condizioni di dignitosa sopravvivenza.”

Impossibilità totale e priva di colpa non dimostrata

L’imputato non è totalmente incolpevole e quindi non è esonerato dall’obbligo di contribuzione. La difesa ha dichiarato che l’uomo si è trovato in condizioni di difficoltà economica e quindi impossibilitato ad adempiere le obbligazioni a suo carico, ma tale assunto difensivo è generico e non è idoneo a dimostrare l’incapacità contributiva assoluta ed esente da colpa. L’imputato ha omesso di versare l’assegno di mantenimento, ma non ha dimostrato che l’inadempimento era dovuto a una condizione di impossibilità assoluta e priva di colpa.

 

Leggi anche: Mantenimento figli: nessun reato per il padre in difficoltà

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Avvocato: per difendersi da solo serve l’iscrizione all’albo L’avvocato stabilito non può difendersi da solo davanti al CNF: lo ius postulandi spetta a chi è iscritto all’albo degli avvocati

Avvocato stabilito: iscrizione all’albo per difendersi da solo

L’avvocato stabilito non può difendersi da solo davanti al CNF perché privo dello ius postulandi. Esso è iscritto infatti in una sezione speciale dell’albo, non nell’albo ordinario degli avvocati. A sostegno di questa tesi ci sono diverse disposizioni normative. L’art. 7 del Regio decreto 1578/1933 dispone infatti che la difesa, l’assistenza e la rappresentanza in giudizio possono essere esercitate solo da un “avvocato”.

L’art. 8. Del decreto legislativo n. 96/2001 invece dispone che: nei giudizi civili, penali ed amministrativi, nonché nei procedimenti disciplinari nei quali è necessario la nomina di un difensore, lavvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato.” Lo hanno chiarito le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 24279-2024.

Senza iscrizione all’albo degli avvocati niente ius postulandi

Il Consiglio distrettuale di disciplina sanziona un avvocato disponendone la sospensione per due mesi dall’attività professionale. Lo stesso, nella qualità di avvocato stabilito, è stato ritenuto responsabile di aver utilizzato impropriamente il titolo italiano di “avv./avv. S” generando confusione sul titolo professionale dello Stato ospitante.

Il legale impugna la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense, che lo dichiara inammissibile. Il ricorso infatti è stato presentato in proprio dall’avvocato, che all’epoca dei fatti era iscritto nella sezione speciale degli avvocati stabiliti e non nell’albo ordinario degli avvocati e quindi non poteva esercitare lo ius postulandi.

Patrocinio davanti al CNF: serve l’intesa con un avvocato

L’avvocato contesta la decisione del CNF davanti alla Corte di Cassazione, che però rigetta il ricorso.

Sulla questione centrale dello ius postulandi e del titolo di avvocato necessario alla difesa tecnica in proprio la Cassazione ricorda di aver già ribadito che non tutti possono esercitare la difesa ed assumere il patrocino davanti al Consiglio Nazionale Forense, ma solo quei soggetti a cui la legge riconosce tale potere e che, in virtù di determinate qualità personali, sono iscritte all’albo professionale degli avvocati.

Fatta questa precisazione, in relazione al caso di specie la Corte richiama l’articolo 8 del decreto legislativo n.  96/2001. Il comma 1 di detta norma dispone nello specifico che: Nell’esercizio delle attività relative alla rappresentanza, assistenza e difesa nei giudizi civili, penali ed amministrativi, nonché nei procedimenti disciplinari nei quali è necessaria la nomina di un difensore, l’avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l’autorità adita o procedente e nei confronti della medesima è responsabile dell’osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori». Il comma 2 precisa inoltre che: L’intesa di cui al comma 1 deve risultare da scrittura privata autenticata o da dichiarazione resa da entrambi gli avvocati al giudice adito o all’autorità procedente, anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa dell’assistito.” 

L’avvocato stabilito non ha un autonomo ius postulandi

L’avvocato stabilito cittadino di uno dei Paese UE, che esercita in Italia in modo stabile la professione e che è iscritto in una sezione speciale dell’albo non ha un autonomo ius postulandi. Costui può svolgere la difesa, l’assistenza e la rappresentanza in giudizio solo se agisce “di intesa con un professionista abilitato” debitamente documentata.

Detto soggetto, in assenza dell’intesa suddetta, non può neppure stare in giudizio senza il ministero di un difensore.

 

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riscossione coattiva

Riscossione coattiva: in dubbio il meccanismo di Cassa Forense Alle Sezioni Unite della Cassazione il compito di risolvere importanti questioni giuridiche del meccanismo di riscossione dell'ente previdenziale degli avvocati

Riscossione coattiva Cassa Forense alle Sezioni Unite

Il meccanismo di riscossione coattiva delle somme dovute a Cassa Forense è in dubbio. Ora spetta alle Sezioni Unite della Cassazione risolvere diverse e importanti questioni giuridiche in materia.

Non riscosso per riscosso e dichiarazione di inesigibilità

Cassa Forense in passato ricorreva al meccanismo del “non riscosso  per riscosso”. Grazie a questo sistema Cassa Forense poteva ricevere dall’agente di riscossione le somme a questa dovute anche se non riscosse realmente. Questo sistema però è stato abrogato e da allora Cassa Forense non ha più potuto riceve le somme dall’agente di riscossione in anticipo, anche se non riscosse.

Il nuovo sistema prevede infatti che in caso di omessa riscossione delle somme dovute alla Cassa, l’agente possa ottenere il “discarico per inesigibilità”. Il tutto in danno di Cassa Forense. Diverse leggi hanno poi prorogato i termini per la dichiarazione di inesigibilità,  confondendo un sistema di  che per natura dovrebbe essere ordinato. Questo in sintesi il contenuto dell’ordinanza n. 24043/2024 della prima sezione civile della Cassazione.

Cassa Forense: decreto ingiuntivo per somme indicate nei ruoli

Cassa Forense ottiene un decreto ingiuntivo nei confronti di Equitalia Sud S.p.a a causa del pagamento parziale delle somme indicate nei ruoli relativi alla zona di Napoli emessi dal 1996 al 2008. Il Tribunale rigetta l’opposizione di Equitalia. La Corte d’Appello invece accoglie l’appello di Equitalia Sud (poi Agenzia delle Entrate riscossione) e revoca il decreto. Cassa Forense ricorre quindi alla Corte di Cassazione.

Riscossione coattiva: uso distorto della legge a causa delle proroghe

Il Collegio esamina nel dettaglio il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento e rimette la causa alla prima sezione per valutare se assegnare la trattazione alle Sezioni Unite.

Il meccanismo di riscossione dei crediti di Cassa Forense in passato si basava sul  sistema del “non riscosso per riscosso”. Grazie a questo meccanismo Cassa Forense poteva incassare il quantum a lei dovuto dopo la consegna dei ruoli al concessionario, che ne diventava debitore per l’intero.

Il concessionario infatti anticipava le somme alla Cassa alle varie scadenze, anche se non le aveva riscosse.  Il decreto legislativo  112/1999 però abroga questo meccanismo.

In base alle nuove regole il concessionario non ha più l’obbligo di anticipare le somme alla Cassa Forense, ma prima le incassa e solo dopo ha l’obbligo di versarle. Per le somme non riscosse il concessionario può avere il “discarico per inesigibilità”.

Nel tempo si susseguono poi varie leggi, che dispongono diverse proroghe dei termini per la dichiarazione di inesigibilità. L’ordinato meccanismo di riscossione previgente va in confusione e si crea incertezza sull’esito dei procedimenti in corso e sulla possibilità per Cassa Forense di recuperare in modo diretto gli importi alla stessa dovuti.

Riscossione coattiva tramite ruoli: è compatibile con la CEDU?

La questione che la Cassazione chiede alle Su di dipanare è la seguente: Se, in tema di riscossione coattiva tramite ruoli dei crediti della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, il quadro normativo complessivo, in particolare quello disciplinato dalle leggi n. 228/2012 e n.190/2014, sia compatibile o meno con lart. 6 par. 1 CEDU, quale norma interposta in relazione al parametro di cui allart. 117, primo comma, Cost., avuto riguardo ai seguenti profili: 

  1. la ricorrenza, nella specie, di elementi sintomatici di un uso distorto della funzione legislativa, come individuati nella pronuncia n. 210/2021 della Corte Costituzionale (ADER, ente pubblico, è parte del giudizio; il primo intervento legislativo che ha inciso significativamente sul meccanismo del discarico, pur prevedibile, è avvenuto nel 2012, mentre quello precedente, parimenti finalizzato a perseguire esigenze di razionalizzazione del sistema di riscossione mediante ruolo, risale al 1999);
  2. lincidenza, nella ponderazione dei motivi imperativi di carattere generale, sia della preponderanza di considerazioni di natura finanziaria (Cfr. Corte Cost. n.145/2022), sia della necessità di bilanciamento dellinteresse generale con quello legato alla finalità solidaristica della Cassa, in tesi pregiudicata nel suo equilibrio finanziario in considerazione dellelevato numero di debitori, dellaccumularsi negli anni delle poste in riscossione tramite ruoli e dellingentissimo importo complessivo dei crediti già dichiarati inesigibili o a rischio di inesigibilità;
  3. il continuo e prolungato susseguirsi negli anni delle proroghe dei termini per la dichiarazione di inesigibilità, in quanto i meccanismi comportanti una lunghissima dilazione temporale” sono difficilmente compatibili con la fisiologica dinamica di una riscossione ordinata e tempestivamente controllabile delle entrate (Corte Cost. n.51/2019 e Corte Cost. n.18/2019);
  4. la duratura incertezza, derivante dalle suddette proroghe, sullesito della riscossione e sulla definizione dei rapporti debitori, nonché, di riflesso, lallungamento considerevole della durata del processo;
  5. lincidenza delle suesposte considerazioni sullefficace esperibilità di rimedi alternativi (azione diretta della Cassa verso gli iscritti debitori), che deve concretarsi nella ragionevole possibilità di preservare le proprie ragioni, senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte” (Corte Cost. n. 210/2021)”.

 

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reato per l'avvocato

Reato per l’avvocato che deposita ricorsi senza abilitazione Integrato l'esercizio abusivo della professione di avvocato per chi, non abilitato, deposita ricorsi in commissione tributaria

Esercizio abusivo della professione di avvocato

Reato per l’avvocato che deposita in commissione senza abilitazione. E’ integrato infatti l’esercizio abusivo della professione di avvocato per chi senza essere abilitato deposita ricorsi alla commissione tributaria. Così la sesta sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 25006/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Savona rideterminava
la pena, quantificata in mesi sei di reclusione ed euro 10.000 di multa, nei confronti di un soggetto in ordine al delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato ex art. 348 cod. pen., e dichiarava non doversi procedere per prescrizione in ordine al delitto di truffa aggravata.

Il ricorrente adisce il Palazzaccio denunciando, tra l’altro, la carenza degli elementi necessari ai fini dell’integrazione del delitto contestato in quanto i ricorsi depositati presso la Commissione Tributaria Provinciale di Savona, erano stati presentati da altro professionista regolarmente abilitato che collaborava con lo stesso, né veniva dimostrato che fosse stato il ricorrente ad averli depositati.

La decisione

Sul fronte dell’entità della pena, la S.C. osserva innanzitutto che “la pena in concreto irrogata per il delitto di esercizio abusivo della professione ex art. 348 cod. pen. è illegale là dove è stata quantificata secondo la forbice edittale non ancora vigente al momento della commissione dei fatti, invero, risalenti al 1 febbraio 2013 ed al 15 aprile 2014”.
La fondatezza del motivo in punto di trattamento sanzionatorio determina la prescrizione del reato, con la necessità di annullare senza rinvio la decisione impugnata.
Tuttavia, in ragione della presenza della parte civile costituita, la Cassazione ritiene necessario dare conto dell’infondatezza del primo motivo di ricorso con cui si contesta il personale contributo fornito dal ricorrente alla condotta qualificata ex art. 348 cod. pen.
“Sotto tale aspetto – aggiungono gli Ermellini – il ricorso si presenta generico e riproduttivo di identica censura adeguatamente vagliata dalla Corte d’appello, che ha rilevato come il coinvolgimento del ricorrente emergesse dalle dichiarazioni rese dai testimoni e dalla coimputata oltre che dall’apprezzata documentazione acquisita, rilevando come proprio il contenuto del mandato alla lite apposto a margine dei ricorso smentisse l’assunto secondo cui lo stesso si fosse limitato a fornire consigli al professionista abilitato all’attività difensiva prestata in occasione della presentazione dei ricorsi presso la Commissione Tributaria Provinciale di Savona”.
Le citate ragioni, “che danno conto della realizzazione della condotta generatrice del danno nei confronti della costituita parte civile, assistita legalmente da chi era privo di un titolo ad esercitare la professione forense, impongono la conferma delle statuizioni civili”.

Per cui, la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, perché il reato è estinto per prescrizione e conferma le statuizioni civili.

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cittadinanza italiana

Cittadinanza italiana: residenza ridotta a 5 anni Depositato in Cassazione il referendum per ridurre da 10 a 5 anni il termine di residenza per diventare cittadino italiano

Referendum cittadinanza depositato in Cassazione

Cittadinanza: depositato il 4 settembre in Cassazione il quesito referendario per ridurre da dieci a 5 anni il termine di residenza legale ininterrotta in Italia per diventare cittadino italiano. Il quesito ha lo scopo di abrogare una delle norme della legge n. 91/1992 senza entrare nel merito di ius soli o ius scholae e consentire ai residenti immigrati adulti e bambini figli di stranieri di fare richiesta e ottenere la cittadinanza dopo 5 anni di permesso.

A depositare il referendum sulla cittadinanza le associazioni “Italiani senza cittadinanza”, Conngi, Idem Network, organizzazioni come Libera, Gruppo Abele, A Buon Diritto, Società della Ragione. Partiti: +Europa, Possibile, Partito Socialista, Radicali Italiani. E personalità come Mauro Palma, Luigi Manconi, Pippo Civati, Ivan Novelli di GreenPeace, Simohamed Kaabour di Idem Network.

Presenti tra i promotori Riccardo Magi di +Europa, che ha promosso il tavolo per il referendum, Simohamed Kaabour di Idem Network, Daniela Ionita di Italiani Senza Cittadinanza, Francesca Druetti di Possibile, Enzo Maraio del Psi, Matteo Hallissey di Radicali Italiani.

Obiettivo del referendum

Il quesito mira alla “riduzione a 5 anni di residenza legale del termine per la concessione della cittadinanza italiana ai cittadini extra Ue” maggiorenni.

Tale termine, si legge nelle motivazioni al quesito depositate in Cassazione, “è previsto in molti altri Stati della Ue e la legislazione italiana in materia di cittadinanza lo prevedeva dal 1865 al 1992, quando la legge n. 91/1992 ha introdotto un’irrazionale penalizzazione per i cittadini di qualsiasi Stato extra Ue (per i quali si passò dall’esigere almeno 5 anni all’esigere almeno 10 anni) inserendo una facilitazione a 4 anni per i cittadini degli Stati Ue, che ovviamente presentano un numero inferiori di domande, visto che la cittadinanza europea si aggiunge alle cittadinanze degli Stati Ue”.

Le cifre Istat sono molto chiare – prosegue ancora il documento – circa i 2/3 dei cittadini di Stati extraUe legalmente residenti in Italia (pari a circa 2.300.000 persone) sono titolari del p.s. Ue per soggiornanti di lungo periodo che è rilasciato proprio a chi è soggiornante da almeno 5 anni ininterrotti, non ha condanne o carichi pendenti, né costituisce un pericolo per l’ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato, ha dimostrato la conoscenza della lingua italiana, dispone di un reddito minimo non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e di un alloggio: si può trattare sia del titolare, sia del coniuge, sia dei figli minori conviventi, i quali acquisirebbero la cittadinanza automaticamente quando l’avessero acquistata i genitori con cui convivono”.

Tali requisiti sono molto vicini ai requisiti richiesti dalla prassi e dalla giurisprudenza amministrativa ai fini della concessione della cittadinanza italiana. “L’esperienza dimostra – conclude il testo – che comunque non tutti ne fanno richiesta, essendo volontaria la scelta e prevedendo alcuni Stati la perdita della cittadinanza per chi acquista altra cittadinanza. La manipolazione referendaria non modifica la natura concessoria di questo tipo di acquisto della cittadinanza, che perciò potrà mutare soltanto con una nuova legge”.

Il testo del quesito

“Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole ‘adottato da cittadino italiano’ e ‘successivamente alla adozione’ e lettera f) della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?” questo il testo del quesito.

Il requisito previsto dalla legge 91/1992

Il comma 1 dell’art.9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 oggi infatti prevede quanto segue: “La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’interno:

a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera c);

b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione;

c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato;

d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica;

e) all’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica;

f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica”.

giurista risponde

Vendita immobile oggetto di locazione e pagamento quote condominiali In presenza di un contratto di compravendita di un immobile oggetto di locazione, il cessionario acquirente dell’immobile subentra nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In mancanza di una contraria volontà dei contraenti, la vendita di immobile oggetto di locazione (vale anche per la donazione o cessione) determina, ai sensi degli artt. 1599 e 1602 c.c., la surrogazione del terzo acquirente (o donatario o cessionario) nei diritti e nelle obbligazioni del venditore (o donante o cedente) che sia anche locatore senza necessità del consenso del conduttore, perciò anche il subentro nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali del condominio di cui fa parte l’immobile locato. – Cass., sez. II, 4 marzo 2024, n. 5704.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a scrutinare il ricorso per cassazione con cui si richiedeva di definire gli effetti rinvenienti dalla stipula di un contratto di compravendita avente ad oggetto un immobile locato.

La pronuncia in esergo prende le mosse da un’articolata vicenda processuale in cui un Condominio – dopo aver infruttuosamente esperito due procedure di espropriazione mobiliare nei confronti del titolare di un immobile per il mancato pagamento di contributi condominiali negli anni dal 2008 al 2014 – agiva in giudizio per chiedere l’emissione di un provvedimento monitorio nei confronti della società (ex proprietaria-cedente) che aveva ceduto gli immobili al soggetto moroso, e da cui, medio tempore, aveva riacquistato gli stessi, salvo poi cederli in locazione.

La società ingiunta ricorreva in giudizio promuovendo opposizione a decreto ingiuntivo, anche in virtù della tempestiva comunicazione che era stata al Condominio circa l’avvenuta cessione, al soggetto moroso) delle due unità immobiliari interessate.

Il giudice di prime cure, con una sentenza poi confermata in appello, rigettava la domanda dell’opponente.

Viene proposto, quindi, ricorso per Cassazione, articolato in una pluralità di motivi di gravame.

In particolare, con il primo motivo si denunciava la violazione degli artt. 112 c.p.c., 1118 e 1123 c.c., nonché dell’art. 63 disp. att. c.c., in quanto il giudice di appello, muovendo da una non corretta qualificazione in sede monitoria della domanda del condominio, sarebbe incorso in un’errata applicazione delle norme sul pagamento del quantum debeatur.

Nel secondo argomento di censura si eccepivano due questioni intrinsecamente connesse: per un verso, la violazione dei criteri di ripartizione degli oneri probatori (artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c.), nella parte in cui i giudici di appello avevano imputato all’opponente (i.e. la società) l’obbligo di esibire il contratto da cui rilevare il trasferimento dell’immobile al cessionario inadempiente, trattandosi di elemento fattuale pacificamente ammesso; per altro verso, la violazione del principio di irretroattività della legge in relazione all’applicazione dell’art. 63 disp. att. c.c., avendo applicato tale disposizione nella formulazione introdotta nel 2012, ad una fattispecie anteriore a tale data.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso di parte denuncia l’illegittima inversione dell’onere della prova in sede di gravame, nella parte in cui era stato imputato erroneamente alla società l’onere di dimostrare l’inesistenza in capo a sé della qualità di condomina con riferimento al periodo della morosità e non già al Condominio, anche tenuto conto di tutte le vicende di cessione e di successivo riacquisto degli immobili.

Ne consegue, in punto di diritto, che l’ingiunto destinatario del ricorso per decreto ingiuntivo andava individuato nel cessionario e non già nella società cedente, la quale – tutt’al più – avrebbe potuto rispondere, per effetto della sopravvenuta entrata in vigore della modifica apportata al citato art. 63 disp. att. c.c., solo delle ultime due annualità.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo, la Cassazione, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa al Tribunale, il quale dovrà attenersi ai principi di diritto evidenziati in massima.

(*Contributo in tema di “Vendita di immobile oggetto di locazione e obbligo di pagamento delle quote condominiali”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

danni allo studente

Danni allo studente, scuola esonerata se la causa è imprevedibile L’ordinanza della Cassazione chiarisce che non vi è responsabilità se il danno dell’alunno a sé stesso risulta imprevedibile

La responsabilità della scuola per danni allo studente

Danni allo studente, la responsabilità della scuola è al centro di una importante decisione della Corte di Cassazione, con la quale sono stati chiariti anche il ruolo del Ministero e della compagnia di assicurazione in casi di questo genere.

Risarcimento del danno che lo studente procura a sé stesso

La vicenda trae origine da un infortunio scolastico occorso ad uno studente, il quale era inciampato da solo su una sedia, procurandosi dei danni fisici.

I genitori dell’alunno minorenne ricorrevano presso il giudice di pace per ottenere il risarcimento del danno, vedendo accolta la propria domanda.

La causa era stata instaurata nei confronti dell’istituto scolastico, che chiamava in garanzia la compagnia di assicurazione. Entrambi i soggetti venivano estromessi dal giudizio, poiché ritenuti privi di legittimazione passiva dal giudice. Quest’ultimo, dunque, dichiarava tenuto al risarcimento del danno il Ministero dell’Istruzione, rimasto contumace (cioè non costituitosi in giudizio).

La decisione del giudice di pace veniva confermata in appello dal Tribunale competente.

L’ordinanza della Cassazione sulla responsabilità della scuola

Contro tali provvedimenti, il Ministero dell’Istruzione proponeva ricorso per Cassazione.

Quest’ultima, con l’ordinanza Cass. n. 14720 del 27 maggio 2024, accoglieva il ricorso, offrendo importanti chiarimenti sia sul rapporto di garanzia assicurativa per danni allo studente, sia sulla natura della responsabilità per i danni allo studente e sia, soprattutto, sulla ripartizione dell’onere della prova tra i vari soggetti coinvolti in fattispecie di questo tipo.

Il rapporto di assicurazione con la scuola e il Ministero

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto errata la decisione dei giudici di merito di estromettere dal giudizio, per mancanza di legittimazione passiva, sia l’istituto scolastico, sia la compagnia assicurativa.

Al riguardo, gli Ermellini hanno evidenziato che, pur se la polizza viene sottoscritta dall’istituto scolastico, la stessa deve ritenersi a copertura anche dei danni allo studente di cui risponderebbe il Ministero in luogo dell’istituto stesso, poiché in caso contrario il contratto assicurativo dovrebbe essere considerato privo di causa.

A maggior ragione, inoltre, la copertura di tali danni deve essere garantita in considerazione del fatto che, anche nell’atto di stipula del contratto assicurativo, l’istituto scolastico agisce come mero organo del Ministero dell’Istruzione.

Natura della responsabilità della scuola per danni allo studente

Ciò detto, per la Cassazione si è posta la questione di verificare se, nel caso concreto, ci fosse effettivamente un danno da risarcire.

A tal fine, l’analisi si è spostata sulla natura della responsabilità dell’istituto scolastico e del Ministero nei casi in cui lo studente si procuri da sé il danno, nel corso del normale orario delle lezioni.

Ebbene, la Corte ha chiarito che in tal caso sussista una responsabilità contrattuale, per la cui sussistenza, però, occorre la dimostrazione, da parte del danneggiato, del nesso di causalità tra l’inadempimento dell’istituto scolastico e il danno.

Responsabilità della scuola: prova dell’imprevedibilità del danno

Infatti, la ripartizione dell’onere della prova in tema di danni allo studente prevede la sussistenza di una presunzione di responsabilità in capo all’istituto, sempre che l’alunno riesca a dimostrare il nesso di casualità di cui si è appena detto.

D’altro canto, alla scuola, e per essa al Ministero, è concesso dimostrare, per essere considerata esente da responsabilità, l’imprevedibilità e inevitabilità del danno.

Il Ministero, cioè, anche tramite elementi presuntivi, deve dimostrare che l’evento e il danno fossero imprevedibili e inevitabili, ed è proprio quanto accaduto nel caso concreto deciso dall’ordinanza di Cassazione n. 14720/2024.

Infatti, la presenza dell’insegnante al momento dell’accaduto, il rispetto delle normative di sicurezza da parte dell’ente scolastico e l’imprevedibilità del sinistro sono stati ritenuti dalla Corte elementi sufficienti a ritenere esclusa la responsabilità del Ministero.

In conseguenza, veniva cassata la decisione dei giudici di merito, che avevano accolto la domanda di risarcimento avanzata dai genitori dell’alunno.

 

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radiato l'avvocato

Radiato l’avvocato che esercita anche se sospeso Radiato l’avvocato che esercita la professione forense anche se raggiunto dalla sanzione disciplinare della sospensione

Radiazione avvocato

Radiato l’avvocato responsabile di essersi appropriato di somme di denaro detenute per svolgere i suoi incarichi e che ha esercitato la professione abusivamente dopo che era stato sospeso dall’esercizio della professione a causa degli illeciti deontologici commessi. Con la pronuncia a SU n. 22986/2024 la Cassazione conferma le conclusioni del Consiglio Nazionale Forense, che ha sancito la definitività del provvedimento di radiazione.

Appropriazione di somme ed esercizio abusivo della professione

Alcuni clienti citano in giudizio un avvocato, per contestargli diverse violazioni del Codice deontologico. L’avvocato è ritenuto responsabile di essersi appropriato di somme di denaro detenute in virtù del mandato difensivo. Lo stesso inoltre ha esercitato la professione abusivamente nonostante il provvedimento di sospensione dell’Ordine degli Avvocati del 25 febbraio 2013. L’avvocato infine è accusato di aver trascurato gli interessi di una parte assistita e di non aver fornito alla stessa le informazioni necessarie, in violazione di precisi obblighi previsti dal Codice deontologico.

Radiazione definitiva e nullità procedimento disciplinare

L’avvocato contesta il provvedimento di radiazione innanzi al Consiglio Nazionale Forense, che con la sentenza del 3 ottobre 2023 statuisce “la definitività dei provvedimenti di radiazione dallalbo degli avvocati dellAvv. …. e per leffetto dichiara la nullità del procedimento disciplinare svoltosi a carico dello stesso avvocato innanzi al C.D.D di Cagliari, definito con provvedimento del 13/05/2022, depositato il 24/06/2022 e notificato in pari data.”

Processo estinto, radiazione illegittima

L’avvocato impugna la decisione in sede di Cassazione, contestando con il primo motivo la pronuncia di nullità del procedimento disciplinare. Il CNF avrebbe dovuto dichiarare l’estinzione del processo e la conseguente illegittimità della pronuncia con cui ha dichiarato lareviviscenza della sanzione irrogata in precedenza dal C.O.A.”.

Con il secondo motivo invece contesta la violazione dell’art. 112 c.p.c. Il giudice di merito si sarebbe infatti pronunciato oltre i limiti delle richieste e delle eccezioni fatte valere in giudizio.” 

Sanzione efficace dalla definitività del provvedimento

Per la Cassazione entrambi i motivi sollevati presentano profili di inammissibilità legati a questioni di natura procedurale. Il ricorso pertanto deve essere rigettato.

Tra le questioni fatte valere dall’avvocato merita però particolare attenzione l’eccepita prescrizione della sanzione disciplinare della radiazione. Per gli Ermellini infatti tale eccezione non è stata eccepita in relazione all’illecito disciplinare, ma alla sanzione irrogata.

L’avvocato sostiene infatti che la radiazione non sarebbe stata tempestivamente eseguita.”

Le deduzioni svolte però, come precisato dalla Cassazione, non tengono conto del fatto che la sanzione disciplinare della radiazione, tendenzialmente definitiva, produce i suoi effetti ex art. 62, comma 2, della legge n. 247/2012 dalla data in cui il provvedimento diviene definitivo (e, quindi, in caso di estinzione del processo ex art. 393 cod. proc. civ. dallo spirare del termine concesso per la riassunzione), tanto che è da quel momento che l’incolpato è tenuto ad astenersi dall’esercizio della professione o dal tirocinio senza necessità di alcun ulteriore avviso». La sanzione, quindi, è immediatamente efficace ex lege sicché, non dipendendo la sua esecuzione dall’attività successiva che li C.O.A. è chiamato a svolgere.”

 

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consenso informato

Consenso informato: non è voce autonoma di danno Consenso informato, per la Cassazione non è voce autonoma di danno se  il paziente avvia solo l’azione per il risarcimento del danno alla salute  

Consenso informato: obbligo accessorio inadempiuto

La violazione del consenso informato non rappresenta una voce autonoma di danno se il paziente promuove un’azione solo per ottenere il risarcimento del danno alla salute derivante da un intervento chirurgico invasivo di cui non era stato informato preventivamente. La richiesta del consenso è un obbligo accessorio, che nel caso di specie non è stato adempiuto, ma che è stato valutato per determinare l’inadempimento del medico. Lo ha chiarito l’ordinanza della Cassazione n. 17703/2024

Consenso non richiesto per la variazione dell’intervento

Un paziente si rivolge a un medico per l’asportazione di un nodulo al torace. Le parti concordano l’intervento in endoscopia. Il medico però, dopo aver aperto la gabbia toracica del paziente, asporta il nodulo e richiede un esame istologico immediato. Per togliere il nodulo il medico procede all’asportazione dell’intero lobo del polmone sinistro. Dall’esame del nodulo emerge però un’origine non tumorale.

Il paziente ricorre nei confronti del medico e dell’azienda ospedaliera. Costui ritiene di essere stato sottoposto a un intervento chirurgico inutile, devastante esteticamente e con conseguenze fisiche permanenti. Lo stesso ha rilevato infatti una ridotta capacità polmonare e la conseguente difficoltà a svolgere una normale attività lavorativa, fisica e sociale.

Voce di danno assorbita

Il Tribunale accoglie le domande del paziente, ritenendo violato il principio del consenso informato. L’ autorità giudiziaria riconosce all’attore un’invalidità del 12% e condanna l’ospedale e il medico a risarcire più di 28.000 euro.

La Corte d’appello rigetta il gravame principale del soggetto danneggiato e quello incidentale del medico e dell’azienda ospedaliera, confermando in parte la decisione di primo grado.

In relazione alla domanda di risarcimento dei danni per violazione del consenso informato la Corte d’appello ritiene che la domanda del danneggiato sia stata avanzata per ottenere il risarcimento del danno alla salute derivante dall’intervento chirurgico, per effetto della sua errata  esecuzione. La questione del consenso informato di conseguenza deve ritenersi assorbita.

Consenso informato: voce autonoma di danno

Il paziente ricorre quindi in Cassazione, contestando nel quarto motivo del ricorso il mancato riconoscimento del risarcimento del danno per violazione del consenso informato. Per il ricorrente la violazione rappresenta una voce autonoma di danno, mentre la Corte d’appello ha escluso tale conclusione ritenendola assorbita dalla richiesta risarcitoria per l’errata esecuzione dell’intervento.

Il ricorrente fa presente di aver prestato il proprio consenso all’intervento in endoscopia sottoscrivendo un modulo generico. Lo stesso però, una volta in sala operatoria, è stato sottoposto, senza essere preventivamente consultato e senza una condizione di reale necessità, ad un intervento chirurgico con apertura del torace e asportazione di un lobo polmonare, con conseguente formazione di una vistosa cicatrice su tutto il torace

Ribadisce quindi il diritto al risarcimento del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione.

Diritto all’autodeterminazione: manca l’azione specifica

La Corte di Cassazione conferma la decisione della Corte d’appello sul risarcimento del danno per violazione del diritto informato . Il ricorrente non ha mai introdotto un’azione autonoma finalizzata all’accertamento del proprio diritto di autodeterminazione. Il paziente ha proposto solo un’azione finalizzata al risarcimento del danno alla salute riportata in conseguenza dell’intervento chirurgico invasivo e nel quale si inseriva un obbligo accessorio rimasto inadempiuto. L’inadeguata informazione preoperatoria non dà diritto ad un’autonoma posta risarcitoria. La stessa è stata presa in considerazione per valutare l’inadempimento del medico e le conseguenze sulla salute del paziente.

 

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abuso dei permessi sindacali

Abuso dei permessi sindacali: ok al licenziamento La Cassazione ha ricordato che i permessi non possono essere utilizzati al di fuori della previsione normativa e per finalità personali

Abuso dei permessi sindacali

Abuso dei permessi sindacali: la concessione dei permessi sindacali non è soggetta a potere discrezionale e autorizzatorio del datore di lavoro. Nondimeno, gli stessi non possono essere utilizzati al di fuori della previsione normativa e per finalità personali. Lo ha chiarito la sezione lavoro della Cassazione con sentenza n. 20972/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di Appello di Venezia, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare proposta da un dipendente nei confronti della società datrice.

La gravità della condotta

La Corte, in sintesi, ha accertato come “sussistenti le condotte rilevanti sul piano disciplinare in relazione alle giornate di assenza per permesso sindacale” ritenendo in merito alla gravità della condotta che “il fatto non è semplicisticamente riconducibile ad alcuni giorni di assenza ingiustificata, di per sé sanzionabili teoricamente con sanzione conservativa ed eventualmente con quella espulsiva. Né e decisivo il dato economico – retribuzione indebita per i vari giorni-. Il fatto contestato riguarda ben altri aspetti implicati dalla vicenda. La condizione soggettiva dell’autore, sindacalista, ossia persona preposta alla tutela di interessi collettivi e per questo beneficiario del permesso retribuito dell’art. 30, il quale utilizza tale beneficio riconosciuto dall’ordinamento per una attività diversa, è valorizzabile ai fini che qui interessano ben al di là della assenza ingiustificata di un qualsiasi lavoratore.

Insindacabilità della concessione del permesso

La insindacabilità della concessione del permesso, obbligatoria per parte datoriale, è elemento valutabile al fine di una prognosi sulla futura ottemperanza/affidabilità del dipendente circa le <regole del gioco>, circa il rispetto delle stesse nel prosieguo del rapporto. Questi elementi, valutativi di interessi generali e delle parti contrattuali rendono ancor più grave la condotta realizzata dall’incolpato, qualificabile sostanzialmente come abuso del diritto (alla stregua di quanto avviene in materia di permessi della L.104/92 – cfr. Cass. 8784/15, 5574 e 9217/16, App Venezia rg. 693/17-)”; ha concluso: “nel caso di specie alla pluralità di giorni si assomma la reiterazione della condotta elemento che è fortemente indicativo della palese indifferenza del lavoratore verso i propri doveri nei confronti del datore di lavoro aggravati dalla strumentalizzazione del ruolo sindacale rivestito”.

La questione approdava in Cassazione.

La decisione

Per gli Ermellini il ricorso non può trovare accoglimento.

In punto di doglianza sulla circostanza che la sanzione espulsiva irrogata difetterebbe di proporzionalità e che l’illecito disciplinare accertato avrebbe dovuto essere punito con sanzione conservativa alla stregua di un’assenza ingiustificata, la Corte in particolare rammenta che “è stato ribadito che il giudizio di proporzionalità della sanzione è devoluto al giudice di merito (da ultimo Cass. n. 8642 del 2024); la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020)”.

Concessione e uso dei permessi sindacali

Quanto al secondo aspetto, continuano dal Palazzaccio, “la Corte territoriale si mostra pienamente consapevole che la concessione dei permessi sindacali non è soggetta ad alcun potere discrezionale ed autorizzatorio da parte del datore di lavoro (v. Cass. n. 454 del 2003) e, purtuttavia, essi non possono essere utilizzati al di fuori della previsione normativa e per finalità personali o, comunque, divergenti rispetto a quelle per le quali possono essere richiesti; in particolare, la sussistenza di un diritto potestativo del rappresentante sindacale a fruire dei permessi non esclude la possibilità per il datore di lavoro di verificare, in concreto, eventualmente anche mediante attività investigativa – che non involge direttamente l’adempimento della prestazione lavorativa e non è quindi preclusa dagli artt. 2 e 3 L. n. 300/70 poiché riguarda un comportamento illegittimo posto in essere al di fuori dell’orario di lavoro, disciplinarmente rilevante – che effettivamente i permessi siano stati utilizzati nel rispetto degli artt. 23 e 24 S.d.L. (in termini: Cass. n. 34739 del 2019)”.

Abuso del diritto

Ciò posto, “la qualificazione della condotta del dipendente in termini di abuso del diritto appare coerente con l’accertamento della concreta vicenda come operato dalla Corte veneziana, ‘venendo in rilievo non la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali; questo esclude la riconducibilità della condotta alle richiamate norme collettive che puniscono con sanzione conservativa la assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro (così Cass. n. 26198 del 2022)”.

Per cui, conclusivamente il ricorso è respinto.

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